NON FIDATEVI di CHI DICE che per aver SUCCESSO occorre ALZARSI all’ALBA

C’è chi sostiene che, per avere successo della vita, occorra alzarsi molto presto la mattina e andare a letto altrettanto presto.

Ovviamente quando si chiede una ragione scientifica a quanto affermano, non citano ricerche ma sputano una lista di nomi di persone famose, che hanno questa abitudine.

Peccato che nella maggior parte dei casi non sia abitudine, ma dipenda dal codice genetico. Alcuni di noi sono predisposti naturalmente a essere “nottambuli” e altri “mattinieri” e neanche con tutto l’impegno possibile riusciranno a combinare qualcosa dopo le dieci di sera. E poi, ci sono coloro che stanno nel mezzo.

Importante è dunque sfruttare al meglio la propria predisposizione, impegnandoci in attività costruttive quando siamo nello stato di maggiore efficienza, evitando invece di mettere a rischio ciò che dobbiamo realizzare imponendo al sistema nervoso un ragionamento complesso, quando non siamo in grado di sostenerlo.

Detto questo, alzarsi alle 5 di mattina non è una regola che può andare bene per tutti e soprattutto non ci renderà più produttivi e tanto meno porterà al successo. Ai dati l’ardua sentenza, per scomodare Manzoni.

COSA DICE LA SCIENZA

Una ricerca dell’Università di Madrid, in un’analisi basata sui ritmi del sonno di 1000 studenti, ha dimostrato che chi si sveglia tardi (e quindi va a dormire tardi) ha ottenuto risultati migliori nei test di ragionamento induttivo rispetto ai mattinieri. Insomma: chi ama stare a letto la mattina è più intelligente.

Una ricerca belga pubblicata dall’Università di Liegi ha dimostrato che chi si sveglia più tardi ha un livello di produttività più alto durante l’intera giornata. Lo studio ha seguito 15 super mattinieri e 15 nottambuli, misurando l’attività cerebrale immediatamente successiva al loro risveglio, e poi ancora 10 ore e mezza più tardi. Ciò che è emerso è che, se appena svegli nottambuli e mattinieri hanno lo stesso livello di produttività, 10 ore e mezza più tardi chi si sveglia prima presenta un livello d’attività inferiore in quelle aree del cervello legate all’attenzione. Insomma, chi ama svegliarsi presto raggiunge un livello di stanchezza più alto già dal pomeriggio, quando cioè è ancora richiesta produttività ed efficienza.

LO STUDIO ITALIANO

Questa tesi è dimostrata anche da uno studio italiano, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e pubblicata su ABC Science. Nella ricerca è stato chiesto a 120 persone, tra uomini e donne di diversa età, quali fossero le loro abitudini in termini di sveglia al mattino. Agli intervistati, inoltre, è stato richiesto di svolgere alcune prove con lo scopo di misurare la loro creatività, valutata secondo criteri di originalità, elaborazione, fluidità e flessibilità. I migliori risultati? Coloro che si svegliano più tardi, sono più incili a risolvere i problemi sviluppando soluzioni originali. Marina Giampietro, autrice dello studio e docente del dipartimento di Psicologia presso la stessa università, crede che il motivo di questa maggiore creatività sia da ricollegare al fatto che stare in piedi fino a tardi stimolerebbe lo sviluppo di uno spirito lontano dalle convenzioni e di una marcata abilità nel trovare soluzioni alternative e stravaganti.

Perciò, il tutto sta nel modo in cui si impiega il tempo: i mattinieri saranno più produttivi e sapranno sfruttare al meglio le ore della mattina per alcune delle loro attività, come la palestra o semplicemente raggiungere in anticipo il posto di lavoro. Ma i nottambuli sono coloro che sanno davvero trarre il meglio dalle ore notturne, il tempo giusto per creare e inventare qualcosa di nuovo.

QI E ABITUDINI DEL SONNO

La rivista Study Magazine riporta uno studio di Satoshi Kanazawa, psicologo alla London School Of Economics And Political Science, il quale ha ammesso che il QI (quoziente intellettivo) e le abitudini legate al sonno sono strettamente connessi tra loro. Kanazawa sottolinea che chi ama stare sveglio fino a tardi è più intelligente. La sua analisi prende anche in causa gli uomini primitivi, i quali erano soliti seguire il ciclo del sole, andando a letto soltanto quando il sole tramontava. La conclusione della ricerca è davvero interessante: i cervelli nella media (o sotto di essa) conservano abitudini simili a quelle dei nostri antenati, mentre coloro che presentano un QI superiore e che risultano più brillanti, sono quelli che conciliano il buio con le attività mentali, trovando numerosi stimoli anche durante le ore notturne e svegliandosi più tardi la mattina.

