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NON ASPETTARE Godot. CERCALO. Se fosse la capacità di attendere a dirci chi (non) siamo?

Non so se ci avete mai fatto caso, ma…

… siamo in costante attesa.

Di qualcosa. Qualcuno.

Aspettiamo per vivere, aspettiamo per morire. Aspettiamo in fila per comprare la più inutile delle cose. Aspettiamo in fila per il bancomat. E se non disponiamo di abbastanza denaro aspettiamo in file più lunghe. Aspettiamo per dormire e poi per svegliarci. Aspettiamo per sposarci e poi aspettiamo per divorziare. Aspettiamo la pioggia, e qualche sopravvissuto al romanticismo aspetta l’arcobaleno, tutti gli altri il sole. Aspettiamo l’ora del pranzo e poi della cena. Aspettiamo l’ennesimo treno insieme a un gregge di altri avventori, distratti e un po’ tristi, correndo dietro alla vita che però non ha fermate.

… aspettiamo per tutta la vita.

Quasi la vita si esprimesse nelle attese. E nonostante questo perpetuo esercizio, sono in pochi a saper trarre il meglio dall’ozio forzato. Io, non ci sono mai riuscita.

Probabilmente se da piccola mi avessero sottoposto al test dei marshmallow sarei inciampata miserevolmente.

DOLCI ATTESE, MICA TANTO

Verso la fine degli anni ’60 lo psicologo Walter Mischel docente a Stanford, mise a frutto uno degli esperimenti più famosi di sempre, con l’obiettivo di testare l’autocontrollo nei bambini.

È il test del marshmallow (o della gratificazione differita), che valuta la capacità di resistere a una tentazione per riceverne una più grande in un secondo momento.

Un bambino tra i tre e i sei anni riceve un dolcetto e deve resistere per 15 minuti senza mangiarlo. Se si trattiene riceverà un secondo biscotto.

Per superare il test i bambini, che rimangono da soli nella stanza, si sono inventati le strategie più disparate. C’è chi allontana il dolce, chi si gira dall’altra parte e chi trova qualcosa di divertente da fare per far passare gli interminabili minuti, come cantare una canzone.

Nei risultati ottenuti da Mischel, il comportamento durante il test sembra poterci darci un’idea di che tipo di adulti diventeranno i bambini.

Secondo studi più recenti, negli ormai adulti partecipanti, le capacità di svolgere un test di tipo go/no go (premere più rapidamente e accuratamente possibile un bottone di fronte a un colore ed evitare di farlo di fronte a un altro) era consistente con l’autocontrollo mostrato da bambini, sia dopo 10 che dopo 40 anni. Chi aveva atteso il secondo dolce da piccolo se la cavava meglio con il test una volta adulto.

E che dire dei bambini non interessati al cibo, quelli che a un dessert avrebbero preferito un gioco? Il test è stato adattato anche in questo senso, ha detto Mischel in un’intervista al The Atlantic, perché si tratta di capire cosa influenza un bambino quando fa la sua scelta e condurlo usando delle chip da poker al posto dei dolcetti ha portato ai medesimi risultati.

La personalità non è scolpita nella pietra – ha sottolineato Mischel – e non si può comunque pensare che il futuro di una persona stia tutto in un marshmallow”.

Eppure l’autocontrollo si può allenare come un muscolo, sfruttando tecniche come quella del se-allora. Imporsi di non esagerare con i dolci è generico, lo è meno formulare qualcosa come “se mi verrà voglia di un altro pezzo di torta, allora mangerò un frutto”.

Per Mischel la prima distinzione sta in quale regione del cervello si fa carico del test: se è il sistema limbico a prevalere sarà la gratificazione immediata, più fredda invece la risposta se entra in gioco la corteccia prefrontale.

Il test ha anche mostrato grosse differenze in base alla provenienza dei bambini: un confronto tra i bambini tedeschi e un gruppo di bambini dell’etnia Nso, in Camerun, ha mostrato che solo il 30% dei primi riusciva a resistere fino all’arrivo del secondo dolce. Nei secondi si arrivava al 70%: i bambini restavano seduti e alcuni si sono appisolati nell’attesa. Le mamme Nso dicono ai loro figli che non vogliono che piangano e che fin da piccoli si aspettano siano in grado di controllare le proprie emozioni, hanno spiegato gli autori del paper.

Questo potrebbe essere uno dei motivi, ma non l’unico. Secondo la neuroscienziata Celeste Kidd anche l’ambiente nel quale cresce un bambino può influenzare come si comporterà. Se vive in un contesto di incertezze e non si aspetta che le promesse, seppur fatte da un adulto, verranno mantenute, potrebbe decidere che aspettare il secondo dolce è troppo rischioso. E se non arrivasse mai? È possibile che quello che il marshmallow test misura non sia la capacità di autocontrollo ma la fiducia nell’autorità; quando i bambini hanno la certezza che il secondo dolce arriverà, attendono anche quattro volte più a lungo.

EFFETTO LAST NAME

Questo test mi ha sempre incuriosito, forse perchè non potendo più sottopormici, ho idealizzato l’esperimento ingrandendone le aspettative. Ciò che però mi è difficile credere è il fatto che la capacità di attendere sia allenabile. Le volte che provo a migliorare le mie performance in tal senso ne esco emotivamente distrutta, vittima di forte malumore e nervosismo.

Al contempo, non posso ignorare l’effetto last name: un bias che evidenzia quanto il nostro cognome possa influenzare i nostri comportamenti. Secondo gli studiosi, le persone che hanno un cognome che inizia con le lettere dell’alfabeto dalla R alla Z sono più propense ad afferrare un’opportunità al volo rispetto a coloro il cui cognome inizia con una lettera compresa fra A e I.

A spiegare tale teoria ci starebbe il fatto che durante l’infanzia i bambini con un cognome che inizia con le ultime lettere dell’alfabeto hanno sempre dovuto aspettare. Dall’asilo alla scuola superiore, la vita è spesso regolata dall’appello e dall’ordine alfabetico. Così, da adulti, quando una persona il cui cognome inizia con lettere dalla R in poi ha la possibilità di esercitare il controllo, vorrà finalmente essere fra le prime a cogliere una nuova opportunità. In pratica, si viene a creare una sorta di condizionamento ad agire rapidamente quanto si presenta l’opportunità.

Non tutto il male viene per nuocere. Ecco quindi che pur non sapendo aspettare, ho imparato a sfruttare ciò che accade a mio vantaggio.

Mentre sfoglio non poche ricerche che dicono cose simili, dissimili e contrarie, esercitando la mia pazienza certosina nel leggere l’impossibile, ma è sempre meglio che attendere con le mani in mano, sono consapevole del fatto che non sono l’unica a combattere l’impossibile battaglia dell’attesa. E da loro traggo aspirazione…

Per Kafka la vita era “un’attesa prima della nascita”, Beckett l’ha trasformata in un libro Aspettando Godot.

Michelangelo la considerava come “il futuro che si presenta a mani vuote”.

Simone Weil definiva l’attesa “il mendicante di Dio”. “La culla dondola sopra un abisso” scrisse Nabokov: a chi aspetta viene sempre in qualche modo ricordato questo abisso.

“La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”, scrive Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.

Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile“, scriveva Pavese, non a caso ne Il mestiere di vivere.

Bukowski “Aspettavi nello studio di uno strizzacervelli con una masnada di psicopatici e ti chiedevi se lo fossi anche tu”.

Nel mondo dei folli, l’attesa non ha orologio, mi ritrovo a pensare mentre l’attesa è giunta a capolinea.

Quanto tempo è per sempre?” chiede Alice.

Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”.

E quanto tempo è un secondo?”;

Quando ami, un’eternità”.

NEVE, BIAS e tanti PICCOLI INDIZI… per NON lasciarsi SORPRENDERE da una VALANGA

L’ultimo giorno della sua vita Steve Carruthers si alzò presto, pronto ad affrontare il Big Cottonwood, leggendaria via di arrampicata su roccia nello Utah, con l’amico di cordata Ian Mc-Cammon e un terzo sciatore.

Conoscevano quei territori allo stesso modo di chi lì è nato, e fu questo a portarli, se vogliamo assecondare il senno di poi, a sottovalutare parte del rischio, tipico delle montagne il giorno successivo a una bufera di neve, finendo con il venire travolti da 100 tonnellate di ghiaccio a 80 chilometri all’ora[1].

Steve fu l’unico a non sopravvivere.

Forse, se Steve avesse tenuto conto del consiglio di Daniel Kahneman[2] secondo cui “sbagliamo tutti e tutti sbagliamo nello stesso modo, soprattutto laddove siamo più competenti”, non avrebbe sottovalutato l’impatto che #bias#noise ed #euristiche hanno nella presa di #decisione. E forse, quel giorno, le cose sarebbero andate diversamente.

