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SAPPIAMO LEGGERE SOLO i LIBRI di CALCIATORI e CHEF…

Ho sempre cercato di scrivere cose che avessero un significato, capaci di regalare esperienze, anche quando forse avrei fatto meglio a non scrivere affatto.

Ogni tanto penso di aver scritto cose importanti. Altre molto meno. Eppure, sento di dover continuare, per nutrire quella famelica necessità così ben radicata in me, che detta le regole del gioco, il gioco dell’esprimere chi sono, attraverso la scrittura.

La scrittura mi fa credere di poter persuadere il mondo. Decidere le parole, la punteggiatura, la trama narrativa, l’intreccio, i protagonisti, mi ha fatto credere di esser a mia volta protagonista di qualcosa.

La scrittura, dicevo, è fondamentale per un essere scrivente. Vitale. Anacronistica, a volte: se si scrive, non si vive. Almeno parafrasando Pavese.

L’ITALIA CHE NON LEGGE

Oggi l’Italia è un paese saturo di scrittori e non di lettori: 6 italiani su 10 non legge nemmeno un libro l’anno. Tanti scrittori per pochi lettori.

Se l’editoria sta annegando inesorabilmente in una crisi senza fine, la contrazione delle vendite non avviene quando, ad essere pubblicati e letti, sono i libri di calciatori e chef (famosi).

IMPOVERIMENTO CULTURALE DELLE MASSE

Un perverso amore verso un’icona, un simbolo, rimane. Sintomo di un vuoto oceanico, fra il mondo culturale e la quotidianità. Gap che con gli anni sta prendendo dimensioni atroci.

L’impoverimento culturale delle masse, autoindotto o manipolato ad arte, screpola la consapevolezza da parte di queste ultime, sottraendo loro l’aspetto ludico e arricchente che può derivare da una ecologica vita culturale. E questo, conduce i singoli a cercare ciò che è stato loro negato in contesti inconsistenti e molto, troppo distanti dalla realtà, dove peraltro la dimensione sociale viene meno o quasi. Mentre l’emarginazione di chi ama la sophia, assume contorni kafkiani.

La cultura italiana resiste, fra baionette linguistiche, calamaio e carta per difendersi dagli assalti nemici, in attesa di un pubblico al momento solo impegnato a fare le file sbagliate.

Le PAROLE SCRITTE sulla PELLE

Un taglio. Un altro ancora. Non c’è via d’uscita da quel dolore accecante e inespresso se non una lametta che tormenta la carne.

E poi le maniche lunghe, i pantaloni anche d’estate, a nascondere il corpo martoriato e parole tracciate come stigmatiche sulla pelle: sesso, verginità, perversione…

Non parla molto, fuma e beve vodka nascosta in bottiglie d’acqua Camille, reporter di un giornale di Saint Louis, reduce dal ricovero in un ospedale psichiatrico per abuso di alcol.

Camille che quando nella sua città natale, vengono ritrovati dei cadaveri di bambine, decide di partire per trovare una storia da raccontare.

Tempeste emotive che evocano ricordi, e i tagli si sommano. Necessari.

Nella casa di famiglia, ritrova la sorellastra, incarcerata in uno stretto dualismo fra il tentare di essere adulta e il rimanere bambina; la madre, instabile marionetta emotiva e tutti quei fantasmi infantili che si materializzano, come tessere scombinate di un misterioso puzzle. Traumi irrisolti che annegano nel sangue.

Camille è la protagonista di Sharp Objects, la miniserie tv, tratta dal romanzo Sulla pelle” di Gillian Flynn. Una storia di femminicidio da cui è esclusa la presenza maschile. Una storia originale, quello della violenza delle donne sulle donne.

Un libro da leggere e una serie da guardare….

Il CERVELLO dei RAZZISTI…

Una giovane mamma siede sull’autobus con il bambino in braccio, accanto a un anziano. Arriva la sua fermata. Chiede all’uomo di alzarsi, perché non riesce a passare. Si rivolge al figlio, in serbo, spiegandogli che devono scendere. L’anziano capisce che sono stranieri, non si vuole spostare, urla: “Voi non sapete fare altro che bambini”.