UMORE E DINTORNI

Altri studi inoltre dimostrano che chi si sveglia tardi sarà di buon umore più a lungo: pare che i mattinieri, infatti, essendo occupati sin dalle prime ore della giornata e dovendo affrontare più preoccupazioni, si arrabbino con facilità e disperdano una quantità maggiore di energie. A sostegno di quanto detto, la BBC riporta lo studio di un gruppo di ricercatori di Westminster, che ha analizzato 8 volte al giorno per 2 giorni la saliva di 42 volontari con diverse abitudini legate al sonno. L’esame ha dimostrato che chi si sveglia prima ha un livello maggiore di cortisolo, conosciuto meglio come l’ormone dello stress. Di conseguenza, i mattinieri hanno riportato anche una maggiore predisposizione a sintomi del raffreddore, mal di testa e dolori muscolari.

Detto questo, fate cosa vi pare ma non chiedetemi di alzarmi dal letto prima delle 8!

E se gli INCENTIVI OSTACOLASSERO INNOVAZIONE e PROBLEM SOLVING? Mettiti alla prova con il problema della candela

Ti va di testare la tua capacità di problem solving?

Hai una candela, una scatola di fiammiferi e una di puntine, il tutto su un tavolo vicino a una parete. L’obiettivo è, usando solo gli oggetti indicati “fissare la candela alla parete in modo tale che la cera non cada nè sul tavolo né sul pavimento”.

Fai partire il cronometro e trova la soluzione, in meno di 7 minuti.

Il problema della candela” è l’esperimento condotto dallo psicologo tedesco Karl Duncker nel 1945. Non sembra un quesito complesso da risolvere… all’apparenza!

Eppure una parte di coloro che vengono messi alla prova tendono a iniziare cercando di inchiodare la candela alla parete, con scarsi risultati. Altri di sciogliere la candela per incollarla alla parete, ma nemmeno questa è una buona idea poiché la cera cade ugualmente sul tavolo. Dopo una media di 7 minuti, i partecipanti giungono alla miglior soluzione: utilizzare la scatola delle puntine come base per sostenere la candela e fissare la scatola alla parete utilizzando le puntine.

LA SCOPERTA DI DUNCKER

Duncker scoprì che i risultati dell’esperimento cambiavano se gli elementi venivano presentati in modo diverso. Per esempio, presentando una scatola contenente puntine (illustrazione A) o le puntine fuori dalla scatola (illustrazione B), nel secondo caso le persone tardavano meno nella risoluzione del problema.

La spiegazione è semplice: nel primo caso i partecipanti credono che la scatola possa unicamente contenere le puntine e, di conseguenza, non giungono a considerare la possibile soluzione. Questo fenomeno prende il nome di Fissità Funzionale e consiste nel fissarsi sulla funzione di un elemento, in questo caso la scatola delle puntine. Detta in altri termini ci rende in grado di vedere soltanto le soluzioni che implicano l’impiego di oggetti nel modo più consueto e mette in pericolo la nostra capacità di ideare soluzioni nuove per risolvere un problema.

La fissità non è di per sé totalmente negativa, ma potrebbe risultare limitante, poiché chiude la porta a molte possibilità che potrebbero renderci le cose più facili o persino aiutarci a risolvere problemi non così complicati.

IL POTERE DEGLI INCENTIVI

L’esperimento venne ritentato, con l’aggiunta di una ricompensa, anche da Sam Glucksberg professore a Princeton.

Glucksberg ha costituito due gruppi.  Al primo gruppo ha detto: “Vi cronometro per creare un riferimento, il tempo medio che richiede la soluzione di questo tipo di problema.”
Al secondo gruppo ha offerto premi: “Chi finisce nel 25% dei più veloci, avrà ( x ) dollari. Il più veloce avrà, invece ( y ) dollari”. Le persone del secondo gruppo hanno impiegato, in media, tre minuti e mezzo in più, del primo gruppo, di coloro cioè a cui non veniva dato alcun incentivo economico.

Controintuitivo…

Di solito, affinchè le persone rendano di più, le si premia. È così che funziona il mercato. Ma in questo caso non funziona. C’è un incentivo diretto ad affinare il pensiero e accelerare la creatività. E funziona esattamente all’opposto. Offusca il pensiero e blocca la creatività.

La cosa interessante di questo esperimento è che non è un caso anomalo. È stato ripetuto più e più volte, per 40 anni. Gli incentivi condizionati, ossia se tu fai questo ottieni quest’altro, funzionano solo in alcune circostanze. Ma, per molti incarichi o non funzionano, o sono controproducenti. Si tratta di una delle scoperte più solide delle scienze sociali. E anche di una delle più ignorate.

