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Quanto puoi ESSERE TU, sui social Media?

Qualche anno fa, la giornalista del Guardian, Elle Hunt, decise, a seguito di una conversazione con amici su film e generi cinematografici, di aprire un sondaggio su Twitter. L’obiettivo era capire se il film Alien, potesse o meno essere considerato un horror.

La sua posizione era chiara: «no, perché un horror non può essere ambientato nello Spazio».

Il giorno dopo, la giornalista trovò decine di email da parte di sconosciuti arrabbiati e di amici preoccupati: il sondaggio aveva ottenuto 120 mila voti e la sua opinione era stata citata da migliaia di persone che se la prendevano con lei per quanto affermato. Molti volevano delle scuse. La ragione di tante attenzioni era che quel sondaggio era finito tra gli argomenti “di tendenza” su Twitter.

La spiacevole esperienza vissuta dalla Hunt è uno dei numerosi esempi di interazioni sui Social in cui un pubblico eccessivamente esteso elabora – in modi solitamente poco indulgenti – un’informazione inizialmente concepita per un pubblico ristretto. Questo fenomeno, molto comune sulle piattaforme social, è noto come “collasso del contesto”.

COLLASSO DEL CONTESTO: NEI DETTAGLI

Il collasso del contesto è dunque l’effetto prodotto dalla coesistenza di molteplici gruppi sociali in un unico spazio, in un unico #contesto.

Dove sta il problema?

Nel mondo reale abbiamo un range di relazioni, che va dai confidenti intimi agli amici, fino ai conoscenti. E, a seconda dei momenti e delle circostanze, mostriamo facce diverse e diciamo bugie per mantenere inalterata l’immagine che gli altri hanno di noi. Nel mondo virtuale, dei social media, questi confini sono sfumati, se non addirittura inesistenti.

Facebook è stato inizialmente impostato per avere un solo tipo di “amico”, in modo che ogni persona che hai accettato come amico avrebbe visto tutti i tuoi post. Negli anni, ha ampliato le sue opzioni per l’ordinamento in base ad “amici intimi”, “conoscenti” e altri gruppi, in modo che gli utenti possano modellare i loro feeddi notizie e pubblicare post mirati.

L’etnografa Danah Boyd, una delle prime ricercatrici della vita sociale online, fa riferimento alla “convergenza sociale” nei siti di social networking. La convergenza sociale, si verifica quando più mondi sociali si fondono. Ciò si traduce in un “collasso del contesto“, il che significa che i social media riuniscono contemporaneamente diversi contesti sociali. È come cercare di chattare comodamente con tua madre, un tuo amico, la tua collega e il tuo ex allo stesso tempo.

Alcuni nuovi problemi sociali sono emersi come risultato di questi circoli sociali che si sono fusi. Devo taggare la mia amica Maria in una foto che pubblico su un socialanche se so che non farà piacere all’altra mia amica Barbara? Se non la taggo, si offenderà? Anche se non pubblico, devo comunque chiedere a Maria di non taggarmi in uno dei suoi post perché sono preoccupato per la possibile reazione di Barbara…

Chi non si è trovato in situazioni simili?

In uno studio del 2012, i ricercatori hanno utilizzato i dati dei focus group per elaborare 36 “regole” dell’amicizia su Facebook. Per molti versi l’amicizia su Facebook è la stessa cosa dell’amicizia nel mondo reale.

Ma sui social, il peso elevato attribuito alla presentazione di un’immagine positiva è portato all’estremo. L’amicizia nel mondo offline è più complessa e comporta doveri più seri. Ci aspettiamo che gli amici ascoltino seriamente le nostre preoccupazioni, che ci sostengano e capiscano quando facciamo cose che non sono educate, simpatiche o interessanti. Online, essere un “buon amico” significa più comunemente mantenere il costrutto di “persona felice” di qualcuno.

Bernie Hogan, ricercatore presso l’Oxford Internet Institute, ci esorta a considerare le amicizie sui siti di social networking come relazioni di accesso, non di intimità, affetto o attaccamento emotivo. Diventare amici su Facebook, significa ottenere i diritti di visualizzazione e pubblicazione delle “performance” identitarie di qualcuno.

Nei contesti vis à vis, spesso abbiamo un maggiore controllo sulla nostra identità perché possiamo personalizzare il modo in cui ci presentiamo in una determinata situazione sociale. Se abbiamo amici con noi, anche loro regolano le informazioni che condividono in base a chi è presente. E, proprio come noi, sono consapevoli delle ripercussioni sociali di rivelare qualcosa che è inappropriato per un pubblico specifico. Ma online, un’amica potrebbe pubblicare una foto di te in una situazione compromettente che diventa immediatamente visibile a tua madre e al tuo capo. È raro che un amico mostri intenzionalmente una foto del genere a un pubblico inadatto nella vita reale. L’equivalente digitale di “un lapsus” – come pubblicare una foto di una coppia e rovinare il loro alibi socialmente accettabile – accade facilmente e spesso. Ed è meno probabile che passi inosservato in un formato in cui tutto viene scritto e trasmesso a una rete convergente.

Quando si accetta una richiesta di amicizia online, occorre ricordare che si sta fondendo il mondo di questa nuova persona con il nostro. Si sta concedendo al nuovo “amico” i diritti di pubblicazione della nostra identità sociale.