“Non si è mai vista una negra che prende 10 a Diritto”. La ragazzina è tra i primi della classe e questa dote è evidentemente stata giudicata da qualcuno incompatibile con il colore della sua pelle. Di qui gli insulti, gravissimi e prolungati nel tempo e lettere anonime in cui si legge “non esiste che una negra possa diventare avvocato”.

Niente di insolito. Solo storie di ordinario razzismo quotidiano.

COSA ACCADE NEL CERVELLO DEI RAZZISTI

Cosa accade nel cervello di chi ha bisogno di togliere ogni residuo di umanità alle genti che vengono da lontano?

A scoprirlo il direttore del Peace and Conflict Neuroscience Lab dell’Università della Pennsylvania, Emile Bruneau, osservando con la Risonanza Magnetica Funzionale, quel che accade nel cervello degli intervistati a cui è stato chiesto come si sentissero di fronte a persone considerate diverse.

Agli intervistati, in modo piuttosto diretto, sono state poste due domande: una relativa al livello di disumanizzazione chiedendo di indicare  dove sistemerebbero le persone in questione in una sorta di scala evolutiva della civiltà; l’altra relativa al senso di gradimento/disgusto che quegli esseri umani generavano loro.

I risultati, pubblicati sul Journal of Experimental Psychology, mostrano che la disumanizzazione e la mancanza di gradimento coinvolgono regioni diverse del cervello. «Quando mi riferisco a un altro essere umano come a un animale o a un essere inferiore in generale si attivano aree cerebrali diverse da quando semplicemente affermo che qualcuno non mi piace – ha spiegato lo scienziato -.

La disumanizzazione, ossia lo svuotamento della vita umana da ogni spiritualità e senso morale e quindi da ogni dignità, è un processo che porta: aggressività, torture, il rifiuto ad aiutare le vittime di violenza e soprusi,  il sostegno a atti razzisti e incivili e a conflitti armati.

Capire che disgusto e disumanizzazione sono due sentimenti molto diversi, che prendono strade ben distinte nel nostro cervello, può aiutare a trovare delle soluzioni. Molti interventi per ridurre i conflitti tra gruppi, per esempio fra palestinesi e israeliani, musulmani e occidentali, bianchi e neri, si focalizzano sul tentativo di portare gli uni e gli altri a “piacersi” di più. È però molto difficile riuscirci, potrebbe essere, grazie a queste scoperte, più semplice portare le persone a riconoscersi come esseri umani, cosa per’altro che già è.

I BAMBINI SONO SONO RAZZISTI

Una breve nota di fondo: i bambini non percepiscono un altro essere umano come diverso solo a partire dalla sua appartenenza etnica, almeno fino all’età adolescenziale.

Gli adolescenti, infatti, così come gli adulti, registrano  un’attivazione dell’amigdala diversa in presenza di volti stranieri. Ciò significa che, almeno in una certa misura, si riconosce l’altro come diverso da sé. Ciò non significa essere razzisti, ma è un dato molto interessante rispetto alla comprensione del fenomeno.

Il nostro cervello, per fortuna, è programmato per non essere razzista con i bambini e questo dato, nonostante tutto, infonde un pochino di speranza.

ABBIAMO BISOGNO del FALLIMENTO… per FARE MEGLIO… (?)

Ci sono realtà che traggono vantaggio dagli scossoni, prosperano e crescono quando sono esposte al caso, al disordine, allo stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Se alcune cose sono fragili, e di fronte a un urto cedono, ce ne sono altre che sono solo robuste e reggono il colpo senza subire danni e poi ci sono le antifragili che migliorano in un contesto burrascoso e difficile.

