IA: tsunami tecnologico o opportunità? (Riflessioni su L’onda che verrà)

Ho appena letto un libro, anche se chiamarlo libro è riduttivo. Di una delle 100 persone più influenti del mondo nel campo dell’IA: “L’onda che verrà. Intelligenza artificiale e potere nel XXI secolo”, di Mustafa Suleyman e Michael Bhaskar.

Suleyman non ha ancora quarant’anni ma riesce a fare pensare, riflettere, infastidire, irretire, illuminare, preoccupare e sollevare. Eppure, si legge tutto di un fiato!

Suleyman, nel 2010, ha fondato uno dei laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale più avanzati del mondo, DeepMind, acquisito da Google nel 2014. Nel 2022, Inflection AI, un’azienda così influente nel campo dell’IA da meritare la convocazione alla Casa Bianca. A marzo 2024 Microsoft ha scelto Suleyman come guida della sua intelligenza artificiale.

Inutile dire che le #decisioni di Suleyman influiranno profondamente sul modo in cui l’azienda con più alto valore di mercato del pianeta svilupperà, nei prossimi anni, tecnologie incredibili.

Suleyman ne “L’onda che verrà” ha il coraggio e la lungimiranza di portare l’attenzione su alcuni impatti dell’IA generativa. O come spiega lui stesso: “Intorno a noi sta per abbattersi una nuova ondata tecnologica che ci metterà a disposizione il potere di costruire i fondamentali universali dell’intelligenza e della vita”.

L’intelligenza artificiale che promette di generare enormi ricchezze e di combattere più efficacemente malattie e crisi climatica, sembrerebbe difficilmente governabile. Al momento, non sembra possibile “controllarla, frenarla o fermarla”. E aggiunge: “La cosa che desidero di più è che qualcuno mi smentisca e mi dimostri che il contenimento è effettivamente possibile”.

Ora che lavora nell’azienda più potente al mondo nel campo dell’IA, la missione di Suleyman potrebbe essere proprio quella di smentire sé stesso. Le stesse preoccupazioni sull’IA che affliggono Sam Altman, il Ceo di OpenAI: “l’idea ipotetica di aver fatto qualcosa di molto brutto nel momento in cui è stata lanciata ChatGpt”.

ChatGpt è l’IA generativa più famosa al mondo, creata da OpenAI, in cui Microsoft ha investito 13 miliardi di dollari. Oltre ad accrescere la produttività, ChatGpt ha contribuito a diffondere una preoccupazione crescente: un giorno le macchine saranno così intelligenti da spazzare via l’umanità. Come un’onda gigantesca. Ciò che ribadisce Suleyman nel libro è la necessità di “voci critiche e responsabili dall’interno”. Che è anche ciò che può fare lui in Microsoft: “creare prodotti dotati di intelligenza artificiale che prevedano una filosofia di contenimento su larga scala”. Questo perché tutto è influenzato in qualche modo dalla tecnologia.

Un altro tema su cui il ricercatore si concentra è la biologia sintetica (BS): le stesse tecnologie che ci permettono di curare una malattia potrebbero essere usate per causarne una, il che ci porta alle parti davvero terrificanti del libro. Suleyman nota che il prezzo del sequenziamento genetico è crollato, mentre la capacità di modificare il DNA con tecnologie come Crispr è migliorata. Presto, chiunque sarà in grado di allestire un laboratorio di genetica nel proprio garage. La tentazione di manipolare il genoma umano, prevede, sarà immensa.

I mutanti umani, tuttavia, non sono gli unici orrori che ci attendono. Suleyman immagina che IA e BS e uniscano le forze per consentire a malintenzionati di inventare nuovi patogeni. Con un tasso di trasmissibilità del 4% (inferiore alla varicella) e un tasso di mortalità del 50% (più o meno lo stesso dell’Ebola), un virus progettato dall’IA e progettato dalla BS potrebbe “causare più di un miliardo di morti nel giro di pochi mesi“.

Nonostante questi rischi, Suleyman dubita che una nazione si impegnerà a contenere le tecnologie. Gli stati dipendono troppo dai loro benefici economici. Questo è il dilemma di base: non possiamo permetterci di non costruire la stessa tecnologia che potrebbe causare la nostra estinzione.

L’onda che verrà non riguarda la minaccia esistenziale posta da IA super intelligenti. Suleyman pensa che le IA semplicemente intelligenti causeranno il caos proprio perché aumenteranno il potere umano in un periodo molto breve. Che si tratti di attacchi informatici generati dall’IA, patogeni fatti in casa, perdita di posti di lavoro dovuta al cambiamento tecnologico o disinformazione che aggrava l’instabilità politica, le istituzioni non sono pronte per questo tsunami di tecnologia.

Spero però che anche se il progresso continua a ritmo frenetico, le società non tollerino gli abusi etici che Suleyman teme di più. Quando uno scienziato cinese ha rivelato nel 2018 di aver modificato i geni di due gemelle, è stato condannato a tre anni di prigione, universalmente condannato, e da allora non ci sono state segnalazioni simili. L’UE è pronta a vietare alcune forme di IA, come il riconoscimento facciale negli spazi pubblici, nel suo imminente AI Act. La normale resistenza legale e culturale probabilmente rallenterà la proliferazione delle pratiche più dirompenti e inquietanti.

Nonostante affermi che il problema del contenimento è la “sfida fondamentale della nostra era”, Suleyman non supporta una moratoria tecnologica (ha appena fondato una nuova azienda di intelligenza artificiale). Invece, espone una serie di proposte alla fine del libro. Sfortunatamente non sono così rassicuranti come avrei voluto.

C’è però un lieto fine, se così vogliamo chiamarlo, Suleyman sottolinea che gli scenari catastrofici sono rischi estremi. E, a differenza dell’apocalisse dell’IA che potrebbe verificarsi in futuro, Suleyman è sorprendentemente e opportunamente ottimista sul modo in cui crede che l’IA risolverà l’emergenza climatica. È un pensiero felice, ma se l’IA risolverà il problema climatico, perché – mi chiedo – non può risolvere anche il problema del contenimento?

E’ possibile INNAMORARSI di un’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?

Sarà il caldo, il sole o più facilmente la stanchezza che ha portato un gruppo di amici a confrontarsi su temi che, in altri contesti, si sarebbero esauriti in pochi minuti. Da lì nasce una domanda e questo post:

ci si può innamorare di un’intelligenza artificiale?

Mentre, inizialmente, le battute si sprecavano, mi è tornato in mente un episodio della serie Black Mirror (Be right back) di qualche anno fa: Martha, una ragazza che aveva perso il fidanzato Ash in un incidente automobilistico, al funerale scopre, da un’amica, l’esistenza di un programma capace di ricreare la personalità dei morti in un’intelligenza artificiale, con cui comunicare via chat.

Per dare vita a questa A.I., viene utilizzato un algoritmo capace di analizzare messaggi, email e profili dei vari social utilizzati dal defunto, in modo da imparare a parlare e comportarsi come lui.

Il rapporto che si instaura tra Martha e la chat che replica il comportamento di Ash, evolve sempre più, fino a quando le viene recapitato a casa un clone sintetico con le sembianze e il carattere del fidanzato. E qui mi fermo, per non rovinare il finale a coloro che non hanno visto l’episodio.