Ps…

Non è un caso se molti utenti, per mitigare gli effetti del collasso del contesto, ricorrano a strategie le più diverse, come autocensurarsi, creare identità multiple o utilizzare le impostazioni per la privacy.

E voi? Avete mai fatto caso a questo fenomeno? Vi trovate a vostro agio o avete adottato strategie utili che volete condividere?

I NUDGE che AIUTANO gli ANIMALI a non ESTINGUERSI

Tutto è iniziato allo Shedd Aquarium di Chicago. Un addestratore di animali, Ken Ramirez, ha applicato, senza saperlo, la teoria dei Nudge per rendere loro un po’ più facile la vita e in taluni casi permetterne la sopravvivenza.

Ramirez è noto, nel suo campo, per aver addestrato migliaia di farfalle a eseguire un’esibizione coreografica a ritmo di musica, in un giardino botanico. Oggi però il suo obiettivo non è più focalizzato a generare divertimento, bensì a proteggere gli animali selvatici intervenendo sulle loro abitudini e sui loro comportamenti. L’approccio assomiglia molto alle strategie di Nudging messe in campo da governi e organizzazioni per spingere gli esseri umani verso scelte salutari e virtuose[1].

Per addestrare le farfalle, Ramirez ha insegnato loro ad associare uno stimolo (un lampo di luce o una vibrazione), a una ricompensa alimentare. In questo modo ha fatto sì che gruppi di insetti volassero in direzioni diverse, in tempi definiti.

In Sierra Leone, ha aiutato i ranger a proteggere un gruppo di scimpanzé dai bracconieri. Non tutti gli scimpanzé erano soliti urlare all’avvicinarsi dell’uomo, e questo impediva in taluni casi di essere sentiti dai ranger. Se solo l’intero gruppo avesse gridato all’unisono, il rumore sarebbe stato sufficientemente intenso da venir recepito.

Questo ha suggerito a Ramirez una soluzione: installare dei contenitori da cui far cadere frutti e insetti, in prossimità degli alberi dove oziavano le scimmie. Quando qualcuno si avvicinava, le scimmie iniziavano a far rumore e i ranger attivavano, tramite un telecomando a distanza, l’apertura dei contenitori, dispensando così cibo e insetti. Gli scimpanzè hanno imparato velocemente la sequenza “urlo – ottengo cibo” e a strillare alla vista di un essere umano.

In questo modo il bracconaggio è stato ridotto dell’86%.

Qualche esempio di Nudge

Ramirez non è un accademico, ma questo non gli ha impedito di realizzare interventi di nudging ispirandosi a quanto già applicato in altri campi.

Per favorire il collegamento fra habitat diversi sono stati realizzati veri e propri percorsi privilegiati. Spesso, però, gli animali li ignoravano. Per incoraggiarli, è stato sparso sul tragitto dello sterco animale o dell’urina così da far loro credere che altri animali fossero già passati da lì in precedenza, invogliandoli a fare lo stesso[2].

Nel Parco Nazionale di Banff, in Canada, i biologi, per evitare che i grizzly venissero investiti dai treni, hanno posizionato lungo i binari un sistema di luci e campanelli che si attivava al passaggio dei convogli. Tale nudge ha consentito a orsi, lupi, alci, piccoli mammiferi e uccelli di allontanarsi dalle rotaie in tempo[3].

La percentuale di animali che muoiono investiti da veicoli è stimata intorno al 10%, comprese le specie in via di estinzione come la pantera della Florida e gli elefanti in India[4], perciò questa potrebbe dunque essere una soluzione semplice da attuare.

Per contenere la voracità delle gru, note per razziare i campi dei contadini – un singolo uccello può mangiare anche 400 chicchi di mais al giorno – sono stati posizionati spaventapasseri sonori[5], così da fare da deterrente, insieme a colture esca[6].

In Zambia, per dissuadere gli elefanti dall’attraversare la Repubblica Democratica del Congo durante la loro migrazione annuale e contrastare i bracconieri, Ramirez ha creato con tronchi e alberi alcune deviazioni e ha realizzato pozze d’acqua artificiali capaci di attirare gli animali sul nuovo sentiero. Il progetto è arrivato, con successo, al suo terzo anno di vita.

Un altro intervento è stato realizzato per modificare le cattive abitudini degli orsi bruni canadesi[7]. Nella località turistica di Whistler nella British Columbia, ogni anno, milioni di turisti raggiungono la zona e i ranger sono costretti, regolarmente, a sparare agli orsi, perché troppo pericolosi per l’incolumità delle persone.

Così si è pensato, prima di sparare i proiettili di gomma come si era sempre fatto, di usare un fischietto come avvertimento. Se l’orso scappa, un campanello viene attivato per segnalare lo scampato pericolo e si evita così la sparatoria.

Non tutte le iniziative, purtroppo, vanno a buon fine e non tutti gli animali sono inclini alle spinte gentili, quali sono i Nudge[8]. In Australia, un particolare tipo di marsupiale in via di estinzione ha imparato a evitare di mangiare una specie particolare di rospi, a lui nocivo, dopo che i biologi lo hanno nutrito con salsicce di rospo imbevute di una sostanza chimica che induce la nausea[9]. Tuttavia, aggiungere alle carcasse del bestiame sostanze sgradevoli per cercare di persuadere i coyote che gli animali da fattoria non valgono la pena di essere mangiati non li ha sempre dissuasi dal predare pecore e mucche.