BIAS, NOISE ED EURISTICHE

Si parla tanto di bias, noise[3] ed euristiche. Il dilagare di post sull’argomento, e l’appropriarsi del tema da parte di chiunque, a prescindere, è evidente. Ma fra il descrivere gli effetti di una distorsione cognitiva e contestualizzarla, per anticiparla, riconoscerla o mitigarla c’è ancora una certa differenza. Lo so io, lo sa chi legge e di certo anche Ian McCammon[4], sciatore esperto, istruttore di wilderness, ma anche ingegnere, ricercatore e consulente per la NASA e il Dipartimento della Difesa, che nei bias, nei noise e nelle euristiche cercò, trovandolo, il perché della tragedia.

Con il rigore di un ingegnere, Ian iniziò a leggere tutto ciò che trovava sulla scienza del #rischio e del #decision-making, a studiare e classificare poi i dettagli di oltre 700 valanghe mortali avvenute fra il 1972 e il 2003, sui 1355 sciatori coinvolti, sulle dinamiche della loro sciata, l’esperienza, gli orari e i minuti precedenti la loro morte, velocità del vento, caratteristiche del terreno e altri segni di instabilità, allo scopo di trovare similitudini che potessero spiegare la morte prematura dell’amico.

Ciò che emerse ha dello straordinario: Ian individuò #pattern ricorrenti, riconducibili a sei bias (in cui non sarebbero dovuti cadere sciatori esperti), ognuno capace di influenzare il giudizio, riassunti nell’acronimo FACETS, ed esplicitati nel documento: Evidence of Heuristic Traps in Recreational Avalanche Accidents. Il paper è tuttora una guida per mitigare i rischi nelle arrampicate e scalate in alta montagna.

FACETS

FAMILIARITY[5]. E’ la tendenza a sopravvalutare le cose che già conosciamo, anche quando è svantaggioso. Il problema con questo effetto è che man mano che diventiamo più familiari con qualcosa, ci sentiamo più a nostro agio, e abbassiamo la guardia: la stessa cosa che è accaduta ai tre sciatori, sicuri di quella escursione per averla compiuta un’infinità di volte nelle condizioni più diverse.

ACCEPTANCE. Vogliamo essere accettati dagli altri ed è per questo che tendiamo a prendere decisioni rischiose. Così facendo perdiamo di vista l’obiettivo originario.

CONSISTENCY. Gli sciatori, nel caso specifico, hanno maggiori probabilità di correre rischi quando sono seriamente impegnati in un obiettivo (coerenza) e ancor più quando si trovano in gruppi di quattro o più persone.

EXPERT HALO. E’ la convinzione di essere al sicuro sciando con qualcuno che si considera esperto (nel sciare), quando in realtà l’esperto sa certamente sciare bene ma sa molto poco di valanghe ed eventi avversi in montagna.

TRACKS/SCARCITY. Il non essersi mai imbattuti in una valanga nonostante si sia percorso quel tratto un numero infinito di volte, porta a sottovalutare il pericolo.

SOCIAL FACILITATION. Il fatto di imbattersi in gruppi di sciatori e scalatori meno esperti su territori pericolosi, predispone i più esperti a correre maggiori rischi. Questo effetto è direttamente proporzionale al livello di expertise.

NON TUTTE LE EURISTICHE VENGONO PER NUOCERE

Nonostante le decisioni sbagliate a cui ci conducono, le #euristiche sono utilissime perché ci permettono di risparmiare tempo ed energie. Per analogia, è come se al supermercato per fare la spesa, ci mettessimo a ponderare pro e contro di ogni prodotto, anziché dirigerci verso la marca del bene che abbiamo già comprato e gustato decine di volte. Così avviene anche per i medici del pronto soccorso, i piloti e i calciatori – persone che devono prendere decisioni rapide e sono addestrate a identificare rapidamente schemi familiari e (re)agire.

Purtroppo però quando smettiamo di considerare il #contesto, qualunque esso sia, ci assumiamo dei rischi.

Le vittime delle valanghe analizzate da McCammon, ad esempio, erano quasi tutti sciatori esperti, e quasi la metà aveva avuto una formazione specifica sul tema valanghe. L’esperienza, come già accennato, non porta necessariamente a scelte intelligenti. Anzi, in questo caso il contrario.

Paradossalmente, la #familiarità con un luogo, ha l’effetto di farlo sembrare sicuro anche quando non lo è, banalmente perché lo è stato fino a quel momento. E questo ci induce ad abbassare la guardia.

Non è un caso se McCammon ha scoperto che c’erano significativamente più incidenti da valanga quando gli sciatori conoscevano bene il luogo, rispetto a quando si avventuravano su percorsi nuovi.

La maggior parte delle valanghe non ha nulla a che fare con la neve. L’euristica della familiarità è stata ampiamente studiata nel campo dei comportamenti di acquisto e della finanza personale. Gli psicologi di Princeton hanno dimostrato che le persone sono più inclini ad acquistare azioni di nuove società se i nomi sono facili da leggere e pronunciare, il che influisce effettivamente sulla performance del titolo nel breve periodo.

QUANDO TUTTO HA AVUTO INIZIO

Il processo decisionale di Carruthers ha cominciato ad andare storto molto prima che mettesse gli scarponi ai piedi. Tutto è iniziato nella comodità del soggiorno di casa, quando lui o uno dei suoi amici ha proposto: “Facciamo un’escursione al Big Cottonwood, domani“, innescando l’euristica di #coerenza.

Anche se hanno discusso le condizioni, i pro e contro e fatto una valutazione deliberata dei #rischi, il loro focus era sull’impegno preso ed è quello che ha avuto il sopravvento. Abbiamo infatti una forte propensione a non cambiare rotta. A meno che non ci sia qualche ragione convincente per non farlo, lasciamo che le nostre menti si concentrino su ciò che è, o su ciò che è già stato deciso. Ci affidiamo alla rotta stabilita, spesso con buoni risultati. Cambiare può essere pericoloso.

Ma questo potente desiderio di stabilità può anche portare a cattive scelte[6].

I tre sciatori avrebbero potuto tornare indietro, il manto nevoso sembrava instabile, le condizioni peggiori di quanto si aspettavano e così altri indizi. Tutte informazioni che hanno sicuramente recepito ma che non hanno ponderato perché loro, la decisione, l’avevano già presa il giorno prima. Ad aggravare il tutto, sono anche state le due ore di trekking sostenute per arrivare fino al punto dove poi si è verificato l’incidente. Insomma, ci sarebbe voluto un grande sforzo mentale per elaborare tutti gli argomenti logici, voltarsi e tornare a casa.

Meglio quindi andare avanti.

lo facciamo, tutti, molte più volte di quanto ci piace ammettere. Semplicemente perché è difficile cambiare piano. Rimaniamo in relazioni che non vanno da nessuna parte, compriamo la stessa marca di auto di nostro padre ed esitiamo a riorganizzare il nostro portafoglio azionario. E ci rimettiamo acriticamente ad altri che prendono decisioni per noi – politici, che fanno regole e leggi basate sul presupposto che agiremo in modo coerente piuttosto che metterle in discussione.

E poi si è messa di trasverso anche l’euristica dell’accettazione: la forte tendenza a fare scelte che crediamo ci faranno notare – e soprattutto, approvate – dagli altri. Questo a causa del nostro antico bisogno di appartenenza e sicurezza. È un elemento cruciale nella coesione del gruppo, ma spesso lo applichiamo in situazioni sociali in cui è inappropriato – o addirittura dannoso, come è stato in molti degli incidenti che McCammon ha studiato.

La sua analisi ha mostrato un tasso molto più alto di decisioni rischiose in gruppi di sei o più sciatori, dove c’era un “pubblico” più ampio da accontentare.

E SE SI METTE ANCHE LA NEVE

Anche la neve è capace, da sola, di impattare sulle nostre #decisioni. Ogni sciatore vive il desiderio irragionevole di affrontare la neve fresca; momento che non dura a lungo. Tutti lo sanno. Quindi per alcune ore è come l’oro, prezioso per la sua #scarsità.

Abbiamo una reazione viscerale a qualsiasi restrizione delle nostre prerogative come individui, e un modo in cui questo si manifesta è nelle nozioni distorte sulla scarsità e sul valore. Gli esseri umani hanno reso prezioso l’oro perché non ce n’è così tanto, non perché sia un metallo particolarmente utile. Così è con la neve fresca, e con qualsiasi altra cosa che potremmo percepire come rara, dalla terra al tempo libero. La scarsità può persino distorcere le nostre scelte amorose, se non stiamo attenti, ma questa è un’altra storia.

Insomma, bias, noise ed euristiche si possono raccontare in tanti modi. Il migliore, a mio avviso, è quello che insegna a sbagliare meno o meglio.

 Fonti

[1] Mondino L., Brambilla L., 2021. Le trappole della mente, ACS Editori, Milano

[2] Kahneman D., 2012. Pensieri lenti e veloci, Oscar Mondadori, Milano

[3] Kahneman D., Sibony O., Sunstein C.R., 2021. Noise. A flaw in human judgment. Hachette Book Group USA

[4] McCammon I., 2004. Heuristic traps in recreational avalanche accidents. Evidence and implications. Avalanche News, 68;1-10

[5] https://link.springer.com/article/10.1007/BF00057884

[6] Mondino L., Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse, Flaccovio Ed., 2019

PERCHE’ CREDIAMO di MERITARE ciò che OTTENIAMO? Ignare vittime della fallacia del MONDO GIUSTO

Non so se anche voi siete fra coloro che credono che il mondo sia giusto e di conseguenza, è la moralità delle proprie azioni a determinare i risultati. O più semplicemente: chi fa del bene sarà premiato e chi ha comportamenti discutibili e cattivi sarà punito.

