RABBIA: l’EMOZIONE che pensiamo (sempre) di CONTROLLARE

Geoff Farrar aveva 69 anni quando è stato ucciso a martellate dall’amico Dave DiPaolo: compagno di scalate che aveva preso sotto la sua ala quando era ancora adolescente, quasi vent’anni prima, insegnandogli i segreti dell’arrampicata.

C’era, fra i due, un rapporto solido, come quello che normalmente si instaura fra mentore e protetto. Almeno fino a quando Dave non ha ucciso Geoff con un martello a uncino ai piedi di Carderock Recreation, nel Maryland.

Perché?

Cosa è scattato nella testa di Dave per portarlo a commettere un atto tanto violento nei confronti di un amico?

Per quanto sia difficile da accettare “chiunque può perdere la testa all’improvviso e venir assalito da una violenta rabbia omicida”, ha spiegato in relazione a questo episodio lo psicologo forense dell’università dell’Alaska, Bruno Kappes.

Il fatto è che la rabbia può esplodere senza preavviso, soverchiando il giudizio, la compassione, la paura e il dolore. E questo può spiegare, i tanti morti di omicidio e in parte anche perché le persone hanno molte più probabilità di essere uccise da un amico o un conoscente che da uno sconosciuto.

Le emozioni potenti come la rabbia e la paura possono farci sentire forti in una crisi o in una situazione conflittuale. Possono dare a una donna minuta la forza di spostare un’auto e liberare un bambino intrappolato o spingere un soldato contro il normale istinto di scappare, sotto una grandinata di proiettili per salvare un compagno in pericolo.

Un tale circuito cerebrale a risposta rapida ha senza dubbio giocato un ruolo quando il sergente maggiore dell’aeronautica militare statunitense Spencer Stone e due amici hanno immobilizzato un altro passeggero del treno, un terrorista armato di AK-47 e coltello, in Francia qualche anno fa: “Non è stata una decisione consapevole, ho agito e basta. È stato automatico“.

Questa stessa risposta automatica salvavita però può fallire e portare a una tragedia inaspettata e non solo ad atti eroici.

I FATTI

Gli eventi che hanno condotto all’omicidio di Farrar si sono svolti gradualmente. All’inizio, le evidenze raccolte suggerivano che Farrar fosse morto in un incidente di arrampicata. Presto, però, si insinuò il sospetto che DiPaolo, che era improvvisamente scomparso dalla zona e che quel giorno stava scalando anche lui, fosse in qualche modo responsabile.

Quando la polizia lo fermò, due settimane dopo, a Glens Falls – New York, DiPaolo dichiarò di essersi trattato di legittima difesa: Farrar lo aveva aggredito e mentre lottavano a terra, aveva afferrato un martello che si trovava sul sentiero e lo aveva usato per allentare la presa di Farrar.

Questa versione però non era convincente.

Trovare un martello sul sentiero sembrava improbabile, inoltre era difficile credere che un uomo giovane e in forma avrebbe dovuto usare una forza così brutale per respingere un 69enne. Le prove latitavano e questo alimentò pregiudizi e illazioni. Tanti si chiedevano se si fosse trattato di omicidio o di legittima difesa

Geoff, quando venne trovato, era irriconoscibile. Non aveva più la testa, solo una massa viola sanguinante. Il primo colpo, venne poi accertato, è arrivato da dietro, un secondo alla tempia destra, quindi, a sinistra dove l’osso orbitale è stato frantumato spingendo l’occhio fuori dall’orbita, oltre alla frattura della mascella. E, in prossimità del corpo, in una buca poco profonda sul bordo del sentiero, una pietra insanguinata.

È bastato poco per capire che la legittima difesa qui non centrava nulla. E non si era nemmeno di fronte a un incidente di arrampicata, data la posizione del corpo rispetto al percorso, poiché la vittima non presentava abrasioni su gambe e braccia, come quelle che avrebbe riportato uno scalatore in caso di caduta.

È stato attaccato in modo molto selvaggio. L’intera faccenda è durata meno di tre minuti.”

Intorno alla comunità di scalatori e amici, le illazioni continuarono: c’era chi considerava DiPaolo pazzo, chi esaurito, chi dipendente da sostanze. Poiché nessuno lo aveva mai ritenuto capace di fare male a qualcuno. Non così almeno.

Ci vollero due anni prima di arrivare a una risposta.

DiPaolo alla fine accettò un patteggiamento piuttosto che affrontare il processo, firmando una confessione in cui ammetteva di aver ucciso Farrar in un impeto di rabbia. Il 18 luglio 2016, DiPaolo fu condannato a 10 anni di carcere federale per omicidio colposo volontario.

LA VIOLENZA IMPULSIVA

Cosa è stato a scatenare tale violenza?

Questa reazione è stata a lungo oggetto di studio da parte dei neuroscienziati. Per molti anni, i ricercatori hanno postulato che questo tipo di aggressione fosse basato su una regione del cervello chiamata amigdala, che è associata alla paura, e con un livello di attività attenuato nella corteccia prefrontale, nota per le sue funzioni cognitive e il ruolo nel comportamento razionale.

La ricerca ha dimostrato, ad esempio, che i ragazzi aggressivi tendono ad avere un alto livello di attività nell’amigdala e un corrispondente basso livello di attività nella corteccia prefrontale.

Più di recente, le neuroscienze hanno identificato i circuiti neurali dell’ipotalamo associati a pulsioni come sete, fame e sesso, più capaci nel rispondere con velocità e impulsività a diversi tipi di minacce e provocazioni.

Questi circuiti di aggressività fanno parte del meccanismo di rilevamento delle minacce del cervello (situazioni che il cervello decreta tali), incastonato in profondità nell’ipotalamo. Negli esperimenti, quando i neuroni siti nell’ipotalamo ventromediale vengono stimolati da un elettrodo, un animale si lancia in un violento attacco e uccide un altro animale nella sua gabbia. Se la regione viene disattivata, l’aggressività diminuisce bruscamente.

C’è un contesto evolutivo per tali influenze biologiche. L’aggressività improvvisa, a volte definita risposta di lotta o fuga, è vitale per la sopravvivenza, ma non è esente da rischi. Per questo motivo, solo pochi specifici fattori scatenanti attiveranno i circuiti della rabbia del cervello verso l’aggressività improvvisa; ma una volta innescati, la reazione può essere incredibilmente forte.

Stavo per soccombere. È stata una lotta estrema per la sopravvivenza“, ha spiegato Stone, il sergente maggiore dell’aeronautica. “Ero disposto a ucciderlo perché lui era disposto a uccidere me. Stava ovviamente cercando di spararmi e mi ha tagliato la gola con il coltello, quindi è diventato… non barbaro, ma avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per cercare di fermarlo“.

