MANGIARE in COMPAGNIA? fa INGRASSARE

Che differenza c’è fra un essere umano e un pollo?

Nessuna, dice la scienza. Almeno in fatto di cibo.

Un pollo che ha già mangiato quanto basta per saziarsi, ricomincia a mangiare se nella gabbia a fianco viene messo un pollo affamato.

Una persona parca nell’alimentazione, mangia molto di più se si trova in un gruppo di buone forchette.

Chi pranza con un altro commensale assume il 35% di cibo in più rispetto a quando è da solo. Quattro persone allo stesso tavolo mangiano il 75% in più; se le persone sono più di sette la percentuale sale a 96%. Allo stesso modo una persona che ama il cibo, tenderà alla moderazione in un gruppo che mangia poco: il comportamento medio del gruppo esercita una notevole influenza.

Questa informazione la conoscono molto bene i pubblicitari che con il loro sottolineare continuamente di un dato prodotto “è il preferito dalla maggioranza” o “sempre più persone” lo consumano… ci spingono a comprare ciò che fa la maggioranza.

Subiamo quindi, come i polli, l’influenza non voluta di altre persone e abbiamo la tendenza a essere condizionati dalle abitudini alimentari di chi ci sta vicino durante i pasti, quali che siano le loro intenzioni.

Le donne nello specifico a un appuntamento galante tendono a mangiare meno, gli uomini di più, convinti che il sesso femminile sia favorevolmente impressionato.

Secondo un recente studio condotto, se si vuole portare avanti una dieta è meglio non accettare inviti a pranzo o a cena a casa di familiari o amici, men che meno al ristorante. E la motivazione è semplice: la possibilità di trasformare i buoni propositi in un fallimento e di abbandonare la dieta definitivamente sono del 60%. Lo studio è stato condotto per 12 mesi su 150 persone, tutte messe a regime dietetico per perdere peso. Il risultato è stato netto: il rischio di “sgarrare” era più elevato se non si mangiava da soli. Ma non è solamente la convivialità a rovinarci la linea: assumere cibo al lavoro è più “pericoloso” che mangiare a casa, perché è davvero difficile resistere al dolcetto portato dal collega per festeggiare un compleanno, una promozione o una maternità. E le possibilità di dire addio alla dieta salgono al 40%.

Dove mangiare, allora? L’automobile è il posto migliore: lì non ci sono tentazioni, e poi la scomodità fa ridurre il tempo dedicato al pasto. In questo caso la possibilità di rinunciare al regime ipocalorico è solo del 30%. Quindi se volete perdere peso, andate a pranzo con un’amica che vanta il peso forma (ma senza divorare di nascosto i suoi avanzi).

Anche i MEDICI PIANGONO. NON è il TITOLO di una TELENOVELA

“Tu cosa preferisci? Un medico che ti tenga la mano mentre muori o un medico che ti ignori mentre migliori? Certo che sarebbe terribile un medico che ti ignora mentre muori!” chiedeva Gregory House, il medico poco convenzionale protagonista della serie omonima trasmessa fino a qualche anno fa in tv.

Come dargli torto…

Frustrazione e amore sono due sentimenti con cui tutti abbiamo a che fare, anche i medici che troppo spesso ci paiono imperturbabili dietro le loro diagnosi asettiche e glaciali. Maschere perfette nelle quali nascondere le emozioni.

Sfatiamo un altro mito: anche i medici piangono. E se lì per lì, potrebbe sembrare il titolo di una telenovela da quattro soldi, è ahimè cruda realtà.

Piangono per stress, per la frustrazione di non riuscire a salvare un paziente, per la compassione che li lega a chi da mesi dimora in un letto, dopo aver perso tutto, anche la dignità.

Pochi lo ammettono. Spesso paragonati a Dio, perché capaci (talvolta) di dare e di togliere la vita, sono molto più umani di quanto ognuno di loro ha il coraggio di ammettere.