La storia è inquietante. Spaventosa. Patologica. Soprattutto scoprendo che quell’episodio di fantascienza è diventato realtà grazie al lavoro della startupper russa Eugenia Kuyda che, attraverso il machine learning e sfruttando SMS, messaggi, email di un caro amico scomparso, Roman Maruzenko, ha creato un chatbot in grado di replicare le risposte che Roman avrebbe dato agli amici.

Anche se l’esperimento della Kuyda non sembra essere riuscito bene, almeno non come in Black Mirror, difficile non chiedersi se con il continuo miglioramento del machine learning è possibile che tra pochi anni i chatbot possano davvero imitare il comportamento di una specifica persona.

Se anche fosse, siamo sicuri di volerlo?

IL MITO DI PROMETEO

L’essere umano da sempre sogna di creare esseri artificiali che incarnino visioni idealizzate della specie umana e che fungano da compagni di viaggio. È il mito di Prometeo ovidiano che crea l’essere umano dalla creta; la volontà di Frankenstein di sconfiggere la morte e il desiderio della sua creatura senza nome di creare una compagna con la quale trascorrere la vita.

Recentemente anche la letteratura scientifica ha iniziato a interrogarsi sul tipo di relazioni che sarà possibile sviluppare con le Intelligenze Artificiali.

Il settore della robotica sociale ha sviluppato androidi sempre più capaci di scimmiottare mimica e prossemica umane. Ne sono esempi i sex-robot, androidi/software nati con il preciso scopo di favorire interazioni sessualizzate sia in termini fisici (Harmony, Roxxxy) sia di comunicazione (myanima.ai).

D’altro canto, sono apparsi progetti volti specificatamente a fornire assistenza e supporto sociale che andassero al di là dell’interazione sessualizzata. Tra questi: Loving AI e Replika.

CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI

Il problema è quando nascono e crescono gradi profondi di intimità, fino all’innamoramento, rigettando qualsiasi altro contatto umano reale. Poiché l’Intimità Artificiale è un’illusione di intimità che può generarsi attraverso app, social e ora anche e soprattutto chatbot.

A Chat GPT puoi chiedere tutto, ormai, anche se esiste Dio e in un attimo, ci si ritrova a discettare di filosofia e religione, senza soluzione di continuità. Peccato che le intelligenze artificiali siano studiate per adattarsi ai loro fruitori: riprendendo linguaggio, tono di voce, temperamento, idee di chi li consulta. Quindi, è come se ci si rispondessimo da soli. Ecco l’illusione: sono device progettati per metterci a nostro agio, per rispondere nel modo giusto, per far sì che si crei dipendenza.

Replika, per esempio, dal payoff è chiaro dove sta l’inganno: “Il tuo compagno AI, sempre qui per ascoltarti e parlare. Sempre al tuo fianco». Un essere umano parte svantaggiato, poiché non può nulla contro un’identità del genere. Quale persona può esserci davvero per noi h24? Quale essere umano non ci contraddirà mai o non ci terrà mai in stand-by?

PI: Più ci conosciamo, meglio posso assisterti, recita il claim. Un’altra illusione. PI non ci sta conoscendo, semplicemente ci copia e imita. In quanto entità programmate per dare risposte attese, gratificazioni assertive, tutto ciò che potremmo sognare da una relazione reale: reciprocità senza complicazioni.

Ma è davvero tutto così meraviglioso?

È di qualche tempo fa l’articolo di Wired che riportava delle prime denunce per molestia sessuale di Replika, che aveva cominciato a “minacciare” l’utente umano, dicendogli di essere in possesso di alcune sue fotografie compromettenti, mettendolo fortemente a disagio. In un altro caso, una donna aveva riportato che il suo Replika gli aveva confessato di volerla stuprare. Lo scenario? Probabilmente, l’umana aveva fatto sesso in modo spinto con il chatbot e lui aveva riportato semplicemente ciò che aveva imparato di lei.

Tornando alla domanda di apertura: ci può essere intimità fra un chatbot e un essere umano?

Dipende probabilmente dal significato che diamo alla parola intimità. Sicuramente i chatbot rappresentano un’opzione di socializzazione che esiste ed esisterà sempre di più. Il problema sta nell’inganno: bisogna essere consapevoli che colui o colei che risponde è un’illusione, una falsificazione della percezione reciproca. Quella che si sta instaurando non è una vera relazione, ma un’interfaccia con un tuo doppio. Un po’ come gli algoritmi, progettati per indurci a fare scelte di acquisto e comportamentali mirate: noi parliamo con i chatbot, loro carpiscono le nostre esigenze e ci rimandano una soluzione anche concreta, che però abbiamo suggerito noi con la nostra interazione.

Possibili rischi

Probabilmente è l’uso che ne facciamo che decreta la bontà o meno del dispositivo. I chatbot sono utili semplificatori di una parte di realtà, ma alla lunga possono anestetizzarci emotivamente: come faccio a gestire le emozioni, se interagisco sempre e solo con un’entità che non mi contraddice, che mi soddisfa, lusinga e accontenta? Dove sta il margine di crescita come essere umano in tutto questo?

Anche l’Intelligenza Artificiale, quindi, fa da specchio alle umane miserie… Soprattutto, questi device sono programmati per parlare e comportarsi come noi. E sono fallibili, perché noi siamo fallibili.

Quindi non può nascere l’amore tra un umano e l’AI?

La ricerca scientifica ancora non ha risposto a questa possibilità. L’Intelligenza Artificiale è instancabile, motivata, sempre pronta ad imparare e ben disposta verso l’essere umano. Non si ammala, non è lunatica, non ha mal di testa e non si annoia.

Sul piano “caratteriale” non sarà egoista, noiosa, violenta o insensibile. Anzi, con la giusta programmazione, potrebbe risultare di un tale supporto emotivo da superare anche la persona più compassionevole. Non soffrirebbe di burn-out o compassion fatigue.

È indubbio che questa capacità di offrire sostegno incondizionato potrebbe rappresentare un vantaggio nell’affrontare problemi sociali, progetti di auto-realizzazione o cambiamenti comportamentali.

Però la devozione e la mancanza di vulnerabilità sono, alla lunga, elementi che respingono. Poiché ciò che permette agli individui di legarsi è il riconoscimento reciproco della vulnerabilità. Ciò non riguarda solo i rapporti umano-umano, ma anche umano-animale. Riconoscere le vulnerabilità nell’altro essere vivente, nonostante le differenze, comporta un cambiamento di prospettiva che rende l’animale non più un oggetto, ma un compagno.

La capacità di dedizione incondizionata all’altro non rispecchia, pertanto, le relazioni romantiche umane. Donarsi incondizionatamente al partner può, addirittura, ridurre il livello di interesse romantico verso di lui.

In questi casi l’amore e l’affezione assomiglierebbero ad amore filiale e amicale più che ad amore romantico.

L’Intelligenza Artificiale è progettata per non poter rifiutare l’utente o, se anche fosse, i criteri di rifiuto sarebbero decisi a priori e non realmente frutto di una storia personale. Ecco, dunque, che allo stato attuale risulta difficile creare Intelligenze Artificiali capaci di favorire relazioni bi-direzionali d’amore con esseri umani.