LE RADICI DELLA VIOLENZA

In una specie sociale, il successo di un individuo e l’accesso alle risorse dipendono dal suo rango all’interno della società. L’aggressività, soprattutto tra i maschi, è spesso il modo in cui si stabilisce il predominio nel mondo animale. Gli esseri umani hanno il linguaggio che può rapidamente trasformarsi in violenza esplosiva. “La polizia sta cercando un movente…” sentiamo spesso dire, ma è una ricerca vana. Questo tipo di violenza non è guidata dalla ragione. È guidata dalla rabbia.

Ciò che manca negli sconcertanti resoconti giornalistici di chi improvvisamente scatta violentemente è la storia di stress cronici pregressi sull’individuo, responsabili di innescare questi circuiti.

Prima dell’omicidio, DiPaolo era già considerato una sorta di emarginato, evitato per la sua incoscienza, i modi e gli atteggiamenti sciatti e da drogato. Il suo ex compagno di scalata, Matt Kull, ha detto alla rivista Outside di aver interrotto l’amicizia a causa dell’uso di droghe da parte di DiPaolo durante l’arrampicata e del suo crescente disprezzo per la sicurezza sua e degli altri scalatori.

DiPaolo aveva preso a vivere da solo e dormire in auto. Farrar aveva inoltre preso l’abitudine di criticare pubblicamente i fallimenti dell’amico. Lo status di DiPaolo nella comunità degli scalatori era in caduta libera.

Guardando indietro, possiamo identificare molti degli elementi che potrebbero portare una persona, alle prese con la droga e altre vicissitudini, a scattare in preda alla rabbia. Come possiamo riconoscere gli elementi e le influenze che potrebbero portare una persona, come Stone, a incanalare la sua rabbiain un’azione positiva.

Tutte queste cose erano in un certo senso dentro di me prima“, dice Stone. “Mia madre ha cresciuto me, mio fratello e mia sorella, da sola. Ci ha messo prima dei suoi desideri e bisogni. Ha fatto quello che doveva fare. Questo era in un certo senso innato in me. Mi piace aiutare le altre persone. Ci tengo… quasi fino all’eccesso“.

Otto settimane dopo il fatto del treno, Stone è stato quasi ucciso da un membro di una gang armato di coltello, all’uscita da un bar con gli amici a Sacramento, in California: “Ancora una volta mi sono messo di fronte alle altre persone che venivano minacciate“. Mentre si stava riprendendo dalle ferite da coltello, e stava imparando a convivere con la disabilità, non ha potuto non interrogarsi sui comportamenti messi in atto e quando gli è stato se in futuro avrebbe fatto scelte diverse, ha risposto: “No, reagirò allo stesso modo. È come sono“.

Riconoscere l’importanza della biologia nei nostri comportamenti, persino imparare da essi, contiene solo alcune delle risposte di cui abbiamo bisogno di fronte alla tragedia. Ma è comunque qualcosa da cui partire.

SE ANCHE GLI INTELLIGENTI SI COMPORTANO DA STUDIPI…

Quanto l’intelligenza aiuta a prendere decisioni efficaci?

Meno di quello che si creda.

L’intelligenza è un tratto particolarmente apprezzato e spesso invidiato. Eppure, un quoziente intellettivo elevato non garantisce decisioni altrettanto razionali.

Steve Jobs, intelligente lo era senza alcun dubbio, eppure decise di curare il cancro con rimedi naturali anziché farmaci. E sappiamo come è finita.

Non meno immuni alcuni premi Nobel. Kary Mullis ha inventato il processo noto come reazione a catena della polimerasi (PCR), in cui una piccola porzione di DNA può essere copiata in grandi quantità in un breve periodo di tempo. Scoperta essenziale per la ricerca genetica. Però poi si è dichiarato scettico sui cambiamenti climatici e negazionista sull’Aids.

James Watson, uno degli scopritori del DNA, non ha risparmiato dichiarazioni in cui denigrava persone di colore, donne e minoranze[1].

Così come non sono pochi i fisici, medici, ingegneri, biologi, chimici, psicologi che negano teorie supportate scientificamente a vantaggio di credenze irrazionali.

In qualche modo è come se la posizione ottenuta da precedenti scoperte o successi, metta queste persone nella condizione tale da poter o dover dire ciò che passa loro per la testa (sarebbe più corretto dire per la pancia).

Perché accade questo?

In primis i test di intelligenza non misurano la capacità di fare scelte ponderate e informate. La razionalità è limitata e quando decidiamo e giudichiamo, ricorriamo a euristiche e siamo vittime di bias che puntualmente ci fanno sbagliare, come ha dimostrato Daniel Kahneman che per queste scoperte ha ottenuto il Nobel per l’economia.

Le persone che sbagliano nel prendere decisioni spesso si affidano troppo al pensiero intuitivo, evolutivamente antico e che funziona in modo automatico (Sistema 1) e molto meno a quello ragionato, lento e che processa informazioni basandosi sui dati (Sistema 2).

DISRAZIONALITA’

La razionalità è qualcosa di diverso dall’intelligenza. A dimostrarlo Keith Stanovich, scienziato cognitivo all’Università di Toronto, in Canada, che ha chiamato la discrepanza tra intelligenza e razionalità: disrazionalità.

Ha anche dimostrato che gli studenti più intelligenti, tendono a essere maggiormente vittime dei bias in quanto sopravalutano le loro capacità. Come è arrivato a questo risultato? Costruendo un modello dove, accanto al pensiero intuitivo, il Sistema 1, funzionano due sottosistemi del Sistema 2: la mente algoritmica e la mente riflessiva.

L’intelligenza è il risultato dell’attività della mente algoritmica.

–         La razionalità si ha quando la mente riflessiva riesce ad attivare la mente algoritmica e scavalcare o disabilitare la mente autonoma.

Il comportamento irrazionale è conseguenza del fallimento del processo di scavalcamento dovuto, fra le altre cose, a mancanza di conoscenze, nozioni male apprese e pregiudizi.

Le persone che usano la mente riflessiva nel problem solving, quando cioè devono processare informazioni che richiedono tempi di risposta lunghi, mediamente fanno pochi errori, mentre le persone impulsive hanno tempi di risposta brevi e come risultato incappano in numerosi bias.

A differenza di quanto si pensi, non è sufficiente l’introspezione per mitigare bias e pregiudizi. In un sondaggio sulle convinzioni pseudoscientifiche condotto sui soci del Club Mensa[2], in Canada, costituito da persone con elevato QI (nel 2% più alto), ha mostrato che il 44% credeva nell’astrologia, il 51% nei bioritmi e il 56% negli extraterrestri.

PARADOSSO DI SALOMONE

Re Salomone governò Israele circa 3000 anni fa, ed era famoso in tutto il Medio Oriente per la saggezza dei consigli che elargiva. Eppure, quando si trattava di prendere decisioni per sé stesso, si dimostrava molto meno astuto: aveva centinaia di mogli e concubine pagane, andando contro i precetti della sua religione, e non riuscì a istruire l’unico figlio, che crebbe fino a diventare un tiranno incompetente, e che alla fine contribuì alla caduta del regno.