Le obiezioni

Intervenire così attivamente su habitat e abitudini, ha sollevato alcuni dubbi all’interno della comunità scientifica. In realtà molti animali non sarebbero sopravvissuti senza i Nudge.

Prima di rilasciare una rara specie di corvi hawaiani per permettere loro di riprodursi, è stato loro insegnato ad aprire dei baccelli contenenti del cibo. Inizialmente tali baccelli sono stati dati aperti, poi solo parzialmente chiusi e quindi del tutto chiusi. Allo stesso modo di quando si spostano gli animali selvatici da un’area all’altra, occorre in molti casi, insegnare loro nuovi comportamenti e abitudini per far fronte al nuovo habitat[10].

Senza contare quanto influenziamo la fauna selvatica già solo attraverso la nostra semplice presenza. Gli uccelli, nelle città, cantano in modo diverso per attutire il livello di rumore del traffico[11]. Mentre le volpi si fanno più coraggiose[12].

Nudge dunque sono utili, purché li si attuino in combinazione con altre strategie. Se si vuole tenere gli orsi fuori dalle città è importante, per esempio, che le persone chiudano a chiave i cassonetti e mettano in sicurezza gli alberi da frutto, altrimenti difficilmente la spinta gentile, da sola, produrrà i cambiamenti sperati. Se non ne siamo convinti, pensiamo a cosa accade a Roma con i cinghiali che letteralmente si buttano sui cassonetti della spazzatura…

Conclusioni

Gli animali in genere sono molto recettivi e imparano in fretta. La differenza sta nel modo in cui si attua un’azione di persuasione.

Non dimentichiamo che gli oranghi del Borneo hanno imparato come rubare le imbarcazioni degli umani, sciogliendo anche i nodi più complicati: le guidano con le lunghe braccia e sfruttano il sistema di pesca degli uomini per mangiarsi i pesci[13].

Uno stormo di uccelli è stato in grado di evitare una tempesta lontana 900 km, prevedendone lo spostamento e scappando in tempo. La tempesta colpì gli Usa nel 2013, uccidendo 35 persone, e gli uccelli studiati hanno tutti agito in maniera indipendente per sfuggirle. Secondo i ricercatori, che sperano di poter un giorno prevedere catastrofi come questa studiando gli spostamenti degli uccelli, a metterli in guardia è stata la loro capacità di avvertire gli ultrasuoni[14].

In Cina, da anni si sta cercando di capire cosa renda possibile la previsione di un terremoto da parte dei serpenti. Non esiste ancora uno studio scientifico a riguardo, ma i ricercatori monitorano il comportamento di questi animali che – dicono– sono stati in grado di prevedere un terremoto a 120 km di distanza, tentando in tutti i modi di abbandonare i loro rifugi, anche in pieno inverno[15].

Chissà se un Nudge potrebbe anche essere di ausilio per incrementare le doti predittive di uccelli e serpenti. A trarne vantaggio sarebbe sicuramente anche l’uomo.

Fonti

[1] https://www.newscientist.com/article/mg25033400-900-can-we-use-nudge-theory-to-help-endangered-animals-save-themselves/

[2] Greggor A.L., Berger O., Blumstein D.T.,  The Rules of Attraction: The Necessary Role of Animal Cognition in Explaining Conservation Failures and Successes, Annual Review of Ecology, Evolution, and Systematics, 2020, 51:1, pp. 483-503

[3] Backs J.A., Nychka J.A., St. Clair C.C., Warning systems triggered by trains increase flight-initiation times of wildlife, Transport and Environment, Vol. 87, 2020

[4] Blackwell B.F., DeVault T.L., Fernández-Juricic E., Gese E.M., Gilbert-Norton L., Breck S.W., No single solution: application of behavioural principles in mitigating human–wildlife conflict, Animal Behaviour, Vol. 120, 2016, pp. 245-254

[5] https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1007&context=nwrcwdmts

[6] https://www.savingcranes.org/wp-content/uploads/2018/10/cranes_and_agriculture_web_2018.pdf

[7] Homstol L., Applications of learning theory to human-bear conflict: the efficacy of aversive conditioning and conditioned taste aversion, A thesis submitted to the Faculty of Graduate Studies and Research for the degree of Master of Science in Ecology, Department of Biological Sciences, Edmonton Alberta, 2011

[8] https://wildlife.onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jwmg.21449

[9] https://www.newscientist.com/article/mg23931871-000-how-dodgy-sausages-are-saving-a-cute-marsupial-from-toxic-toads/

[10] Berger-Tal O., Blumstein D.T., Swaisgood R.R., Conservation translocations: a review of common difficulties and promising directions, Animal Conservation, Vol. 23, Issue 2, April 2020, pp. 121-131

[11] Slabbekoorn H., Peet M., Birds sing at a higher pitch in urban noiseNature 424, 267 (2003).