“Sono arrivato in reparto dove c’erano diversi parenti di un paziente appena deceduto ad attendermi. Uno ha iniziato a urlarmi contro, accusando l’ospedale di aver appena ucciso il fratello. Capivo il loro dolore, dato che avevo perso due fratelli più giovani anch’io. Una parte di me voleva davvero scoppiare in lacrime, ma in quel momento non sarebbe stato possibile. Dopo aver fatto quello che dovevo fare, mi sono preparato una tazza di tè e ho pianto in un angolo tranquillo prima di tornare al lavoro”. Storie di medici, molto comuni, raccontate dal British Medical Journal (https://www.bmj.com/content/364/bmj.l690)

Difficile illudersi di poter affrontare la carriera medica senza doversi confrontare con le proprie emozioni: un paziente potrebbe avere caratteristiche simili a quelle di un vecchio fidanzato, un bambino potrebbe avere la stessa età del proprio figlio, cosi che all’improvviso quel paziente morente diventa tuo figlio, nella tua testa.

Ane Haaland, scienziata sociale all’Università di Oslo, sostiene l’importanza per i camici bianchi di poter piangere sul lavoro, ma in modo controllato “Lo chiamo pianto della consapevolezza ed è incentrato sull’aiutare il paziente, non sul farti aiutare dal paziente, c’è un’enorme differenza e i medici devono saperlo”.

Ho spesso avuto modo di confrontarmi su questi temi, con i medici. Ho tenuto non pochi corsi in università e ospedali, insegnando loro come comunicare cattive notizie senza farsi del male. Aiutandoli a riconoscere e gestire piuttosto che ignorare i sentimenti, a stabilire sani confini e vedere la vulnerabilità come una risorsa piuttosto che come un segno di debolezza.

Quando vorresti piangere e te lo neghi, non fai un torto all’altro ma a una parte vitale di te.

Il CONGIUNTIVO non è una MALATTIA…

Il primo di cui mi è data memoria è Fantozzi con “vadi contessa, vadi”, poi sono arrivati attraverso tweet e meme, claudicanti dichiarazioni pubbliche, fitte di indicativi fuori luogo. Il più recente è Di Maio “mi impegno a far votare in Parlamento a tutto il gruppo parlamentare che rappresento, una legge che dimezza (dimezzi) le indennità dei parlamentari e introduce (introduca) la rendicontazione puntuale dei rimborsi spesa (spese)”. Passando da Conte, Renzi e Zingaretti.

Insomma, cambiano i tempi, ma il congiuntivo continua a mietere vittime. Da un lato è tocco di raffinatezza, capitale culturale. Dall’altro è una trappola sempre pronta a colpire: sbagliandolo non si fa certo bella figura.

CONGIUNTIVO VS CONGIUNTIVITE

Chi non è avvezzo ad usarlo correttamente, si rifugia nell’ipercorrezione: l’estensione del congiuntivo a contesti in cui l’indicativo sarebbe dichiaratamente più naturale. Sono i casi che alcuni opinionisti, come Beppe Severgnini, chiamano “congiuntivite”.

Nel frattempo, chi il congiuntivo lo destreggia bene, ha visto svilupparsi una forma di irritazione verso l’interlocutore sgrammaticato con il risultato di fomentare polemiche e conflitti con chi, comunque, della propria congiuntivite verbale se ne fa vanto.

E’ pur vero che il congiuntivo non è facilissimo da coniugare, l’indicativo invece è prevedibile. Per questo, spinti dal risparmio energetico, la tendenza è quella di usare il secondo al posto del primo. È una spiegazione allettante, ma subdolamente denigratoria, perché implica che l’indicativo sia una sorta di congiuntivo for dummies, un surrogato che consente di esprimere la stessa idea con meno sforzo.

INDICATIVO VS CONGIUNTIVO

Peccato che i due modi non siano assolutamente interscambiabili. Alda Mari, ricercatrice italiana del CNRS a Parigi, suggerisce che c’è una sottile, cruciale differenza tra di loro: l’indicativo serve a esprimere una propria convinzione personale; il congiuntivo suggerisce invece che ci sia una verità oggettiva, e che chi parla si stia impegnando a ricercarla. Questo, secondo Mari, ci permette di imprimere diverse sfumature ai nostri messaggi, insulti compresi. Dire “credo che tu sei un cretino”, è meno offensivo del “credo che tu sia un cretino”: nel primo caso è pura opinione emotiva; nel secondo ha il sapore agghiacciante di un giudizio supportato da alacre ricerca empirica.

IL CONGIUNTIVO E’ UNA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTA’

In sostanza: trattare l’indicativo come surrogato del congiuntivo non è solo un torto nei confronti dell’indicativo. È anche una rappresentazione errata di ciò che succede nella lingua, la cui grammatica mette a nostra disposizione sofisticate risorse per comunicare, che noi possiamo modulare in base ai nostri scopi. Anche decidendo quale modo verbale usare.

