PERDERSI per RITROVARSI. Il SOLLIEVO che vale la pena SPERIMENTARE. Di tanto in tanto.

Avete mai sperimentato il piacere di perdere, volutamente, qualcosa? L’evento extra cool, l’inaugurazione di un locale, la sfilata, la presentazione dell’ultimo iPhone, informazioni e notizie…

Se poi, nel sottrarvi avete anche provato sollievo, benvenuti nel club del ROMO, relief of missing out, ovvero il sollievo di perdere qualcosa.

Dopo la FOMOfear of missing out, la paura di perdersi qualcosa (una trappola tutt’altro che ottimale per la sopravvivenza, che ci spinge a esagerare, che si tratti di cibo, eventi o informazioni), è arrivata la ROMO.

Un po’ come avviene con le grandi abbuffate, la necessità di fare a meno di ciò che ci ha appesantito, saturato, forzato è una necessità. Non è nuovo il detto “il troppo stroppia”.

Questo perché la maggior parte del desiderio odierno è disinformato, non necessario. Non a caso, la FOMO aumenta con le opzioni disponibili. Un’incontrollabile corsa sulla ruota del criceto di desideri disinformati che si nascondono dietro la prossima novità.

Le cerchiamo come un predatore cerca una preda nascosta nella giungla. Ma non richiede sforzo: è semplicemente in agguato. E noi, siamo bravi a farci catturare.

Ho sperimentato la prima volta, questo tipo di sollievo, qualche anno fa. Quando per otto giorni ho preso parte a un campo di sopravvivenza. Qui, ho imparato a fare a meno non solo di vestiti, cibo e un letto comodo dove riposare ma anche del telefono e della continua connessione con il mondo. Non è stato facile, ma alla fine, più che della mancanza di informazioni, ho patito la fame e la scomodità. Scoprendo anche che nessuna delle notizie che mi ero persa ha inciso sulla mia vita privata e professionale.

ROMO: questa sconosciuta

Se dunque la FOMO è la necessità di non perdersi nulla, la ROMO solleva dal sentirsi obbligati a essere informati su tutto.

Al proposito, ricercatori britannici e americani specializzati nell’analisi dei Media hanno cercato di comprendere meglio questo fenomeno e di individuare i motivi per cui le persone evitano di leggere le notizie.

Al termine di una serie di interviste approfondite, gli esperti hanno constatato che, al di là di una semplice mancanza di interesse, c’era la volontà di proteggersi da informazioni ansiogene: “Le persone che abbiamo intervistato ritengono che queste informazioni generino non solo paura, ma anche sentimenti di incertezza e mancanza di controllo”, come si legge nell’articolo pubblicato sulla rivista Political Communication.

Come una vera e propria strategia di evitamento, ROMO invita necessariamente alla disconnessione dato che le principali fonti di informazione oggi sono digitali. Ci concediamo quindi più momenti di vita che non dipendono dall’uso degli schermi dei nostri computer, dello smartphone o della TV, al fine di tagliarci fuori dal mondo quando il contesto è troppo pesante o morboso. Soprattutto, è un modo per adottare l’approccio opposto al doomscrolling, la fastidiosa abitudine che consiste nello scorrere compulsivamente i feed di notizie sui social network.

JOMO vs ROMO

Al di fuori della sfera digitale, si parla anche di JOMOjoy of missing out, gioia di perdere qualcosa. Acronimo che bene illustra la gioia di perdersi un evento, a favore di un momento per sé stessi.

Il termine sembrerebbe nascere nel 2011 dallo scrittore Anil Dash che, quando nacque suo figlio, trascorse molto tempo a casa utilizzando sempre meno telefono e tv, quasi disconnesso. Questo gli ha permesso di godersi le proprie attività, prendersi del tempo per sé stesso e il figlio senza sentire nessuna mancanza di ciò che accadeva all’esterno e, anzi, provare una certa gioia nel ritrovare consapevolezza del proprio tempo per dedicarsi alle cose importanti.

Che si tratti di notizie o eventi, perdersi può insegnarci molto di noi stessi e regalarci sorprese inaspettate. Secondo me vale la pena provarci. E voi, cosa ne pensate?

MENO E’ MEGLIO… anche quando si scrive

Quando scrivete una mail, un sms o registrate un vocale su whats’app quanto rispettate la regola del “meno è meglio”? 

Una delle convinzioni che spesso fanno deragliare i nostri migliori buoni propositi è che “di più è meglio”, perché pensiamo che scrivere tanto ci faccia sembrare più intelligenti o perché abbiamo tante cose da dire. Oppure temiamo che l’essere troppo concisi, ci costringa a tralasciare informazioni importanti.

Qualunque sia la causa, il risultato che otteniamo non è solo quello di tediare l’interlocutore, ma addirittura spingerlo a non leggere ciò che gli inviamo.

Facciamo una prova: se aprendo la casella di posta dovessi scegliere fra queste due e-mail, solo basandoti su oggetto e mittente, quale leggeresti per prima?

Probabilmente quella più corta.

Ciò che facciamo, è interpretare la lunghezza di un messaggio come un’indicazione di quanto sarà difficile e dispendioso in termini di tempo rispondere, il che è un altro motivo per cui scegliamo di non impegnarci in una comunicazione prolissa.

In uno studio, sono state inviate due versioni di un’e-mail a 7.002 membri dei consigli scolastici negli Stati Uniti chiedendo loro, nell’ultima riga, di completare un breve sondaggio online. Un’e-mail conteneva 127 parole; l’altra 49 parole.

L’ e-mail con 49 parole ha prodotto quasi il doppio delle risposte al sondaggio: un tasso di risposta del 4,8% vs 2,7%.

Molti hanno guardato la lunghezza dell’email di 127 parole scegliendo di non interagire. Altri non l’hanno letta fino in fondo e non hanno colto la richiesta finale (rispondere al sondaggio). Inoltre, alcuni potrebbero aver utilizzato la lunghezza dell’e-mail come indicatore del tempo che ci sarebbe voluto per completare il sondaggio e risultando dispendioso hanno deliberatamente ignorato la richiesta.

Entrambe le e-mail indirizzavano i destinatari allo stesso identico sondaggio, il cui completamento richiedeva circa cinque minuti.

La maggior parte di chi riceve un’email, ma soprattutto quelli che hanno poco tempo, rischiano di essere scoraggiati da messaggi e richieste che si aspettano difficili e onerose da gestire.

Coloro che abbandonano anzitempo un lungo messaggio potrebbero, dando una scorsa al testo, decidere che è troppo faticoso da affrontare in quel momento – troppi argomenti, azioni o parole richieste –, sperando o ripromettendosi di ritornarci sopra più tardi.

Alcuni in realtà non riprenderanno più la lettura del testo. Altri sì, ma a quel punto potrebbero aver perso una scadenza o qualche informazione ormai inutilizzabile.

In media, un messaggio prolisso verrà trattato meno rapidamente di un messaggio breve. Nel peggiore dei casi, un messaggio prolisso sarà relegato allo stesso destino delle centinaia di altri messaggi che languono nelle caselle di posta, per non essere mai lette.

PAGARE DAZIO

Anche quando vengono lette, le comunicazioni impongono un sacrificio: più lungo è il messaggio, maggiore è l’impegno, lo sforzo, il tempo, ecc.

Immagina di ricevere 120 e-mail ogni giorno, ciascuna lunga tre paragrafi. Leggerle integralmente richiederebbe quattro ore.

Oppure capovolgi la situazione e immagina di inviare un messaggio di tre paragrafi a 120 dipendenti della tua organizzazione.