[12] Gil-Fernández M., Harcourt R., Newsome T., Towerton A., Carthey A., Adaptations of the red fox (Vulpes vulpes) to urban environments in SydneyAustraliaJournal of Urban Ecology, Vol. 6, Issue 1, 2020

[13] https://www.newyorker.com/tech/annals-of-technology/orangutan-learns-fish

[14] Streby H.M., Kramer G.R., et all, Tornadic storm avoidance behavior in breeding songbirds, Current Biology, Vol. 25, issue 1, pp. 98-102, 2005

[15] http://news.bbc.co.uk/2/hi/asia-pacific/6215991.stm

PERCHE’​ PREOCCUPARSI DI UNA CULTURA DEL LAVORO TOSSICA…

Ci sono elementi che se trascurati o non considerati possono fare molto male a un’azienda e alle persone che in quell’azienda lavorano. Indipendentemente che si tratti di una multinazionale o una piccola – media realtà.

Non a caso, tali elementi vengono definiti tossici.

Una cultura del lavoro tossica è il motivo principale per cui le persone lasciano l’azienda, ed è 10 volte più importante della retribuzione, secondo una ricerca pubblicata su MIT Sloan Management Review.

CHE ASPETTO HA UN LUOGO DI LAVORO TOSSICO?

I ricercatori hanno analizzato 1,4 milioni di recensioni su Glassdoor provenienti da 600 importanti aziende statunitensi, scoprendo che i dipendenti descrivono i luoghi di lavoro tossici in cinque modi: non inclusivi, abusivi, irrispettosi, non etici e spietati.

Ciò che è emerso è che questi elementi non sono semplici malcontenti, ma il motivo per cui le persone abbandonano un certo tipo di azienda. Con tutti i costi, in termini di salute per chi ci lavora ed economici per l’organizzazione, stimati intorno ai 44 miliardi di dollari all’anno, secondo la Society of Human Resources Management.

Dipendenti scontenti e demotivati significano minore produttività, senza contare che sostituire una risorsa può costare fino al doppio dello stipendio annuo del dipendente, secondo Gallup.

Ecco perché creare una cultura sana e inclusiva è una necessità irrinunciabile per rimanere competitivi ed attrattivi.

TOXIC FIVE

AMBIENTE DI LAVORO NON INCLUSIVO e ABUSIVO

L’opposto di una cultura inclusiva è la cultura di cricca: un ambiente in cui le persone non si sentono a proprio agio nell’essere se stesse. Dove battute e commenti inappropriati su razza, religione, peso, età, origine, genere, non solo sono tollerati ma addirittura ben visti.

Dove chi non opera con la stessa mentalità dei membri della cricca viene escluso, fatto sentire invisibile e preso di mira. Le cricche minano il team e impediscono connessione, unità e collaborazione.

L’esclusione da una cerchia ristretta invisibile è una forma comune di tossicità nei gruppi. È possibile che un membro del team venga intenzionalmente escluso da e-mail, progetti o riunioni o non venga chiesta la sua opinione. Può essere ovvio o molto sottile, ma può anche essere una forma di capro espiatorio: sacrificare il benessere di una persona per placare l’ego degli altri. Questa esclusione può essere psicologicamente dannosa per le persone.

Non a caso, i comportamenti ostili più frequentemente menzionati sono il bullismo, le urla contro i dipendenti, lo sminuire o umiliare i subordinati, abusare verbalmente dei collaboratori.

Un altro tipo di cricca è la brother culture, in cui i dipendenti maschi bianchi sono considerati superiori. In quanto tali, agli uomini e alle donne non bianche viene impedito di essere coinvolti nel processo decisionale. Ciò porta le donne a lottare per sentirsi apprezzate e accettate, a dover sopportare commenti svalutanti, sessisti e misogini, comportamenti discriminatori e inappropriati, disparità di retribuzione e ostracismo.

AMBIENTE SPIETATO

La collaborazione è un aspetto molto importante per le persone.

Il turnover più elevato è laddove i dipendenti descrivono il loro ambiente di lavoro come “darwiniano”, “cane non mangia cane”, i colleghi “si pugnalano alle spalle”, “si gettano a vicenda sotto il treno”. Non credo serva aggiungere altro…

Sugli ambienti non etici e irrispettosi si è già detto molto.

I COSTI DI UNA CULTURA TOSSICA

Un ampio corpus di ricerche mostra che lavorare in un ambiente tossico è associato a livelli elevati di stress, burnout e problemi di salute mentale e fisica. Quando i dipendenti subiscono ingiustizie sul posto di lavoro, le loro probabilità di soffrire di una grave malattia (tra cui patologie coronariche, asma, diabete e artrite) aumentano dal 35% al 55%.

Una cultura tossica impone anche costi che confluiscono direttamente nei profitti dell’organizzazione.

Secondo uno studio della Society of Human Resource Management, 1 dipendente su 5 ha lasciato il lavoro a causa della cultura tossica. Ecco perché la cultura tossica è considerato il miglior predittore di logoramento di un’azienda e ciò che induce a dimettersi.

Gallup stima che il costo della sostituzione di un dipendente che si licenzia può ammontare fino a due volte il suo stipendio annuale quando vengono contabilizzate tutte le spese dirette e indirette.

Le aziende con una cultura tossica non solo perdono dipendenti, ma lottano anche per sostituire i lavoratori che se ne vanno poiché perdono in attrattività. Tre quarti delle persone in cerca di lavoro prima di fare domanda analizza la cultura dell’azienda.  Nell’era delle recensioni online, le aziende non possono mantenere a lungo segreti i propri problemi culturali e una cultura tossica.