Io sono fra questi, non so se è per una visione romantica della vita o se (questa seconda opzione è più probabile) sono vittima della fallacia del mondo giusto, una trappola mentale capace di regalarti un profondo senso di pace e di giustizia se solo ti abbandoni all’idea che se fai del bene e sei buono verrai ampiamente ricompensato.

NEL QUOTIDIANO

È sabato sera e con amici siamo al ristorante. Rilassati e soddisfatti, a fine cena, ci dirigiamo al parcheggio. L’atteggiamento ironico e burlone di uno dei nostri amici muta bruscamente quando si accorge che la portiera dell’auto è spalancata e il laptop è sparito.

Consoliamo l’amico, cercando insieme di capire come sia potuto accadere, mentre lui continua a tormentarsi e ripetere “devo aver lasciato le porte aperte e il computer in bella vista”. Inevitabilmente, l’idea che il nostro amico sia distratto e confusionario avrà il sopravvento su di noi.

Ecco che siamo caduti vittime della fallacia del mondo giusto. Una #convinzione capace di modellare la nostra #percezione: presumiamo che ciò che accade si ripeta e quindi, razionalizziamo la sfortuna del nostro amico come conseguenza delle sue azioni o caratteristiche o abitudini negative. Arrivando persino a distorcere la nostra percezione sulla persona per trovare una ragione per cui a venir derubato è stato lui e non noi.

EFFETTI INDIVIDUALI

Questa credenza, da un lato, può motivarci ad agire con moralità e integrità, tuttavia, il mondo non è sempre così giusto come vorremmo che fosse. Attenendoci strettamente a tale ipotesi di fronte all’ingiustizia, è più facile trarre conclusioni e giudizi imprecisi sul contesto che ci circonda.

Le persone compiono sforzi enormi per correggere i torti e quindi contribuire a ripristinare la giustizia nel mondo. Spesso però, il desiderio di vivere in un mondo giusto non porta alla giustizia, ma alla giustificazione[1]. Invitano a riflettere gli psicologi dell’UCLA.

La ferma #convinzione in un mondo giusto produce un pregiudizio cognitivo che può portare a giustificare la sofferenza di una persona dipingendola negativamente o minimizzando del tutto la sua sofferenza.

Nel quotidiano questa fallacia potrebbe applicarsi nel presumere che chi ha un lavoro scarsamente retribuito lavori meno duramente e seriamente di chi è ritenuto di successo. Creiamo cioè false narrazioni per proteggere la nostra teoria del mondo: vogliamo a tutti i costi credere che il mondo sia giusto e che se lavori duro avrai successo. Così è più facile etichettare qualcuno come pigro o demotivato piuttosto che ammettere che il mondo può essere ingiusto.

EFFETTI SISTEMICI

Il modo in cui decidiamo cosa merita una punizione e cosa una ricompensa determina il modo in cui vediamo il mondo. Questa prospettiva ha effetti significativi sugli esiti politici e legali, sul giudizio delle vittime e nei confronti dell’attivismo sociale. Gli studi scientifici hanno mostrato una correlazione inversa tra l’ipotesi del mondo giusto e l’attivismo sociale: se ritieni che il mondo sia giusto così com’è, avrai meno probabilità di agire e lottare per il cambiamento.

PERCHÉ SUCCEDE

Siamo portati a credere che il bene sia sempre premiato e il male punito. Fin dalla prima infanzia leggiamo storie di eroi coraggiosi che salvano la situazione e vengono ricompensati, i cattivi uccisi o banditi. In queste storie, i personaggi raccolgono sempre ciò che seminano. Di fatto sviluppiamo questo senso di giustizia fin da piccoli.

Come esseri umani, ci troviamo spesso di fronte a una quantità enorme di informazioni. Per dare un senso a ciò che ci circonda, costruiamo schemi per guidare il nostro processo decisionale e prevedere i risultati. L’ipotesi del mondo giusto funge da uno di questi schemi, creando una comprensione degli eventi positivi e negativi attribuendoli a una sorta di ciclo karmico più ampio.

Credere in un mondo giusto crea un ambiente apparentemente prevedibile.

Lo psicologo sociale e pioniere della ricerca sul mondo giusto, Melvin J Lerner, ha ben descritto come tale fallacia installi un’immagine di un “mondo gestibile e prevedibile, centrale per la capacità di impegnarsi in attività a lungo termine orientate agli obiettivi ”[2].

È più probabile che lavoriamo per raggiungere gli obiettivi prefissati se sentiamo di poter prevedere il risultato. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che vedere il mondo come prevedibile ed equo ci protegge dall’impotenza, che è dannosa per il benessere psicologico e fisico umano.

Spesso evitiamo o distorciamo le informazioni che mettono in discussione la nostra visione del mondo.

Quando ci sentiamo fisicamente a disagio, è automatico fare tutto il necessario per metterci a nostro agio. Questo accade anche mentalmente. Probabilmente tutti possiamo relazionarci con la sensazione di disagio quando le nostre convinzioni vengono messe in discussione o siamo smentiti. A volte questo può portarci sulla difensiva o a trovare modi per invalidare le informazioni opposte.

Leon Festinger ha coniato questo fenomeno come dissonanza cognitiva: “se una persona conosce varie cose che non sono psicologicamente coerenti tra loro, cercherà, in vari modi, di renderle coerenti”. L’ipotesi del mondo giusto provoca distorsioni mentali per far fronte alle apparenti incoerenze del mondo.

PERCHÉ È IMPORTANTE CONOSCERE QUELLA FALLACIA

La forza con cui tale fallacia si manifesta può modellare la nostra comprensione del mondo. Cambia la nostra percezione degli altri. Crea aspettative. Il desiderio di giustizia non è la stessa cosa della convinzione che il mondo sia giusto. Per creare un cambiamento, dobbiamo avere la lucidità per vedere dove una situazione potrebbe essere ingiusta o prenderci il tempo per capire le reali circostanze prima di esprimere un giudizio.

COME EVITARLA

Occorre disturbare gli scienziati comportamentali Daniel Kahneman e Amos Tversky e il loro sistema di pensiero. Il sistema 1 (S1) si riferisce alle nostre risposte istintive, ai nostri giudizi rapidi, alle nostre reazioni emotive. Il sistema 2 (S2) si riferisce a un processo di pensiero più lento, razionale e calcolato. Molti dei nostri pregiudizi sono frutti di S1, inclusa l’ipotesi del mondo giusto.

Ecco perché è importante rallentare il processo attraverso il quale formiamo i nostri giudizi e considerare tutte le informazioni disponibili.

Di fronte all’ipotesi del mondo giusto, ricorrere a S2 significa fare un passo indietro così da evitare valutazioni distorte. A volte, dopo aver esaminato il quadro completo, sosterremo ancora la nostra conclusione iniziale. Forse sentiamo ancora che la punizione o la ricompensa era giustificata, e anche questo va bene. Mitigare l’impatto dell’ipotesi del mondo giusto non significa dire a noi stessi che il mondo non è mai giusto. Ciò che dobbiamo imparare è un nuovo modo di affrontare la dissonanza cognitiva invece di prendere sempre la strada più semplice con tutti i limiti, ben noti, propri delle euristiche.

Usando S2, possiamo pensare in modo critico, piuttosto che istintivamente. Questo permetterà di vedere le ingiustizie e preparare meglio noi e il mondo che ci circonda a combatterle.

COME USARE IL SISTEMA 2 

Proprio come quando impariamo una nuova abilità, ci vuole tempo e ripetizione. All’inizio, potremmo renderci conto retroattivamente quando stiamo pensando in modo prevenuto, dando un rapido giudizio. Esaminando i nostri giudizi intuitivi e considerando il contesto, possiamo coltivare il pensiero S2.

Utile è anche esercitare l’empatia. In un esperimento condotto dai ricercatori della Duke University[3], ai partecipanti è stato chiesto di guardare un video di una donna che riceveva scosse elettriche in base alla sua performance in un compito di apprendimento. Divisi in due gruppi, al primo, è stato chiesto di immaginare sè stessi nel medesimo scenario, al secondo solo di guardare il video.

I partecipanti del primo gruppo, che induceva #empatia, risultarono meno propensi a criticare la vittima, dimostrando una minore influenza dell’ipotesi del mondo giusto. Quindi, se riusciamo a ricordarci di pensare in modo razionale piuttosto che istintivo e metterci nei panni degli altri, possiamo valutare più accuratamente le situazioni.