Probabilmente nell’epoca del “chi l’ha detto” e del ribaltamento fra conoscere e ignorare, dove “saper parlare in pubblico”, pur non avendo contenuti o passandoli per tali e sbagliando i tempi verbali è considerato “cool”, qualcuno potrà non essere d’accordo. Purtroppo per lui, il congiuntivo non sta sparendo e prima o poi tornerà utile saperlo usare. In modo corretto.

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…

A VOLTE le PAROLE non bastano. E allora SERVONO i COLORI.

Il professor Andrew Elliot condusse un esperimento bizzarro: chiese a studenti eterosessuali di sesso maschile di guardare più foto che ritraevano una giovane sconosciuta, e di valutarne l’attrattiva su una scala da 1 (per nulla attraente) a 9 (estremamente attraente). A cambiare da immagine a immagine era il colore del bordo che incorniciava la foto: bianco, rosso, blu e verde.

Gli psicologi conoscono alcune cose sul colore: il nero è associato all’eleganza, alla ricchezza, al potere e alla forza, il verde calma, il rosso è il colore dell’amore… Ma Elliot voleva capire se il colore potesse effettivamente cambiare il fascino di una persona.

La donna più attraente veste di rosso

I risultati condotti su più studi, sono sempre stati gli stessi: la donna più attraente, pur rimanendo sempre la stessa, era quella incorniciata di rosso. Su di lei concentravano l’attenzione, era più interessati a chiederle un appuntamento e a spendere più denaro. Attenzione, non credevano che la donna fosse più simpatica, gentile o intelligente – semplicemente era più attraente sessualmente.

Lo psicologo francese Nicolas Gueguen, ha replicato alcuni studi nel mondo reale, assumendo cinque ragazze brune di età compresa tra i 19 e i 22 anni, facendo fare loro le autostoppiste. Le donne indossavano jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta a tinta unita.

Diversi giorni e 4.800 automobilisti di passaggio più tardi, Gueguen tornò al laboratorio. Come per le donne di Elliot, gli automobilisti maschi si fermavano e quindi preferivano il 21 per cento delle volte in più le donne che indossavano magliette rosse.

Non soddisfatti Gueguen e la collega Céline Jacob, hanno condotto un esperimento simile in un sito di incontri online. Le donne che ricevevano più contatti e richieste di appuntamenti erano quelle che nelle foto indossavano magliette rosse. Il 21 per cento, contro un range fra il 14 e il 17 per cento di quando portavano abiti neri, bianchi, gialli, verdi e blu.

Ci sono almeno due ragioni che spiegano il perchè il rosso vince nel gioco dell’accoppiamento. Siamo stati condizionati ad associare al rosso, la passione e il romanticismo. Il rosso è il colore di cuori e rose, de la femme fatale, della lettera “a” che segnava il passato adultero di Hester Prynne ne La lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Inoltre come per gli animali (i babbuini arrossiscono quando sono sessualmente ricettivi), anche la pelle di noi umani subisce dei cambiamenti quando siamo attratti da qualcuno, rafforzando il legame fra rossore e recettività sessuale. La pelle di una donna, per esempio, arrossisce più facilmente mentre si avvicina all’ovulazione.

I colori influenzano anche i nostri giudizi in altri contesti.

A fine anni ’80, Mark Frank e Tom Gilovich analizzarono i rigori concessi a 21 squadre della National Hockey League e 28 della National Football League. Le squadre in ogni lega che hanno indossato uniformi nere, e dal momento che il nero è associato all’aggressione, hanno ottenuto più penalità di squadre che indossavano colori più tenui. Frank e Gilovich hanno anche dimostrato che gli studenti si comportavano in modo più aggressivo quando indossavano divise nere e credevano che gli altri studenti fossero più aggressivi quando anche quegli studenti indossavano il nero.

Nero Vs Rosa

All’altro estremo, negli anni ’70 lo psicologo Alex Schauss scoprì che i giovani detenuti in buona salute erano più mansueti dopo aver fissato un foglio di cartone rosa. Venne così dipinto l’interno di una cella di rosa brillante  e, la leggenda narra che i prigionieri che entravano nella cella arrabbiati ne uscivano 15 minuti dopo, pacificati e rilassati. La struttura normalmente contava decine di aggressioni, ma non un singolo detenuto che passava del tempo nella cella rosa si comportava in modo violento nei successivi nove mesi.