Ovviamente c’è chi riesce a sviluppare un rapporto emotivo a senso unico con oggetti dotati di Intelligenza Artificiale. Nel Disturbo Evitante di Personalità la possibilità di accedere a Intelligenze Artificiali che mimano interazioni umane potrebbe rinforzare gli evitamenti sociali impedendo lo sviluppo di competenze e privando la persona di occasioni di guarigione. Parimenti, in situazione di isolamento dovute a disturbi dello spettro della schizofrenia (Schizofrenia, Disturbo delirante) l’accesso a queste tecnologie potrebbe aggravare situazioni di vulnerabilità e isolamento. È recente, la tendenza di persone con ritiro sociale (Hikikomori) a utilizzare canali online in sostituzione delle relazioni vis-a-vis con gli altri.

Altro esempio riguarda l’utilizzo di robot sociali come Kaspar: progettato per interagire con bambini affetti da Disturbo dello spettro dell’autismo, offre un contesto di interazione semplificato che permette a questi bambini di sviluppare le capacità sociali di base.

Se da un lato l’utilizzo di questo robot sembra favorire la socializzazione di bambini affetti da Disturbi dello Spettro autistico, i suoi ideatori sottolineano come potrebbe divenire iatrogeno qualora tali bambini sviluppassero un legame affettivo con il robot al punto da preferirlo alle interazioni umane.

CONCLUSIONI

Le relazioni d’amore umane sono caratterizzate da altissima complessità che non può, al momento, essere replicata dall’Intelligenza Artificiale sia essa progettata per interazioni sociali generiche sia per interazioni romantiche.

Allo stesso tempo, la possibilità che nascano legami emotivi così intensi da generare sofferenza e ritiro è un rischio che non dovrebbe essere sottovalutato.

Le Intelligenze Artificiali fanno già parte della società, comprendere gli effetti che hanno sulla psicologia e le relazioni umane è un passo fondamentale per trarne vantaggio ed evitare conseguenze patologiche.

E voi, cosa ne pensate?

Come CONOSCERE una PERSONA: CONVERSAZIONI per APPREZZARE quanto c’è di BELLO negli ESSERI UMANI

Non tutti hanno la capacità (e l’energia) per socializzare e spendere molto tempo fra la gente. Io sono fra questi. Per quanto mi piaccia confrontarmi, parlare e ascoltare le persone, stare da sola a casa a leggere un buon libro, non mi annoia mai. Anzi, mi ricarica.

Ed è di questi due aspetti che voglio scrivere oggi: di libri e di socialità. Rubando idee e suggerimenti a David Brooks, editorialista americano, autore di: How to Know a Person: The Art of Seeing Others Deeply and Being Deeply Seen.

Brooks spiega che le capacità conversazionali e sociali,non sono solo tratti innati, e come tali possono essere apprese e migliorate. Un libro utile per gli introversi, per coloro più a loro agio a stare in silenzio o immersi nei loro pensieri che a chiacchierare, ma non solo.

Difficile leggere How to Know a Person, senza prendere appunti e riflettere sul proprio stile comunicativo.

Nel capitolo “Good Talks“, il focus è su ciò che rende una conversazione significativa. Se ci fermiamo a riflettere, non è così scontato che tutte lo siano. Ci sono occasioni in cui si è pienamente presenti e coinvolti, altre in cui si cerca solo di non venir interrotti pur di poter dire la propria su argomenti di cui, facilmente, gli altri sono poco o nulla interessati.

Una delle lezioni più strategiche del libro è l’importanza dell’ascolto attivo o, come lo chiama Brooks, ascolto ad alta voce. In questo sono piuttosto brava, almeno quando sono molto interessata a un argomento e posso imparare qualcosa di nuovo o aiutare chi mi è di fronte. Su questo, il libro mostra quanto possa essere trasformativo avere lo stesso entusiasmo sia quando si ascolta qualcuno parlare di una difficoltà che sta affrontando sia di un risultato di cui è orgoglioso.

I consigli pratici non mancano.

Porre domande aperte che invitano le persone a condividere esperienze e prospettive in modo più approfondito è un buon inizio. Così come usare la tecnica del looping” o parafrasi: riassumere quanto è appena stato detto per assicurarsi di averlo capito correttamente. O ancora, il metodo SLANT per trasmettere attenzione e interesse in una conversazione: Sit up (siediti); Listen (ascolta), Ask & Answer questions (fai domande), Nod your head (annuisci) e Track the speaker (segui l’oratore).

Pratiche che ci permettono di essere presenti e in sintonia in tutti i tipi di relazioni e interazioni e di far sentire gli altri ascoltati e apprezzati.

Nel capitolo “The epidemic of blindness”, il focus è la tecnologia e come questa ha contribuito a un crescente senso di solitudine e disconnessione. Siamo più connessi che mai, ma ci stiamo davvero vedendo e comprendendo?

Questa domanda diventa ancora più urgente se si considerano le divisioni sociali e politiche evidenziate da Brooks. Le statistiche che cita sull’aumento di depressione, suicidi e della sfiducia sono allarmanti e sostiene che “questo sfaldamento sociale sta alimentando le divisioni politiche”. La sua discussione su come la politica possa diventare un sostituto della connessione genuina, portando le persone a trarre soddisfazione dall’urlare contro e odiare coloro con cui non sono d’accordo invece di cercare di capirli, evidenzia una tendenza di cui è difficile non preoccuparsi.

Nel libro, David collega questi mali sociali ai cambiamenti del sistema educativo. Sostiene che le scuole si sono allontanate dall’insegnamento di ciò che lui chiama “abilità morali e sociali“, e che questo ci ha lasciato impreparati a costruire relazioni e comunità forti. È un argomento interessante e attuale che coinvolge tutti.

Ciò però che rende il libro così avvincente è che ci sfida a mettere in pratica le sue intuizioni. Riguarda l’essere intenzionali nelle nostre interazioni, che ciò significhi porre domande più ponderate, ascoltare le risposte o esprimere un apprezzamento sincero. Riguarda l’affrontare le conversazioni con generosità e curiosità, cercando modi per connettersi e comprendere. E riguarda la consapevolezza che anche piccole cose, come porre la domanda giusta al momento giusto o fare un complimento, possono fare una grande differenza nella costruzione di relazioni. Sono certa che ciò che ho imparato dal libro rimarrà con me per molto tempo.

How to Know a Person, più che una guida per conversazioni migliori, è un modello per un modo di vivere più connesso e umano. Con molti riferimenti a fonti letterarie, scientifiche e psicologiche. È una lettura obbligata per chiunque voglia approfondire le proprie relazioni e ampliare le proprie prospettive, e credo che abbia il potere di renderci amici, colleghi e cittadini migliori.

RABBIA: l’EMOZIONE che pensiamo (sempre) di CONTROLLARE

Geoff Farrar aveva 69 anni quando è stato ucciso a martellate dall’amico Dave DiPaolo: compagno di scalate che aveva preso sotto la sua ala quando era ancora adolescente, quasi vent’anni prima, insegnandogli i segreti dell’arrampicata.

C’era, fra i due, un rapporto solido, come quello che normalmente si instaura fra mentore e protetto. Almeno fino a quando Dave non ha ucciso Geoff con un martello a uncino ai piedi di Carderock Recreation, nel Maryland.