In un altro studio, condotto durante lo scandalo del Watergate, i ricercatori dimostrarono che i partecipanti all’esperimento che erano più facili vittime dell’ipotesi del mondo giusto erano meno propensi a negare la colpevolezza di Nixon. La fallacia li portò ad associare il grande successo e il carattere forte ad alti valori etici e morali, impedendo loro di credere che Nixon fosse capace di tali atti ingannevoli.

Coloro che credono fermamente in un mondo giusto possono avere una maggiore propensione ad approvare le scelte dei leader politici a causa del presupposto che si raggiunga il successo attraverso meriti elevati e grande forza morale.

Fonti

[1] Rubin Z., Peplau L.A. (1975). Who Believes in a Just World? Journal of Social Issues, 31(3), 65–89.

[2] Lerner, M. J. (1980). The Belief in a Just World. Springer US

[3] Aderman, D., Brehm, S. S., Katz, L. B. (1974). Empathic observation of an innocent victim: The just world revisited. Journal of Personality and Social Psychology, 29(3), 342–347

SOLUZIONI INNOVATIVE? Non aver paura di rischiare

Forte è la tentazione di unire creatività e follia, genialità ed eccesso. Forse perché risveglia l’ideale romantico con cui siamo stati cresciuti fin da bambini. Eppure, la creatività ha poco a che fare con la follia e meno ancora con la sregolatezza.

Il fatto che Picasso soffrisse di depressione, non ha legami con la creatività. Lucy in the Sky with Diamonds può anche essere nata da un viaggio lisergico, ma è stata composta dalla collaborazione di due musicisti scrupolosi e perfezionisti: John Lennon e Paul McCartney. Le poesie di Rimbaud, autore maledetto per eccellenza, sono il frutto di ore di lavoro e non di una unica idea geniale. Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, suonava il bongo in un night club per non ammuffire nelle aule universitarie e avere nuovi stimoli. Edvard Munch gravitava fra arte, ansie e allucinazioni, Einstein raccoglieva mozziconi di sigarette per strada e Henry Cavendish, il primo a identificare l’idrogeno, viveva in totale isolamento e con frugalità, nonostante fosse uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra.

A prescindere dalla genialità, i risultati creativi arrivano se c’è metodo e dedizione. Non esistono scorciatoie. Anzi, è probabile che la sregolatezza sia un limite che frena il talento, non il segreto che dà vita alla creatività.

Ecco perché lasciarsi sedurre dal mito genio e sregolatezza, al pari di un #pregiudizio, induce irrimediabilmente all’errore.

LA VOGLIA DI SPERIMENTARE

La creatività ha molto più a che fare con la volontà di sperimentare al di fuori dei confini del pensiero convenzionale e nell’essere consci che ciò che si pensa di sapere, potrebbe essere sbagliato.

Nel contesto aziendale, più che genio–sregolatezza, il binomio più evidente, ma forse più trascurato è quello che unisce la creatività al rischio. Proprio perché la creatività consiste nel provare qualcosa di nuovo, esplorare l’ignoto e accettare l’incertezza e la possibilità di fallire. Ci piaccia o meno, è la creatività ad alimentare la strategia e l’innovazione.

In altre parole, il vero potere della creatività va oltre la visione artistica e la capacità di immaginare e costruire qualcosa di nuovo. Grandi artisti, scienziati e pensatori sono disposti a fallire, venire sommersi da critiche negative e vedere andare in frantumi la propria reputazione, pur di portare avanti le loro idee. Sir Ken Robinson ha ben spiegato questo concetto nel TED Talk più visto di sempre : “Se non sei pronto a sbagliare, non ti verrà mai in mente nulla di originale”.

RISCHI, GIOCHI E RISULTATI

Sebbene la connessione tra creatività e assunzione di rischi sembri intuitiva, gli scienziati sociali hanno faticato a mostrarne il legame diretto. Questo perché misurare la creatività è difficile.

Studi passati che miravano a esplorare la relazione tra creatività e assunzione di rischi hanno equiparato la creatività alla fluidità associativa, al pensiero divergente, alla tolleranza dell’ambiguità e allo stile di vita“, hanno evidenziato gli psicologi Tyagi, Hanoch, Hall e Denham dell’Università della Georgia e Runco della Plymouth University in Frontiers in Psychology . Ma, hanno aggiunto “ognuna di queste misure fornisce solo una visione ristretta della creatività “.

Adottando un approccio diverso, i ricercatori hanno considerato la creatività come un tratto multidimensionale che coinvolge la personalità, i risultati, il processo di formazione di nuove idee, la risoluzione dei problemi. Hanno misurato il rischio utilizzando due test. Uno prevedeva di giocare alla roulette e l’altro la compilazione di un questionario che analizzava la probabilità di assunzione di diversi tipi di rischi: etici, finanziari, sanitari, legati alla sicurezza, ricreativi e sociali.

L’analisi risultante ha suggerito che il legame più forte tra creatività e assunzione di rischi coinvolge il rischio sociale, ovvero esporre tesi e idee anche quando le dinamiche di gruppo o di relazione incoraggiano i membri del team a rimanere in silenzio.

ESSERE CREATIVITI VUOL DIRE ASSUMERSI DEI RISCHI

Essere creativi significa correre il rischio che le tue idee vengano criticate o che falliscano miseramente“, sostiene Todd Dewett . Durante il dottorato, Dewett ha notato una lacuna nella ricerca sul legame tra creatività e assunzione di rischi. Quindi ha progettato uno studio attorno a un concetto che chiama disponibilità al rischio: un tipo specifico di assunzione di rischi che ha lo scopo di portare a risultati produttivi in un’organizzazione, anche se può avere conseguenze personali negative per l’individuo che si assume il rischio.

Ad esempio, i dipendenti possono rischiare di essere rimproverati o ostracizzati se segnalano potenziali errori di un progetto particolarmente caro al capo, propongono miglioramenti a un venerato prodotto di punta o sostengono le innovazioni in un’azienda quando i loro colleghi resistono al cambiamento o sono più propensi a proteggere il loro territorio.

Lo sviluppo e la discussione di nuove idee è rischioso, perché rappresentano rumors nelle routine, nelle relazioni, negli equilibri di potere e nella sicurezza di un”organizzazione“, ha scritto Dewett sul Journal of Creative Behavior. La sua ricerca ha documentato una stretta relazione tra creatività e disponibilità al rischio. Dewett ha creato un sondaggio che ha somministrato a 1.100 dipendenti di una società di ricerca e sviluppo con sede negli Stati Uniti. Il sondaggio ha esaminato come specifici comportamenti dei manager siano in grado di influenzare le decisioni dei dipendenti riguardo creatività e propensione al rischio.

Ciò che è emerso è che i manager garantivano ai dipendenti l’autonomia, ovvero la sensazione di libertà di scegliere come svolgere un’attività, sostenendo la loro volontà di rischiare ma non la loro creatività.

Secondo Dewey, le aziende possono aumentare la creatività individuale e di squadra in vari modi. Tutti implicano che i dipendenti si sentano più a loro agio a parlare e ad assumersi dei rischi. Le organizzazioni più innovative possono includere formalmente la disponibilità al rischio nelle valutazioni delle prestazioni, ponendo ai dipendenti domande come: “Quali cambiamenti hai apportato? Che tipo di idee o cambiamenti hai sostenuto o chi hai sostenuto per facilitare un cambiamento?

LA CREATIVITA’ IN AZIENDA

Una volta che inizi a cercare il tipo di assunzione di rischio sociale costruttivo che va di pari passo con la creatività, potresti trovare sorgenti creative dove non te lo aspettavi.

Ecco perché le persone che sono disposte a parlare indipendentemente dal fatto che siano o meno le benvenute, potrebbero essere le più grandi risorse di un’azienda. Il vantaggio è duplice: portano ossigeno, incentivano il pensare fuori dagli schemi a supporto di nuove opportunità e contemporaneamente sono disposte a evidenziare problematiche che possono aiutare l’organizzazione a evitare perdite onerose e inutili.

E se questo non bastasse si può sempre ricorrere, per spingere le persone ad assumersi qualche rischio in più, alla tecnica dei piccoli passi dello psicologo di Stanford passi di Albert Bandura. La tecnica è nata inizialmente per aiutare le persone a superare le fobie. Una fra tante, quella dei serpenti. La creatività in fondo è un po’ come maneggiare serpenti, secondo quanto sostiene un bell’articolo sulla Harvard Business Review: sperimentare senza temere il giudizio altrui, proprio come facevamo da bambini.

Un modo per farlo è appunto quello di superare gradualmente le paure apprese. All’inizio ci può sentire a disagio ma, piano piano con la creatività come con i serpenti, al timore si sostituiscono fiducia e capacità nuove. La prima regola è abbandonare le certezze e la protezione offerta dal proprio ufficio, misurarsi con il mondo, sia che si tratti di inventare un’app che cambierà gli eventi o progettare la start up del secolo.

Il successo, spesso, nasce dal fallimento, come insegna l’economista Albert Hirschman.