L’effetto si infiltrò anche nella cultura popolare e gli allenatori di football del Colorado e dell’Università dell’Iowa iniziarono a dipingere gli spogliatoi dei loro visitatori con lo stesso colore rosa, sperando di indebolire gli avversari.

Nero, rosso e rosa hanno una notevole capacità di plasmare i nostri pensieri, sentimenti e comportamenti. Sembra folle suggerire che la stessa persona possa essere più fortunata in amore quando indossa una maglietta rossa, che lo stesso calciatore diventi più aggressivo quando indossa un’uniforme nera, e che gli uomini forti diventano deboli in presenza di vernice rosa ma, almeno per quanto riguarda le prove sperimentali, quegli effetti sono reali.

Non TUTTO è SCIENZA. Come non farci MANIPOLARE da POST e ARTICOLI

Come faccio a capire se i dati e le ricerche che mi vengono vendute, sono serie ed autorevoli? Spesso ho l’impressione che mi propinino protocolli, metodologie e tecniche rubando qui e là dati tutt’altro che rappresentativi e statisticamente rilevanti”.

Non sono rare le volte che qualche cliente mi contatta per chiedermi lumi su dei paper che di scientifico hanno poco. Non basta infatti scrivere due dati, perché un metodo diventi scienza.

Per diversi anni mi sono occupata di ricerca in ambito scientifico e devo dire che non è proprio una passeggiata redigere un lavoro che venga accettato dalla comunità scientifica, come non lo è leggerlo e capirlo nel dettaglio se non si è dei ricercatori o degli addetti ai lavori.

Per questo ho pensato di redigere una breve guida per facilitare la lettura e la comprensione di un articolo scientifico.

Un articolo scientifico revisionato prima della sua pubblicazione viene controllato e discusso da esperti e profondi e accreditati conoscitori della materia (peer-reviewed).

Gli articoli di revisione o review sono rassegne, analisi dettagliate che riassumono diversi articoli di ricerca revisionati sullo stesso argomento, raccolgono opinioni significative, risultati e dibattiti attorno alle domande senza risposta attinenti allo stesso campo.

Occorre essere cauti riguardo gli articoli di revisione: sono una fotografia della ricerca sperimentale nel tempo in cui sono stati pubblicati. Per esempio un articolo del 1998 non è molto attendibile se letto nel 2019. Magari molte ricerche sono state fatte negli anni successivi e opinioni e risultati potrebbero essere cambiati.

Leggere un articolo scientifico è procedura diversa rispetto alla lettura di articoli di divulgazione scientifica, pubblicazione di giornali o blog.

Nel caso di un articolo scientifico i paragrafi vanno letti in ordine differente da come vengono presentati e la prima volta servirà molto tempo per leggere un singolo articolo. Il processo sarà più veloce con l’esperienza.

La maggior parte degli articoli sono suddivisi in: Abstract, Introduzione, Metodi, Risultati e Conclusioni. L’ordine di queste sezioni dipende dal giornale nel quale l’articolo è pubblicato.

Prima di iniziare a leggere, prendi nota degli autori e della loro carica accademica. Non tutti sono autorevoli e preparati, così come alcuni istituti sono molto rispettabili; altri nulla. Si prenda anche nota del giornale in cui è pubblicato. Le riviste in campo biosanitario sono indicati da Pubmed https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/. Esistono elenchi di giornali o editori non affidabili, chiamati predator. Sono fonti non affidabili, che non seguono le corrette regole di revisione scientifica e non verificano i contenuti.

Ricorda: le parole scientifiche hanno un significato ben preciso.

Ecco alcuni consigli.

Inizia leggendo l’introduzione, non l’abstract

L’abstract è il primo paragrafo all’inizio dell’articolo. Spesso è l’unica parte dell’articolo che molti non-addetti ai lavori leggono quando cercano di costruire argomentazioni scientifiche. Quando si sceglie quale articolo leggere, si decide consultando titolo e abstract. Quando se ne hanno diversi da visionare in modo completo, l’abstract viene letto sempre per ultimo. Al suo interno infatti è contenuto un breve riassunto dell’intero articolo. Più utili sono le parole chiave, che classificano più facilmente i temi discussi e a volte i metodi.

Identifica la domanda principale

La domanda principale deve rispondere a: “Quale tipo di problema si cerca di risolvere?” e non: “Che cosa tratta questo articolo”

Chiediti:

Quali altri lavori sono stati fatti in questo campo per rispondere alla domanda principale?