Ecco, dunque, un altro esempio di come persone intelligenti agiscono stupidamente. E come sia più facile essere saggi e ponderati con i dilemmi altrui che con i propri. A darne evidenza, Igor Grossmann, psicologo all’Università di Waterloo, in Canada[3]. Insomma, quando si tratta di prendere decisioni per noi stessi, il nostro ragionamento si fa fallace. Più di quando si tratta di decidere per gli altri.

SINDROME DA RIUNIONE AZIENDALE

A volte, le persone intelligenti possono agire in modo stupido a causa del contesto in cui si trovano. Ad esempio sul lavoro.

In un esperimento condotto nell’università Virginia Tech, sono stati consegnati dei problemi astratti da risolvere individualmente, via computer. Man mano che le informazioni venivano processate, sullo schermo comparivano i punteggi di ogni singola persona coinvolta, comparati a quelli del resto del gruppo. Il feedback ha avuto come conseguenza quella di paralizzare alcune persone, abbassando i loro punteggi rispetto a prestazioni misurate precedentemente in specifici test. Nonostante i quozienti intellettivi degli individui coinvolti nell’esperimento fossero paritetici, i partecipanti alla fine si sono distribuiti in due gruppi distinti[4].

Ciò che è emerso è che vantarsi del proprio status, può causare ansia negli altri, spingendoli verso prestazioni inferiori. Non sempre la competizione spinge le persone a fare meglio.

Effetti simili si riscontrano nei team che, per risolvere un compito, ricorrono all’intelligenza collettiva. Se nel gruppo ci sono due o più membri eccessivamente zelanti che dominano la conversazione, anche se intelligenti e capaci, potrebbero portare a risultati inferiori rispetto ai team dove ogni individuo ha la possibilità di contribuire allo stesso modo.

In questi casi, le dinamiche personali contano di più del QI medio del gruppo nel determinare la performance del team. Questo perché un piccolo numero di persone non considera (o non si cura) che questo comportamento annulla l’intelligenza di coloro che li circonda[5].

Insomma, l’intelligenza è solo parte della storia, poiché da qualsiasi prospettiva la si guardi, abbiamo la prova che la razionalità, nel tempo e nelle persone, non è aumentata.


Fonti

[1] https://www.statnews.com/2019/01/03/where-james-watsons-racial-attitudes-came-from/

[2] https://www.mensa.org/

[3] Grossmann I., Kross E., Exploring Solomon’s paradox: self-distancing eliminates the self-other asymmetry in wise reasoning about close relationships in younger and older adults, Psychol Sci., 2014 Aug;25(8):1571-80.

[4] Kishida K.T., Yang D., Quartz K.H., Quartz S.R., Montague P.R., Implicit signals in small group settings and their impact on the expression of cognitive capacity and associated brain responses, Philos Trans R. Soc, Lond B Biol Science, 2012 Mar 5; 367(1589): 704–716.

[5] Woolley A.W., Chabris C.F., Pentland A., Hashmi N., Malone T.W., Evidence for a Collective Intelligence Factor in the Performance of Human Groups, Science, 29 Oct 2010, Vol. 330, Issue 6004, pp. 686-688

Cosa ci può INSEGNARE l’ARTE (e gli artisti) per MIGLIORARE il modo di PRENDERE DECISIONI

C’è la tendenza a ragionare a compartimenti stagni, quando si tratta di decisioni. Come se ogni disciplina, contesto e ambito avesse e dovesse rispondere a regole proprie che nulla o molto poco hanno a che fare con altri mondi.

Eppure, come l’ambito militare o medico possono darci spunti almeno quando si tratta di decisioni rapide e in situazioni di forte incertezza, anche l’arte può offrire consigli interessanti.

Entriamo nel dettaglio.

LE REGOLE NELL’ARTE

Quattro sono le cose che gli artisti fanno deliberatamente (cose che gli altri non necessariamente fanno intenzionalmente) quando affrontano un processo decisionale:

  • usano la distanza e la diminuzione per ottenere la giusta prospettiva. Quando un artista vuole creare l’illusione della profondità, una delle abilità chiave che deve padroneggiare è la diminuzione, in modo che gli oggetti distanti siano resi più piccoli di quelli in primo piano. Questo è un esercizio abbastanza semplice poiché ci sono specifiche regole geometriche da seguire. Ma quando si tratta di distanza psicologica, non esiste una regola a cui attenerci per capire quanto dovremmo minimizzare le cose che sembrano “distanti”. Di conseguenza, commettiamo errori: cose che accadono in un futuro lontano o a persone che non conosciamo, sono troppo facili da ridurre a minuscoli puntini sulla linea dell’orizzonte del nostro panorama decisionale psicologico. È vero anche il contrario e troppo spesso la nostra tela mentale viene dominata da cose urgenti, immediate o emotivamente evocative anziché rimanere focalizzata sull’obiettivo.
  • Il punto di vista. Gli artisti tengono in gran conto il punto di osservazione, affinché lo spettatore possa apprezzare il loro lavoro. Non a caso, quando si tratta di creare un’opera d’arte, prima di iniziare, un artista pensa molto attentamente al punto da cui l’opera dovrebbe essere vista. Stessa cosa dovremmo fare noi: riconoscere che tutti percepiamo le cose in modo diverso. Invece, quando affrontiamo problemi o decisioni, tendiamo a sottovalutare quanta parte della nostra percezione dipenda da chi siamo e dove ci troviamo, piuttosto che dai fatti oggettivi della situazione. In Tanzania, a Nyaruguru, il terzo campo profughi più grande del mondo, per modificare l’atteggiamento prevalente secondo cui la violenza è uno strumento appropriato per la disciplina in classe, gli insegnanti sono stati spinti a mettersi nei panni dei loro studenti. Molto più efficace che ricordare loro le regole standard del campo contro l’uso delle punizioni corporali. La bontà della strategia è stata confermata dalla ricerca:quando ai docenti sono state fornite le informazioni sul motivo per cui usare le punizioni corporali non è efficace, hanno affermato che avrebbero usato la forza fisica come soluzione nel 35% degli scenari presentati. Ma quando è stato chiesto loro di ricordare come si sentivano da bambini e di mettersi nei panni dei loro alunni, la tolleranza alla violenza è scesa al 26%.
  • Composizione: mettere in relazione i dettagli con il quadro generale. Quando un artista crea, pensa alla composizione, ossia alla relazione fra i dettagli della sua opera e l’impressione generale che lascia, a come apparirà nel suo complesso. Gli impressionisti, ad esempio, hanno creato opere in cui i dettagli appaiono sfocati, ma l’insieme è un’immagine coerente. Nel processo decisionale ci troviamo spesso a oscillare fra i dettagli e il quadro generale. E non è sempre facile trovare il giusto equilibrio. Nel business, esiste un effetto, noto come bike shedding, in cui i team dedicano troppo tempo a un dettaglio relativamente banale come i capanni per biciclette e non abbastanza tempo a questioni più importanti e complesse come la soddisfazione del cliente o la redditività.
  • Cornice: cosa abbiamo eliminato dal contesto decisionale. Gli artisti spesso fanno scelte deliberate su cosa mostrare e non mostrare del loro lavoro. In questo modo impongono una “cornice” alla nostra esperienza. Questa cosa la facciamo di continuo. Non ci accorgiamo che le nostre scelte sono vincolate dalle convenzioni sociali, dai sistemi economici, dai pregiudizi… Se potessimo notare i limiti del quadro e sfidarli, potremmo mettere in discussione le regole che ci vincolano e di conseguenza progettare un mondo migliore. Un esempio di ampliamento della cornice è la piattaforma di assunzione Applied. Rendere il reclutamento più equo è una sfida continua e nonostante i molteplici tentativi, è facile rimanere intrappolati dai limiti dei processi di reclutamento esistenti. Non è risolutorio, ad esempio, implementare il numero di candidati rispetto un determinato lavoro, se qualcuno, coinvolto nel processo, continua a introdurre pregiudizi inutili nella decisione di chi portare o meno a colloquio. Quel pool di candidati più ampio potrebbe non portare a cambiamenti in chi viene assunto. Un team del BIT si è fatto una domanda diversa: “E se riprogettassimo completamente le assunzioni per renderle più eque e più accattivanti?” Uno dei primi passi è stato rimuovere informazioni personali o identificative dai CV, quindi parti tradizionali del processo di assunzione che causavano problemi, sostituendole con approcci alle assunzioni basati sull’evidenza che hanno ampiamente eliminato il rischio di essere influenzati da pregiudizi. Durante gli esperimenti, è emerso che lo screening tradizionale dei CV avrebbe eliminato il 60% dei candidati che invece si sarebbe assunto utilizzando Applied. Da allora la piattaforma è stata utilizzata da milioni di candidati in tutto il mondo.