Glucksberg propose l’esperimento anche nella modalità B, con le puntine fuori della scatola: un gruppo veniva cronometrato e all’altro venivano dati incentivi.
Il gruppo con gli incentivi ha stracciato l’altro gruppo. Perché? Perché quando le puntine sono fuori dalla scatola è più facile arrivare alla soluzione e non è richiesto eccessivo ragionamento.

Gli incentivi funzionano benissimo per attività in cui ci sono regole semplici e un chiaro traguardo da raggiungere. Le ricompense, per loro stessa natura, concentrano l’attenzione, restringono il pensiero. Ecco perché funzionano in tanti casi. E così, in attività come questa, con l’attenzione concentrata e l’obiettivo ben chiaro, funzionano ottimamente.

Ma con il vero problema della candela, illustrazione A, non è così. La soluzione non ce l’abbiamo davanti. La soluzione è alla periferia. Occorre guardare il contesto e la ricompensa restringe l’attenzione e riduce le  possibilità.

Non convinti, gli scienziati hanno riproposto il test a Madurai, in India, dove la vita media costa meno. A Madurai, una ricompensa che per i nordamericani è modesta là è molto più significativa. Stesso schema. Un gruppo di giochi, tre gradi di ricompensa. Le persone a cui avevano offerto il premio medio non hanno fatto meglio di quelli a cui avevano offerto quello minore. Ma stavolta quelli a cui avevano offerto il premio più alto sono andati peggio di tutti. Otto volte su nove, incentivi maggiori hanno condotto a esiti peggiori.

A condurre esperimenti sono stati gli economisti del MIT, della Carnegie Mellon, dell’Università di Chicago e della London School of Economics.  Gli economisti della LSE hanno esaminato 51 studi di piani d’incentivazione aziendali per risultati, all’interno di società. Ecco cosa hanno detto:

Troviamo che gli incentivi economici possono produrre un impatto negativo sul risultato globale.

IL GAP FRA QUANTO LA SCIENZA SA E CIO’ CHE LE IMPRESE METTONO IN ATTO

C’è un disallineamento tra quanto la scienza sa e ciò che le imprese praticano. Molto più produttivo è un approccio basato sulla motivazione interna. Sul desiderio di fare cose perché hanno senso, perché ci piacciono, perché sono interessanti, perché fanno parte di qualcosa di importante.

Ricapitolando ciò che sa la scienza:

1) I premi tipici, questi motivatori che pensiamo siano la parte naturale del mercato funzionano, ma solo in casi sorprendentemente limitati.

2) Gli incentivi spesso distruggono la creatività.

3) Il segreto per risultati di alto livello non sta nei premi o nelle punizioni, ma nella pulsione interna che non si vede. La pulsione a fare le cose per il loro valore. La spinta a fare le cose perché hanno senso.

COLLEFERRO: è TUTTO più COMPLESSO, è TUTTO TRAGICAMENTE BANALE

Non seguo volentieri la cronaca nera, mi lascia sempre l’amaro in bocca. La ricerca compulsiva dello scoop e del sensazionalismo, camuffata in affannosa ricerca della verità, non solletica il mio interesse. Anche i recenti fatti accaduti a Colleferro, non sono da meno. Anche se, ancor più che in altri casi, è difficile sottrarsi alla lettura, non c’è Media o Social che non ne parli, mescolando le carte con la stessa bravura di un baro professionista.

Così sfoglio qualche pagina, non ritrovandomi in quasi nessun racconto. La violenza esplicitata, non è figlia del fascismo. Anzi ha ben poco a che fare con il credo politico. In questo caso. La violenza cieca e inutile, esercitata su Willy Monteiro Duarte è un atto estremo di teppismo e brutalità. La banale violenza, per parafrasare Anna Arendt, che sembra ancor più feroce, perché troppo semplice da comprendere.

Un conto è avversare, un altro è odiare – sostiene il teologo e uomo di grande cultura Vito Mancuso – L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Al di la della dotta filosofia, la scienza è meno corretta e poco si preoccupa di cercare consensi. Pochi sanno, infatti, che le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa, per eventuali negazionisti rimando allo studio: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

IL CERVELLO CHE ODIA

Nello studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati a osservare immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

E’ emerso che la vista della persona odiata attiva particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso sostiene che “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati. Forse.

Senza contare che al concetto di bene, ognuno può dare la connotazione che vuole, proprio come hanno fatto i ragazzi di Colleferro… Ecco perchè è altrettanto difficile aspettarsi il pentimento. Alla fine quindi la politica, di qualsiasi schieramento, ha ben poco a che fare… E’ tutto più complesso, è tutto (più) tragicamente banale!