Perché?

Cosa è scattato nella testa di Dave per portarlo a commettere un atto tanto violento nei confronti di un amico?

Per quanto sia difficile da accettare “chiunque può perdere la testa all’improvviso e venir assalito da una violenta rabbia omicida”, ha spiegato in relazione a questo episodio lo psicologo forense dell’università dell’Alaska, Bruno Kappes.

Il fatto è che la rabbia può esplodere senza preavviso, soverchiando il giudizio, la compassione, la paura e il dolore. E questo può spiegare, i tanti morti di omicidio e in parte anche perché le persone hanno molte più probabilità di essere uccise da un amico o un conoscente che da uno sconosciuto.

Le emozioni potenti come la rabbia e la paura possono farci sentire forti in una crisi o in una situazione conflittuale. Possono dare a una donna minuta la forza di spostare un’auto e liberare un bambino intrappolato o spingere un soldato contro il normale istinto di scappare, sotto una grandinata di proiettili per salvare un compagno in pericolo.

Un tale circuito cerebrale a risposta rapida ha senza dubbio giocato un ruolo quando il sergente maggiore dell’aeronautica militare statunitense Spencer Stone e due amici hanno immobilizzato un altro passeggero del treno, un terrorista armato di AK-47 e coltello, in Francia qualche anno fa: “Non è stata una decisione consapevole, ho agito e basta. È stato automatico“.

Questa stessa risposta automatica salvavita però può fallire e portare a una tragedia inaspettata e non solo ad atti eroici.

I FATTI

Gli eventi che hanno condotto all’omicidio di Farrar si sono svolti gradualmente. All’inizio, le evidenze raccolte suggerivano che Farrar fosse morto in un incidente di arrampicata. Presto, però, si insinuò il sospetto che DiPaolo, che era improvvisamente scomparso dalla zona e che quel giorno stava scalando anche lui, fosse in qualche modo responsabile.

Quando la polizia lo fermò, due settimane dopo, a Glens Falls – New York, DiPaolo dichiarò di essersi trattato di legittima difesa: Farrar lo aveva aggredito e mentre lottavano a terra, aveva afferrato un martello che si trovava sul sentiero e lo aveva usato per allentare la presa di Farrar.

Questa versione però non era convincente.

Trovare un martello sul sentiero sembrava improbabile, inoltre era difficile credere che un uomo giovane e in forma avrebbe dovuto usare una forza così brutale per respingere un 69enne. Le prove latitavano e questo alimentò pregiudizi e illazioni. Tanti si chiedevano se si fosse trattato di omicidio o di legittima difesa

Geoff, quando venne trovato, era irriconoscibile. Non aveva più la testa, solo una massa viola sanguinante. Il primo colpo, venne poi accertato, è arrivato da dietro, un secondo alla tempia destra, quindi, a sinistra dove l’osso orbitale è stato frantumato spingendo l’occhio fuori dall’orbita, oltre alla frattura della mascella. E, in prossimità del corpo, in una buca poco profonda sul bordo del sentiero, una pietra insanguinata.

È bastato poco per capire che la legittima difesa qui non centrava nulla. E non si era nemmeno di fronte a un incidente di arrampicata, data la posizione del corpo rispetto al percorso, poiché la vittima non presentava abrasioni su gambe e braccia, come quelle che avrebbe riportato uno scalatore in caso di caduta.

È stato attaccato in modo molto selvaggio. L’intera faccenda è durata meno di tre minuti.”

Intorno alla comunità di scalatori e amici, le illazioni continuarono: c’era chi considerava DiPaolo pazzo, chi esaurito, chi dipendente da sostanze. Poiché nessuno lo aveva mai ritenuto capace di fare male a qualcuno. Non così almeno.

Ci vollero due anni prima di arrivare a una risposta.

DiPaolo alla fine accettò un patteggiamento piuttosto che affrontare il processo, firmando una confessione in cui ammetteva di aver ucciso Farrar in un impeto di rabbia. Il 18 luglio 2016, DiPaolo fu condannato a 10 anni di carcere federale per omicidio colposo volontario.

LA VIOLENZA IMPULSIVA

Cosa è stato a scatenare tale violenza?

Questa reazione è stata a lungo oggetto di studio da parte dei neuroscienziati. Per molti anni, i ricercatori hanno postulato che questo tipo di aggressione fosse basato su una regione del cervello chiamata amigdala, che è associata alla paura, e con un livello di attività attenuato nella corteccia prefrontale, nota per le sue funzioni cognitive e il ruolo nel comportamento razionale.

La ricerca ha dimostrato, ad esempio, che i ragazzi aggressivi tendono ad avere un alto livello di attività nell’amigdala e un corrispondente basso livello di attività nella corteccia prefrontale.

Più di recente, le neuroscienze hanno identificato i circuiti neurali dell’ipotalamo associati a pulsioni come sete, fame e sesso, più capaci nel rispondere con velocità e impulsività a diversi tipi di minacce e provocazioni.

Questi circuiti di aggressività fanno parte del meccanismo di rilevamento delle minacce del cervello (situazioni che il cervello decreta tali), incastonato in profondità nell’ipotalamo. Negli esperimenti, quando i neuroni siti nell’ipotalamo ventromediale vengono stimolati da un elettrodo, un animale si lancia in un violento attacco e uccide un altro animale nella sua gabbia. Se la regione viene disattivata, l’aggressività diminuisce bruscamente.

C’è un contesto evolutivo per tali influenze biologiche. L’aggressività improvvisa, a volte definita risposta di lotta o fuga, è vitale per la sopravvivenza, ma non è esente da rischi. Per questo motivo, solo pochi specifici fattori scatenanti attiveranno i circuiti della rabbia del cervello verso l’aggressività improvvisa; ma una volta innescati, la reazione può essere incredibilmente forte.

Stavo per soccombere. È stata una lotta estrema per la sopravvivenza“, ha spiegato Stone, il sergente maggiore dell’aeronautica. “Ero disposto a ucciderlo perché lui era disposto a uccidere me. Stava ovviamente cercando di spararmi e mi ha tagliato la gola con il coltello, quindi è diventato… non barbaro, ma avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per cercare di fermarlo“.

LE RADICI DELLA VIOLENZA

In una specie sociale, il successo di un individuo e l’accesso alle risorse dipendono dal suo rango all’interno della società. L’aggressività, soprattutto tra i maschi, è spesso il modo in cui si stabilisce il predominio nel mondo animale. Gli esseri umani hanno il linguaggio che può rapidamente trasformarsi in violenza esplosiva. “La polizia sta cercando un movente…” sentiamo spesso dire, ma è una ricerca vana. Questo tipo di violenza non è guidata dalla ragione. È guidata dalla rabbia.

Ciò che manca negli sconcertanti resoconti giornalistici di chi improvvisamente scatta violentemente è la storia di stress cronici pregressi sull’individuo, responsabili di innescare questi circuiti.

Prima dell’omicidio, DiPaolo era già considerato una sorta di emarginato, evitato per la sua incoscienza, i modi e gli atteggiamenti sciatti e da drogato. Il suo ex compagno di scalata, Matt Kull, ha detto alla rivista Outside di aver interrotto l’amicizia a causa dell’uso di droghe da parte di DiPaolo durante l’arrampicata e del suo crescente disprezzo per la sicurezza sua e degli altri scalatori.