Ogni destinatario impiega in media due minuti per leggere quello che hai scritto. Tra i 120 dipendenti, il tuo messaggio realizzato con cura e attenzione, imporrà un impegno di quattro ore totali. Se riducessi la lunghezza di un solo paragrafo, risparmieresti 80 minuti totali di tempo dei dipendenti.

Scrivere in modo conciso richiede una spietata volontà di tagliare parole, frasi, paragrafi e idee non necessarie. Può essere difficile cancellare le parole che si è impiegato del tempo a buttare su carta. Ma farlo aumenta le possibilità che il tuo pubblico legga ciò che scrivi.

Nancy Gibbs, ex caporedattrice della rivista Time, direbbe al suo staff che “ogni parola deve guadagnarsi il suo posto in una frase, ogni frase deve guadagnarsi il suo posto in un paragrafo e ogni idea deve guadagnarsi il suo posto in un testo”.

SCRIVERE NON E’ PER TUTTI

La maggior parte di noi non è mai stata addestrata a scrivere in maniera concisa E la maggior parte di noi non è stata nemmeno addestrata all’abilità di editing.

Infatti se pur nella stesura del testo non ci siamo dilungati troppo, tendiamo a recuperare nel momento dell’editing: aggiungendo contenuti anziché rimuoverli. In uno studio condotto dai ricercatori dell’Università della Virginia, ai soggetti del test è stato chiesto di leggere e riassumere un breve articolo sulla scoperta delle ossa di re Riccardo III sotto un parcheggio a Leicester, in Inghilterra.

Dopo aver completato il riassunto, è stato chiesto loro di modificarlo e di migliorarlo: l’83% dei partecipanti allo studio ha aggiunto parole. Lo stesso modello si è manifestato in argomenti che vanno dagli itinerari di viaggio ai brevetti: tendiamo ad aggiungere idee anziché sottrarle o rimuoverle nel processo di modifica.

Lo sforzo aggiuntivo richiesto per scrivere in modo efficace è un investimento. È più probabile che si trovi il tempo per interagire a messaggi brevi, ben strutturati e facili da leggere.

Dedicare un po’ più di tempo in anticipo per essere concisi fa risparmiare tempo agli interlocutori e ai mittenti riducendo i follow-up, le incomprensioni e le richieste lasciate insoddisfatte.

La prossima volta che dovete scrivere, pensateci!


 FONTI

QUANDO la PROMOZIONE SFUMA di un SOFFIO (per colpa di un mancato sponsor … forse)

Eri strasicuro, la promozione, per cui tanto ti eri dato da fare, era in arrivo, non a caso il capo ufficio più volte aveva portato ad esempio il tuo impegno, e l’AD ti aveva elogiato pubblicamente per come avevi gestito un progetto con un cliente importante.

Ma poi le cose sono andate diversamente…

Pur riflettendoci, non riesci a capacitarti di cosa sia andato storto, non ci sono stati da parte tua errori evidenti, mancanze… anzi. Tutto il contrario.

E se l’errore fosse stato quello di non saper distinguere fra i tuoi sostenitori, fan per usare un gergo moderno, e coloro che hanno un reale impatto sulla tua crescita professionale?

I fan sono persone che hanno una visione positiva di un dipendente, di un collega, ma non sono personalmente coinvolte nel successo di quell’individuo. Puoi avere dei fan, come l’ad, e un mentore, il capo ufficio, ma non avere degli sponsor.

CHI E’ UNO SPONSOR

Uno #sponsor è qualcuno che ha investito personalmente nella carriera di un dipendente e che dispone anche di sufficiente potere per influenzare decisioni aziendali come promozioni e aumenti.

In questo caso, l’errore è aver pensato che il capo ufficio fosse lo sponsor, ignorando più o meno consapevolmente che avesse anche titolo nell’organizzazione per sostenerne la promozione.

Non tutti hanno uno sponsor ma, per il successo professionale a lungo termine, averne è fondamentale. Ecco perché è importante saperli individuare e coltivare.

Occupandosi di comportamento organizzativo non è raro trovarsi a gestire situazioni di questo tipo.

Per non rimanere delusi, limitare i danni e utilizzare al meglio sforzi, risorse e capacità occorre essere in grado di distinguere e individuare chi può essere per noi solo un sostenitore e chi invece ha sufficiente potere e ruolo per prendere decisioni che ci riguardano.

Per semplificare, possiamo classificare il mondo del lavoro in quattro tipologie: fan occasionali, superfan, mentori e sponsor.

FAN OCCASIONALI E SUPER FAN

Hanno una visione positiva di un dipendente ma non si sentono personalmente responsabili del suo successo. Se qualcuno chiede loro informazioni su una determinata persona, diranno cose carine ma non si impegneranno a sostenerla. Né i fan occasionali né i super fan faranno qualcosa per supportare il dipendente. Nel nostro esempio, l’amministratore delegato era un superfan: sebbene fosse disposto a lodare il dipendente pubblicamente, non era personalmente coinvolto nel suo successo al punto da sostenerne la promozione.

Spesso confondiamo fan e superfan con gli sponsor.

MENTORI

Investono nello sviluppo del dipendente molto più di un fan. Si preoccupano di aiutare un individuo ad avere successo, ma non hanno il potere necessario nell’organizzazione per assumere un ruolo di sponsorizzazione. La differenza fondamentale tra sponsor e mentori è che, con uno sponsor, il focus della relazione è nel sostenere la progressione di carriera di un individuo e, con un mentore, l’enfasi è sullo sviluppo del dipendente come persona e professionista.

Mi è capitato di lavorare con un giovane professionista che credeva, impropriamente, che il senior manager a cui riferiva, fosse uno sponsor forte, perché spesso lo portava a pranzo, lo presentava a persone di alto livello e lo indirizzava su come affrontare situazioni interpersonali difficili sul lavoro. Tuttavia, quando si trattava di inserirlo in progetti prestigiosi, non aveva sufficiente potere e ruolo per farlo.

SPONSOR

Gli sponsor sono come i super fan in quanto parlano apertamente delle prestazioni di una persona, ma possono usare il loro ruolo e potere nell’azienda per avanzarne la carriera. Il ruolo di uno sponsor è investire nello sviluppo del dipendente. La sponsorizzazione può assumere la forma dell’inclusione intenzionale della persona in team desiderabili, garantendo l’accesso su progetti in linea con i suoi interessi e consentendogli di acquisire le competenze necessarie per l’avanzamento di carriera.

Una trappola comune per molti è presumere che solo i dirigenti senior possano essere, di default, sponsor efficaci. Sebbene le aziende abbiano spesso programmi formali di mentoring, la sponsorizzazione tende ad essere informale e organica, quindi le conversazioni sincere sono importanti per confermare il livello di investimento e supporto personale di un potenziale sponsor.

Il modo in cui gli individui vengono supportati o meno da manager e leader nelle loro organizzazioni ha un impatto diretto sul successo lavorativo e sulla carriera.

Le risorse umane hanno un ruolo importante in tal senso. Possono e devono aiutare i dipendenti a identificare le persone nell’organizzazione che possono migliorare le loro prospettive di carriera. Questo vale per tutti ma soprattutto per quei professionisti che sono i primi, nelle loro famiglie, a lavorare in un contesto aziendale o di servizi professionali. Spesso non hanno nessuno che possa consigliarli e rischiano più di altri di confondere sponsor con mentori.

Anche se un leader si considera un paladino della diversity and inclusion, questo non lo trasforma automaticamente in sponsor, ma in mentore. Con tutto quello che questo può comportare.