In realtà, nessuno si imbarca in imprese che vanno così male da dover richiedere una soluzione creativa. Eppure, proprio quando mal giudichiamo la natura del compito che ci stiamo assumendo sottovalutandone i rischi, poi succede che il precipitare stesso degli eventi ci forzi a tirar fuori soluzioni creative.

Non a caso la vita di Hirschman, economista eretico, si svolge all’insegna del mettersi in gioco. “Gli ostacoli portano alla frustrazione, la frustrazione all’ansia, e nessuno vuole essere ansioso. Eppure, l’ansia è il fattore di motivazione più potente, l’emozione che guida alla ricerca di soluzioni”.

Il punto è che tra creatività e rischio c’è una connessione spesso sottovalutata. “La creatività fallisce, e la buona creatività fallisce spesso”. Ma non solo: creatività vuol dire trovare connessioni inaspettate e quindi sottoporre il cervello a un grande sforzo e a una immane fatica. E come si può rendere accattivante tutta quella fatica? Non lasciandogli alternative. Prendendosi qualche rischio in più e cercando stimoli nuovi, perché i rischi spingono la mente a pensare fuori dagli schemi.

FALSO MITO N.1: per CAMBIARE ABITUDINI non ci vogliono 21 GIORNI

Il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, o perché siamo mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in un’abitudine o per cambiarne una.

Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento, quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno rimuovere le cattive abitudini. Anche se non sono pochi coloro che ancora tentano di vendere soluzioni facili propinando tecniche di vario tipo.

Chi dispensa tali consigli, semplicemente non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

   •   un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

   •   un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

   •   una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere.

Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

“Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?“

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington: “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare.

Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia.

In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso.

Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione.

E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante dimostrare che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza.

Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento. Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

PERCHE’ il mio CAPO è INCOMPETENTE? La risposta è nel Principio di Peter

Perché il mio capo è un incompetente? Perché le cose in questa azienda non funzionano come dovrebbero?

Chi non si è fatto queste domande, senza poi trovare una risposta soddisfacente, almeno una volta nella vita?

A porsi gli stessi quesiti, nel 1969, è stato il sociologo canadese Laurence Peter.

Ancora oggi, cinquant’anni più tardi, le sue osservazioni meritano una attenta lettura, non solo da chi si occupa di comportamenti organizzativi, ma da tutti coloro che vogliono capire meglio i problemi che affliggono i luoghi di lavoro e da chi, in generale, è interessato ad approfondire il tema della stupidità umana.

Come con gli studi di Parkinson, anche quelli di Peter sono utili e piacevoli da leggere e non mancano di ironia.

IN COSA CONSISTE

La tesi di fondo del Principio di Peter afferma che in una organizzazione meritocratica ognuno viene promosso fino al suo livello di incompetenza. In altri termini “ogni membro di un’organizzazione scala la gerarchia fino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza”.

Quasi a dire che se una persona sa fare bene una certa cosa la si sposta a farne un’altra. Il processo continua fino a quando si arriva al livello di ciò che non sa fare e lì rimane.

La tesi si basa sull’assunto che le abilità di una persona a svolgere le mansioni assegnatole la porterà al conseguimento di un avanzamento di livello fino a quando giungerà a un livello tale che non potrà fare altro che manifestare la propria incompetenza.

Una persona, che non è stupida, quando ha un compito che è capace di svolgere, viene spostata in un contesto in cui diventa stupida in rapporto ai risultati delle sue azioni. Così facendo nell’organizzazione aumenta di continuo il livello di incompetenza. E le persone competenti si trovano via via alle dipendenze di incompetenti che le ostacolano nello svolgimento del lavoro.

Sebbene il Principio di Peter possa sembrare paradossale, l’autore intendeva puntare i riflettori su una serie di problemi che affliggono le aziende. Nulla assicura che le abilità sviluppate nella precedente mansione siano sufficienti a garantire un efficace svolgimento dei nuovi task assegnati.

Promuovere i dipendenti in virtù dei buoni risultati raggiunti è un grave errore se non si valutano bene competenze, abilità ed esperienze necessarie per ricoprire adeguatamente il nuovo incarico.

Non necessariamente un valido assistente sarà un buon professore, un assessore un buon presidente della Regione e così via. Questo si verifica poiché buoni gregari non diventano di default buoni leader, in quanto l’esser bravo a eseguire non necessariamente coincide con l’essere bravo a guidare.

Quello di Peter non è un principio da ignorare, complesso da mitigare e prevenire poiché le persone al vertice (delle organizzazioni) non amano sentirsi dire che hanno promosso i loro dipendenti in modo sbagliato o, che sono proprio loro ad aver raggiunto il fatale livello di incompetenza.

Al principio di Peter si aggiungono una serie di varianti:

–       Dilbert Principle di Scott Adams: «I più inefficienti sono sistematicamente promossi alla posizione in cui fanno meno danno: il management».

–       Natreb Principle«Le persone gravitano verso le professioni dove più si manifesta la loro incompetenza» ovvero «Ogni professione attrae le persone meno adatte».

NON È PASSATO DI MODA

Sebbene gli studi di Peter siano lontani nel tempo, i risultati a cui è arrivato non sono né obsoleti né superati, come hanno dimostrato Benson dell’Università del Minnesota, Li del MIT e Shue di Yale, analizzando le prestazioni di 53.035 addetti alle vendite in 214 aziende americane dal 2005 al 2011. In quel periodo, 1.531 di questi addetti sono stati promossi a responsabili delle vendite. I dati hanno mostrato che i migliori venditori avevano maggiori probabilità di:

a) essere promossi

b) avere scarsi risultati come manager

Il Principio di Peter è reale.

Il lavoratore più produttivo non è sempre il miglior candidato per ricoprire il ruolo di manager, eppure è più probabile che le aziende promuovano i migliori addetti alle vendite in posizioni manageriali. Di conseguenza, le prestazioni dei subordinati di un nuovo manager diminuiscono maggiormente dopo che la posizione manageriale è stata occupata da qualcuno che era un forte venditore prima della promozione[1].

Un’azienda che fa troppo affidamento sulle vendite come criterio di promozione paga due volte l’errore. La rimozione di un performante addetto alle vendite sconvolge potenzialmente i rapporti con i clienti, mette a rischio le entrate e la squadra sotto la sua direzione ha un rischio maggiore di conseguire prestazioni inferiori. “Tali risultati sottolineano la possibilità che la promozione basata sui soli indicatori di vendita anzichè sulle competenze manageriali possa essere estremamente costosa“.

La severità dei risultati ha colto di sorpresa i tre ricercatori: “Ci aspettavamo che i migliori venditori sarebbero diventati dei buoni manager, ma constatare che i migliori venditori stavano diventando i peggiori responsabili delle vendite è stato sorprendente[2].

Difficile dire con quale frequenza le aziende inciampano nel Principio di Peter e non si può generalizzare, ma è palese che spesso le organizzazioni sono disposte ad abbassare gli standard per premiare i migliori venditori ma non sempre le loro capacità manageriali sono nei loro numeri di vendita.

PSEUDO SOLUZIONI

Fra le soluzioni più creative, per mitigare il principio di Peter, c’è il promoveatur ut amoveatur: le persone incompetenti ai vertici dell’impresa vengono collocate in ruoli di sola apparenza, così che i compiti operativi possano essere svolti da persone competenti che non sono ancora state promosse al di sopra delle loro capacità. Anche se questo non spiega la promozione a livelli più alti di chi era già incompetente nel ruolo in cui si trovava.

Insomma, il Principio di Peter continua a fare danni, in modo tanto più grave quanto più si mescola con altre disfunzioni.

COME PREVENIRE IL PRINCIPIO DI PETER

Retrocessione

Fra le soluzioni proposte da Peter c’è la retrocessione. Supponiamo che una persona sia stata promossa a un ruolo che non è abbastanza qualificata per ricoprire, in tal caso, la si può riportare nella sua posizione iniziale senza stigmatizzazione ovviamente. Tuttavia, colui che ha preso la decisione sbagliata proponendo una promozione, deve ammettere di aver commesso un errore.

Paga più alta, nessuna promozione

Un’altra soluzione consiste nell’offrire al lavoratore una retribuzione più elevata senza necessariamente promuoverlo. La maggior parte delle persone è entusiasta all’idea di una promozione non tanto per il potere o il prestigio, ma per i benefici salariali collegati. Per prevenire il verificarsi del principio di Peter, si potrebbero aumentare gli stipendi dei collaboratori migliori per l’eccellente lavoro svolto nei rispettivi ruoli. In tal modo, la persona può guadagnare abbastanza denaro mentre è ancora in una posizione in cui è competente.

Arabesco laterale

Peter consiglia ai manager di sbarazzarsi dei dipendenti incompetenti senza licenziarli. In altre parole, si può riassegnare il lavoratore incompetente a un’altra posizione, che ha un titolo più lungo/pomposo ma meno responsabilità. Tale pratica è stata definita arabesco laterale: il lavoratore promosso non saprà di essere stato privato del ruolo a cui era stato promosso.