A questo, si aggiunga che i dipendenti scontenti sono il 20% meno produttivi. La metà di coloro che si è sentito mancato di rispetto ha ammesso di aver ridotto lo sforzo e il tempo trascorso al lavoro.

Poi c’è il rischio reputazionale. Tra i CEO e CFO intervistati, l’85% concorda sul fatto che una cultura aziendale malsana potrebbe portare a comportamenti non etici o illegali, come il caso Wells Fargo dimostra: la banca ha pagato miliardi di dollari in multe e azioni legali e ha visto la sua reputazione aziendale subire il più grande calo in un solo anno nella storia di Harris Poll.

PERCHE’ I LEADER SI DEVONO PREOCCUPARE DELLA CULTURA TOSSICA

Potresti pensare che la cultura tossica sia un problema che non ti riguardi, limitato a una manciata di aziende di alto profilo come Wells Fargo o The Weinstein Company.

Sfortunatamente, la tossicità culturale è diffusa. In media, il 10% dei dipendenti ha menzionato uno o più elementi di una cultura tossica nelle sue recensioni su Glassdoor.

Anche nelle aziende con le valutazioni Glassdoor più alte, centinaia o migliaia di dipendenti potrebbero percepire la cultura come tossica. Le donne, le minoranze sottorappresentate o i dipendenti più anziani, ad esempio, potrebbero avere una visione meno rosea della cultura rispetto ad altri colleghi.

Nella maggior parte delle organizzazioni, microculture coesistono all’interno della stessa azienda, spesso attraverso unità aziendali, funzioni o aree geografiche.

I leader creano loro stessi sottoculture all’interno del loro team. Qualunque sia la loro origine, le microculture possono discostarsi dalla più ampia cultura aziendale, il che significa che anche le migliori culture possono contenere sacche di tossicità culturale.

In un prossimo articolo, tratterò degli step concreti che si possono intraprendere per creare una cultura aziendale sana. Il primo passo, tuttavia, è riconoscere che esistono sacche di tossicità anche nelle culture aziendali considerate sane. Occorre cercare in profondità e valutare la cultura a livello di singoli team, solo così si previene la possibilità che micro culture tossiche possano infettare anche i gruppi e gli elementi più virtuosi.

SOLDI, PREMI E POLPETTE… NON SONO SPINTE GENTILI. RIFLESSIONI ESTIVE ANALIZZANDO SOLUZIONI POCO STRATEGICHE

Ci stanno provando in tutti i modi a convincere gli indecisi a vaccinarsi. Ma nonostante in tanti nominino le spinte gentili, soldi, premi e polpette hanno ben poco a che fare con i Nudge.

IN GIRO PER IL MONDO

In Serbia ogni cittadino che si vaccina riceve in cambio 25 euro. Negli Stati Uniti, Joe Biden ha chiesto agli Stati di offrire 100 dollari per ogni nuovo vaccinato, e rimborsare tutte le imprese che hanno concesso permessi retribuiti ai loro dipendenti per vaccinarsi.

Lo stato dell’Ohio ha offerto a ogni vaccinato la possibilità di partecipare a un’estrazione con in premio un milione di dollari. Il governatore della California ha lanciato la lotteria in denaro Vax for the Win, con un premio finale di un milione e mezzo a 10 fortunati nuovi vaccinati.

A Detroit sono stati regalati 50 dollari a chi portava una persona a farsi vaccinare e in West Virginia ogni vaccinato, ha ricevuto un buono risparmio da 100 dollari. A New York sono stati regalati biglietti per concerti, partite di basket, corse gratuite in metro e in treno per i pendolari. Nel New Jersey vengono regalate pinte di birra, nello stato di Washington spinelli.

In Russia, le autorità hanno distribuito cinque auto a settimana in un’estrazione a premi a cui ha partecipato solo chi poteva dimostrare di aver fatto almeno una dose di vaccino.

In Libano, Uber ha offerto due corse gratuite fino a 40.000 LBP (poco meno di 50 euro) ciascuna, per viaggiare da e verso i centri vaccinali.

In Romania, il governo ha consegnato ai nuovi vaccinati panini con salsiccia.

Ai londinesi, oltre a usufruire dei trasposti gratuiti per recarsi nelle sedi vaccinali, è stata data la possibilità di vincere biglietti per la finale degli Europei di calcio.

In Asia sono stati distribuiti premi in cibo. In Indonesia, una gallina viva, nelle Filippine sono state messe in palio mucche e riso.  Nella periferia di Pechino vengono regalate uova agli ultra sessantenni che hanno completato il ciclo vaccinale.

A Hong Kong, ci sono in palio lingotti d’oro, Rolex di diamanti, un buono spesa di centomila dollari e una casa da oltre un milione e quattrocentomila dollari.

In Grecia viene invece offerto un buono da 150 euro ai giovani fra i 18 e i 25 anni che si vaccina. A Praga per i dipendenti statali che si vaccinano ci sono due giorni di ferie retribuite in più.