LA FIDUCIA

La fiducia è una parte importante della creazione di una relazione di supporto e uno dei modi in cui le persone costruiscono fiducia con gli altri è essendo affidabili. Trovare il tempo per fornire supporto quando è necessario crea fiducia. I migliori mentori e sponsor forniscono soluzioni concrete, feedback che contribuiscono alla crescita e allo sviluppo di un dipendente.

Potrebbe non essere sempre ciò che l’individuo vuole sentire, ma spesso può essere ciò di cui ha bisogno.

Non esiste un mix perfetto di tipi di supporto in un’organizzazione. Soprattutto a inizio carriera. Ciò che si dovrebbe fare è mirare a costruire, nel tempo, team che includano individui di ciascuna tipologia e rappresentino vari livelli all’interno della gerarchia organizzativa e, di conseguenza, diversi tipi di potere.

I leader dovrebbero assicurarsi che la loro azienda disponga di un sistema per il progresso di carriera e di una politica di diversità e inclusione che tutti, compresi mentori e sponsor, comprendano. Per i dipendenti è importante sapere come distinguere tra fan occasionali, super fan, mentori e sponsor.

Riconoscendo i diversi tipi di sostenitori nel proprio ecosistema organizzativo, adottando misure per sviluppare un’ampia coalizione di supporto e rivisitando regolarmente la propria matrice di supporto, i professionisti possono posizionarsi per il successo ora e in futuro.

E, credetemi, non è poco.

COSA ho IMPARATO sulla VITA da chi è SOPRAVVISSUTO al SUICIDIO

C’è un solo problema filosofico veramente serio” – scriveva Camus nel 1942 ne Il mito di Sisifo – “e questo è il suicidio“.

Decisione temuta, maledetta. Non è un caso se anche i giornali, nella maggior parte dei casi, evitino di nominarlo. E non per rispetto.

Sul #suicidio (che piaccia o meno è la conseguenza di una scelta) rifletto da sempre, sia per il suo rigore filosofico (decidere di vivere, dopotutto, è l’ultimo impegno esistenzialista) sia per la ostinata provocazione. A cui si aggiungono un paio fra amici e colleghi che l’hanno optato come scelta ultima e alcune letture e film che hanno lasciato il segno.

Seppur il mio sia solo un ridicolo tentativo di svelare il sottile limite che spinge alcuni a valicarlo e altri a ricredersi, sono consapevole che seppur non siano pochi coloro che lo scelgono, molti di più coloro che lo rifuggono, non sono trascurabili nemmeno coloro nei quali, il tema in questione, provochi il sonno, per non dire la noia.

Come è accaduto con Near Death Experience: Paul (impersonato dallo scrittore francese #Houellebecq), è un impiegato che dice alla moglie che sta andando a fare un giro in bici prima di cena, ma in realtà si perde tra rocce e sterpaglie, intenzionato a suicidarsi.

Smettiamola di giocare” – direbbe Camus – “e diventiamo sinceri su ciò che conta”. Pur non essendoci alcuna indicazione che Camus abbia mai considerato di togliersi la vita; il suo saggio rappresenta un esteso esperimento mentale, che affronta l’enigma di come esistere in modo significativo in un universo assurdo.

Tornando a Paul/Houellebecq nel film è ubriaco, incapace di reggere una sigaretta, la linea della bocca costantemente all’ingiù, perché nella vita del suo personaggio, e forse anche nella sua, non c’è di che essere felici. I tentativi di suicidio sono goffi, improbabili, continuamente fallimentari.

«Paul tu parli troppo e non ti suicidi abbastanza» dice. La rappresentazione della volontà di togliersi la vita è scandalosa di per sé.

Ma in assoluto la battuta, in perfetto stile Houellebecq, che rimane maggiormente impressa è quando, nei molti pensieri di cui Paul ci rende partecipi, sentiamo dire: «Un padre morto è meglio di un padre senza vita».

Brutale gioco di parole che fa subito venire in mente Clancy #Martin e il suo How Not to Kill Yourself: A Portrait of the Suicidal Mind, che inizia con un resoconto schietto del più recente dei numerosi tentativi di suicidio dell’autore.

L’ultima volta che ho cercato di uccidermi” – confessa – “è stato nel mio seminterrato con un guinzaglio per cani“.

Come Camus e Houellebecq, Martin è uno scrittore di narrativa. In How Not to Kill Yourself cerca di comprendere il suicidio sia come filosofia sia come impulso, intrecciando la storia personale, la sua profonda lettura nella letteratura sull’autoannientamento e le preoccupazioni etiche che l’immersione ispira.

Per tutta la vita” – osserva Martin – “ho temuto ed evitato la sofferenza fisica. È una sofferenza mentale che non ho potuto evitare – come del resto nessuno di noi può – ed è stato questo a motivare i miei tentativi di suicidio. Proprio quello che speravo di evitare quando pensavo alla mia morte era un dolore peggiore. Autolesionismo? No grazie. Autoestinguente? Ora hai la mia attenzione”.

Cito questo passaggio perché è intenzionalmente divertente. Martin può essere, come afferma, dipendente dall’ideazione suicidaria, ma è anche consapevole delle incongruenze di questa dipendenza.

UNA QUESTIONE DI SCELTA?

How Not to Kill Yourself riesce pienamente a introdurre la questione della #scelta.

A seguito di un incidente in auto mentre era ubriaco, Martin viene condannato a una breve detenzione in una struttura di minima sicurezza dove, durante il ricovero, gli viene mostrata la porta attraverso la quale potrebbe essere tentato di uscire. La #decisione di restare o andarsene, almeno in senso terapeutico, appartiene a lui. Se fa la seconda scelta, tuttavia, gli viene detto: “’Tieni presente che non appena lo farai – e abbiamo telecamere e allarmi, quindi sapremo quando lo farai – verrà emesso un mandato di arresto. Ma nessuno ti fermerà e nessuno di questa struttura ti inseguirà.”

L’idea del libero arbitrio e le sue implicazioni galvanizzano Martin. Nell’inquadrare il suicidio come una scelta piuttosto che come una costrizione, potremmo trovare un’azione inaspettata, anche se va subito aggiunto che una volta che la genetica o i disturbi psichiatrici entrano in gioco, l’idea di volizione diventa più complicata.

Per Clancy, invece, in How Not to Kill Yourself, la nozione di #scelta è un principio centrale, a cui attribuisce la sua capacità di rimanere in vita: “Per lo stoico, la capacità di suicidarsi è espressione fondamentale e quasi irrevocabile della nostra libertà. Seneca pone la questione in questi termini: Un uomo saggio vivrà quanto deve, non quanto può”.

Eppure, se questa sembra una giustificazione, la morte può essere la scelta più saggia e contiene anche il suo contrario. Come ammette: “Sono sempre stato libero di fare quello che volevo“. Per lui, questo ha significato rimanere in vita.

UN TENTATIVO PER APPREZZARE LA VITA?

Non so voi, ma avendo avuto a che fare con la morte e con il prima e il dopo, un numero troppo alto di volte, non ho potuto non domandarmi:

Cosa si prova a vivere sotto la costante pressione della morte…

Non ci si abitua, se è quello che verrebbe da sperare.

Paul Celan e Primo Levi, sopravvissero all’Olocausto solo per morire suicidi decenni dopo. Levé, Foster Wallace e Nelly Arcan anche loro sono morti per suicidio. Regalandoci resoconti dettagliati e intimi di come si sentissero a continuare a vivere mentre spesso o addirittura costantemente desideravano uccidersi.