Antifragile è questo il concetto elaborato, ormai qualche anno fa, da Nassim Taleb, immaginifico saggista, la cui filosofia ha perseguitato la mia attenzione fin dai primi libri  “Il cigno nero”, e “Giocati dal Caso”, al cui centro della riflessione: lo scarto esistente tra casualità, imprevedibilità, unicità di tanti fatti, e  la pretesa delle scienze sociali e dell’economia di ricondurre tutto a schemi, leggendo ogni cosa in termini di «regolarità»: nell’illusione che raccogliere dati del passato e «processarli» possa aiutare a predire il futuro.

Taleb ha un talento innato per i paradossi e uno humor affilato e intelligente. Per vent’anni ha fatto con successo il trader, per poi occuparsi di previsione e prevenzione dei rischi, ma è anche docente, saggista e scrittore.

TUTTO PUO’ ESSERE FRAGILE

… anche l’amore ossessivo. Nel romanzo di Buzzati “Un amore”, ricorda Taleb, lo scrittore si innamora di una ballerina della Scala. Quella fu una passione che crebbe nelle difficoltà e anche grazie ad esse: un mirabile esempio di antifragilità che, a quanto pare, ebbe pure il suo bel finale.

Anche chi sa trarre profitto dagli errori o perché li sfrutta (è il caso di una varietà di invenzioni a cui si è giunti per errore: penicillina, Viagra e nitroglicerina per fare qualche esempio), o perché li usa come occasioni di crescita e di apprendimento. Il segreto, secondo Taleb, è inventare un’impresa che non tema il fallimento, e che impari a fallire orgogliosamente, in fretta, tanto, su piccole cose, in ambiti in cui un solo grande successo possa sovra compensare tutti i piccoli fallimenti: il mantra che unisce la Silicon Valley e chiunque faccia ricerca.

IL MESSAGGIO

Il messaggio alla fine è semplice e corretto, ed è che abbiamo bisogno del fallimento (della sua possibilità, della sua minaccia) per essere indotti a dare il meglio di noi stessi. Dove si pretende di eliminare la fragilità con una falsa robustezza, l’intera società si espone al rischio di un collasso totale.

“Il vento può spegnere la candela e ravvivare il falò – scrive Taleb -. Lo stesso avviene con la casualità, l’incertezza e il caos: bisogna imparare a farne uso, anziché tenersene alla larga. Dobbiamo imparare a essere fuoco e a sperare che si alzi il vento.

A COSA serve ESSERE SAGGI in MANICOMIO e VIRTUOSI in un NIGHT?

“Può esistere un mondo di soli sapienti?”.

“Sarebbe ancora più ingovernabile di quello che già è: con un eccessivo numero di persone orgogliose della propria intelligenza, del proprio sapere e poco propense a collaborare”.

“L’ignoranza costringe a cooperare: ognuno è depositario di un sapere individuale e si affida agli altri per avere accesso ad altre conoscenze e sfruttarle”.

“Questo è anche ciò che distingue il selvaggio dall’uomo moderno: il primo sa usare gli attrezzi che gli tornano utili, il secondo quasi nulla senza però che questo sia un problema”

“Esatto, nessuno lamenterebbe l’ignoranza in campo medico di un architetto. Ognuno di noi non conosce qualcosa, ma può, se ha interesse, a porvi rimedio”.

“Purchè ci sia consapevolezza. Per colmare la propria ignoranza in un certo settore bisogna prima ammetterla: l’errore non deriva dalla difficoltà a trovare la corretta risposta ma dall’incapacità di porsi le giuste domande”.

“Infatti le campagne contro l’ignoranza non sembrano funzionare. Credo sia perché trascurano un dato: l’ignoranza non è il contrario della conoscenza ma ne è parte. Più si sa più ci si accorge di non sapere”.

“Più utile sarebbe educare ad arrendersi ai limiti del conoscibile e imparare il valore dell’incertezza, anche se oggi google ci regala l’impressione di poter accedere a qualsiasi contenuto”.