SCRITTURA ESPRESSIVA

A creare il parallelismo fra il modo in cui gli artisti creano e il modo in cui prendiamo decisioni nel quotidiano è Elspeth Kirkman, chief program officer di Nesta[1]. Secondo Kirkman, il processo decisionale è “l’equivalente consapevole della tela di un artista“. Se un artista disegna qualcosa di oggettivo, l’arte non si concentra su un punto particolare. Allo stesso modo il nostro modo di considerare una scelta è ciò su cui mettiamo la nostra attenzione, ciò che poniamo in primo piano e ciò che lasciano indietro. Talvolta dimenticando che su ciò che portiamo la nostra attenzione, a influire sono i pregiudizi.

Fra le soluzioni che Kirkman suggerisce c’è la scrittura espressiva di cui James Pennebaker ne è l’ideatore[2]. Uno stile di scrittura che include scrivere senza parlare, senza pensarci troppo, senza criticare ciò che si sta scrivendo, semplicemente lasciando che le parole fluiscano. Dedicarsi a questo tipo di scrittura periodicamente, pare avere un potente effetto psicologico. Nessuno leggerà i tuoi scritti, ma inizierai a elaborare i tuoi pensieri e sentimenti in modo più efficace.

Una volta completata la stesura, si ha la libertà di disporne come meglio si preferisce. In alcuni studi, le persone hanno scelto di conservarli, osservando come si evolvono nel tempo. Ed è emerso uno spostamento verso espressioni più costruttive, coerenti e concise, che è una testimonianza della crescita personale.

Il cambiamento nell’uso dei pronomi è una delle caratteristiche più interessanti della scrittura espressiva[3]. Pennebaker sostiene che le persone tendono a iniziare con i pronomi in prima persona. Man mano che continuano a esprimersi per iscritto, la situazione cambia. Così come, piano piano, si distanziano anche da ciò che scrivono. “Non si tratta più di me; riguarda la situazione”. Quando si tratta di loro, la domanda è: “Cosa posso fare per migliorare?” La scrittura espressiva influisce sul benessere, sulla guarigione, su vari processi sanitari, sulla disoccupazione e su altri risultati che non ci si aspetterebbe.

ARTE E DECISIONI

Pianificare con chiarezza è un’arte, ma la vera innovazione spesso richiede un deliberato allontanamento o un rifiuto del vecchio modo di fare le cose. Questo atto coraggioso di andare contro le regole può portare a nuove ed entusiasmanti possibilità. Se ci pensiamo, nella pittura, l’uso della profondità è solo un’illusione. Usata con arguzia, innovazione o precisione certosina.

Prendiamo l’arte cinese, il Rinascimento italiano e la prospettiva lineare e come questi movimenti siano stati capaci di conquistare il mondo. All’epoca, la gente si chiedeva ingenuamente perché gli artisti cinesi non fossero ossessionati dal realismo e dall’umanesimo. Gli artisti cinesi erano certamente capaci di creare arte realistica, ma il loro scopo non era ricreare il mondo. Invece, hanno cercato di rappresentare qualcosa oltre la prospettiva di una persona. Questo approccio unico, parallelo alla proiezione, è ciò che ha dato origine all’arte cinese, consentendo agli spettatori di vedere molto più di ciò che un singolo occhio umano potrebbe percepire.

È strano osservare quel tipo di arte perché può risultare inquietante se non la si conosce. Difficile capire perché non sia realistico, ma sai che non saresti in grado di vedere tutti i dettagli da solo. La cosa interessante è che se pensi all’emergere del cubismo, arrivato più tardi, potresti vedere la stessa cosa da diverse prospettive smontando l’immagine e riorganizzandola.

CONCLUSIONE

Per migliorare la presa di decisioni, un consiglio mutuato dall’arte è dunque quello di rappresentare mentalmente i fattori che determinano le nostre scelte, come fa l’artista sulla tela. Visualizzare le decisioni, può aiutare a vedere e valutare le scelte che stiamo facendo in modo più efficace. E, proprio come non esiste un modo “giusto” per fare arte, non esiste un modo “giusto” per prendere decisioni: ognuno di noi lavora sulla propria tela individuale, facendo le proprie scelte. Ma applicare le pratiche deliberate utilizzate dagli artisti, può aiutare a rendere visibili le forze che deformano le nostre prospettive e compromettono le nostre decisioni, e anche le cose che possiamo fare per mitigarle.


Fonti

[1] Kirkman E., Decisionscape: how thinking like an artist can improve our decision making, MIT Press, 2024 https://mitpress.mit.edu/9780262048941/decisionscape/

[2] https://www.youtube.com/watch?v=PGsQwAu3PzU

[3] Pennebaker J., The Secret Life of Pronouns: What Our Words Say About Us; Bloomsbury Press, 2013

COME sei messo a CORAGGIO? …quando si tratta di DECIDERE, AGIRE, condividere il tuo PUNTO DI VISTA?

C’è una parola che ricorre nei board delle organizzazioni, in questo periodo storico, più di altri: coraggio.