Un tentativo per insegnare a chi è in bilico ad apprezzare la vita?

A negarmi tale spiraglio è un’altra scrittrice, Sarah Davys, che in A Time and a Time, ricorda due tentativi di suicidio da cui, si lamenta “non ho riportato nulla“, cioè nessuna informazione utile sulla vita o sulla morte. “È così che mi sembra di aver trascorso gran parte della mia vita avanzando passo dopo passo, costringendomi sempre a guardare l’abisso sotto i miei piedi“.

Saper (con)vivere con l’incertezza non è da tutti. E’ dimostrato che il modo in cui una persona prende decisioni è fra i principali fattori che determinano la vulnerabilità a comportamenti suicidari. Cinicamente, nessuno sa se arriverà alla fine della giornata, che abbia tendenze suicide o meno. La morte arriva quando vuole.

Dove sta quindi la possibilità di scelta?

Bisogna immaginare Sisifo felice“, scrive Camus alla fine del suo saggio, un riconoscimento della futilità della sua esistenza ma anche della grazia o della consolazione che deriva dalla scelta di accettare il proprio destino.

In ogni caso, per imparare a morire, dobbiamo prima imparare a vivere.

(NON) è SOLO una COINCIDENZA

Ci sono coincidenze che possono cambiare la vita. Come quella di pensare a un amico che non si incontra da tempo e ricevere una sua telefonata nello stesso tempo in cui lo si pensa. O quella che porta i giocatori d’azzardo a interpretare come significativa una sequenza di numeri alla roulette. In realtà ogni volta che esce un colore, al giro di ruota successivo la possibilità che la pallina cada sul rosso o sul nero è sempre del 50 per cento.

Allo stesso modo dovremmo imparare a tener conto di tutte le volte che abbiamo pensato a un amico e le volte che quell’amico ci ha telefonato all’istante. Ci accorgeremmo presto che la correlazione è statisticamente irrilevante.

Eppure, la tentazione ad attribuire un significato più grande a un’esperienza è profondamente umana. Perché ci aiuta a riempire di senso un mistero sottile e invisibile che rende più sopportabili le nostre sofferenze e ansie.

Questo spiega il successo delle religioni, o dei guru di passaggio, dei santoni più simili a falsi mercanti. In fondo quando leggiamo un libro o guardiamo un film siamo consci che non è la realtà, ma questo non ci preclude il coinvolgimento.

Non a caso le persone che credono nelle coincidenze, nei complotti e nei fenomeni paranormali sono, a detta della scienza, meno portate al ragionamento probabilistico e alla statistica (Università di Bristol, Goldsmiths, e University of London). Di fatto la maggior parte di noi è impreparata a valutare la probabilità degli eventi, per questo quando l’amico dimenticato chiama tendiamo a dargli un significato sproporzionato.

Prendiamo un altro esempio: il paradosso del compleanno. Quante persone devono entrare in una stanza affinchè statisticamente ce ne siano almeno due nate nello stesso giorno dello stesso mese? Sono statisticamente sufficienti 23 persone per avere una probabilità superiore al 50 per cento di trovarne due. Per una probabilità del 99,9 per cento ne bastano 70.

COSA CI DICE TUTTO QUESTO?

Siamo molto bravi ad attribuire un senso grandissimo a eventi con una probabilità eccezionalmente bassa di verificarsi, ma non così improbabili come pensiamo. O meglio, potrebbero anche esserlo ma in un pianeta di 7 miliardi di persone, anche gli eventi più improbabili si fanno relativamente comuni.

A dimostrarlo la legge dei grandi numeri secondo cui un grande campione statistico alla fine porta sostanzialmente a qualsiasi risultato. Molte sono le persone che sono sopravvissute a una calamità naturale anche più volte, o che hanno vinto alla lotteria più di una volta.

Nonostante la spiegazione matematica non lasci dubbi, in molti non si rassegnano a non credere al caso. Anche perché supportare le coincidenze può fare ricchi molti. Se non occorre la scientificità a dimostrare un evento, una guarigione, un episodio, tutti diventiamo bravi e necessari in qualcosa.

CORRELAZIONE VS CAUSALITA’

Finché però il discorso è legato alle scie chimiche, i danni che ne derivano sono marginali, tutt’altra cosa quando si tenta di associazione l’aumento dei casi di autismo all’aumento dei numeri di vaccini somministrati – spiega David Hand, statistico e professore di matematica all’Imperial college di Londra -. L’autismo spesso di manifesta nello stesso periodo in cui sono effettuate le vaccinazioni, ma confondere la correlazione con la causalità, credere alle coincidenze può portare a prendere decisioni non sulla base di prove concrete ma di mezze teorie pseudoscientifiche”.

Non saper dire esattamente perché certi eventi accadono, non vuol dire che abbiano un significato. Sta a noi riempire il vuoto che i misteri della vita ci lasciano.

Se mentre mio fratello muore annegato a migliaia di chilometri di distanza, nello stesso istante anch’io mi sono sentito soffocare posso sapere che fra le due cose non c’è collegamento. Ma se lascio vagare il pensiero, magari scoprirò un nuovo modo di piangere la sua morte.

La nostra debolezza è quella di voler cercare a tutti costi un significato per ogni accadimento. Per trovare un punto di incontro fra mente e spirito. Un amico che ci chiama nell’istate stesso che lo pensiamo è solo un telefono che squilla, finché non decido che è qualcos’altro.

Ps. Non è un caso se di coincidenze ne vengano segnalate a migliaia e se volete sbizzarrirvi vi invito a visitare Cambridge Coincidences Collection, pagina creata da David Speigelharter (università di Cambridge).

In ARABIA SAUDITA, ogni GIORNO accade qualcosa di NUOVO. La resistenza al cambiamento si può raccontare in molti modi

Ad accogliermi a Jeddah, la più evoluta e libertaria fra le città dell’Arabia Saudita è Al-Anoud, 35 anni, profondi occhi scuri, folti capelli neri e pelle color caramello. Ingegnere, con la passione per la storia. Sarà la mia guida.

Al-Anoud indossa l’abaya e il niqab, che le avvolgono corpo e viso, ma ci tiene a specificare che è “una scelta conservativa” resa possibile da quando, nel 2018, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, potentissimo deus ex machina dell’apparato politico ed economico saudita, stabilì che gli abiti neri femminili della tradizione islamica potevano non essere indossati, purché le donne scegliessero altri “abiti pudichi e rispettosi”.

Quando non fa la guida (un mese all’anno) è una dirigente di una fabbrica di componenti elettrici, dove supervisiona un centinaio di lavoratrici in un’ala sperimentale che fa parte di una campagna nazionale per attirare le donne saudite in lavori retribuiti.

Le donne che supervisiona lavorano in un’area interdetta agli uomini, ma gli uffici dirigenziali sono misti: uomini e donne, non legati da legami di sangue o matrimonio, vicini tutti i giorni.

DONNE E LAVORO

L’Arabia Saudita è una nazione profondamente segregata per genere, e tra i cambiamenti difficili, fragili e straordinari in corso nella vita quotidiana delle donne del regno, generazioni multiple, spinte dalle nuove politiche del lavoro e dagli incoraggiamenti del defunto re Abdullah bin Abdulaziz, stanno ora discutendo cosa significhi essere sia moderni sia sauditi.

Ci sono donne che non prenderebbero nemmeno in considerazione un lavoro che lo richieda.

Ci sono donne che potrebbero prendere in considerazione un lavoro in simili condizioni ma sono annullate da genitori, mariti, parenti.