Collaboratori attenti

Il modo più efficace per evitare il principio di Peter è avere persone attente. Ciò significa lavorare con team che conoscono la portata delle loro capacità e competenze. Anche se l’offerta di ricevere una promozione è allettante, la risorsa dovrebbe prima considerare tutti i compiti aggiuntivi che derivano dal nuovo ruolo. Se non si sentisse in grado di gestire i nuovi compiti, dovrebbe semplicemente rifiutare l’offerta.

 Supera in astuzia il datore di lavoro

Se un dipendente è ben consapevole dei propri limiti, farà tutto il possibile per evitare la promozione per una posizione in cui sarebbe incompetente. Peter ha descritto tale modalità come incompetenza creativa: ossia la persona cercherà di far capire ai superiori che non è la persona giusta per quella posizione.

Peter, con le sue provocazioni vuole semplicemente ricordarci che non tutti sono adatti a ricoprire posizioni apicali, a prescindere da quanto siano abili e bravi nell’operatività. Che ci piaccia o meno, elevare qualcuno incompetente significa condannare l’intera azienda al fallimento o quanto meno a danni economici e di reputazione seri.

Fonti

[1] Lazear E.P., The Peter Principle: A Theory of Decline (April 2003) https://ssrn.com/abstract=403880

[2] Benson A., Li D., Shue K., 2019. “Promotions and the Peter Principle*,” The Quarterly Journal of Economics, 134(4): 2085-2134

LEGGE di PARKINSON ed EFFICIENZA e perché un’attività di 2 minuti può richiedere un giorno intero

Apple è stata costretta a rimandare il  lancio dell’HomePod  poichè aveva bisogno di più tempo per perfezionarlo.

Windows ha ritardato l’installazione di una funzionalità per Windows 10 per poi eliminarla del tutto.

La costruzione della Sydney Opera House, che avrebbe dovuto richiedere quattro anni, alla fine ne ha necessitati 14.

L’autostrada Asti-Cuneo, i cui lavori sono iniziati nel 1998 al momento non sono ancora terminati, per fare un esempio più vicino a me/noi e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Perché, talvolta, il tempo si dilata così tanto? Perché quando un progetto la cui scadenza è lontana, tendiamo a procrastinarlo o a complicarlo?  La spiegazione è nella legge di Parkinson, secondo cui:

Il lavoro si espande in modo da riempire il tempo a disposizione per il suo completamento.

Questo significa che se si ha a disposizione una settimana per portare a termine un’attività, questa richiederà una sola settimana per essere completata. Ma se per la stessa attività si hanno a disposizione due mesi, si potrebbero impiegare sessanta giorni per portarla a termine.

La pressione della scadenza spinge a completare un compito nel tempo dato. Se non ci sono tempistiche definite che vincolano lo svolgimento di un progetto, quel lavoro potrebbe richiedere un tempo molto più lungo.

Quindi, più tempo ti dai per finire un lavoro, più quel lavoro richiederà tempo per essere finito. Allo stesso tempo se aspetti fino all’ultimo minuto per fare qualcosa, probabilmente è perché ci vuole solo un minuto per farla questa cosa.

LE ORIGINI

Il termine è stato coniato da Cyril Northcote Parkinson, storico navale britannico, in un saggio per The Economist nel 1955. Narra la storia di una donna il cui unico compito, in un giorno, è inviare una cartolina. Attività che richiederebbe non più di cinque minuti. Ma la donna passa un’ora a selezionare la cartolina, un’altra mezz’ora a cercare gli occhiali, 90 minuti a scriverla, 20 minuti a decidere se portare o meno l’ombrello nel tragitto verso la cassetta della posta… e così via fino a quando la giornata giunge al termine.

Calata in contesto aziendale: con il team hai due settimane per completare una relazione che richiede appena un paio d’ore di lavoro. Sapendo di avere così tanto tempo a disposizione, la portata del progetto aumenta. Mentre ultimate la bozza, decidete di modificare alcune parti di quanto già scritto, l’ordine di alcuni paragrafi e così vita. Anche se alla fine queste modifiche possono rivelarsi utili, ti hanno allontanato dall’obiettivo e un’attività di qualche ora appena si è trasformata in un’attività di due settimane. Ecco la legge di Parkinson in azione.

Cyril, osservando la burocrazia governativa dell’epoca, aveva notato che più gli apparati burocratici si espandono, più tendono a diventare inefficienti. Applicando tale osservazione a un’ampia varietà di contesti, realizzò che quando le dimensioni di qualcosa aumentano, la sua efficienza diminuisce.

Scoprì inoltre come anche compiti molto semplici possono acquistare complessità nel caso il tempo a disposizione per il loro svolgimento viene prolungato. Quindi concluse che quando il tempo assegnato a un compito si riduce, quel compito diventa più semplice e più facile da risolvere.

SE CI SI METTE ANCHE LA PROCRASTINAZIONE

Ad alimentare la legge di Parkinson ci si mette anche la procrastinazione.

Sapere di avere molto più tempo di quello che è necessario per completare un’attività, spinge a procrastinare, ad aspettare l’ultimo minuto per farla ed è così che il tempo si espande inesorabilmente.

Come mai? Un’ipotesi è che le scadenze incombenti siano motivanti. La legge Yerkes-Dodson spiega che esiste un livello ottimale di eccitazione che migliora le prestazioni. Quindi, il termine di consegna che si avvicina rapidamente dà una spinta a concentrarci e fare bene.

COM SFRUTTARE la LEGGE di Parkinson in modo vantaggioso

Crea urgenza

La creazione di un falso senso di urgenza aiuta a combattere le distrazioni. Ad esempio, potresti lavorare al tuo portatile, senza alimentatore, e impegnarti a finire tutto quello che devi fare in un determinato lasso di tempo prima che la batteria si scarichi.

Pianifica la giornata in modo creativo

Aggiungi pressione al punto 1, programmando la tua giornata in modo da creare naturalmente una certa pressione temporale. Dai un limite temporale a compiti come rispondere alle email, riducendolo, per esempio, a un’ora al giorno. Invece di agonizzante su ogni singola email man mano che arriva, stabilisci 30 minuti a inizio e fine giornata tutti dedicati alla risposta delle email ricevute. Scoprirai così che i compiti più piccoli richiedono molto meno tempo.

Imposta la cronologia

A un costruttore solitamente non dici: “Voglio una casa con le caratteristiche x, y e la voglio entro questa data“. Con il costruttore ti concentri invece su aspettative, materiali, capitolato e tenendo conto di una serie di informazioni negoziate le tempistiche di avanzamento lavori e una data approssimativa di completamento.

Questo serve a rendere il progetto gestibile e infonde un maggiore senso di urgenza: anche se la data di fine dell’intero progetto (la casa) non è immediata, la scadenza di un primo step, lo è sicuramente. Inoltre, questo consente di toccare con mano i passi avanti fatti ed è altamente motivante (principio di avanzamento ).

Mentre delinei la sequenza temporale, identifica le diverse scadenze. Meglio se anziché in anni, mesi o settimane, imposti scadenze in giorni, laddove possibile. Uno studio ha dimostrato che è un piccolo cambiamento mentale che può amplificare in modo non trascurabile il fattore di urgenza.

Crea dei forti incentivi per finire presto i compiti

Bilancia la tua maggiore produttività con una maggiore disponibilità di tempo libero, così potrai fare anche quelle attività che ti appassionano e ti divertono per rilassarti e ricaricarti.

Identifica i tuoi compromessi

Nonostante le migliori intenzioni, gli imprevisti accadono. Ecco perché è importante aver chiari quali sono i tuoi compromessi, laddove sia utile allargare lo spazio di manovra e dove non lo è.

Se in una data stabilita devi presentare un nuovo prodotto (un’applicazione, per esempio), la tempistica sarà la metrica più importante e quindi non è negoziabile. Ciò che invece è negoziabile e ragione di compromesso, potrebbero essere alcune funzioni, o altri aspetti che in quel momento non pregiudicano il valore del prodotto.

Non è facile delineare i compromessi, soprattutto a inizio progetto, ma è utile per quando i momenti critici, in cui è necessario prendere decisioni, si presenteranno.

È l’esatto opposto della legge di Parkinson: piuttosto che lavorare in espansione per adattarsi al tempo assegnato, potresti dover ridurre il lavoro o altre aspettative per adattarti alla finestra temporale.

Non lavorare fino a tardi

Sei abituato a lavorare fino a tardi tutti giorni o quasi? Sei convinto che così facendo mostrerai la tua dedizione, o semplicemente vuoi portare a termine più incarichi e l’unico modo che conosci e non staccare mai?

Lavorare di più non significa necessariamente fare di più, ma di certo significa che sei stato sotto stress più a lungo del necessario. Il pensiero divergente effettivamente funziona. Creare restrizioni artificiali sul lavoro portano ad avere più libertà.

A questo punto, se ti guardi indietro, riesci a identificare qualche esempio in cui sei stato vittima della legge di Parkinson?

QUESTA VOLTA è DIVERSO… Le 4 parole più costose di sempre

Questa volta è diverso. Lo avrete sentito dire spesso, immagino.