DiPaolo aveva preso a vivere da solo e dormire in auto. Farrar aveva inoltre preso l’abitudine di criticare pubblicamente i fallimenti dell’amico. Lo status di DiPaolo nella comunità degli scalatori era in caduta libera.

Guardando indietro, possiamo identificare molti degli elementi che potrebbero portare una persona, alle prese con la droga e altre vicissitudini, a scattare in preda alla rabbia. Come possiamo riconoscere gli elementi e le influenze che potrebbero portare una persona, come Stone, a incanalare la sua rabbiain un’azione positiva.

Tutte queste cose erano in un certo senso dentro di me prima“, dice Stone. “Mia madre ha cresciuto me, mio fratello e mia sorella, da sola. Ci ha messo prima dei suoi desideri e bisogni. Ha fatto quello che doveva fare. Questo era in un certo senso innato in me. Mi piace aiutare le altre persone. Ci tengo… quasi fino all’eccesso“.

Otto settimane dopo il fatto del treno, Stone è stato quasi ucciso da un membro di una gang armato di coltello, all’uscita da un bar con gli amici a Sacramento, in California: “Ancora una volta mi sono messo di fronte alle altre persone che venivano minacciate“. Mentre si stava riprendendo dalle ferite da coltello, e stava imparando a convivere con la disabilità, non ha potuto non interrogarsi sui comportamenti messi in atto e quando gli è stato se in futuro avrebbe fatto scelte diverse, ha risposto: “No, reagirò allo stesso modo. È come sono“.

Riconoscere l’importanza della biologia nei nostri comportamenti, persino imparare da essi, contiene solo alcune delle risposte di cui abbiamo bisogno di fronte alla tragedia. Ma è comunque qualcosa da cui partire.

PERCHE’ diventiamo IMMUNI alla SOFFERENZA (di MASSA)

“Più persone muoiono, meno ce ne importa”. Senza mezze parole lo psicologo americano Paul Slovic (che alla percezione del rischio e alla matematica della compassione ha dedicato decenni di studi), riassume la naturale reazione umana di fronte alle tragedie.

Poiché l’indifferenza e l’insofferenza rispetto alle tragedie delle masse è direttamente proporzionale all’aumentare dei numeri. E non perché siamo cattivi, ma, banalmente, perché siamo condizionati da distorsioni cognitive e errori di pensiero.

I numeri, per enormi che siano, anzi proprio quando sono enormi, non riescono a far scattare in noi una risposta emotiva. Per dirla con le parole di Paul Brodeurle statistiche sono esseri umani le cui lacrime sono state asciugate”.

Anziché causarci una risposta emotiva, determinano ciò che Slovic chiama “intorpidimento psichico”: quel distacco che si crea nel cervello di tutti noi, o per lo meno la maggioranza, quando leggiamo i numeri del fenomeno delle migrazioni e dei morti causati da guerre e carestie. Centinaia di migliaia di persone sotto le bombe costrette ad abbandonare le proprie case per colpa di tumulti, fame e siccità. Troppe. Ed è questo che fa scattare in noi il secondo perverso meccanismo: il falso senso di impotenza.

Quando i problemi sono così grandi, per il nostro cervello è difficile pensare di poter fare qualcosa, una qualunque differenza, così ci spinge a rinunciare a fare anche il poco che potremmo.

Il modo in cui razionalmente sappiamo che dovremmo considerare il valore di ogni vita umana, man mano che il numero di persone a rischio aumenta purtroppo non è lo stesso con cui effettivamente lo valutiamo”, spiega Slovic.

Ogni vita umana è di pari valore, più vite sono a rischio più l’importanza di fare qualcosa aumenta. In pratica però la reazione comune è che “la prima vita è la più importante da proteggere in assoluto. Due vite non valgono per noi esattamente il doppio di una, ma un po’ meno”. E il valore che attribuiamo a ogni singola vita diminuisce man mano mentre il numero totale sale. “Quando le potenziali vittime salgono, poniamo da 87 a 88, per non c’è più alcuna differenza, segno che si perde sensibilità man mano che quel numero aumenta”.

L’empatia consiste nel provare a mettersi nei panni dell’altro per capire come si sente, cosa prova. Ma se le persone sono due come si fa? Diventa più difficile e ancor più lo diventa quando sono tante.

Nei suoi esperimenti Slovic (i cui studi si sono incrociati con quelli sulla teoria del prospetto di Kahneman e Tversky) ha dimostrato proprio questo: siamo meno portati ad aiutare il singolo quando abbiamo la percezione che ci siano molte altre persone nelle sue stesse condizioni rispetto a quando non ne siamo consapevoli.

Eppure, anche se non possiamo aiutare tutti, non vuol dire che non dobbiamo aiutare nessuno.

Alla fine è la singola storia che ci commuove, la singola persona quella che vogliamo aiutare. Come la foto di un bimbo siriano di tre anni morto su una spiaggia turca, che ha fatto di più per la causa siriana, dei bollettini di guerra con il computo delle centinaia di morti quotidiane. Prima della pubblicazione della foto il fondo istituito per la Siria dalla Croce Rossa svedese riceveva donazioni per 8 mila dollari al giorno. Dopo la foto, sono diventati 430 mila. “I 250 mila morti in Siria fino a quel momento non avevano suscitato la stessa compassione”.  Le donazioni sono rimaste elevate per circa un mese, poi sono tornate ai livelli precedenti.

Le storie drammatiche su un singolo individuo riescono a regalare una finestra di opportunità in cui siamo improvvisamente svegli e non intorpiditi, e vogliamo, riusciamo a fare qualcosa. Ma poi, se non c’è nient’altro che possiamo fare, nel tempo, ci spegniamo nuovamente. Sono storie importanti e possono essere efficaci ma solo se c’è un’azione concreta che può essere intrapresa.

Al momento una soluzione all’intorpidimento psichico non esiste ancora. Ma essere consapevoli che esiste e degli effetti che causa è il primo passo. E, a mio avviso, non è così poco.

Cosa ne pensate? Anche voi siete caduti in questa trappola?

Quanto puoi ESSERE TU, sui social Media?

Qualche anno fa, la giornalista del Guardian, Elle Hunt, decise, a seguito di una conversazione con amici su film e generi cinematografici, di aprire un sondaggio su Twitter. L’obiettivo era capire se il film Alien, potesse o meno essere considerato un horror.

La sua posizione era chiara: «no, perché un horror non può essere ambientato nello Spazio».

Il giorno dopo, la giornalista trovò decine di email da parte di sconosciuti arrabbiati e di amici preoccupati: il sondaggio aveva ottenuto 120 mila voti e la sua opinione era stata citata da migliaia di persone che se la prendevano con lei per quanto affermato. Molti volevano delle scuse. La ragione di tante attenzioni era che quel sondaggio era finito tra gli argomenti “di tendenza” su Twitter.

La spiacevole esperienza vissuta dalla Hunt è uno dei numerosi esempi di interazioni sui Social in cui un pubblico eccessivamente esteso elabora – in modi solitamente poco indulgenti – un’informazione inizialmente concepita per un pubblico ristretto. Questo fenomeno, molto comune sulle piattaforme social, è noto come “collasso del contesto”.