Nel contesto aziendale coraggio:

Ø  significa avere la fiducia e il mindset necessari per prendere decisioni laddove non esiste una risposta certa o comoda,

Ø  significa fare ciò che è meglio per l’azienda, anche se quella decisione renderà qualcuno infelice,

Ø  significa attenersi ai valori dichiarati, anche se questo ha un costo per la posizione che si occupa, perché ci si è rifiutati di seguire un piano che si riteneva sbagliato.

Il mio lavoro mi permette di confrontarmi con molti dirigenti e, fra quelli che mi colpiscono di più ci sono coloro che possiamo definire ippocratici. Il nome deriva dal giuramento dei medici di Ippocrate, che è stato associato alla frase “Primo, non fare del male“. Questi leader sembrano aver adottato la stessa filosofia nella gestione della carriera e degli incarichi. Giocano sul sicuro, rimanendo sotto il radar e non correndo rischi.

Eppure, se si vuol fare un salto di qualità, molti amministratori delegati hanno bisogno di avere la certezza che i loro manager e dirigenti hanno il coraggio di agire. Non tutti in un’azienda prendono grandi decisioni, o allocano importanti risorse. Ma ognuno deve saper guidare, avere doti di leadership. Ciò richiede assumersi la responsabilità e capire come avere un impatto e influenzare l’organizzazione.

Il coraggio è un’abilità estremamente preziosa – sostiene Ryan Roslansky, CEO di LinkedIn -. Si tratta di avere il coraggio di prendere una decisione quando semplicemente non ci sono decisioni buone o facili da prendere. È facile rimanere intrappolati nell’attesa di avere maggiori informazioni, ma è fondamentale avere il coraggio di prendere semplicemente la decisione e andare avanti”[1].

COME SI COSTRUISCE IL CORAGGIO?

Avere un’opinione su ciò che viene discusso è importante.  Non si tratta solo di conoscere la risposta a una domanda. Occorre avere un punto di vista e saperlo condividere, portare avanti. Altrimenti è difficile progredire.

Un leader coraggioso apprezza il fatto che mettersi in mostra comporta il rischio di sbagliare o di fallire. Molti amministratori delegati e dirigenti senior stanno cercando di promuovere i manager che hanno fallito e che possono dimostrare di aver imparato dall’esperienza. Vogliono leader che intraprendano grandi cambiamenti e, se inciampano, capiscano cosa è andato storto.

Tuttavia, siamo ancora tutti troppo inclini a erigere facciate di invincibilità e perfezione, lucidando curriculum che mostrano liste di record coerenti di successo. Nei colloqui di lavoro, i candidati non sono disposti a riconoscere eventuali fallimenti o debolezze oltre alle prevedibili mancate risposte di “lavoro troppo impegnativo o poco interessante”.

Le persone che non prendono decisioni sbagliate sono indecise e avverse al rischio“, argomentava David Kenny,  quando ricopriva il ruolo di CEO della Weather Company  (ora gestisce la società di ricerche di mercato Nielsen). “Mi piace assumere persone che hanno fallito. Abbiamo delle persone fantastiche qui con alle spalle grandi fallimenti. Se hanno imparato da questi errori, sono professionisti migliori perché hanno corso un rischio. Sono molto più umili, contribuiscono maggiormente alla cultura aziendale e fanno grandi cose perché hanno imparato” [2].

Non tutti i leader la pensano in questo modo. Ci sono ancora aziende con una cultura che incoraggia un approccio più ippocratico. Sono avversi al rischio e i dipendenti che provano cose che non funzionano possono pagare dazi più o meno pesanti. La parola preferita dei leader di aziende come questa è “no” e giustificano questo approccio dicendo a sé stessi che stanno aggiungendo valore “proteggendo il marchio”.

Se il mondo degli affari fosse più stabile e prevedibile, l’approccio ippocratico potrebbe anche funzionare. Ma non adesso. Adesso tutti devono avere coraggio per prendere decisioni, per avere un punto di vista, per agire. Il coraggio è una qualità straordinaria, essenziale per la leadership e, per quanto molti siano convinti che si tratti di una dote innata, al contrario può essere sviluppato e potenziato attraverso un costante lavoro su di sé e una cura delle relazioni.

Diversamente, in questa epoca, restare fermi significa che si verrà rapidamente lasciati indietro.

Nel dubbio, c’è una frase di William Sloan Coffin che può aiutare a riflettere: “Il coraggio è una grande virtù. Cos’è che ci fa paura? La morte o la vita?”. Le risposte potrebbero non essere così scontate.


Bibliografia

[1] Bryant A., Do you have the courage of your convictions? The pace of change can paralyze some executives. It’s time to develop a more dynamic relationship with risk-taking and failure, Strategy+business, March 6, 2023

[2] https://www.nytimes.com/2014/07/27/business/corner-office-david-kenny-of-the-weather-company-move-fast-but-know-where-youre-going.html

FATE ATTENZIONE a ciò che PRESTATE ATTENZIONE… Nei C.d.A., nelle DECISIONI, o anche solo negli ACQUISTI

Può accadere che qualcosa o qualcuno di cui fino a quel momento si ignorava l’esistenza – un concetto, una vecchia canzone, un film, un’attrice, un abito, un alimento, una pianta o semplicemente un colore – una volta appresi, inizino a presentarsi alla nostra attenzione con una certa insistente ripetitività.

Coincidenze, sincronicità, segni del destino?

Nulla di tutto questo.

Il nostro cervello è semplicemente vittima di un bias cognitivo noto come illusione di frequenza o effetto Baader-Meinhof.

DI COSA SI TRATTA

Il nome deriva da un gruppo terroristico attivo nella Germania del dopoguerra.

A fine anni ‘80 Terry Mullen inviò una lettera al giornale St. Paul Pioner Press, raccontando un’esperienza personale. Secondo il suo racconto, dopo aver letto per la prima volta il nome del gruppo terroristico Baader-Meinhof in un articolo di giornale, e avendo saputo della sua esistenza, ha iniziato a vedere il nome dell’organizzazione dappertutto.

Dopo la pubblicazione della lettera, Mullen fu contattato da altre persone che raccontavano esperienze simili. Da quell’evento, Mullen coniò il termine per descrivere quello strano fenomeno percettivo.

Venire a conoscenza di un’informazione ci porta naturalmente a notarla nella nostra quotidianità: in realtà c’è sempre stata, eravamo noi a non vederla.

Andreas Baader e Ulrike Meinhof non sono quindi i nomi di due ricercatori, ma di due terroristi tedeschi. La banda Baader-Meinhof era infatti il nome con cui era conosciuta, nelle prime fasi della sua attività, la RAF (Rote Armee Fraktion), il violento gruppo terroristico di estrema sinistra che ha terrorizzato la Germania tra gli anni ’70 e gli anni ’90.

Curioso, non è vero?