Quattro parole che possono rivelarsi le più costose di sempre. In realtà, non sono le parole a costare, quanto le conclusioni che questa frase ci spinge a trarre.

Pensiamo, sbagliando, che le differenze valgano più delle somiglianze. In fondo, tutti sono capaci di vedere le similitudini ma, per trovare le differenze, ci vuole intuizione, tempo, capacità di osservazione, spirito critico. Dimenticando, mentre ricerchiamo le differenze, di prestare attenzione a ciò che è uguale.

Come a quella riunione, in cui i partecipanti stanno per cadere nello stesso errore commesso l’anno precedente, e quello prima, in merito alla medesima decisione. E alla medesima persona.

“C’è quella manager che fa casino con i clienti, alcuni almeno, quando c’è da aggiornarli sulle tempistiche nella fornitura dei prodotti dell’azienda”.

È una brava persona, gentile con tutti quella manager. Non perde un compleanno, fa a ogni collega un regalo a Natale, e spesso delizia l’ufficio con torte e brioche a colazione. Ma

“…gli ultimi due anni, da quando ricopre quel ruolo, sono stati problematici”.

Potrebbe essere l’amico poco affidabile, la colf che nasconde la polvere sotto il tappeto, il datore di lavoro insofferente, il responsabile indeciso, il vicino di casa che ruba le riviste dalla nostra buca delle lettere… e nonostante tutto continui a ripeterti questa volta sarà diverso.

Così vai in riunione per esprimere il tuo disappunto e trovare una soluzione (una diversa collocazione per la manager, per esempio), quando un collega ti anticipa:

so che ha fatto alcuni errori, ma questa volta sarà diverso. Ne abbiamo parlato e mi sono assicurato che abbia compreso l’importanza dell’incarico”.

La riunione giunge al termine, tutti sono certi che questa volta sarà davvero diverso e non c’è prova, dubbio o soluzione che puoi addurre per convincerli del contrario: la manager rimane dov’è a fare quello che fa. Fine della storia.

Questo perché, quell’incarico, non interessa granchè a nessuno. I clienti sono difficili da gestire, ancor più quando ci sono variazioni o ritardi da comunicare e poi quella manager è davvero una brava persona…

Tutti vogliamo credere che questa volta sarà davvero diverso e poi preferiamo crogiolarci fra le prove a sostegno del nostro punto di vista (bias di conferma), sostenuti da una buona dose di ottimismo e overconfidence, che mettere tutto in discussione… O no?

LA STORIA è PIENA DI QUESTA VOLTA è DIVERSO

La storia, se ci pensiamo bene, è piena di questa volta è diverso, dove diverso alla fine, non è stato e ha incoraggiato a trarre conclusioni che si sono poi rivelate estremamente costose.

Siamo stati così presi da ciò che era diverso che ci siamo dimenticati di vedere cosa fosse lo stesso.

Non è un caso se gli economisti affermano che questa volta è diverso è probabilmente uno dei pregiudizi più pericolosi in finanza.

La convinzione che le crisi finanziarie siano cose che accadono ad altre persone… [e non] a noi, qui e adesso“. 

La storia suggerisce che non possiamo fare a meno di ricreare le stesse vulnerabilità che hanno innescato le crisi passate. Da quelle dei mutui, quando il rischio era considerato minimo perché “i prezzi delle case avrebbero continuano a salire per sempre” o la bolla delle Dotcom, insegnano.

Un tempo c’erano oltre 70 diverse aziende automobilistiche negli Stati Uniti. Solo 3 di loro sono sopravvissute…

Anche se questa volta può davvero sembrare diverso, solo uno sguardo più attento e un’analisi approfondita possono dirci se lo è effettivamente.

Il consiglio, se ti va di seguirlo, è molto semplice: se una situazione ti sembra diversa questa volta, chiediti cosa potrebbe accadere se questa volta non fosse diversa dalla precedente. Carta e penna alla mano, potresti vedere cose che non avevi considerato.

Talvolta, abbiamo bisogno di credere che sarà diverso, perché è più facile e meno faticoso rimanere nello status quo che cambiare approccio. Mettersi in discussione non è una passeggiata. Ma cambiare solo perché il costo economico e psicologico è diventato troppo alto per andare avanti allo stesso modo all’infinito, non è razionale. Non è nemmeno utile. Meglio tardi che mai… ma quando diventa tardi?

PERCHE’​ PREOCCUPARSI DI UNA CULTURA DEL LAVORO TOSSICA…

Ci sono elementi che se trascurati o non considerati possono fare molto male a un’azienda e alle persone che in quell’azienda lavorano. Indipendentemente che si tratti di una multinazionale o una piccola – media realtà.

Non a caso, tali elementi vengono definiti tossici.

Una cultura del lavoro tossica è il motivo principale per cui le persone lasciano l’azienda, ed è 10 volte più importante della retribuzione, secondo una ricerca pubblicata su MIT Sloan Management Review.

CHE ASPETTO HA UN LUOGO DI LAVORO TOSSICO?

I ricercatori hanno analizzato 1,4 milioni di recensioni su Glassdoor provenienti da 600 importanti aziende statunitensi, scoprendo che i dipendenti descrivono i luoghi di lavoro tossici in cinque modi: non inclusivi, abusivi, irrispettosi, non etici e spietati.

Ciò che è emerso è che questi elementi non sono semplici malcontenti, ma il motivo per cui le persone abbandonano un certo tipo di azienda. Con tutti i costi, in termini di salute per chi ci lavora ed economici per l’organizzazione, stimati intorno ai 44 miliardi di dollari all’anno, secondo la Society of Human Resources Management.

Dipendenti scontenti e demotivati significano minore produttività, senza contare che sostituire una risorsa può costare fino al doppio dello stipendio annuo del dipendente, secondo Gallup.

Ecco perché creare una cultura sana e inclusiva è una necessità irrinunciabile per rimanere competitivi ed attrattivi.

TOXIC FIVE

AMBIENTE DI LAVORO NON INCLUSIVO e ABUSIVO

L’opposto di una cultura inclusiva è la cultura di cricca: un ambiente in cui le persone non si sentono a proprio agio nell’essere se stesse. Dove battute e commenti inappropriati su razza, religione, peso, età, origine, genere, non solo sono tollerati ma addirittura ben visti.

Dove chi non opera con la stessa mentalità dei membri della cricca viene escluso, fatto sentire invisibile e preso di mira. Le cricche minano il team e impediscono connessione, unità e collaborazione.

L’esclusione da una cerchia ristretta invisibile è una forma comune di tossicità nei gruppi. È possibile che un membro del team venga intenzionalmente escluso da e-mail, progetti o riunioni o non venga chiesta la sua opinione. Può essere ovvio o molto sottile, ma può anche essere una forma di capro espiatorio: sacrificare il benessere di una persona per placare l’ego degli altri. Questa esclusione può essere psicologicamente dannosa per le persone.

Non a caso, i comportamenti ostili più frequentemente menzionati sono il bullismo, le urla contro i dipendenti, lo sminuire o umiliare i subordinati, abusare verbalmente dei collaboratori.

Un altro tipo di cricca è la brother culture, in cui i dipendenti maschi bianchi sono considerati superiori. In quanto tali, agli uomini e alle donne non bianche viene impedito di essere coinvolti nel processo decisionale. Ciò porta le donne a lottare per sentirsi apprezzate e accettate, a dover sopportare commenti svalutanti, sessisti e misogini, comportamenti discriminatori e inappropriati, disparità di retribuzione e ostracismo.

AMBIENTE SPIETATO

La collaborazione è un aspetto molto importante per le persone.

Il turnover più elevato è laddove i dipendenti descrivono il loro ambiente di lavoro come “darwiniano”, “cane non mangia cane”, i colleghi “si pugnalano alle spalle”, “si gettano a vicenda sotto il treno”. Non credo serva aggiungere altro…

Sugli ambienti non etici e irrispettosi si è già detto molto.

I COSTI DI UNA CULTURA TOSSICA

Un ampio corpus di ricerche mostra che lavorare in un ambiente tossico è associato a livelli elevati di stress, burnout e problemi di salute mentale e fisica. Quando i dipendenti subiscono ingiustizie sul posto di lavoro, le loro probabilità di soffrire di una grave malattia (tra cui patologie coronariche, asma, diabete e artrite) aumentano dal 35% al 55%.

Una cultura tossica impone anche costi che confluiscono direttamente nei profitti dell’organizzazione.

Secondo uno studio della Society of Human Resource Management, 1 dipendente su 5 ha lasciato il lavoro a causa della cultura tossica. Ecco perché la cultura tossica è considerato il miglior predittore di logoramento di un’azienda e ciò che induce a dimettersi.

Gallup stima che il costo della sostituzione di un dipendente che si licenzia può ammontare fino a due volte il suo stipendio annuale quando vengono contabilizzate tutte le spese dirette e indirette.

Le aziende con una cultura tossica non solo perdono dipendenti, ma lottano anche per sostituire i lavoratori che se ne vanno poiché perdono in attrattività. Tre quarti delle persone in cerca di lavoro prima di fare domanda analizza la cultura dell’azienda.  Nell’era delle recensioni online, le aziende non possono mantenere a lungo segreti i propri problemi culturali e una cultura tossica.