Ci sono anche donne abbastanza a loro agio con i colleghi maschi: nell’ultimo decennio, i programmi di borse di studio del governo hanno inviato decine di migliaia di donne saudite a studiare all’estero, e stanno tornando a casa, impazienti di avviare il cambiamento.

In questo contesto complicato, improvvisando per soddisfare le proprie idee sulla dignità, Al-Anoud ha stabilito i suoi requisiti personali all’interno dell’azienda: nessun contatto fisico con gli uomini. “Non è una questione di igiene, ma di religione. Non posso toccare un uomo che non sia mio padre, mio zio, mio fratello.'”

Al-Anoud sorride serena mentre racconta il suo quotidiano, ed è forse questo uno dei motivi per cui è stato possibile farle tante domande. È ironica, determinata. Prende in giro le persone invadenti o maleducate. Uno dei suoi cellulari squilla al ritmo della musica di Grey’s Anatomy. A vent’anni ha rifiutato corteggiatori alternativi preferiti dalla sua famiglia perché era determinata a sposare l’uomo che amava. Dice di aver visto tantissimi film americani quando era adolescente; le sale cinematografiche sono vietate in Arabia Saudita, ma i DVD popolari sono facili da trovare.

DIETRO LE QUINTE

Fra le foto custodite nel cellulare (l’ultimo modello di iPhone), mi mostra quella dell’armadio della camera da letto pieno di abiti neri uno in fila all’altro. Le abaya a colori stanno iniziando a proliferare a Jeddah, la città portuale meno conservatrice dell’ovest, ma a #Riyadh un’abaya non nero indossato in pubblico attira ancora lo sguardo accigliato degli estranei e possibili rimproveri da parte della polizia religiosa che pattuglia le strade.

L’abaya che indossa Al-Alnoud ha finiture eleganti e variegate, tasche capienti di cui una, portacellulare, cucita sulla manica sinistra. Lo indossa sopra pantaloni e camicetta, come si indossa un trench. E poi c’è il niqab, il velo che copre il capo e il volto, lasciando una striscia libera per gli occhi. Perfettamente truccati, rigorosamente di nero.

Nel mio peregrinare in Arabia Saudita, difficile non notare come tutti i ristoranti che servono sia uomini che donne hanno aree di ristorazione divise, una per “uomini”, e una per “famiglie”.

All’interno dei food court dei centri commerciali, dove i marchi del Medio Oriente competono con McDonald’s e KFC, Starbuck e Dunkin ‘Donuts, le divisioni di genere raddoppiano mentre i cartelli dei menu dividono il bancone degli ordini di ogni bancarella.

Difficile comprendere come stia bene alle donne saudite l’abaya e a tutte coloro che l’ho chiesto, si sono trincerate dietro la medesima risposta: “se sei con altre donne lo puoi togliere”.

Non sono i maschi gli unici esecutori di tali standard. Ci sono le madri, le sorelle, le vicine di casa, le colleghe, le amiche che si sentono libere di rimproverare donne che non conoscono e non si allineano.

Tutto il mondo è paese.

È Al-Alnoud ad articolare la spiegazione velata più concisa e credibile: “Non è qualcosa di strano per noi“. La società saudita è ancora tribale; le donne e gli uomini allo stesso modo sentono che chi li circonda osserva, fa supposizioni sui loro standard familiari, esprime giudizi.

Dayooth significa un uomo che non è sufficientemente vigile nei confronti della moglie e di altre parenti di cui dovrebbe proteggere l’onore. È un’etichetta che ha il suo peso e non si può ignorare.

Poi mi fa indossare l’abaya e mi accorgo che in realtà si può vedere tutto. La stoffa è trasparente, tessuta con questo scopo, fuori dai finestrini dell’auto le cose appaiono più scure e grigie, ma visibili.

Come fanno i mariti a capire qual è la loro moglie in un gruppo di donne vestite tutte uguali, mi chiedo, senza aver coraggio di domandare…

CONTRASTI E TRADIZIONE

A volte ti pare essere nel 21° secolo e in alte nel 19°, una sorta di Medioevo europeo, con la Chiesa cattolica.

A condividere il potere, in una misura difficilmente comprensibile per chi proviene da paesi più laici, sono i leader religiosi dogmatici e la dinastia reale. Gli insulti all’Islam o le minacce alla sicurezza nazionale – categorie che comprendono blog, social media e difesa aperta del già accusato – sono tra i crimini punibili con la reclusione, la fustigazione o la morte. Le esecuzioni sono eseguite mediante decapitazione pubblica.

La convinzione qui è che la virtù e il vizio possano essere gestiti tenendo separati uomini e donne – per natura gli uomini sono lussuriosi e le donne seducenti, così che essere un buon musulmano richiede un’attenzione costante ai pericoli di uno stretto contatto – è così radicata nella vita quotidiana che il visitatore non può che rimanerne disorientato.

Non è un caso se le piscine degli hotel non ammettono donne o riservano un’ora solo per loro. O se la maggior parte dei negozi di abbigliamento sauditi non ha camerini: le donne non si spogliano con gli impiegati maschi dall’altra parte della porta.

O che l’Arabia Saudita ha un solo cinema, un nuovo museo della scienza IMAZ: il governo ha chiuso tutti i cinema durante l’ondata conservatrice negli anni ’80.

E ancora, che i padri, in un divorzio, ottengono la custodia dei figli, tranne se molto piccoli; ottenere la cittadinanza è semplice per le donne straniere che sposano uomini sauditi, ma quasi impossibile per gli uomini stranieri che sposano donne saudite. E che per la donna sia consigliato vivere sotto la tutela di un maschio designato.

Al-Alnoud questo non lo dice.

Come non dice che in Arabia Saudita la legge ufficiale spesso cede alla tradizione, alle interpretazioni individuali degli obblighi religiosi o al timore di ripercussioni da parte della famiglia. Alcuni datori di lavoro non assumono una donna, senza l’approvazione del suo tutore.

E ci sono uomini che usano il potere della tutela per punire, controllare, manipolare.

Sono sfide brutali ma discrete da affrontare una per una e che richiedono manovre delicate in un luogo in cui fede religiosa, onore familiare e potere statale rimangono così strettamente intrecciati.

Qualsiasi persona che vuole esortare a togliersi il niqab, a guidare, ad abbattere i muri di separazione, deve prima capire la cultura di questo popolo. “Molte famiglie saudite non permettono alle loro figlie di lavorare come commesse perché i muri non sono abbastanza alti“.

Guardando Al-Alnoud, mentre ci salutiamo, capisco che aveva ancora bisogno di convincere la straniera sul sedile posteriore della Toyota che mettere il proprio piede sull’acceleratore non era la cosa che desiderava di più da questa vita.

Ci congediamo condividendo l’un l’altra il profilo Instagram e qui mi accorgo che in tutte le foto il suo volto è sfocato, in altre è stato cancellato con il pennarello digitale dell’iPhone, in altre ancora la testa è tagliata all’altezza del collo.

I cambiamenti richiedono tempo. E solo il tempo dirà quanto Bin Salman ha intenzione di modernizzare il regno e dove all’interesse economico verrà consentito di prevalere sulle credenze religiose islamiche.

Come SCRIVERE un ARTICOLO TECNICO di SUCCESSO

“Quando qualcuno parla di cose che non conosce a fondo, sarà capito soltanto da chi conosce l’argomento, meglio di lui” (I legge di Whittington sulla comunicazione), o detto in altri termini: conoscere non significa automaticamente saper divulgare.

Non sempre l’essere esperti in un determinato ambito, ci rende esperti divulgatori.