COLLASSO DEL CONTESTO: NEI DETTAGLI

Il collasso del contesto è dunque l’effetto prodotto dalla coesistenza di molteplici gruppi sociali in un unico spazio, in un unico #contesto.

Dove sta il problema?

Nel mondo reale abbiamo un range di relazioni, che va dai confidenti intimi agli amici, fino ai conoscenti. E, a seconda dei momenti e delle circostanze, mostriamo facce diverse e diciamo bugie per mantenere inalterata l’immagine che gli altri hanno di noi. Nel mondo virtuale, dei social media, questi confini sono sfumati, se non addirittura inesistenti.

Facebook è stato inizialmente impostato per avere un solo tipo di “amico”, in modo che ogni persona che hai accettato come amico avrebbe visto tutti i tuoi post. Negli anni, ha ampliato le sue opzioni per l’ordinamento in base ad “amici intimi”, “conoscenti” e altri gruppi, in modo che gli utenti possano modellare i loro feeddi notizie e pubblicare post mirati.

L’etnografa Danah Boyd, una delle prime ricercatrici della vita sociale online, fa riferimento alla “convergenza sociale” nei siti di social networking. La convergenza sociale, si verifica quando più mondi sociali si fondono. Ciò si traduce in un “collasso del contesto“, il che significa che i social media riuniscono contemporaneamente diversi contesti sociali. È come cercare di chattare comodamente con tua madre, un tuo amico, la tua collega e il tuo ex allo stesso tempo.

Alcuni nuovi problemi sociali sono emersi come risultato di questi circoli sociali che si sono fusi. Devo taggare la mia amica Maria in una foto che pubblico su un socialanche se so che non farà piacere all’altra mia amica Barbara? Se non la taggo, si offenderà? Anche se non pubblico, devo comunque chiedere a Maria di non taggarmi in uno dei suoi post perché sono preoccupato per la possibile reazione di Barbara…

Chi non si è trovato in situazioni simili?

In uno studio del 2012, i ricercatori hanno utilizzato i dati dei focus group per elaborare 36 “regole” dell’amicizia su Facebook. Per molti versi l’amicizia su Facebook è la stessa cosa dell’amicizia nel mondo reale.

Ma sui social, il peso elevato attribuito alla presentazione di un’immagine positiva è portato all’estremo. L’amicizia nel mondo offline è più complessa e comporta doveri più seri. Ci aspettiamo che gli amici ascoltino seriamente le nostre preoccupazioni, che ci sostengano e capiscano quando facciamo cose che non sono educate, simpatiche o interessanti. Online, essere un “buon amico” significa più comunemente mantenere il costrutto di “persona felice” di qualcuno.

Bernie Hogan, ricercatore presso l’Oxford Internet Institute, ci esorta a considerare le amicizie sui siti di social networking come relazioni di accesso, non di intimità, affetto o attaccamento emotivo. Diventare amici su Facebook, significa ottenere i diritti di visualizzazione e pubblicazione delle “performance” identitarie di qualcuno.

Nei contesti vis à vis, spesso abbiamo un maggiore controllo sulla nostra identità perché possiamo personalizzare il modo in cui ci presentiamo in una determinata situazione sociale. Se abbiamo amici con noi, anche loro regolano le informazioni che condividono in base a chi è presente. E, proprio come noi, sono consapevoli delle ripercussioni sociali di rivelare qualcosa che è inappropriato per un pubblico specifico. Ma online, un’amica potrebbe pubblicare una foto di te in una situazione compromettente che diventa immediatamente visibile a tua madre e al tuo capo. È raro che un amico mostri intenzionalmente una foto del genere a un pubblico inadatto nella vita reale. L’equivalente digitale di “un lapsus” – come pubblicare una foto di una coppia e rovinare il loro alibi socialmente accettabile – accade facilmente e spesso. Ed è meno probabile che passi inosservato in un formato in cui tutto viene scritto e trasmesso a una rete convergente.

Quando si accetta una richiesta di amicizia online, occorre ricordare che si sta fondendo il mondo di questa nuova persona con il nostro. Si sta concedendo al nuovo “amico” i diritti di pubblicazione della nostra identità sociale.

Ps…

Non è un caso se molti utenti, per mitigare gli effetti del collasso del contesto, ricorrano a strategie le più diverse, come autocensurarsi, creare identità multiple o utilizzare le impostazioni per la privacy.

E voi? Avete mai fatto caso a questo fenomeno? Vi trovate a vostro agio o avete adottato strategie utili che volete condividere?

E se NON fosse un PLAGIO? ..Ma solo CRIPTOMNESIA!

Una serata come tante, un gruppo di amici che cenano insieme, chiacchiere che si mescolano e confondono in un’unica trama senza né strappi o fronzoli. Ad un tratto, il discorso piega sulla difficoltà celata nel cucire racconti, di libri incompiuti, manoscritti lasciati ammuffire in un cassetto e di pensieri annotati nel cuore della notte che si sgretolano alle prime luci dell’alba. Di quelle storie appena abbozzate, ne avevo non poche, e va a finire che, fra un piatto e l’altro, ne parlo con un’amica.

Passano le settimane e poi qualche mese, e rivedo quell’amica che, con leggerezza e spensieratezza, interrompe i convenevoli per mettermi al corrente di una novità che la riguarda: “Sto scrivendo un libro”. Sapevo che subiva da tempo il blocco dello scrittore, e fui felice per lei, fino a che, ascoltandone i contenuti, mi sono resa conto che era esattamente il tema di cui avevo parlato quella sera a cena.

Non volendo rovinare la nostra amicizia, ho taciuto. Mi era difficile credere che lo stesse facendo di proposito, visto che me lo stava raccontando. Impossibile credere che mi avesse deliberatamente rubato un’idea. Mi rannicchiai fra la tristezza e la delusione, la rabbia e lo stupore fino a che mi ricordai che ciò che avevo appena sperimentato, non era nient’altro che una dinamica piuttosto diffusa, e dal nome inusuale: criptomnesia[1].

COSA È LA CRIPTOMNESIA

La criptomnesia è un disturbo della memoria[2] che ci porta a ricordare un’informazione, ma non il contesto in cui l’abbiamo appresa. Trasformando quel ricordo, che affiora alla mente in un secondo tempo, come idee e intuizioni originali.

Qualcuno etichetta il fenomeno come furto inconsapevole, tanto per delimitare un verdetto di innocenza, ma seminare comunque il dubbio. Ricordare quel fenomeno, mi ha permesso di preservare l’amicizia. E, anche, di portare alla memoria molti altri casi più o meno noti.

JUNG, MELVILLE, BALZAC, WILDE

Jung parla di criptomnesia nei suoi scritti, riferendola anche a sé stesso. Nel corso degli anni, venne a scoprire che molte cose, che lui attribuiva al suo intuito e alla sua creatività, già esistevano, in qualche libro o in qualche credenza.