C’E’ CHI PREMIA E CHI PUNISCE

C’è chi invece ha scelto punizioni anziché premi. A Giacarta ci sono multe fino a cinque milioni di rupie (300 euro) per le persone che non si immunizzano.  In alcune zone dell’India non si servono liquori a chi non dimostra di essere vaccinato.

Gli Emirati Arabi limitano le partecipazioni a eventi live, attività sportive artistiche e culturali. In Arabia Saudita non si può entrare nei centri commerciali, in Kazakistan niente bar, cinema e aeroporti. Nelle Filippine i cittadini possono optare tra: Il vaccino o il carcere[1].

Il Cremlino ha affermato che le persone non vaccinate potrebbero non accedere al posto di lavoro, non escludendo discriminazioni.

E L’ITALIA?

Anche da noi le proposte si differenziano.

Nel Lazio ci si può spostare gratuitamente con Uber che mette a disposizione due corse verso e da i centri vaccinali. Nel Messinese, la Coldiretti regala una bottiglia di Siccagno di Valledolmo (passata di pomodoro).

In Piemonte ci sono incentivi per i medici di base che riescono a convincere i propri utenti. Se il 90% di questi risulterà vaccinato entro il 15 settembre, riceveranno un compenso di 2 euro in più per assistito e di 1 euro e mezzo se la percentuale si fermerà tra l’87 e l’89,99%. La Ausl di Bologna riconoscerà un premio ai pediatri che convinceranno il 70% dei loro giovani pazienti a vaccinarsi.

UN PO’ PIU’ COMPLICATO DI COSI’…

Perfetto.

Anche no!

Distribuire soldi come se piovesse, non è un nudge (i nudge per essere tali non prevedono né incentivi economici né disincentivi). Come è già accaduto nel 2005, in Perù, quando si è voluto affrontare il problema delle diseguaglianze e frenare la povertà. E il governo ha lanciato i conditional cash transfer (cct), la versione nazionale degli Juntos: sussidi monetari condizionati che prevedevano pagamenti mensili di 100 soles in favore di genitori poveri, perlopiù madri. Per non perdere il sussidio, le donne dovevano assicurarsi che i figli frequentassero l’85% delle lezioni scolastiche in un anno e che si sottoponessero regolarmente a controlli medici e nutrizionali.

«In paesi come il Brasile, i cct sono stati importanti nell’accesso all’istruzione e nella conseguente riduzione delle disuguaglianze», spiegò la scelta Branko Milanovic, a lungo capo economista alla Banca mondiale[2]. Eppure i cct non sono la panacea, come dimostrano le voci critiche, tra cui quella del premio Nobel per l’economia Angus Deaton che ha evidenziato la loro incapacità di ridurre la povertà in via permanente[3]. Tuttavia questi programmi, complessivamente poco costosi per le finanze pubbliche (cifre tra lo 0,04 e lo 0,8% del Pil), continuano a essere molto popolari: nella sola America Latina si contano 129 milioni di beneficiari.

Al di là della loro presunta o reale efficacia, che lasciamo misurare agli economisti di mestiere, i cct sono incentivi economici e per questo ben lontani dalle politiche di nudging.

Un sussidio non può essere un nudge, come non lo è una multa e neppure una condanna alla prigione. Senza contare che gli incentivi economici distribuiti con questa leggerezza, sollevano un interrogativo etico e discriminatorio: i benestanti non saranno di certo spinti a vaccinarsi per soldi mentre gli svantaggiati subiranno una pressione non indifferente. Senza contare che nel medio – lungo termine diventano demotivanti. E quindi inefficaci.

Senza voler aprire una diatriba neuroetica, è impossibile non guardare ai dubbi che il denaro inevitabilmente solleva: l’incentivo economico non può che alimentare la cultura del sospetto. Non dimentichiamoci che è il bene comune e la protezione ai più fragili che dovrebbe spingere verso la vaccinazione.

Ecco perché più che gli incentivi, ci sono altre strategie a cui si potrebbe e dovrebbe ricorrere. La moral-suasion: incentrata su argomenti attrattivi, anzichè costrittivi e la spinta gentile, capace di rendere facili scelte complesse. Non obbligando, ma creando contesti che, senza togliere la libertà, rendono le decisioni più agevoli e funzionali.

CONTESTO

Non ovunque e non sempre è facile vaccinarsi. Spesso è più un percorso a ostacoli che una via di uscita: comunicazione confusa e contraddittoria, difficoltà a prenotarsi o impossibilità a scegliere quando farlo, o a spostare l’appuntamento, luoghi spesso scomodi o difficilmente raggiungibili se non si è automuniti, mancanza di chiare informazioni su possibili effetti collaterali e un’assistenza post vaccinazione latitante. Lo dico per esperienza diretta.

Senza contare che chi si occupa delle campagne di sensibilizzazione, poco o nulla sa di spinte gentili ed economia comportamentale. E nemmeno ci pensa a consultare gli esperti del settore.

Più che regalare bibite, biglietti della lotteria e qualche banconota, sarebbe più utile investire il denaro nel prelevare a domicilio persone con problemi di mobilità o affette da fragilità, predisporre équipe che portino la vaccinazione a domicilio, un’assistenza post vaccino quando necessaria, numeri verdi dove gli operatori rispondono in modo diretto e non costringano ad attese infinite senza nessuno che si faccia carico del problema.  O ancora, facilitare la vaccinazione di quei lavoratori saltuari e che hanno paura di perdere giorni di lavoro in caso di avventi avversi o problematiche post vaccino[4].