Quali sono i limiti del lavoro?

Questo passo è arbitrario, ma ti obbliga ad essere sintetico e a comprendere meglio il contesto della ricerca. Per meglio comprendere l’articolo dovresti essere in grado di spiegare il motivo per cui è stata condotta la ricerca.

Individua il tipo di approccio

Nella sezione dei risultati fai attenzione a:

I termini “significativo” o “non significativo” hanno un preciso significato statistico. Identificali.

Numero minimo del campione: gli studi sono stati condotti su 10 o 10000 persone? (Per alcune delle ricerche proposte, il numero minimo del campione sufficiente potrebbe essere 20, ma per altre è invece  necessario un campione molto più ampio.

I risultati rispondono alla domanda dei ricercatori?

Leggi le conclusioni/discussioni/interpretazioni

Cosa pensa l’autore del significato dei risultati? Sei d’accordo? Riesci a interpretarli in maniera differente? L’autore riesce a individuare qualche limite all’interno del suo stesso studio? Cosa propone di fare come passo successivo?

Torna all’inizio e leggi l’abstract

E’ uguale a cosa dice l’autore nell’articolo? E’ in linea con la tua interpretazione?

Cosa dicono gli altri ricercatori a proposito dell’articolo?

Chi sono gli esperti (riconosciuti o autoproclamati) nel campo interessato della ricerca? Ne sono critici in maniera costruttiva e senza elementi sostenibili? Le loro critiche sono diverse dalle tue?

Trova nella sezione “letteratura citata” (bibliografia) quali altri articoli vengono citati all’interno dello studio. Questo ti permetterà di identificare l’importanza dell’articolo in quel particolare campo di ricerca e trovare spunti, idee utili e tecniche.

Il POTERE LOGORA CHI non ce l’HA

A contendersi la frase due scaltri politici: il francese Talleyrand-Périgord, il “diavolo zoppo”, il “camaleonte”, lo “stregone della democrazia”, l’uomo a fianco di Metternich nel Congresso di Vienna, noto per le abili mosse politiche che, al di là dei giudizi morali, lo resero grande protagonista del suo tempo; e l’italiano Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, 27 volte ministro e parlamentare in tutte le legislature della Repubblica dal 1948 fino alla sua morte, avvenuta il 6 maggio 2013.

Descritto dalla Fallaci con la sua indomita ruvidezza: «Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza. L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla».

Sull’intelligenza di questa frase, dicevamo, qualche dubbio c’è sempre stato. A far chiarezza, ci ha pensato la scienza, scomodando due delle università più prestigiose del mondo, Stanford e Harvard, incaricate di risolvere un antico dilemma: è più stressato chi comanda o chi è comandato?

E’ PIU’ STRESSATO CHI COMANDA O CHI E’ COMANDATO?

E’ il leader a passarsela meglio, secondo lo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. Quello del ‘capo’ non è un mestiere facile ma, contrariamente al luogo comune che lo vuole stressato fino al midollo, chi ha il potere è in realtà più rilassato di chi non ce l’ha.
Per lo studio i ricercatori americani hanno intervistato 231 ufficiali militari dell’Harvard executive leadership program, misurandone il livello di cortisolo, il principale ormone dello stress.

Lo psicologo di Stanford James Gross, che ha condotto lo studio con la collega Jennifer Lerner e Gary Sherman di Harvard, spiega che la percezione comune secondo la quale chi comanda è più stressato (cosa che giustificherebbe, tra l’altro, il compenso più alto) è in realtà stata più volte smentita dalla letteratura scientifica, che ha dimostrato che avere il controllo delle vite altrui riduce il livello di ansia.
Il livello di cortisolo nei militari con posizioni di comando, registrò un livello del 27 per  cento più basso rispetto a quello dei non-leader.

CHI HA POTERE E’ ANCHE PIU’ FELICE?

Chi ha potere non solo è meno stressato ma è anche più felice. A questa conclusione sono invece arrivati gli scienziati  israeliani della Tel Aviv University, con uno studio pubblicato sulla rivista ‘Psychological Science’.

La ricerca dà un colpo di spugna al mito del potente solo e logorato sul tetto del mondo che per secoli ha alimentato l’immaginario collettivo.