UN SOLO BIAS, MOLTI NOMI

Quando si parla di effetto Baader-Meinhof, non ci si riferisce solo alla sorpresa di incontrare la stessa parola o lo stesso concetto più volte in un ristretto arco temporale, quanto più a un qualcosa con cui siamo venuti in contatto per la prima volta e che, all’improvviso, comincia a comparire con un’insolita frequenza, come se il mondo avesse deciso tutto a un tratto di comunicarci che quell’oggetto esiste ed è importante.

A molti sarà capitato, per esempio, di voler comprare un’auto nuova di uno specifico colore. Poniamo sia il rosso. Dopo aver preso questa decisione, è probabile che, all’improvviso, vi capiti di incrociare molte più macchine di colore rosso rispetto al solito (rovinando quindi l’entusiasmo iniziale verso una scelta che non sembra più così unica).

L’effetto Baader-Meinhof è assimilabile alla “Red Car Syndrome”. Tornando all’esempio, non sarà che molte persone abbiano deciso di anticiparci andando a comprare una macchina rossa, quanto piuttosto siamo noi che siamo diventati più suscettibili alla presenza di vetture rosse, la cui quantità resta comunque invariata.

Il linguista Arnold Zwicky ha definito questo fenomeno frequency illusion: quando si nota qualcosa di nuovo, si è portati a credere che questo qualcosa accada (o sia riscontrabile) più frequentemente di quanto non sia in realtà.

PERCHE’ CADIAMO VITTIME DEL BIAS DELL’ILLUSIONE DI FREQUENZA

Per generare l’effetto Baader-Meinhof occorre ci sia sinergia fra attenzione e i bias di conferma e di recency illusion. L’attenzione selettiva entra in gioco quando prestiamo attenzione a uno specifico stimolo per la prima volta, facendoci notare la sua presenza a scapito di altri stimoli; il bias di conferma, fa sì che usiamo ogni occasione per supportare l’ipotesi che ci siamo formati.

Un secondo bias che può contribuire a rendere ancora più forte l’effetto Baader-Meinhof è la recency illusion: l’illusione per la quale quando si nota qualcosa per la prima volta si è portati a credere che questa abbia avuto origine solo recentemente.

L’EFFETTO BAADER-MEINHOF nel MARKETING

Utile per attirare l’attenzione del consumatore verso un determinato prodotto e/o servizio.

Già dalla fine dell’Ottocento, Elias St. Elmo Lewis aveva teorizzato un modello a imbuto che sottolineava l’importanza dell’attenzione allo stimolo pubblicitario per creare campagne di marketing di successo.

Il passaggio tra il primo e il secondo step di questo imbuto pubblicitario prevede che il potenziale cliente passi dall’iniziale attenzione per il prodotto a uno stato di interesse: è proprio in questa zona grigia che va ad agire l’effetto Baader-Meinhof.

Quando per la prima volta ci accorgiamo di uno specifico prodotto o di una campagna pubblicitaria, la nostra attenzione selettiva potrebbe iniziare a focalizzarsi su di esso, permettendo così l’instaurarsi dell’effetto Baader-Meinhof. E fare in modo che ogni volta che ci imbatteremo nello stesso stimolo, avremo la sensazione che tutti ne parlino e tutti lo abbiano, portandoci a volerlo anche noi.

COME IMPATTA nei C.d.A.

Neanche i Consigli di Amministrazione sono immuni dall’effetto Baader-Meinhof. Infatti, si potrebbe essere spinti a enfatizzare eccessivamente il significato di incidenti recenti e isolati. Ciò rafforza la falsa percezione di una tendenza anche quando non ci sono prove a sostenerla.

Il bias in questione può esarcerbare le Echo Chambers e il pensiero di gruppo. Ad esempio, quando un componente presenta un concetto, altri che lo hanno incontrato solo di recente potrebbero provare un falso senso di convalida, rafforzando la fiducia nell’idea senza valutarne criticamente pro e contro. Questo potrebbe, a caduta, portare a una mancanza di diversità di prospettive soffocando il processo decisionale o l’innovazione e a trascurare opportunità preziose o, ancora, commettere errori strategici.

COME SUPERARE il Baader-Meinhof nel BOARD MANAGEMENT

L’impatto dell’effetto Baader-Meinhof può mettere a repentaglio non solo il processo decisionale del CdA ma anche la crescita di un’organizzazione. Per mitigare questo pregiudizio, ecco quattro consigli:

Coltiva un dialogo aperto e sostieni prospettive diverse.

Il bias è capace di aggravare le Echo Chambers, ecco perché creare uno spazio di comunicazione aperta e di feedback come prassi, può aiutare a prevenirlo o mitigarlo. Dedica del tempo alla collaborazione, all’ascoltare le opinioni di esperti con esperienze e background diversi in modo da poter esporre potenziali pregiudizi, riconoscerli e trattarli in modo informato e razionale.

Implementa i processi decisionali strutturati

Un altro modo per mitigare i pregiudizi è creare un processo decisionale strutturato. Idealmente, i membri di un C.d.A. dovrebbero essere in grado di fare scelte strategiche informate e razionali. Inoltre, l’utilizzo di strumenti di pensiero critico come l’analisi SWOT, PESTLE, o il pensiero creativo, solo per citarne alcuni, può facilitare la valutazione sistematica delle informazioni.

Inoltre, utile è assicurarsi di avere criteri chiari per valutare i dati o le prove presentate. Ciò può evitare di fare affidamento su riferimenti aneddotici o opinioni personali distorte che portano a diventare facili prede dei bias.

Dai priorità alla diversificazione delle informazioni

Portare attivamente nuove informazioni al tavolo può aiutare a prevenire pregiudizi tra i membri. È una buona abitudine andare sempre oltre i report interni e le novità del settore. Espandere le fonti, a opinioni di esperti esterni o ricerche indipendenti per sfidare pregiudizi radicati è un’ottima tecnica anti bias. Per evitare di sopravvalutare le tendenze basate su casi isolati, si può condurre un’analisi della concorrenza o un sondaggio di settore per raccogliere dati più ampi.

Promuovere l’autoconsapevolezza e la formazione continua

Il Baader-Meinhof è un tipo di pregiudizio personale, pertanto l’autoconsapevolezza è fondamentale. Incoraggiare i membri del C.d.A. a riflettere regolarmente sui propri pregiudizi e su come questi influenzano le loro interpretazioni delle informazioni può fare la differenza. La formazione continua su come i diversi bias impattano sulle decisioni può fornire le conoscenze necessarie per superarli.

CONCLUSIONI

La prossima volta che vi sembrerà di vedere ovunque un oggetto, un dato, un concetto… di cui prima ignoravate l’esistenza, è molto probabile che siete voi ad averlo notato solo di recente e che potreste essere caduti vittime dell’effetto Baader-Meinhof o, peggio, di una strategia studiata ad hoc, che potrebbe portarvi a decisioni sbagliate. Questa consapevolezza farà una grande differenza, credetemi!