Ecco perchè la stesura di un articolo, soprattuto se tecnico, può risultare ostico. Ci sono però alcune domande che se poste prima della stesura, possono semplificare molto il lavoro:

CHI SONO I MIEI LETTORI: prima di scrivere, analizzate chi sono i vostri lettori. Cercate di definirne età, sesso, livello di istruzione, interessi e tutto quanto può aiutarvi a immaginarli come delle persone a cui state parlando da vicino

COSA LI SPINGE A LEGGERE: sono alla ricerca di informazioni? Stanno leggendo per divertimento, curiosità o per interesse? Cercate di comprendere al meglio le ragioni principali per cui i lettori leggono un testo che riguarda il vostro lavoro

QUALI INFORMAZIONI POSSIEDONO SULL’OGGETTO DEL TESTO: sono nuovi lettori, hanno conoscenze generali o sono esperti in materia? Più sono esperti e più potrete usare termini tecnici ed entrare nello specifico dell’argomento

QUAL E’ L’OGGETTO DELLA COMUNICAZIONE: individuate un solo oggetto della comunicazione. Evitate di voler dire tante cose in un solo passaggio. E’ già molto difficile ottenere attenzione su un solo argomento, mettendo insieme più messaggi non ne avreste nessuna e creereste solo confusione

QUAL E’ L’OBIETTIVO DELLA COMUNICAZIONE: stabilite l’obiettivo per cui state scrivendo. In una buona comunicazione si devono incrociare diversi obiettivi: dare informazioni e stimolare a un comportamento.

Tenete sempre presente il vostro obiettivo durante la stesura del testo e se non è chiaro dal titolo, specificatelo nell’introduzione. Se il percorso da intraprendere è complicato e richiede molti passaggi, anticipatelo al lettore e a ogni passo ricapitolate. Il lettore deve capire in ogni momento da dove è partito, dove arriverà e dove si trova.

COSA VOGLIO CHE FACCIANO DOPO AVER LETTO IL TESTO: rispondete a questa domanda in modo pratico. Rendete esplicito questo obiettivo invitando il lettore a rispondere alla vostra comunicazione

COSA SCRIVERE NEL TESTO: se avete risposto alle domande precedenti, avete già una parte della risposta. L’importante è che siate: chiari, concisi, corretti, cortesi, colloquiali, convincenti, completi. E non dimenticate la bibliografia!

Ultima annotazione: la cura formale dei testi è fondamentale. Rivedete e correggete fino alla noia prima di far uscire la pubblicazione: bad form, bad business. Cattiva notizia, cattivi affari!

PERCHE’ il mio CAPO è INCOMPETENTE? La risposta è nel Principio di Peter

Perché il mio capo è un incompetente? Perché le cose in questa azienda non funzionano come dovrebbero?

Chi non si è fatto queste domande, senza poi trovare una risposta soddisfacente, almeno una volta nella vita?

A porsi gli stessi quesiti, nel 1969, è stato il sociologo canadese Laurence Peter.

Ancora oggi, cinquant’anni più tardi, le sue osservazioni meritano una attenta lettura, non solo da chi si occupa di comportamenti organizzativi, ma da tutti coloro che vogliono capire meglio i problemi che affliggono i luoghi di lavoro e da chi, in generale, è interessato ad approfondire il tema della stupidità umana.

Come con gli studi di Parkinson, anche quelli di Peter sono utili e piacevoli da leggere e non mancano di ironia.

IN COSA CONSISTE

La tesi di fondo del Principio di Peter afferma che in una organizzazione meritocratica ognuno viene promosso fino al suo livello di incompetenza. In altri termini “ogni membro di un’organizzazione scala la gerarchia fino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza”.

Quasi a dire che se una persona sa fare bene una certa cosa la si sposta a farne un’altra. Il processo continua fino a quando si arriva al livello di ciò che non sa fare e lì rimane.

La tesi si basa sull’assunto che le abilità di una persona a svolgere le mansioni assegnatole la porterà al conseguimento di un avanzamento di livello fino a quando giungerà a un livello tale che non potrà fare altro che manifestare la propria incompetenza.

Una persona, che non è stupida, quando ha un compito che è capace di svolgere, viene spostata in un contesto in cui diventa stupida in rapporto ai risultati delle sue azioni. Così facendo nell’organizzazione aumenta di continuo il livello di incompetenza. E le persone competenti si trovano via via alle dipendenze di incompetenti che le ostacolano nello svolgimento del lavoro.

Sebbene il Principio di Peter possa sembrare paradossale, l’autore intendeva puntare i riflettori su una serie di problemi che affliggono le aziende. Nulla assicura che le abilità sviluppate nella precedente mansione siano sufficienti a garantire un efficace svolgimento dei nuovi task assegnati.

Promuovere i dipendenti in virtù dei buoni risultati raggiunti è un grave errore se non si valutano bene competenze, abilità ed esperienze necessarie per ricoprire adeguatamente il nuovo incarico.

Non necessariamente un valido assistente sarà un buon professore, un assessore un buon presidente della Regione e così via. Questo si verifica poiché buoni gregari non diventano di default buoni leader, in quanto l’esser bravo a eseguire non necessariamente coincide con l’essere bravo a guidare.

Quello di Peter non è un principio da ignorare, complesso da mitigare e prevenire poiché le persone al vertice (delle organizzazioni) non amano sentirsi dire che hanno promosso i loro dipendenti in modo sbagliato o, che sono proprio loro ad aver raggiunto il fatale livello di incompetenza.

Al principio di Peter si aggiungono una serie di varianti:

–       Dilbert Principle di Scott Adams: «I più inefficienti sono sistematicamente promossi alla posizione in cui fanno meno danno: il management».

–       Natreb Principle«Le persone gravitano verso le professioni dove più si manifesta la loro incompetenza» ovvero «Ogni professione attrae le persone meno adatte».

NON È PASSATO DI MODA

Sebbene gli studi di Peter siano lontani nel tempo, i risultati a cui è arrivato non sono né obsoleti né superati, come hanno dimostrato Benson dell’Università del Minnesota, Li del MIT e Shue di Yale, analizzando le prestazioni di 53.035 addetti alle vendite in 214 aziende americane dal 2005 al 2011. In quel periodo, 1.531 di questi addetti sono stati promossi a responsabili delle vendite. I dati hanno mostrato che i migliori venditori avevano maggiori probabilità di:

a) essere promossi

b) avere scarsi risultati come manager

Il Principio di Peter è reale.

Il lavoratore più produttivo non è sempre il miglior candidato per ricoprire il ruolo di manager, eppure è più probabile che le aziende promuovano i migliori addetti alle vendite in posizioni manageriali. Di conseguenza, le prestazioni dei subordinati di un nuovo manager diminuiscono maggiormente dopo che la posizione manageriale è stata occupata da qualcuno che era un forte venditore prima della promozione[1].

Un’azienda che fa troppo affidamento sulle vendite come criterio di promozione paga due volte l’errore. La rimozione di un performante addetto alle vendite sconvolge potenzialmente i rapporti con i clienti, mette a rischio le entrate e la squadra sotto la sua direzione ha un rischio maggiore di conseguire prestazioni inferiori. “Tali risultati sottolineano la possibilità che la promozione basata sui soli indicatori di vendita anzichè sulle competenze manageriali possa essere estremamente costosa“.

La severità dei risultati ha colto di sorpresa i tre ricercatori: “Ci aspettavamo che i migliori venditori sarebbero diventati dei buoni manager, ma constatare che i migliori venditori stavano diventando i peggiori responsabili delle vendite è stato sorprendente[2].