A questo, si aggiunga che i dipendenti scontenti sono il 20% meno produttivi. La metà di coloro che si è sentito mancato di rispetto ha ammesso di aver ridotto lo sforzo e il tempo trascorso al lavoro.

Poi c’è il rischio reputazionale. Tra i CEO e CFO intervistati, l’85% concorda sul fatto che una cultura aziendale malsana potrebbe portare a comportamenti non etici o illegali, come il caso Wells Fargo dimostra: la banca ha pagato miliardi di dollari in multe e azioni legali e ha visto la sua reputazione aziendale subire il più grande calo in un solo anno nella storia di Harris Poll.

PERCHE’ I LEADER SI DEVONO PREOCCUPARE DELLA CULTURA TOSSICA

Potresti pensare che la cultura tossica sia un problema che non ti riguardi, limitato a una manciata di aziende di alto profilo come Wells Fargo o The Weinstein Company.

Sfortunatamente, la tossicità culturale è diffusa. In media, il 10% dei dipendenti ha menzionato uno o più elementi di una cultura tossica nelle sue recensioni su Glassdoor.

Anche nelle aziende con le valutazioni Glassdoor più alte, centinaia o migliaia di dipendenti potrebbero percepire la cultura come tossica. Le donne, le minoranze sottorappresentate o i dipendenti più anziani, ad esempio, potrebbero avere una visione meno rosea della cultura rispetto ad altri colleghi.

Nella maggior parte delle organizzazioni, microculture coesistono all’interno della stessa azienda, spesso attraverso unità aziendali, funzioni o aree geografiche.

I leader creano loro stessi sottoculture all’interno del loro team. Qualunque sia la loro origine, le microculture possono discostarsi dalla più ampia cultura aziendale, il che significa che anche le migliori culture possono contenere sacche di tossicità culturale.

In un prossimo articolo, tratterò degli step concreti che si possono intraprendere per creare una cultura aziendale sana. Il primo passo, tuttavia, è riconoscere che esistono sacche di tossicità anche nelle culture aziendali considerate sane. Occorre cercare in profondità e valutare la cultura a livello di singoli team, solo così si previene la possibilità che micro culture tossiche possano infettare anche i gruppi e gli elementi più virtuosi.

Sono INTROVERSO e all’OCCORRENZA ESTROVERSO. Come contesto e obiettivi spingono fuori dalla zona di comfort

Ci sono due uomini:

  • il primo è un professore che ha l’abitudine di cantare, volteggiare sul palco, ed enfatizzare consonanti e vocali. 
  • il secondo vive con la moglie in una casa isolata in oltre due acri di boschi canadesi, dove occasionalmente riceve le visite di figli e nipoti, ma per il resto del tempo frequenta nessuno.

Due personalità distinte e riconoscibili. Peccato però che la prima persona vaudevilliana e la seconda solitaria, siano lo stesso uomo, l’ex professore di psicologia ad Harvard, Brian Little, a cui si deve la Free Trait theory. La teoria secondo cui ogni persona è incline ad attare la propria personalità in base al contesto e a ciò che vuole raggiungere.

LA TEORIA DEI TRATTI LIBERI

Little è il padre della teoria dei tratti liberi o Free Trait Theory in inglese. Secondo questa teoria gli individui esibiscono, allo stesso tempo, tratti caratteriali fissi e tratti liberi. Per la Free Trait Theory, siamo nati e culturalmente dotati di certi tratti di personalità – l’introversione, per esempio, ma possiamo agire diversamente per realizzare progetti personali fondamentali.

Per questo motivo un introverso può essere un appassionato conferenziere, e questo è un esempio di come gli introversi possono dire la loro in un mondo che dà tanta (troppa?) importanza agli estroversi. Little ritiene che ci siano molti individui pseudo-estroversi: persone pronte ad adattare la loro personalità nell’interesse di un progetto personale molto importante come, ad esempio, un lavoro che amano.

OBIETTIVO: SVILUPPO DI CARRIERA

Non è così semplice fingere di essere diversi da come si è anche quando si è molto ambiziosi.

Little crede infatti che abbiamo tratti caratteriali fissi che rimangono costanti per tutta la vita e ci influenzano profondamente. Quindi, come possono molti introversi agire fuori dal loro carattere? Secondo la teoria di Little, i progetti personali fondamentali, ovvero quegli obiettivi che contano davvero per noi, possono spingerci a comportamenti lontani dal nostro stesso modo di essere.

Per esempio, un introverso potrebbe essere un insegnante appassionato pur di condividere il suo entusiasmo per la sua materia. Attenzione però: non riuscirai ad agire fuori dal tuo tratto per portare avanti un progetto che non ti interessa abbastanza o a veramente. Tuttavia, gli introversi possono avere difficoltà a identificare i loro progetti personali fondamentali perché sono abituati a ignorare le proprie preferenze perchè il sentirsi a disagio in molte situazioni è un freno non da poco.

COME RICONOSCERE UN PROGETTO PERSONALE

1. Identifica i tuoi progetti personali principali

– Ripensa a quando da bambino, ti chiedevano cosa avresti voluto fare da grande. Qual era l’impulso dietro la tua risposta? Se volevi fare il medico, per esempio, cosa significava per te? Aiutare le persone che soffrivano?

– Quale lavoro hai poi scelto di fare? Quali caratteristiche di quel lavoro alimentano la tua passione?

– Cosa invidi? Sebbene la gelosia sia un’emozione che tendiamo a nascondere, indica spesso la verità su chi invidi e su ciò che ha e tu non hai.

Capire cosa ti motiva può aiutarti a determinare i tuoi interessi principali per i quali saresti e sei disposto a superare i limiti del tuo carattere.

 

2. Identifica la tua nicchia riparatrice

Una nicchia riparatrice è un posto importante e necessario in cui andare quando vuoi tornare al tuo vero io. Può essere fisico, come un bosco dove fare una passeggiata in tranquillità o semplicemente una poltrona in ufficio dove recuperare energia fra una riunione e l’altra.

La nicchia riparatrice è utile, ad esempio, quando si deve scegliere un nuovo lavoro.

Per gli introversi: chiediti se avrai la possibilità di dedicarti ad attività solitarie nell’arco della giornata lavorativa. L’area di lavoro è un open space o avrai il tuo ufficio?

Per gli estroversi: il lavoro implica l’interazione sociale, l’incontro con nuove persone e i viaggi? Il nuovo lavoro e il team saranno abbastanza stimolanti?

 

3. Utilizza gli accordi sui tratti gratuiti

Trovare nicchie riparative non è facile, ed è qui che arriva l’ultimo pezzo della teoria: gli accordi che dovrai fare con te stesso.

Gli accordi richiedono che tu sia consapevole che “agirai in modo diverso per una parte del tempo, in cambio dell’essere te stesso per la maggior parte del resto del tempo”. 

Ad esempio, una moglie estroversa e un marito introverso potrebbero concordare sul fatto che metà delle volte usciranno e l’altra metà rimarranno a casa. Oppure che l’uomo parteciperà alla festa di addio al celibato di un amico ma non al matrimonio.

Gli accordi sono più facili da definire nella vita personale, ma anche nella vita lavorativa vanno delineati e seguiti.

La persona più importante con cui avere un accordo sei tu. Più sei consapevole e hai chiari gli spazi di manovra e i confini, più ti sarà facile gestire contesti che poco ti appartengono.

In questo modo non ti sentirai in colpa o prigioniero di scelte che non sono dipese da te. L’agire prolungato in un modo che non fa parte di come sei, può avere effetti collaterali importanti quali stress, malattie cardiovascolari e aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo, che possono compromettere il funzionamento immunitario.

UN AVVERTIMENTO

I consigli mediati da Little non hanno lo scopo di cambiare il nostro carattere. Per quanto un estroverso si impegni non potrà mai diventare un introverso e viceversa.

L’esposizione prolungata in un tratto che non è il nostro, richiede un prezzo da pagare, ancor più se non si ha una nicchia riparatrice dove assecondare la propria prima natura.

Ciò che questa teoria insegna è che usciamo dalla nostra zona di comfort molto più di quello che pensiamo e ciò che ci spinge a farlo sono contesto e obiettivi. E’ una sorta di compromesso, non sempre facile da accettare, ma spesso necessario per ciò che per noi è importante. E spesso è così naturale che nemmeno ce ne rendiamo conto.

Stasera, a giornata conclusa, prova a pensare alle cose che ti hanno portato fuori dal tuo tratto naturale. Quanto ti è costato farlo e dove hai trovato la tua nicchia riparatrice, la tua zona di recupero. Potresti scoprire che “veleggi” fuori dalla tua zona di comfort molto più di quello che credevi.

Spesso professionisti e non, di tutti i tipi, cercano di venderci a peso d’oro percorsi, sessioni e corsi su come uscire dalla zona di comfort, sei ancora sicuro di averne bisogno?