“Il sapiente ha però un sostanziale svantaggio: quello di non essere compreso, come sosteneva oltre un secolo fa il saggista William Hazlitt che aggiunse: la vera felicità della vita consiste nel non essere né migliore né peggiore della media di quelli che si incontrano. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra, trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che ti interessa di più”.

“La più alta forma della  saggezza umana pare però troppo spesso consistere nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato: chiudendo gli occhi e cancellando i dubbi per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero. Quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie”.

“A cosa serve dunque essere dotti e sapienti?”.

“A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?”.

 

LEGGERE per SAPERE… LEGGERE per AVERE

11 libri in tre settimane, poco meno di 5 mila pagine. Questo è il piacere che mi sono regalata nelle vacanze estive, decisamente controcorrente rispetto i dati Istat, secondo cui il 53% degli italiani non ha letto neppure un libro in 12 mesi e il 15% ne ha letti una dozzina.

Eppure, esempi alla mano, chi ha un lavoro appagante e una vita di successo è mediamente un avido lettore.

Steve Jobs aveva un’ossessione per i poeti inglesi, in particolare per William Blake.

Phil Knight, fondatore della Nike, venera a tal punto la sua libreria, che gli ospiti sono costretti a visitarla scalzi.

David Rubenstein, co-fondatore di The Carlyle Group, un private equity che gestisce oltre 150 miliardi di dollari, ha l’abitudine di leggere una dozzina di libri… a settimana!

Winston Churchill, primo ministro inglese durante la II guerra mondiale, vinse il premio Nobel per la letteratura.

Warren Buffett, il più grande investitore di tutti i tempi, legge 500 pagine ogni giorno. Inizia la giornata leggendo dozzine di quotidiani e dedica un’ampia parte della sua giornata al suo consumo vorace di libri.

Il miliardario Mark Cuban trascorre fino a 3 ore delle sue giornate a leggere libri

Bill Gates, si sa, legge 50 libri all’anno.

E quando è stato chiesto come avesse imparato a costruire razzi, Elon Musk ha risposto semplicemente: “Leggo libri”.

1.200 DELLE PERSONE PIU’ RICCHE AL MONDO LEGGONO TUTTE MOLTISSIMO. MA COSA LEGGONO?

Secondo Thomas Corley, autore di Rich habits: The daily success habits of wealthy individuals, le persone con un reddito annuo superiore ai 160.000 dollari e un patrimonio netto liquido superiore ai 3 milioni di dollari leggono testi che parlano di auto-miglioramento, istruzione e successo. Le persone con un reddito annuo non superiore ai 35.000 dollari e un patrimonio netto liquido di 5.000 dollari leggono principalmente per essere intrattenute.

Se non siete dei lettori voraci, non dove iniziare con Roth, Musil o Proust a colpi di 500 pagine al giorno. Sono sufficienti una ventina di pagine purchè siano una ventina tutti i giorni.

Se per caso pensaste di non riuscire a trovare il tempo, considerate che per leggere 200 libri in un anno ci vogliono 417 ore. A fare il calcolo lo scrittore Charles Chu, che per 2 anni ha provato a tenere la media di Buffet: “Sembrano tante, ma se consideriamo che ne usiamo 608 sui social media e 1642 davanti alla tv capiamo bene che quelle ore ce le abbiamo”.

DIRE STRONZATE è SOCIALMENTE più ACCETTATO del MENTIRE

Dire stronzate è socialmente più accettato del mentire. Perdonate il francesismo, ma ogni tanto chiamare le cose con il loro nome, senza nascondersi nel politically correct è doveroso. Soprattutto quando a farlo è la scienza.

Proprio così.

C’è addirittura un libro, edito da Rizzoli, che si intitola Stronzate (On bullshit), scritto dal filosofo morale e di solida reputazione Harry Frankfurt, professore emerito a Princeton.