RENDI UMANO il BRAND, per CONNETTERTI con i tuoi CLIENTI

Ci siamo affezionati a Bibendum, a Topo Gigio, a Siri ed Alexa… perché gli oggetti resi umani, attirano così tanto la nostra attenzione?

Dare tratti umani a oggetti inanimati è un’ottima strategia per connettersi con i consumatori, nonché uno dei segreti del successo di un brand. E anche se difficilmente ne siamo consci, è un comportamento che mettiamo in atto, autonomamente, fin da bambini.

Sto parlando dell’antropomorfismo, la scienza che spiega come e perchè abbiamo la necessità di umanizzare gli oggetti inanimati. Un comportamento innato espresso fin dall’infanzia quando attribuiamo personalità a bambole, camion e giocattoli in genere.  Anche la vita adulta ne è piena: i porti sono affollati di barche dal nome di persone, così i disastri naturali, dagli uragani, ai terremoti.

CHATBOT UMANIZZATI

L’antropomorfismo è così efficace che lo si è portato a livelli estremi soprattutto nel business, unitamente all’I.A: un esempio sono i Chatbot avanzati, come Siri di Apple, Alexa di Amazon e Cortana di Microsoft. Grazie all’immediatezza delle loro interfacce, è plausibile che i clienti spendano sempre più tempo impegnati in conversazioni con l’AI di quel brand che con qualsiasi altra entità, inclusi i dipendenti dell’azienda.

Se il trend rimane tale, Siri, Alexa e Cortana, e le loro relative “personalità”, potrebbero diventare più famose delle società che le hanno originate. Ognuno con proprie caratteristiche e personalità.

Alexa è sicura di sé e premurosa: non risponde ironicamente quando viene usato del linguaggio scurrile e non ricorre allo slang. Siri è sfacciata e brillante. A una domanda circa il significato della vita, potrebbe rispondere: “Trovo strano che tu lo chieda a un oggetto inanimato”. Siri può diventare gelosa, soprattutto quando gli utenti la confondono con un altro sistema di ricerca vocale. Quando qualcuno incorre in questo errore, la sua risposta è piccante: “Perché non chiedi ad Alexa di fare quella chiamata per te?”. Questo stile è in linea con il marchio Apple, che ha da tempo sposato l’individualità come valore vincente, in contrapposizione al conformismo. E infatti, ha dotato Siri di una personalità riconoscibilissima che ricorda più una persona che un prodotto.

GIOCO D’AZZARDO

L’antropomorfismo ha trovato campo fertile anche nel campo del gioco d’azzardo: è dimostrato che riconoscere alle slot machine dei casinò proprietà simili a quelle umane, aumenta l’attitudine a interagire con queste, promuovendo una condotta di gioco più rischiosa.

La tendenza ad antropomorfizzare le cose inanimate, cioè trattarle come se fossero persone, rappresenta un meccanismo che si è sviluppato per aiutarci a sopravvivere in un mondo imprevedibile, ma che allo stesso tempo può mandarci in confusione e renderci maggiormente vulnerabili.

Non solo antropomorfizzare le slot alimenta il desiderio di giocare, indipendentemente dal fatto di farlo con soldi veri, ma aumenta l’eccitazione emotiva che porta a giocare con maggiori perdite e più tempo in generale. Le persone sono più inclini a giocare quando hanno a che fare con una mente “simile alla loro”, e non quando si trovano semplicemente di fronte a una macchina che opera meccanicamente e matematicamente.

Dietro la tendenza ad antropomorfizzare, si nascondono alcune insidie: l’antropomorfizzazione, infatti, potrebbe guidare il nostro modo di agire in maniera errata. Di fronte a slot machine con tratti antropomorfi le persone timide mostrano più diffidenza e quelle con più fiducia in se stesse, dimostrano la tendenza a perdere completamente il senso della casualità intrinseca nel gioco. I giocatori più sicuri potrebbero percio’ essere facilmente raggirati, cadendo nella trappola di illusoria umanità della macchina.

Un fenomeno simile si riscontra nei mercati azionari: gli andamenti dell’economia virtuale vengono spesso descritti con tratti antropomorfi finendo per creare false credenze. In definitiva, se da una parte la tendenza ad antropomorfizzare e’ positiva e ci aiuta ad affrontare l’imprevedibilita’ del mondo, è vero anche che abusarne può significare discostarsi troppo dalla realtà: se una macchina ci fa “l’occhiolino”, è meglio non credergli del tutto. Rischieremmo di trovarci con il portafoglio vuoto.