A sostegno ci sono diversi esperimenti. In uno di questi hanno sondato più di 350 persone per stabilire se la sensazione di potere fosse da loro associata al benessere personale in diversi contesti, come il lavoro o il rapporto di coppia. Risultato? Chi si sente più potente tende a essere più contento. E più in alto si trovano gli intervistati maggiormente si sentono soddisfatti, in percentuale il 16% in più rispetto a chi si trova in basso. Questo ‘effetto scettro’ è molto più evidente per i potenti nel mondo del lavoro. Gli impiegati ai vertici sono il 26% più soddisfatti dei colleghi meno autoritari.

Dunque il potere non logora, rende felici ma può comunque dare alla testa. Insomma… chi ha potere deve comunque fare i conti con umani effetti collaterali…

WHISTLEBLOWER – Il DISOBBEDIENTE ETICO che (non) c’è in NOI

Disobbediente è il titolo di un libro.

Un libro che parla di un uomo che paga migliaia di multe al figlio con la carta aziendale. Ed è anche la storia di tanti altri uomini preoccupati che quel senso di etica che con tanta solerzia hanno trasmesso ai figli, possa tradursi in un biglietto di sola andata verso marginalità e ostracismo.

Il disobbediente, colui che rivela e denuncia comportamenti scorretti messi in atto dall’azienda in cui lavora e che rappresentano un pericolo o un danno per la comunità, è detto in gergo whistleblower (letteralmente soffiatore di fischietto): una persona in carne ed ossa che si trova a fronteggiare un’autorità superiore, che decide consapevolmente di sfidare, rischiando probabili ritorsioni e la perdita del lavoro stesso. Una mosca bianca.

Quanti sono i disubbidienti in ogni realtà lavorativa e istituzionale che preferiscono tacere, conformarsi piuttosto che esporsi in un’ottica etica e non morale? Direi pochi. Talvolta è più facile non vedere e assecondare i comportamenti del “capo”, del “guru” di turno, per non rischiare di venir banditi, rifiutati e persino esclusi… dal gruppo. Sì, perchè il nostro bisogno di appartenenza (per un atavico senso di sopravvivenza) è quanto mai vivo e reclama attenzione in ogni momento. Per diventare realmente dei disubbidienti occorre l’indipendenza morale, un valore che va oltre le convenzioni e una forza in se stessi non così comune.

I DATI ITALIANI

In tema di Business Ethics l’Italia risulta allineata ai Paesi dell’Europa continentale, anche se il divario con il Regno Unito resta accentuato: sono il 47% dei lavoratori italiani ad avere la percezione che la propria organizzazione adotti un Codice Etico contro l’86% nel Regno unito.

Negli ultimi anni è notevolmente diminuita (-21%) la consapevolezza dell’esistenza di programmi formali di etica aziendale. In calo inoltre la percentuale dei dipendenti convinti dell’onestà praticata nella loro organizzazione (73% nel 2015 contro l’86% del 2012). In aumento i dipendenti consapevoli dell’esistenza di condotte improprie (attualmente il 32% contro il 27% del 2012). Sono 4 su 10 i lavoratori italiani che si preoccupano delle conseguenze prodotte dalle condotte improprie praticate.

Due sembrano essere gli elementi che maggiormente costituiscono le maggiori variabili in gioco: la crisi, perché l’insistenza sulle politiche di austerity ha ridotto l’attenzione delle aziende verso l’etica e il problema del sistema giuridico di riferimento.

COSA SPINGE IL DISOBBEDIENTE A PARLARE?

Cosa spinge il disubbidiente a non prediligere il silenzio?

Lo psicologo Stanley Milgram ha dimostrato che vi sono fattori di natura situazionale che favoriscono massicciamente comportamenti acquiescenti verso un’autorità riconosciuta, anche di fronte a richieste lesive dell’integrità altrui. Bocchiaro e Zimbardo, in due recenti lavori, allargando il focus degli studi sull’obbedienza all’autorità, si sono concentrati sulla figura del disobbediente (ossia colui che rifiuta di eseguire le consegne dello sperimentatore) e del vero e proprio whistleblower.

Nel primo studio ai soggetti veniva richiesto di criticare il proprio compagno di prove (in realtà complice dello sperimentatore) in modo progressivo e sempre più oltraggioso, per ogni errore commesso, con una penalità fittizia nel caso di abbandono, in modo da rendere più difficile e sconveniente la disobbedienza; il compagno avrebbe reagito agli insulti con una serie programmata di lamenti e segnali di disagio.