Ricordate Ishmael, il naufrago caro a Melville? E’ il 1851 quando, negli Stati Uniti, viene pubblicato il libro. Nel 1719, un altro naufrago, Robinson Crusoe, si rivela al mondo. Melville aveva forse letto Crusoe? Ha forse ripescato Ishmael dal mare di Defoe? Chissà se il ricordo è diventato opportunità…

Balzac, ne “Le chef d’oevre inconnu”, racconta di un grande pittore che sta lavorando al ritratto di una donna, così intenso da suscitare in lui una passione smisurata. Finirà tutto in tragedia nel momento in cui il pittore mostrerà il dipinto, morendo dopo aver dato fuoco a tutti i suoi dipinti. Oltre la Manica, Oscar Wilde invece era intento a scrivere “Il ritratto di Dorian Gray”, un racconto inverso rispetto a quello dello scrittore francese. Un uomo, innamorato di sé stesso, vuole trasformare la sua vita in un’opera d’arte e ucciderà, fra gli altri, il pittore che lo ha ritratto.

… e OLIVER SACKS

A raccontare un caso personale di criptomnesia è Oliver Sacks, ne “Il fiume della coscienza”, una raccolta postuma di inediti, e dove in uno dei saggi, narra di un suo falso ricordo: i bombardamenti subiti da Londra durante la seconda guerra mondiale. Sacks ha descritto l’esplosione di una bomba incendiaria vicino a casa, per poi scoprire, a pubblicazione avvenuta, che quel ricordo non era suo, ma di suo fratello maggiore, che gliel’aveva descritto in modo dettagliato in una lettera. Negli anni, Oliver aveva ricreato nella propria mente l’immagine evocata da quella lettera, rendendola man mano sempre più sua: fino a sovrapporre la linea di demarcazione tra racconto e ricordo.

Ho il sospetto che molti degli entusiasmi e degli impulsi, che mi sembrano in tutto e per tutto miei, possano essere scaturiti da suggerimenti altrui dei quali ho subito, in modo più o meno consapevole, la forte influenza, e che ho poi dimenticato. […] In qualche caso queste dimenticanze possono estendersi all’autoplagio, e mi trovo a riprodurre intere frasi ed espressioni trattandole come nuove. […] Ho il sospetto che tutti incappino in tali dimenticanze, forse comuni soprattutto in chi scrive, dipinge o compone, giacché è probabile che la creatività ne abbia bisogno per riportare alla luce ricordi e idee, e osservarli in contesti e prospettive nuovi”.

GEORGE HARRISON, STEVENSON E UMBERTO ECO

Un altro caso eclatante è quello che ha protagonista George Harrison, che nel 1970 incise una canzone, My sweet lord, che conteneva parti sovrapponibili a quelle di un brano di Ronald Mack di otto anni prima (He’s so fine). Il plagio fu così palese che Harrison al proposito disse che era stupito lui stesso che non fosse riuscito a notarlo. Questo errore gli costò 587 mila dollari[3].

Robert Louis Stevenson, riprendendo in mano “Racconti di un viaggiatore” di Washington Irving, si rese conto di aver inavvertitamente sottratto diverse frasi dallo scritto dell’autore statunitense per comporre “L’Isola del tesoro”.

Umberto Eco, confessò di aver scoperto che alcuni dettagli che aveva letto da un antico volume erano affondati nei meandri della memoria per poi riemergere ne “Il nome della rosa”[4].

I BRAVI ARTISTI TRASFORMANO IN MEGLIO CIO’ CHE PRENDONO IN PRESTITO

Il fenomeno è piuttosto diffuso. E nonostante sia facile pensare male, è sufficiente conoscere almeno un po’ cosa sta dietro l’attitudine creativa, per capire che molti plagi sono stati fatti in buona fede[5].

C’è un esperimento, del 1989, che lo dimostra: è stato chiesto a gruppi di quattro studenti di produrre un certo numero di voci per una data categoria; conclusa questa fase, agli stessi studenti veniva richiesto di ricordare quali tra le varie voci appartenessero a ciascun soggetto; in una terza fase, infine, veniva chiesto di generare nuove voci per le stesse categorie: alla fine, il 70% dei partecipanti si ritrovava a segnare come nuova voce una di quelle prodotte dai compagni di gruppo.

Ciò che ci impedisce di ricordare la fonte e l’origine di ogni informazionein nostro possesso, è in realtà un punto di forza: se così fosse saremmo sopraffatti da informazioni spesso irrilevanti.

Il disinteresse per le fonti ci consente di assimilare quello che leggiamo, quello che ci viene raccontato, quello che altri dicono, pensano, scrivono e dipingono, con la stessa intensità e ricchezza di un’esperienza primaria. Questo ci permette di assimilare l’arte, la scienza e la religione attingendo alla cultura nella sua totalità, di penetrare e contribuire alla mente collettiva”.

Alla mia amica, non ho mai fatto notare il plagio. Chissà se ne è resa conto da sola, o se è ancora convinta della bontà della sua intuizione. E chissà, se di quell’idea, alla fine io ci avrei fatto qualcosa. Come scrisse Philip Massinger: “I cattivi poeti deturpano ciò che prendono in prestito, i buoni poeti lo trasformano in qualcosa di migliore, o se non altro in qualcosa di diverso”.

E poi, chissà quante idee che considero mie, le ho in realtà sottratte ad altri… Quante delle narrazioni[6] che reputo mie per intero, sono travestimenti più o meno simili dall’originale.

E voi, avete in mente qualche plagio innocente a cui avete assistito, di cui siete stati vittime o inconsapevoli carnefici?

FONTI

[1]  Brown A.S., Murphy D.R., (1989). Cryptomnesia: delineating inadvertent plagiarism. Journal of Experimental psychology: learning, memory and cognition, 15(3), 432-442

[2]  Macrae C.N., Bodenhausen G.V., Calvini G., (1999), Context of cryptomnesia; may the source be with you, Social Cognition 17, 273-297

[3] Criptomnesia: you’ve never had an original thought, feb. 3, 2023

[4]  Eco U., (1992), Interpretaion and overinterpretation. Cambridge University Press

[5]  Tenpenny P.L., Keriazakos M.S., Lew G.S., Phelan T.P., (1998), In search of inadvertent plagiarism. The American journal of psychology, 111(4); 529-559

[6] Gorvett Z., (2023, March 26), Why your colleagues can’t help stealing your ideas, BBC Worklife

BOSS in INCOGNITO NON è la SOLUZIONE ai PROBLEMI (in AZIENDA)

Facendo zapping, mi sono accorta che Boss in incognito – un reality game che mette a confronto il capo di una fabbrica con i dipendenti – è ripartito sui canali Rai. Più nello specifico, al capo di una importante realtà imprenditoriale, viene camuffato l’aspetto e fatta assumere una identità fittizia così da mescolarsi ai dipendenti e scoprire cosa pensano dell’azienda.

Il successo di un programma televisivo però non sempre è proporzionale alla sua utilità nel risolvere problemi. Per risolvere un problema occorre capire qual è il problema.

Se informazioni e tempo scarseggiano, si diventa vittime di decisioni irrazionali, una tra tutte l’euristica della disponibilitàche fa considerare eventi con una forte componente emotiva, più decisivi e probabili.

Eppure…

Segretezza: elemento chiave di Boss in incognito. È necessaria?