Difficile dire con quale frequenza le aziende inciampano nel Principio di Peter e non si può generalizzare, ma è palese che spesso le organizzazioni sono disposte ad abbassare gli standard per premiare i migliori venditori ma non sempre le loro capacità manageriali sono nei loro numeri di vendita.

PSEUDO SOLUZIONI

Fra le soluzioni più creative, per mitigare il principio di Peter, c’è il promoveatur ut amoveatur: le persone incompetenti ai vertici dell’impresa vengono collocate in ruoli di sola apparenza, così che i compiti operativi possano essere svolti da persone competenti che non sono ancora state promosse al di sopra delle loro capacità. Anche se questo non spiega la promozione a livelli più alti di chi era già incompetente nel ruolo in cui si trovava.

Insomma, il Principio di Peter continua a fare danni, in modo tanto più grave quanto più si mescola con altre disfunzioni.

COME PREVENIRE IL PRINCIPIO DI PETER

Retrocessione

Fra le soluzioni proposte da Peter c’è la retrocessione. Supponiamo che una persona sia stata promossa a un ruolo che non è abbastanza qualificata per ricoprire, in tal caso, la si può riportare nella sua posizione iniziale senza stigmatizzazione ovviamente. Tuttavia, colui che ha preso la decisione sbagliata proponendo una promozione, deve ammettere di aver commesso un errore.

Paga più alta, nessuna promozione

Un’altra soluzione consiste nell’offrire al lavoratore una retribuzione più elevata senza necessariamente promuoverlo. La maggior parte delle persone è entusiasta all’idea di una promozione non tanto per il potere o il prestigio, ma per i benefici salariali collegati. Per prevenire il verificarsi del principio di Peter, si potrebbero aumentare gli stipendi dei collaboratori migliori per l’eccellente lavoro svolto nei rispettivi ruoli. In tal modo, la persona può guadagnare abbastanza denaro mentre è ancora in una posizione in cui è competente.

Arabesco laterale

Peter consiglia ai manager di sbarazzarsi dei dipendenti incompetenti senza licenziarli. In altre parole, si può riassegnare il lavoratore incompetente a un’altra posizione, che ha un titolo più lungo/pomposo ma meno responsabilità. Tale pratica è stata definita arabesco laterale: il lavoratore promosso non saprà di essere stato privato del ruolo a cui era stato promosso.

Collaboratori attenti

Il modo più efficace per evitare il principio di Peter è avere persone attente. Ciò significa lavorare con team che conoscono la portata delle loro capacità e competenze. Anche se l’offerta di ricevere una promozione è allettante, la risorsa dovrebbe prima considerare tutti i compiti aggiuntivi che derivano dal nuovo ruolo. Se non si sentisse in grado di gestire i nuovi compiti, dovrebbe semplicemente rifiutare l’offerta.

 Supera in astuzia il datore di lavoro

Se un dipendente è ben consapevole dei propri limiti, farà tutto il possibile per evitare la promozione per una posizione in cui sarebbe incompetente. Peter ha descritto tale modalità come incompetenza creativa: ossia la persona cercherà di far capire ai superiori che non è la persona giusta per quella posizione.

Peter, con le sue provocazioni vuole semplicemente ricordarci che non tutti sono adatti a ricoprire posizioni apicali, a prescindere da quanto siano abili e bravi nell’operatività. Che ci piaccia o meno, elevare qualcuno incompetente significa condannare l’intera azienda al fallimento o quanto meno a danni economici e di reputazione seri.

Fonti

[1] Lazear E.P., The Peter Principle: A Theory of Decline (April 2003) https://ssrn.com/abstract=403880

[2] Benson A., Li D., Shue K., 2019. “Promotions and the Peter Principle*,” The Quarterly Journal of Economics, 134(4): 2085-2134

QUESTA VOLTA è DIVERSO… Le 4 parole più costose di sempre

Questa volta è diverso. Lo avrete sentito dire spesso, immagino.

Quattro parole che possono rivelarsi le più costose di sempre. In realtà, non sono le parole a costare, quanto le conclusioni che questa frase ci spinge a trarre.

Pensiamo, sbagliando, che le differenze valgano più delle somiglianze. In fondo, tutti sono capaci di vedere le similitudini ma, per trovare le differenze, ci vuole intuizione, tempo, capacità di osservazione, spirito critico. Dimenticando, mentre ricerchiamo le differenze, di prestare attenzione a ciò che è uguale.

Come a quella riunione, in cui i partecipanti stanno per cadere nello stesso errore commesso l’anno precedente, e quello prima, in merito alla medesima decisione. E alla medesima persona.

“C’è quella manager che fa casino con i clienti, alcuni almeno, quando c’è da aggiornarli sulle tempistiche nella fornitura dei prodotti dell’azienda”.

È una brava persona, gentile con tutti quella manager. Non perde un compleanno, fa a ogni collega un regalo a Natale, e spesso delizia l’ufficio con torte e brioche a colazione. Ma

“…gli ultimi due anni, da quando ricopre quel ruolo, sono stati problematici”.

Potrebbe essere l’amico poco affidabile, la colf che nasconde la polvere sotto il tappeto, il datore di lavoro insofferente, il responsabile indeciso, il vicino di casa che ruba le riviste dalla nostra buca delle lettere… e nonostante tutto continui a ripeterti questa volta sarà diverso.

Così vai in riunione per esprimere il tuo disappunto e trovare una soluzione (una diversa collocazione per la manager, per esempio), quando un collega ti anticipa:

so che ha fatto alcuni errori, ma questa volta sarà diverso. Ne abbiamo parlato e mi sono assicurato che abbia compreso l’importanza dell’incarico”.

La riunione giunge al termine, tutti sono certi che questa volta sarà davvero diverso e non c’è prova, dubbio o soluzione che puoi addurre per convincerli del contrario: la manager rimane dov’è a fare quello che fa. Fine della storia.

Questo perché, quell’incarico, non interessa granchè a nessuno. I clienti sono difficili da gestire, ancor più quando ci sono variazioni o ritardi da comunicare e poi quella manager è davvero una brava persona…

Tutti vogliamo credere che questa volta sarà davvero diverso e poi preferiamo crogiolarci fra le prove a sostegno del nostro punto di vista (bias di conferma), sostenuti da una buona dose di ottimismo e overconfidence, che mettere tutto in discussione… O no?

LA STORIA è PIENA DI QUESTA VOLTA è DIVERSO

La storia, se ci pensiamo bene, è piena di questa volta è diverso, dove diverso alla fine, non è stato e ha incoraggiato a trarre conclusioni che si sono poi rivelate estremamente costose.

Siamo stati così presi da ciò che era diverso che ci siamo dimenticati di vedere cosa fosse lo stesso.

Non è un caso se gli economisti affermano che questa volta è diverso è probabilmente uno dei pregiudizi più pericolosi in finanza.

La convinzione che le crisi finanziarie siano cose che accadono ad altre persone… [e non] a noi, qui e adesso“. 

La storia suggerisce che non possiamo fare a meno di ricreare le stesse vulnerabilità che hanno innescato le crisi passate. Da quelle dei mutui, quando il rischio era considerato minimo perché “i prezzi delle case avrebbero continuano a salire per sempre” o la bolla delle Dotcom, insegnano.

Un tempo c’erano oltre 70 diverse aziende automobilistiche negli Stati Uniti. Solo 3 di loro sono sopravvissute…

Anche se questa volta può davvero sembrare diverso, solo uno sguardo più attento e un’analisi approfondita possono dirci se lo è effettivamente.