Insomma ci sono molti modi per usare il denaro. E a parità di budget, ricorrere ai Nudge (non come azione estemporanea ma come policy) porterebbe maggiori benefici rispetto ai compensi economici, mitigando o eliminando i sospetti e rafforzando la fiducia nel sistema sanitario pubblico.

FIDUCIA

La fiducia, ricordo, non si può comprare e gli incentivi possono alimentare dubbi sulle reali intenzioni delle istituzioni scientifiche. Un studio del 2020, condotto in 19 paesi utile a determinare i tassi di accettazione e i fattori che influenzano la propensione a vaccinarsi, ha mostrato come in realtà il 71,5% dei partecipanti sarebbe propenso al vaccino e il 48,1% ha riferito che accetterebbe la raccomandazione del datore di lavoro nel farlo. Le differenze nei tassi di accettazione variavano da quasi il 90% (in Cina) a meno del 55% (in Russia). Gli intervistati, a prescindere dalla nazionalità, che segnalano livelli più elevati di fiducia verso il proprio governo, hanno maggiori probabilità di ì vaccinarsi[5].

Tenendo conto di questi dati, gli incentivi difficilmente sono la soluzione. Se non per ridurre la procrastinazione, secondo gli studi dei premi Nobel per l’economia Duflo e Banerjee, e aumentare la percentuale dei vaccini dal 18 al 39%[6]. Un costo che è sicuramente giustificato.

Non c’è dunque una soluzione univoca. E ciò che realmente funzionerà lo si vedrà nel tempo. Intanto, non dimentichiamoci che i Nudge per quanto allettanti andrebbero applicati da chi li conosce per davvero. Non è una moda. E’ una strategia. Da Nobel. I soldi, e la letteratura scientifica lo dimostra, non sono così efficaci come ci piace pensare, benchè sia una soluzione sicuramente semplice e rapida…

FONTI

[1] https://www.reuters.com/world/asia-pacific/philippines-duterte-threatens-those-who-refuse-covid-19-vaccine-with-jail-2021-06-21/

[2] Fiszbein A., Schady N., et al., Conditional Cash Transfers reducing present and future poverty, The World Bank report, 2009.

[3] Deaton A., Instruments, Randomization, and Learning about Development, Journal of Economic Literature, Vol. 48, N. 2, June 2010, pp. 424-55.

[4] https://www.nytimes.com/2021/07/09/nyregion/free-doughnuts-arent-going-to-boost-vaccination-rates.html

[5] Lazarus, J.V., Ratzan, S.C., Palayew, A. et al. A global survey of potential acceptance of a COVID-19 vaccine. Nat Med 27, 225–228 (2021).

[6] https://www.nber.org/system/files/working_papers/w28726/w28726.pdf

PERCHE’ RIMANDIAMO A DOMANI, CIO’ CHE DOVREMMO FARE OGGI? Pigrizia e scarsa volontà non sono le risposte giuste!

Come al solito non hai voglia di studiare… di allenarti… di lavorare… Frasi trite e ritrite che ci siamo sentiti dire e che abbiamo rivolto un numero indefinito di volte…

Gli altri si aspettano tante cose da noi e noi di riflesso facciamo lo stesso con chi ci circonda, con chi veniamo in contatto, con chi viviamo e lavoriamo giorno dopo giorno. Spinti da quella orrenda frase che ci rincorre fin da bambini puoi fare di più.

In azienda, persone di tutti i ruoli procrastinano la consegna di progetti, mancano appuntamenti importanti e arrivano tardi laddove è considerato sacrilego. E così in università: raramente gli studenti consegnano elaborati rispettando la scadenza. Una volta ho avuto una studentessa che ha perso due anni per consegnare la tesi.

Pigrizia, scarsa volontà? No. Assolutamente no. O meglio fino a non troppo tempo fa pensavo anch’io fosse così…

Sono una comportamentista, quindi sono interessata (ossessionata è più corretto) a ciò che guida i comportamenti e le scelte umane. Quando si cerca di anticipare le azioni di un soggetto guardare il contesto è più predittivo che rifarsi all’intelligenza o ad altri tratti della personalità (https://psycnet.apa.org/record/1979-28632-001)

Così quando qualcuno non riesce a stare nei tempi, ho imparato a chiedermi: Quale situazione lo ha rallentato o bloccato? Cosa gli è mancato? Quali ostacoli che non vedo gli impediscono di agire?

Con il tempo ho imparato che ci sono sempre degli ostacoli che ci limitano, ecco perchè è sbagliato gridare alla cattiva volontà o alla pigrizia, se prima non si è analizzato il contesto.

Di fronte a un comportamento di una persona che non rispetta le nostre aspettative, possiamo comportarci in due modi: giudicare o cercare di capire. Fra le due è molto più semplice giudicare e additare i procrastinatori per il loro cattivo comportamento. Rinviare un progetto riporta facilmente all’idea di pigrizia, almeno a una analisi superficiale. Spesso lo pensano così anche coloro che procrastinano… devi fare qualcosa, sei un fallimento, un pigro…

Da decenni gli studi psicologici spiegano la procrastinazione non come un effetto collaterale della pigrizia, come dimostrano tra l’altro anche molte persone di successo che hanno raggiunto risultati sopra la media procrastinando: (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/0092656686901273).