QUANDO la MEMORIA gioca BRUTTI SCHERZI: l’effetto MANDELA

La memoria talvolta gioca brutti scherzi. Come quando ricordiamo qualcosa che in realtà non è mai accaduto o ricordiamo qualcosa parzialmente non vero su qualcosa che è successo.

Questo scherzo prende il nome di effetto Mandela e si verifica quando un ricordo comune a un gran numero di persone, altro non è che una distorsione creata dalla memoria collettiva. La ricostruzione, riportata nella mente di molti, corrisponde infatti a un evento che non si è mai verificato nella realtà o a un particolare visivo che non è mai esistito. Estranei sparsi per tutto il globo condividono, in pratica, un ricordo totalmente errato.

Questi ricordi falsati vengono anche detti “menzogne oneste” perchè sono diffuse senza alcun dolo: chi le porta avanti è infatti totalmente convinto di dire la verità.

Il nostro cervello è capace di ricordare parte di un avvenimento del passato e colmare i vuoti con qualcosa di non vero ma plausibile, purché abbia un senso logico. La particolarità dell’effetto Mandela è che non riguarda un solo individuo ma interessa più persone, a volte anche gruppi numerosi.

Perché si chiama così

Il nome deriva da un episodio risalente al 2009. In occasione di una conferenza, la ricercatrice Fiona Broome parlò con un addetto alla sicurezza della morte di Nelson Mandela, descrivendola come fatto avvenuto durante gli anni ‘80 mentre l’ex presidente del Sudafrica si trovava in prigione. L’addetto alla sicurezza disse alla donna che Mandela non solo non era morto durante la prigionia ma era ancora in vita; il presidente sudafricano morì infatti quattro anni dopo, nel dicembre 2013. Broome ricordava però nei dettagli la morte di Mandela, incluso il discorso della vedova. Tornata nella sala della conferenza, chiese al pubblico la loro versione dei fatti. Il risultato fu curioso, poiché buona parte dei partecipanti ricordava la versione della donna. Poiché questo ricordo era condiviso da altre persone e non solo da Broome, nacque il termine di effetto Mandela e, negli anni successivi, in molti cercarono di dare una spiegazione al fenomeno.

Esempi

Tra gli esempi più comuni troviamo i falsi ricordi legati a citazioni tratti da film o cartoni animati. Molti sono convinti che la strega di Biancaneve allo specchio dica Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? In realtà, la strega dice Specchio, servo delle mie brame. In questo caso è possibile che, trattandosi di un cartone animato, molti bambini non sapessero il significato della parola “servo” e che l’abbiano sostituita con “specchio” creando una memoria collettiva diversa dalla realtà.

Un meccanismo simile può spiegare il fatto che ricordiamo che il costume di Topolino avesse le bretelle, in realtà non le ha.

Un fatto curioso classificato come effetto Mandela è quello che riguarda l’uomo che bloccò i carri armati in Piazza Tienanmen nel 1989; molte persone sono convinte sia stato poi investito e ucciso ma altri video dell’epoca mostrano l’uomo illeso.

Un altro noto esempio dell’effetto Mandela riguarda la battuta che apre Blade Runner Ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, non sarebbe mai stata pronunciata in questo modo, ma Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.

Altri esempi di effetto Mandela sono legati a una semplificazione nel percepire le immagini: il logo Looney Toons è in realtà Looney Tunes; Flintstones è scritto proprio così e non Flinstones, la celebre serie TV è Sex and the city e non Sex in the city e la W del logo della casa automobilistica Volkswagen ha un trattino in centro, che la maggior parte di noi non ha mai notato.

Sul logo delle scarpe Air Jordan, il campione di pallacanestro è raffigurato con i pantaloni lunghi. Eppure, sono tanti quelli che potrebbero giurare di aver visto lo stesso logo in cui Michael Jordan indossa i pantaloncini. Questa versione alternativa dell’immagine, però, non è mai esistita se non nella mente dei fan.

Le cause dell’effetto Mandela

La scienza ritiene che l’effetto Mandela sia una sorta di scorciatoia cognitiva intrecciata all’interpretazione della realtà. Nel caso che regala il nome al fenomeno, ad esempio, è più semplice legare la dipartita di Mandela a un evento traumatico che lo ha riguardato, come appunto è la detenzione. La nostra mente, quando non ha una conoscenza diretta di un fatto storico, tenta di ricordare la sequenza di eventi più plausibile e probabile.

E voi come ve la cavate con l’effetto Mandela?

PERCHE’ diventiamo IMMUNI alla SOFFERENZA (di MASSA)

“Più persone muoiono, meno ce ne importa”. Senza mezze parole lo psicologo americano Paul Slovic (che alla percezione del rischio e alla matematica della compassione ha dedicato decenni di studi), riassume la naturale reazione umana di fronte alle tragedie.

Poiché l’indifferenza e l’insofferenza rispetto alle tragedie delle masse è direttamente proporzionale all’aumentare dei numeri. E non perché siamo cattivi, ma, banalmente, perché siamo condizionati da distorsioni cognitive e errori di pensiero.

I numeri, per enormi che siano, anzi proprio quando sono enormi, non riescono a far scattare in noi una risposta emotiva. Per dirla con le parole di Paul Brodeurle statistiche sono esseri umani le cui lacrime sono state asciugate”.

Anziché causarci una risposta emotiva, determinano ciò che Slovic chiama “intorpidimento psichico”: quel distacco che si crea nel cervello di tutti noi, o per lo meno la maggioranza, quando leggiamo i numeri del fenomeno delle migrazioni e dei morti causati da guerre e carestie. Centinaia di migliaia di persone sotto le bombe costrette ad abbandonare le proprie case per colpa di tumulti, fame e siccità. Troppe. Ed è questo che fa scattare in noi il secondo perverso meccanismo: il falso senso di impotenza.

Quando i problemi sono così grandi, per il nostro cervello è difficile pensare di poter fare qualcosa, una qualunque differenza, così ci spinge a rinunciare a fare anche il poco che potremmo.

Il modo in cui razionalmente sappiamo che dovremmo considerare il valore di ogni vita umana, man mano che il numero di persone a rischio aumenta purtroppo non è lo stesso con cui effettivamente lo valutiamo”, spiega Slovic.

Ogni vita umana è di pari valore, più vite sono a rischio più l’importanza di fare qualcosa aumenta. In pratica però la reazione comune è che “la prima vita è la più importante da proteggere in assoluto. Due vite non valgono per noi esattamente il doppio di una, ma un po’ meno”. E il valore che attribuiamo a ogni singola vita diminuisce man mano mentre il numero totale sale. “Quando le potenziali vittime salgono, poniamo da 87 a 88, per non c’è più alcuna differenza, segno che si perde sensibilità man mano che quel numero aumenta”.

L’empatia consiste nel provare a mettersi nei panni dell’altro per capire come si sente, cosa prova. Ma se le persone sono due come si fa? Diventa più difficile e ancor più lo diventa quando sono tante.