Le misure di personalità, in questo caso, non giustificherebbero gli alti livelli di disobbedienza riscontrati (70% dei partecipanti), che sarebbero invece riconducibili tanto a fattori situazionali, quali la vicinanza tra i partecipanti e la distanza fisica tra questi e l’autorità, quanto ad elementi di carattere valoriale: in altre parole, considerando prioritaria la tutela dell’integrità del compagno, i disobbedienti tendevano a percepire come necessaria una propria azione diretta ed immediata, attribuendo priorità a segnali di minaccia, pericolo o immoralità.

Risultati analoghi sono emersi nel secondo studio, nel quale la consegna era scrivere, dietro ricompensa, commenti favorevoli circa la necessità di un esperimento sulla deprivazione sensoriale, potenzialmente pericoloso per l’incolumità psicofisica dei partecipanti, in modo che il Comitato Etico dell’Università approvasse il progetto. In una stanza separata era posizionato un computer da cui scrivere e una cassetta della posta dove eventualmente segnalare al Comitato la potenziale pericolosità dell’esperimento in forma anonima. Tale accorgimento era finalizzato a fornire la possibilità di disobbedire attivamente all’autorità, oltre che il mero evitamento del compito. Anche in questo caso chi sceglieva di denunciare mostrava un orientamento preferenziale verso valori morali internalizzati (E’ anti-etico, va contro i miei principi) piuttosto che verso istruzioni esterne. Sarebbe dunque tale orientamento ad influire sul senso di responsabilità individuale di fronte a situazioni non ordinarie e conflittuali, e sulla conseguente probabilità di comportamenti di disobbedienza attiva, a prescindere dalla presenza di premi o punizioni materiali.

Anche studi di natura cross-culturale (Morselli, 2009) evidenziano il ruolo dell’atteggiamento valoriale del singolo nei confronti dell’autorità. In questi veniva distinta un’obbedienza acritica – caratterizzata cioè da un’aderenza incondizionata alle regole imposte dall’alto – e un’obbedienza responsabile, basata invece su un senso interno di responsabilità personale (Bierhoff e Auhagen, 2001): mentre nella prima condizione le misurazioni correlavano positivamente con dimensioni di autoritarismo, nel secondo caso gli individui sembravano mostrare un orientamento più favorevole verso l’autonomia personale, la prosocialità, l’inclusività sociale e un maggiore coinvolgimento personale in azioni di protesta e disobbedienza attive, quali petizioni, boicottaggi, occupazioni di edifici…

Obbedienza e disobbedienza non sembrerebbero dunque costrutti completamente antitetici ma andrebbero inquadrati come elementi complementari, mediati, tra gli altri fattori, dall’orientamento valoriale del singolo: per dirla con Bocchiaro e Zimbardo, il punto non è disobbedire o meno all’autorità, ma a quale tipo di autorità scegliere di obbedire.

Let us DISPEL a MITH: It is NOT TRUE that the BRAIN does NOT UNDERSTAND NEGATIVE STATEMENTS

I would like to dispel a myth that we often hearduring the course of our personal growth process (or read in “certain” books) from those who know very little about how the brain works. At least compared to someone who has studied the brain for years in university classrooms and maybe has even handled it in the operating rooms or research centres.

Negation is a typical function of human language, and is considered a pragmatic universal need for the communicative necessities to which it responds. However, it is often said that we first need to represent the meaning of a word in order to then negate it.

Several studies have supported the fact that it is not true that the brain does not understand negations, including the most recent one carried out by the researchers of the Center for Neuroscience and Cognitive System (CNCS) in Rovereto and of the Institut des Sciences Cognitives “Marc Jeannerod” of the CNRS in Lyon.

NEGATION AND THE BRAIN
Imagine reading the sentence “There are no eagles in the sky”. You are then shown two pictures: an eagle in its nest and an eagle in the sky. If you were asked which picture you associated to the sentence you just read, you would immediately indicate that of the eagle in the sky and only after would you correct yourself.

Starting from this evidence, neuroscientists, language experts and psychologists have postulated that in order to process the meaning of a negation, it is first necessary to understand the affirmation.

However, in the example of the eagle, there is a practical conditioning: the brain chooses the cognitively more economic way. The sentence “There are no eagles in the sky” leaves many possibilities open. Indeed the eagles could be in their nest, on a tree or flying low over water.