Uno dei tratti salienti della nostra cultura è che è pervasa da una gran quantità di stronzate. Tutti lo sanno. Ognuno di noi contribuisce con la propria quota. Eppure tendiamo a dare questa situazione per scontata. La maggior parte delle persone si fida della propria capacità di riconoscere una stronzata, quando la sente, e quindi evitare di crederci. Ragion per cui il fenomeno non solleva gran preoccupazione, né è stato finora oggetto di un serio approfondimento“.

John Petrocelli, psicologo alla Wake Forest University ha invece condotto uno studio per capire in quali condizioni le persone si sentono più incoraggiate o autorizzate a dire stupidaggini. Stupidaggini, non bugie. Chi mente nasconde la verità, chi dice stronzate non necessariamente sa qual è la verità e può accadere che stia solo ripetendo cose sentite in giro o idee presentate da altri che sembravano credibili.

COSA DICE LA SCIENZA

E’ emerso che il dire stupidaggini è più accettato che mentire. Probabilmente perchè a volte chi le dice lo fa per favorire il senso di appartenenza al gruppo (cadendo nell’effetto gregge) e poco importa se questa idea è basata sui fatti.

La pericolosità della stronzata è che è impossibile sapere come stanno veramente le cose. Ne consegue che qualunque forma di argomentazione politica o analisi intellettuale è legittima, e vera, se è persuasiva. Tutto questo, secondo il filosofo di Princeton, è effetto di una forma di vita pubblica in cui le persone «sono sovente chiamate a parlare di argomenti di cui sanno poco o nulla».

Il «bullshit artist», l’artista della stronzata, infatti se ne infischia tanto della verità che della menzogna: «Gli sta a cuore solo farla franca con ciò che dice». Un politico, un pubblicitario o un conduttore di talk show che elargiscono «stronzate» non rifiutano l’autorità della verità come fa il bugiardo, che vi si oppone. «Semplicemente non vi badano».

LILITH o EVA? La DONNA che SCEGLI di ESSERE

“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. L’ombra della Donna Selvaggia ancora si appiatta dentro di noi…”

Clarissa Pinkola Estès, psicanalista statunitense, sprona così la donna selvatica che c’è dentro ogni essere femminile. La donna libera, naturale e non controllata. E lo fa attraverso racconti, fiabe, narrazioni dense. Rileggerla mi riporta all’antica religione ebraica e alla leggenda di Lilith, la prima moglie di Adamo, precedente ad Eva, ripudiata e cacciata perché si rifiutò di obbedire al marito che pretendeva di sottometterla.

“Non starò sotto di te”, dice Lilith. “E io non giacerò sotto di te, ma solo sopra. Per te è adatto stare solamente sotto, mentre io sono fatto per stare sopra”, replicherà Adamo.

Lilith compare nell’insieme di credenze dell’Ebraismo come un demone notturno, capace di portare danno ai bambini di sesso maschile e caratterizzata dagli aspetti negativi della femminilità: adulterio, stregoneria e lussuria.

Lilith abbandona, dopo aver pronunciato infuriata il nome di Dio, il Giardino dell’Eden, per rifugiarsi sulle sponde del Mar Rosso, ma non avendo mangiato come Adamo ed Eva il frutto proibito, non verrà condannata alla mortalità.

Si accoppierà con Lucifero e altri demoni, dando alla luce esseri superiori detti “Jinn”, entità intermedie fra gli angeli e gli umani. Adamo chiederà a Dio di riportare indietro Lilith con l’aiuto di tre angeli, ma invano. Lilith viene così maledetta: i figli che lei concepirà moriranno sempre, perché a lei non è dato partorire vita. Solo morte. Lilith si trasforma dunque in un demone, madre di tutti i demoni, e abita l’oscurità.

Inevitabilmente a questo punto appare Eva, la donna creata dalla costola di Adamo, la donna che non mette in discussione l’autorità costituita.

Con Lilith siamo in un archetipo profondo, inabissato nel sotterraneo, potente e non comune. In lei convivono la sconfitta, il dolore della condanna, la frustrazione, impotenza e depressione, la rabbia dell’ingiustizia e della solitudine, l’esilio e l’invidia per il femminile sottomesso e fecondo, per il volto luminoso della Dea e della Madre, a lei negato.