Il consiglio, se ti va di seguirlo, è molto semplice: se una situazione ti sembra diversa questa volta, chiediti cosa potrebbe accadere se questa volta non fosse diversa dalla precedente. Carta e penna alla mano, potresti vedere cose che non avevi considerato.

Talvolta, abbiamo bisogno di credere che sarà diverso, perché è più facile e meno faticoso rimanere nello status quo che cambiare approccio. Mettersi in discussione non è una passeggiata. Ma cambiare solo perché il costo economico e psicologico è diventato troppo alto per andare avanti allo stesso modo all’infinito, non è razionale. Non è nemmeno utile. Meglio tardi che mai… ma quando diventa tardi?

(DIS)ONESTI AL LAVORO: è tutta colpa del contesto!

«Ci sono persone oneste nel mondo, ma solo perché il diavolo ritiene che il prezzo che chiedono è incredibilmente alto». Questione di punti di vista, ma è difficile non fare dell’ironia di fronte alla definizione che lo scrittore americano Peter S. Beagle dà a un concetto al contempo tanto concreto quanto astratto.

L’onestà è come la dieta

Comportarsi in modo onesto non è facile, siamo onesti… E non sempre gli esempi resi salienti dagli organi di stampa ci aiutano a rimanere saldi sui nostri buoni propositi. Per fortuna però resistere alla tentazione di mettere in atto comportamenti poco, se non addirittura, non etici, non è una missione impossibile, come invece si potrebbe pensare.

A dirlo lo studio pubblicato sulla rivista Personality and Social Psychology Bulletin. Secondo gli autori della ricerca, l’onestà sarebbe un po’ come una dieta: difficile da seguire se non si tiene bene a mente l’obiettivo (onestà) per cui si è aderito a quello specifico regime alimentare, e le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni.

I ricercatori hanno svolto diversi esperimenti con un gruppo di volontari posti di fronte a una serie di dilemmi. In uno, i partecipanti hanno impersonato il venditore di un palazzo storico e un potenziale acquirente, con due obiettivi molto diversi: il venditore doveva evitare che la proprietà fosse distrutta, mentre il compratore puntava a demolirla per costruire, al suo posto, un hotel.

Prima di iniziare, a metà di loro è stato chiesto di ricordare una situazione in cui in passato si erano comportati in modo disonesto e quali conseguenze questo avesse portato. Tra loro il 45% dei compratori ha mentito nel corso della fase di contrattazione per l’acquisto della proprietà, mentre la percentuale nell’altra metà dei partecipanti è stata del 65%.

In un secondo esperimento è invece stato chiesto ai partecipanti di valutare se fossero o meno accettabili una serie di comportamenti disonesti sul lavoro, come darsi malati per prendere un giorno di vacanza, rubare cancelleria dall’ufficio, o rallentare il ritmo di lavoro per evitare di ricevere mansioni aggiuntive. Chiedendo ad alcuni di loro di riflettere su una serie di dilemmi etici, prima di partecipare alla prova, i ricercatori hanno notato che in questo modo diminuiva notevolmente la possibilità che giudicassero accettabili i comportamenti disonesti in esame. Secondo i ricercatori, i risultati indicherebbero che è più facile comportarsi onestamente se ci si ricorda delle conseguenze del comportamento disonesto e se non ci si prepara per tempo per resistere alla tentazione.

La situazione non è dunque così drammatica, per fortuna. E a venire ulteriormente in aiuto, per aumentare la propensione umana all’onestà, ci sono i Nudge. La strategia gentile che aiuta a rendere semplici anche le scelte più complesse.

Attenzione a dove si firma

Uno degli éscamotage più efficaci è rendere saliente il valore dell’onestà. Come? Facendo porre la firma su documenti e certificazioni, in alto anziché in basso, prima cioè della compilazione anziché al termine, come invece solitamente avviene. Questo piccolo Nudge ha la funzione di indirizzare l’attenzione su sé stessi e portare a effetti sorprendentemente potenti sul comportamento morale che poi andremo ad agire. La firma è un modo per attivare l’attenzione verso sé stessi e verso i valori in cui crediamo.

Apporre il proprio nome prima di inserire informazioni (piuttosto che alla fine) risveglia in noi il valore dell’onestà e questo ci spingerà a rispondere alle domande in modo più sincero. L’attuale pratica di firmare dopo aver riportato le informazioni suggella il danno: immediatamente dopo aver mentito, le persone si impegnano rapidamente in varie giustificazioni, reinterpretazioni e altri trucchi come sopprimere i pensieri sugli standard morali che consentono loro di mantenere un’immagine di sé positiva nonostante abbiano mentito. Detto in modo semplice, una volta che un individuo ha mentito, è troppo tardi orientarne l’attenzione verso l’etica, richiedendo una firma.

È davvero così semplice? Sì.

A supporto di tale Nudge sono stati condotti alcuni esperimenti: uno di questi è stato misurare l’onestà di un gruppo di volontari impegnati a risolvere problemi matematici e la cui soluzione generava loro dei guadagni.

A seguito del compito loro assegnato, i soggetti sono stati incaricati di comunicare i propri guadagni, le spese e il tempo di viaggio, dopo di che avrebbero ricevuto il pagamento. I soggetti hanno quindi avuto l’opportunità di aumentare il proprio reddito, segnalando guadagni esagerati sul modulo di autodichiarazione.

I risultati dell’esperimento hanno mostrato poca differenza fra i soggetti che avevano firmato una dichiarazione di onestà alla fine del modulo e coloro ai quali non era stato fatto firmare nulla (a imbrogliare è stato il 63% per chi ha firmato a fine modulo e il 79% per coloro cui non è stata richiesta alcuna firma).

Per coloro i quali avevano invece firmato prima di compilare il modulo, le dichiarazioni disoneste si sono attestate intorno al 37%. Ciò suggerisce che rendere saliente il valore dell’onestà prima che le persone agiscano, può avere effetti significativi sulla loro tendenza a essere oneste.

Scarsa consapevolezza

Uno dei motivi per cui le persone tendono a comportarsi in modo poco onesto, è che non sempre hanno un consapevole accesso ai propri standard morali. Non sono cioè attente a ciò che le porta ad agire, ciò che indirizza le loro scelte e decisioni.

Le persone valutano le azioni secondo valori e standard interni. Una mancanza o una lassità di autocoscienza, potrebbe quindi indurle a mostrare comportamenti disonesti, anche se questo non è coerente con il loro standard morale.

Firmare una dichiarazione di onestà in cima al modulo, è in questi casi efficace nel promuovere l’onestà, poiché attiva la bussola morale interna delle persone prima che agiscano.

Anche se questo non è l’unico incentivo progettato per promuovere l’onestà, il suggerimento proposto è abbastanza facile da implementare e può potenzialmente avere grandi benefici sia per l’individuo sia per la società. Come accennato in precedenza, il problema non è che gli individui siano dei bugiardi senza scrupoli, ma che molti di noi siano più inclini a un po’ di disonestà se ne hanno la possibilità. Come suggeriscono le evidenze, le persone possono essere aiutate a rimanere coerenti rispetto i loro standard di onestà, se la loro bussola morale viene attivata appena prima di agire.

 

Fonti:

Sheldon O.J., Fishback A., Anticipating and Resisting the Temptation to Behave Unethically, May 22, 2015

Shu L., Mazar N., Gino F., Ariely D., Bazerman M. H., Signing at the beginning makes ethics salient and decreases dishonest self-reports in comparison to signing at the end, PNAS September 18, 2012