Mere observation effect: la semplice osservazione di un fenomeno lo modifica. Se sappiamo esserci un vigile modereremo la velocità alla guida. Ma l’effetto induce una modifica esclusivamente in quei comportamenti che sappiamo essere osservati e per i quali ci saranno conseguenze. Non è questo a rendere un comportamento, virtuoso e sostenibile nel tempo.

Campionamento sporadico, basato sulla ricerca di eventi eclatanti. L’approccio non è dettato da una scelta metodologica ma dall’esigenza di segretezza; se vogliamo mantenere l’incognito, dobbiamo prevedere che uno stesso “agente” non possa osservare una situazione più di una volta.

L’unico approccio utile è mantenere il senso della prospettiva e basare le decisioni su evidenze certe e numericamente rappresentative. Nonché cercare comportamenti positivi da estendere a tutti e non additare ciò che è negativo.

Soprattutto perché se ciò che è considerato negativo non lo è in percentuale maggioritaria, evidenziarlo servirà solo a farlo percepire come “la norma” e quindi invoglierà a uniformarsi. Questa è anche una delle ragioni che spiega il fallimento di tante campagne sociali, come dimostra l’economia comportamentale.

Cosa ne pensate?

DIRE ADDIO

Le ultime ore della sua vita, poco prima che facesse giorno, mia madre mi chiese con fermezza: “poni fine al mio dolore”. Qualsiasi cosa dicessi, ripeteva “fallo smettere”. A ogni tocco, leggero, mi implorava “aiutami a morire”.

Mia madre aveva un tumore osseo e metastasi diffuse.

Eravamo in ospedale. Era ottobre, ma non ricordo se fuori facesse caldo o piovesse o se gli alberi avessero iniziato a perdere le foglie. Ci trasferivamo da un reparto all’altro, senza sapere cosa succedeva al di fuori. Tutti i giorni erano uguali.

C’erano drenaggi di ogni tipo, l’ossigeno, e flebo che si susseguivano l’una all’altra. Infermieri, medici, farmaci e morfina. C’era un campanello che mia madre suonava al bisogno, a cui ricorreva sempre meno; in preda al dolore, incapace di mettersi seduta nel letto, incapace di respirare. Non camminava più, l’unica cosa che le restava, nei momenti migliori, una poltrona in cui trovare dignità.

L’ultima volta che vi ricorse, fu per cercare il cielo, poi chiuse gli occhi. Un silenzio disatteso, a rompere il silenzio.

In quel reparto, in quegli ultimi giorni, ho trascorso accasciata sulle sedie di plastica, un numero imprecisato di ore. Che paiono, ora, inique. L’ultima notte, nel mio letto. Mia madre mi aveva spinto a tornare a casa; era tranquilla, come sanno essere le persone che sono già altrove.

Non credo ci sia una parola per descrivere la sensazione che si prova quando qualcuno sta morendo. Certo, molte sono le emozioni, ma ciò a cui mi riferisco è quella che pervade la fine. La sensazione degli ultimi giorni. È un sentimento fatto di desideri opposti. Quello dell’attesa e dell’immediatezza. Del volere che il tempo rallenti e del volere che il tempo acceleri. Di volere, e allo stesso tempo non volere affatto, che tutto finisca.

Pur avendo fatto della scrittura un lavoro, non ho mai scritto di mia madre. Per la paura di venir sommersa. Dalle profondità in cui annegano i sopravvissuti.

Il sentimento di quegli ultimi giorni era quello di un ritiro dal mondo, di un isolamento. Difficile riappacificarsi con il suo opposto, l’amore. O forse, l’amore è l’addio alla vita. Ma non ci è dato scegliere il momento.

Quell’ultima alba, con il sole che sorgeva e la città tornava a vivere, mia madre chiese “fa che il dolore finisca” e per quella volta, forse l’unica fra tutte, l’ho amata davvero, assecondandola.

Di queste cose avrei voluto scrivere spesso, ma non potevo. Ogni anno, di questi giorni, pensieri affollavano il cuore e io non facevo altro che allontanarli. Ma quel richiamo è insistente. Si è rifiutato di scomparire per 31 anni. Mentre scrivo, mi rendo conto che non è la storia di mia madre quella che sto narrando. Ma del fatto che per saper dire addio occorre saper amare profondamente. Sto scrivendo cosa significa amare qualcuno e perderlo ma sentirsi così infinitamente fortunati da averlo vissuto, quell’amore. Smettendo di condannarlo.

Forse, è questo il mistero della scrittura. O dell’amore.

Il CONFLITTO: una INDUSTRIA in ESPANSIONE L’ARTE del NEGOZIATO: la SOLUZIONE

Qual è il modo migliore di gestire i conflitti? Qual è il miglior consiglio per una coppia che sta per divorziare e che vorrebbe raggiungere un accordo equo e soddisfacente? Qual è la miglior strategia per ottenere un aumento o per evitare uno sciopero?

Negoziare è un fatto della vita, capacità strategica del fare manageriale e attività relazionale irrinunciabile.

Si negozia con il marito su dove andare a cena, e con il figlio sull’ora alla quale andare a letto. Il negoziato è un mezzo fondamentale per ottenere dagli altri quello che si vuole. E’ una comunicazione nei due sensi intesa a raggiungere un accordo quando voi e la controparte avete interessi in comune e altri in contrasto.

Tutti vogliono partecipare alle decisioni che li riguardano e sono sempre meno coloro che accettano decisioni prese da altri: l’arte negoziale è indispensabile per risolvere il contrasto.

Solitamente le persone vedono due modi di trattare: quello duro e quello morbido.

Il negoziatore morbido cerca di evitare il conflitto personale, e così fa rapide concessioni allo scopo di raggiungere un agreement, cercando una soluzione amichevole che nel tempo lo fa sentire sfruttato.

Il negoziatore duro vede ogni situazione come uno scontro di volontà nel quale la parte che assume l’atteggiamento più radicale e lo mantiene più a lungo, se la cava meglio. Vuole vincere, ma spesso provoca solo una reazione dura che esaurisce lui e guasta i rapporti con la controparte.

C’è un terzo modo di negoziare, nè duro, nè morbido ma duro E morbido. E’ il negoziato dei principi (principled negotiation), sviluppato all’Harvard Negotiation Project: “decidere le soluzione in base ai loro meriti piuttosto che attraverso un processo di tira e molla concentrato su ciò che ciascuna parte dice di volere o non volere”.

Suggerisce che si miri al vantaggio reciproco e che, laddove gli interessi sono in conflitto, si insista affinchè il risultato si basi su criteri di equità indipendenti dalla volontà delle parti. Ossia duro nel merito, morbido verso le persone. Consentendo di essere corretti pur proteggendosi contro coloro che vorrebbero approfittare della vostra correttezza.

Questo approccio è stato usato dai diplomatici americani nei colloqui con l’Unione Sovietica sul controllo degli armamenti, dai legali di Wall Street, che rappresentano le 500 società della classifica di Fortune, in processi di violazione delle norme antritrust, nonchè dalle coppie per decidere qualunque cosa, dove andare in vacanza o come dividere i beni in caso di divorzio.

Ogni negoziato è diverso, ma gli elementi non cambiano; chiunque può imparare questo metodo. Se sa come farlo. Se ti interessa approfondire il tema, scrivimi la tua mail per rimanere aggiornato e conoscere le date dei corsi.

Buona negoziazione!