La procrastinazione è un processo esistenziale più profondo e complesso di quanto appare. E di come ci piace bollare. Un articolo di Charlotte Lieberman bene inquadra l’attitudine seriale a rimandare, ovvero la relazione complicata tra noi e le nostre emozioni.

PERCHE’ PROCRASTINIAMO?

 

Ci spiace spiegare pigrizia, negligenza e scarso senso del dovere (“Ce la potrebbe fare… ma non si applica!”), quale risposta a una cattiva gestione del tempo, a una scarsa pianificazione delle attività, a una insufficiente efficacia nella risoluzione dei problemi (“Ce la potrebbe fare… prova ad applicarsi… ma lo fa male!”).

Eppure ciò che caratterizza la procrastinazione non è solo l’atto di rimandare un’attività… ma anche la disturbante percezione emotiva che ne consegue: la sensazione che stiamo andando contro ciò che ci suggerisce il buon senso. Di fatto è un “auto-sabotaggio”. Inizialmente ci solleva dall’ansia, poi non ci fa sentire a posto con noi stessi.

Procrastinare è un comportamento irrazionale. Secondo Tim Pychyl, professore di psicologia e membro del Gruppo di Ricerca sulla Procrastinazione dell’Università di Carleton di Ottawa, la procrastinazione non è causa di pigrizia, ma una reazione a stati emotivi dolenti che si faticano a gestire: ansia, timore di critica, inadeguatezza, senso di colpa. E’ il prevalere dell’urgenza di gestire immediatamente un’emozione dolorosa, rispetto al vantaggio a lungo termine di portare avanti un’attività.

A cui vanno aggiunti i personali stati d’animo: Sarò in grado di portare a termine il progetto?; Cosa penseranno gli altri di me se dovessi fallire?

Davanti a questi pensieri possiamo allarmarci e cercare una via di fuga: questo non elimina gli stati dolorosi associati all’impegno rimandato, ma semplicemente li posticipa spesso in maniera non indulgente, ma sotto forma di dialogo interiore severo e inflessibile (“Buono a nulla! Incapace! Non sei in grado!”) che aumenta la sofferenza e che paradossalmente proviamo a gestire… procrastinando ancora!

TORNIAMO A NOI…

L’intolleranza alla procrastinazione non deve farci dimenticare che spesso è determinata da ragioni più profonde che la scarsa volontà, come invece accade.

Conosco colleghi dell’università che non si sono mai chiesti cosa bloccasse uno studente. Una collega si rifiutava di lasciar entrare in classe  qualunque studente in ritardo. Non si interessava del perché; partiva dall’idea che nulla è impossibile se lo vuoi ottenere, figuriamoci arrivare in orario alle lezioni. Ricordo di un ragazzo sordomuto che poi si è laureato con il massimo dei voti a ingegneria, venire sottoposto a esame orale anziché scritto e venir bacchettato dal docente perché non capiva la domanda. Quando sarebbe bastato guardarlo in volto affinchè lui leggesse il labiale. Lui non è diventato un procrastinatore ma avrebbe potuto diventarlo e non per scarsa volontà.

O la studentessa che arrivava sovente in ritardo la prima ora di lezione perché passava le notti al capezzale della madre morente. Provava vergogna per la ruvidezza del docente, e nemmeno trovava la forza per esplicitare la sua situazione.

Al di là delle catalogazioni scientifiche, talvolta sarebbe sufficiente chiedersi il perché di un comportamento, prima di giudicarlo senza ascoltarne la risposta.

So che non è facile,  non siamo stati educati a riflettere su ciò che blocca i nostri collaboratori, i nostri studenti, i nostri amici. Tanti sono coloro che orgogliosamente rifiutano di condividere spazio e tempo con chi è meno fortunato, più lento, apparentemente meno elitario. E più rivestiamo ruoli importanti più mettiamo distanza, benchè diventiamo vittime di altre problematiche rispetto alla pigrizia. Eppure proprio come sappiamo che la pigrizia non è sempre una scelta attiva, anche i comportamenti elitari e giudiziari sono determinati dall’ignoranza situazionale.

Il segreto è chiedersi contro cosa lottano gli altri, e ricordare che probabilmente non se lo sono scelto. Ci stanno provando a fare bene, ma non sempre è facile. Alcune barriere sono difficili da abbattere, anche per i più forti e i più tenaci. Spesso, è sufficiente adottare un approccio curioso ed empatico nei confronti di individui che inizialmente vogliamo giudicare “pigri” o irresponsabili. E qui, mi domanderei perchè abbiamo questa esigenza da soddisfare, prima ancora di capire le ragioni della pigrizia altrui.

Le persone non scelgono deliberatamente di fallire o di deludere. Nessuno vuole sentirsi incapace, inefficace o inutile. Se guardando l’azione (o la non azione) di una persona, vedi solo pigrizia, probabilmente ti sei perso i dettagli chiave. C’è sempre una spiegazione. Ci sono sempre barriere. Solo perché non puoi vederle o non le vedi come legittime, non significa che non ci siano.

Forse devi solo imparare a guardare meglio.