La sua natura selvatica rifiutata, diventata peccato, scatena una forza distruttiva: la predilezione, a livello sociale, dell’immagine buona, accogliente e sottomessa della donna compagna, ha amplificato e scatenato in noi donne l’ambivalenza interiore, il senso di colpa e di mancanza, la perdita della femminilità erotica (creativa), della potenza dell’energia vitale istintuale: l’incubo di cui parlano le fiabe, intrise di matrigne e streghe cattive, arrabbiate per tutto ciò a cui hanno rinunciato.

Lilith, l’alter-ego di Eva, rappresenta la dignità della donna, la sua autorevolezza, quella forza insopprimibile che la porta a scegliere di essere se stessa, qualunque sia il prezzo da pagare. Quella donna che non si conforma alle leggi precostituite, agli obblighi sociali, ma che li mette in discussione, affrontando con coraggio la paura di essere giudicata, di rimanere sola. Quella donna irrazionale, selvaggia, che si affida alla sua capacità intuitiva, alla conoscenza delle viscere, del corpo, ed attinge alle sue doti naturali.

Censurare l’immagine archetipica di Lilith significa erodere la parte selvatica e intima di ogni donna. L’equilibrio più profondo richiede però di far abbracciare Lilith a Eva, che si fa grembo di attrazione, integrazione, conscia del suo potere e della sua autorevolezza nell’esercitarlo, capace di essere vulnerabile, di affidarsi, forte del proprio valore e che nell’ascolto e nella comprensione, si fa dea.

E per questo uomo e donna, quando si fanno coppia, sono liberi da litigi, sottomissioni, manipolazioni e possono affrontare insieme le differenze, integrandole.

UFFICI OPEN SPACE ADDIO: TROPPE DISTRAZIONI, STRESS e MALATTIE

Nati nel 1964, gli uffici senza divisioni e a lungo elogiati come soluzione ai problemi del lavoro moderno, facilitatori della collaborazione e garanti della uguale informazione di tutti i colleghi, sembrano aver perso l’appeal di un tempo. E sempre più studi ne mostrano l’inefficacia.

Fra le ricerche più note, quella condotta in diretta tv in “The Secret Life of Buildings” (UK): secondo i test del neuroscienziato Jack Lewis, il lavoro negli open space riduce le prestazioni aziendali del 32% e fa diminuire la produttività del 15%. Prima responsabile è la distrazione, che si insinua negli impiegati portandoli a pensare a tutto meno che agli obiettivi di lavoro.

Lewis ha condotto gli esperimenti davanti alle telecamere, chiedendo ai volontari – tra cui volti noti della tv – di trascorrere una mattinata in ufficio indossando una cuffia per il rilevamento delle onde cerebrali. Dai risultati è emerso che i cervelli delle persone impegnate in un open space vagavano più distrattamente degli altri.

“Gli uffici aperti – spiega Lewis – sono stati progettati per permettere ai lavoratori di collaborare meglio, muoversi più facilmente e scambiarsi opinioni e soluzioni. In realtà non funziona così. Se ti stai concentrando su qualcosa ma all’improvviso un telefono suona intorno a te e qualcuno comincia a parlare, la tua attenzione si perde e devi ricominciare da capo. Il cervello risponde alle distrazioni continuamente, anche se lì per lì non ce ne rendiamo conto”.

Secondo un altro studio condotto al Politecnico di Bari, a far perdere la concentrazione sono prima di tutto le voci dei colleghi (31%), poi i telefoni (27%), gli impianti di condizionamento (15%), le macchine da ufficio (13%) e rumori esterni (13%).

Ulteriori studi (di DeMarco e Lister) hanno dimostrato che gli open space non solo riducono la produttività ma danneggiano la memoria, rendono le persone più esposte alle malattie (maggiore rischio di contrarre l’influenza, avere la pressione alta e alti livelli di stress), più ostili, scarsamente motivate e insicure.