Our brain thus prefers to memorise the only impossible case, an eagle in the sky, rather than the numerous possible ones. What happens though if there is no practical conditioning? Is it still true that understanding negations occurs in two stages?

In order to answer this question, the three researchers showed the subjects involved in the study sentences related to actions which imply movement of the hand, in a positive and negative version, for example “now I’m writing” and “I’m not writing”.

THE ROVERETO EXPERIMENT
The study involved 30 people, all Italian and right-handed. Each subject was shown a series of state verbs and action verbs on a computer screen preceded by a context adverb “now” or “not”. To monitor brain activity during the experiment, the part of the motor cortex associated to the movement of the forearm and the right hand was stimulated with Transcranial Magnetic Stimulation.

RESULTS
The researchers observed that the electric pulses reaching the hand when the subjects read positive actions are more intense than the ones evoked by negative actions, which are even weaker than those measured with verbs of state.

This difference of intensity already exists during the initial stages when the sentence appears on the screen.
The processing of the negations, therefore, occurs differently than that of the affirmations from the early stages, without needing to pass through the processing of the positive meaning.

CONCLUSIONS
The experiment has clarified the operation of a fundamental logic mechanism, negation, showing how the brain is more efficient than we think.

Processing negations probably contributes to defining the difference between human cognition and non-human cognition.

If our cognitive system did not recognise negation, this very statement, like an infinite number of others, would be incomprehensible to humans. And as a consequence not even positive statements.

TUTTO ciò che ABBIAMO REALIZZATO ARRIVA dalla LETTURA


Tutto ciò che apprezziamo nel mondo moderno ha le sue radici nella scrittura. Tutto ciò che abbiamo realizzato è venuto dalla lettura.

Dalla logica di Aristotele, all’astronomia di Keplero, passando attraverso la fisica di Newton, la biologia di Darwin e la filosofia di Kant: nessuno di loro è più in vita eppure, delle loro idee parliamo ancora. Allo stesso modo dei grandi della letteratura: non abbiamo più modo di dibattere con loro, ma i loro pensieri si sono fatti immortali e andiamo a ricercarli di tanto in tanto. Quando abbiamo bisogno di confrontarci con un maestro, un mentore. Un amico.

Senza libri, non saremmo mai sfuggiti ai confini dello spazio e del tempo. Uno dei modi più efficaci per conoscere il mondo è quello di immergersi nella saggezza del passato. Siamo – si dice – come spendiamo il tempo e diventiamo ciò che consumiamo.

NON SEMPRE SAPPIAMO LEGGERE NEL MODO GIUSTO

Spesso ci hanno insegnato a leggere solo per imparare a memoria una certa nozione. Ricordo ancora le tante frasi dei Promessi Sposi che la professoressa di italiano alle Medie ci costringeva a memorizzare. Una tortura sterile e poco utile a sviluppare il senso critico e la capacità di analisi di noi studenti. E così le ore passavano pesanti mentre ripetevo parti di un romanzo che difficilmente potrò mai apprezzare. Insomma quell’insegnante ci insegnava a memorizzare non per farci comprendere, ma per farci recitare e l’unico nostro obiettivo era quello di superare indenni “la recita” di turno. Qualunque cosa al di fuori di quell’obiettivo contava pochissimo per il risultato finale.

Per fortuna l’amore per la lettura (e la scrittura) ha superato questi maltrattamenti e sono andata oltre ma molti da quel metodo cieco, ne sono stati sedotti, e ogni qual volta che avvertono di non riuscire a ricordare o memorizzare tutto ciò che leggono, convinti di star perdendo tempo, si scoraggiano da ulteriori letture. E i libri che hanno comprato rimangono a prendere polvere su qualche tavolino.

LEGGERE SIGNIFICA SCOPRIRE NUOVE PROSPETTIVE

Leggere non significa passare al setaccio ogni parola, ma scoprire nuove prospettive, nuovi punti di vista. E per farlo al meglio occorre chiedersi il motivo per cui si legge… Che tu stia litigando con un classico russo, o una commedia, un volume di psicologia o il diario di un imperatore romano, in ogni caso stai cercando di guardare la realtà da una angolatura diversa. Per scoprire l’ignoto, anche in ciò che già credi di sapere.

Leggere non è solo un hobby, è soprattutto una virtù. Ogni parola, ogni frase e ogni paragrafo scritto bene hanno il potere di insegnare qualcosa. Anche chi sei, se sei pronto ad accettarlo.