Eppure le intenzioni di Propst (l’inventore dell’open space) andavano in tutta altra direzione: gli open space avrebbero garantito la privacy senza ricorrere ai muri, fornendo a ciascun impiegato un proprio spazio da personalizzare sia in orizzontale, con la scrivania, sia in verticale, attaccando fogli e poster sulle pareti posticce. La parola d’ordine del suo “spazio lavorativo aperto” era “a portata di mano”, concetto che col passare del tempo è stato snaturato riducendo questi ambienti futuristici ad alveari composti da tante piccole celle l’una attaccata all’altra.

QUALI ABILI NEGOZIATORI sono i BAMBINI (soprattutto a NATALE)

Negoziare è un’arte che i bambini esercitano con implacabile e naturale maestria, come dimostrano gli innumerevoli regali che riescono, con facilità disarmante, ad accumulare sotto l’albero. Ogni Natale.

I bimbi sono negoziatori nati, abili a mettere inconsapevolmente in atto alcune tecniche negoziali estremamente efficaci e, allo stesso tempo, sorprendentemente semplici ma che tendiamo, da adulti, a complicare e rendere innocue.

a. I bimbi non smettono mai di fare domande
Una delle tattiche più utili in una negoziazione di successo è fare domande ogni volta che non si sa o non si capisce. Da “grandi” tendiamo a perdere questa abilità nel timore di sembrare impreparati o incompetenti. Spesso, di fronte a un termine che non conosciamo invece di chiedere delucidazioni, annuiamo, celando il nostro non sapere dietro un apparente sorriso di saggezza.

b. I bimbi non smettono mai di chiedere
Non si fanno molti problemi a palesare ciò che vogliono. Che si tratti di un gioco, attenzioni o la favola della buonanotte. Insomma, di fronte a necessità e desideri i bimbi semplicemente chiedono. Da adulti, perdiamo tale la capacità. In una trattativa negoziale (e così a casa, sul lavoro e con gli amici) anziché chiedere, ricorriamo a inutili sotterfugi, nascondendo le nostre necessità, non facilitando la comprensione alla controparte di ciò di cui realmente abbiamo bisogno. Crediamo, erroneamente, che l’altro possa leggerci nel pensiero.

c. I bimbi non amano il “no” come risposta
Trattano il “no” come l’inizio e non la fine di una trattativa. La loro tendenza è infatti insistere affinchè la risposta cambi a loro vantaggio e nel caso non ci riescano, lotteranno a suon di “perché no?” fino a che la spiegazione non sarà soddisfacente a sostenere il mancato soddisfacimento del bisogno. Attenti dunque a fornire una risposta più che esaustiva e solo così le vostre proposte massimizzeranno i vostri risultati (non solo con i figli).

d. I bimbi sono sensibili alle punizioni
E sono abilissimi a influenzare i comportamenti degli adulti in modo da ottenere una dilazione o uno sconto. Immagino abbiate ben presente l’ultima volta che le urla apocalittiche di vostro figlio vi hanno spinto a sospendere una punizione pur di trovare un po’ di pace…
Ovviamente da adulti non possiamo buttarci a terra disperati di fronte al “no” del capo, ma spesso nelle negoziazioni di tipo commerciale, si ha più la tendenza a proporre la carota anzichè il bastone: ma il bastone rappresenta il costo, per entrambe le parti, del mancato accordo.

e. I bimbi sono esperti nello smascherare i bluff
Sono bravissimi a capire quando le minacce di un adulto non sono veritiere. “Se lo fai un’altra volta, non ti porto più al parco”. Se una minaccia è utilizzata regolarmente ed altrettanto regolarmente non viene eseguita, perde il suo potere, e voi perderete di credibilità e autorevolezza. Per lungo tempo.

Ecco perchè, mediando dal primo assioma della comunicazione, possiamo tranquillamente dire che non si può non negoziare.