Nei suoi esperimenti Slovic (i cui studi si sono incrociati con quelli sulla teoria del prospetto di Kahneman e Tversky) ha dimostrato proprio questo: siamo meno portati ad aiutare il singolo quando abbiamo la percezione che ci siano molte altre persone nelle sue stesse condizioni rispetto a quando non ne siamo consapevoli.

Eppure, anche se non possiamo aiutare tutti, non vuol dire che non dobbiamo aiutare nessuno.

Alla fine è la singola storia che ci commuove, la singola persona quella che vogliamo aiutare. Come la foto di un bimbo siriano di tre anni morto su una spiaggia turca, che ha fatto di più per la causa siriana, dei bollettini di guerra con il computo delle centinaia di morti quotidiane. Prima della pubblicazione della foto il fondo istituito per la Siria dalla Croce Rossa svedese riceveva donazioni per 8 mila dollari al giorno. Dopo la foto, sono diventati 430 mila. “I 250 mila morti in Siria fino a quel momento non avevano suscitato la stessa compassione”.  Le donazioni sono rimaste elevate per circa un mese, poi sono tornate ai livelli precedenti.

Le storie drammatiche su un singolo individuo riescono a regalare una finestra di opportunità in cui siamo improvvisamente svegli e non intorpiditi, e vogliamo, riusciamo a fare qualcosa. Ma poi, se non c’è nient’altro che possiamo fare, nel tempo, ci spegniamo nuovamente. Sono storie importanti e possono essere efficaci ma solo se c’è un’azione concreta che può essere intrapresa.

Al momento una soluzione all’intorpidimento psichico non esiste ancora. Ma essere consapevoli che esiste e degli effetti che causa è il primo passo. E, a mio avviso, non è così poco.

Cosa ne pensate? Anche voi siete caduti in questa trappola?

Le COSE veramente IMPORTANTI… sai quali sono?

Alcuni, io sono fra questi, hanno la tendenza a dire sempre sì. Consci che benché sul momento sembri la decisione più facile, non lo sarà nel tempo. Il rischio è di essere impegnati ma non produttivi e scambiare l’iperattività per produttività.

Dire no, nei momenti giusti, aiuta a concentrare l’attenzione e gli sforzi sulle cose realmente importanti e massimizzare il successo.

Un integralista del no è il consulente di gestione e redattore di HBR Greg McKeown. Nel best seller Essentialism: The Disciplined Pursuit of Less (Dritto al sodo. Come scegliere ciò che conta e vivere felici), espone una metodologia utile allo scopo e che è possibile concentrare in tre punti:

·        Meno è meglio;

·        Poche sono le cose veramente essenziali nella vita;

·        Creare una routine è importante per concentrarsi solo su ciò che è essenziale.

Detta così, suona semplice. In parte lo è ma, per far propria questa metodologia, occorre essere aperti al cambiamento. Non a caso è un ottimo esercizio di Change Management.

Per diventare essenziali, secondo Greg, occorre sostituire i falsi presupposti: “Ho bisogno di farlo”; “Questo è tutto importante” e “Posso fare entrambe le cose”, con:

1.  “Scelgo di fare”;

2. “Solo poche cose contano davvero”;

3. “Posso fare qualsiasi cosa, ma non posso fare tutto.”

Alla base del successo di tale filosofia, c’è la necessità di riconoscere di avere una scelta. Se lo dimentichiamo, cadiamo facili prede delle scelte altrui.

Un essenzialista è colui che apprezza il potere di scelta

Molte persone non riescono a performare poiché credono che tutto sia importante. Quindi è essenziale investire del tempo per valutare le diverse opzioni. Con questa valutazione, un essenzialista è in grado di separare ciò che è vitale (di solito poche cose) da ciò che è banale. Spesso l’errore deriva dal fatto che confondiamo iperattività con produttività.

Inconsciamente associamo più lavoro a più risultati. Crediamo che più ore impieghiamo, migliore sarà la nostra produzione. Questo atteggiamento è intrinsecamente imperfetto. Cercando di fare il più possibile, non ottimizziamo i nostri sforzi.

Prendiamo l’esempio della lettura.

Sei libri contengono più conoscenza di uno. Di conseguenza, un approccio iperattivo sarebbe quello di leggerli tutti e sei il più rapidamente possibile. In questo modo, saremo sicuri di assorbire tutta la saggezza e ottenere più valore dalla nostra attività di lettura. Tuttavia, cercando di leggere i sei libri in un breve periodo, non abbiamo l’attenzione alla lettura necessaria per digerire le lezioni dei libri. Leggere uno dei sei è la soluzione essenzialista. Prendendo il tempo necessario per leggere correttamente quel libro, consentiremo al nostro cervello di metabolizzare ciò che serve e usarlo al meglio. Nel tempo, trarremo maggiori benefici da aver letto correttamente un unico libro che aver sfogliato tanti libri: una perfetta manifestazione della regola di Pareto . 

Trade-off

Parliamo di compromesso quando dobbiamo operare una scelta tra due cose che desideriamo. Di solito, il nostro desiderio è fare entrambe le cose, tenere entrambe le opzioni. Raramente è una buona decisione. In questa situazione, un essenzialista non si chiede come fare entrambe le cose, ma decide quale può coltivare di più. E meglio. Con questa riflessione, è in grado di giudicare ciò che gli darà la maggiore opportunità e concentrarsi su quello, cioè concentrarsi solo sull’essenziale.

Regola del 90%

Il funzionamento è semplice: va valutata ogni opzione con un punteggio fra 0 e 100. Quelle sotto 90, sono da eliminare. In questo modo, si evita di rimanere bloccati con le opzioni medie.

1.  Annota su un foglio quale opportunità ti viene offerta (ad esempio, tenere un discorso a un evento);

2. Di seguito, decidi 3 criteri in base ai quali deve essere approvata l’opportunità per iniziare a prenderla in considerazione (Es .: pubblico di oltre mille persone; spese di trasporto pagate, possibilità di vendere il proprio libro);

3. Infine, scrivi i criteri ideali per l’opportunità di essere approvato. (Es. 5000 persone parteciperanno alla conferenza e riceverai un bonus).

Ottimale è accettare solo un’opportunità, quella che soddisfatta tutti i criteri iniziali e almeno due ideali. In questo modo, puoi separare le opportunità che porteranno grandi benefici e sono essenziali da tutte le altre.

“Applicare criteri più severi alle grandi decisioni consente di attingere meglio al sofisticato motore di ricerca del nostro cervello. Pensala come la differenza tra la ricerca su Google di “buon ristorante a New York City” e “la migliore fetta di pizza nel centro di Brooklyn”.

Anche in questo caso per prendere la corretta decisione, occorre porsi e porre domande pertinenti.

Modello di proprietà e budget a base zero

L’approccio essenzialista di McKeown funziona bene nel contesto del minimalismo grazie al suo modello di proprietà e budget a base zero.

Il concetto è semplice.

·        Se non possedessi già un oggetto, lo compreresti comunque?

·        Se non avessi già investito denaro ed energie in un progetto, continueresti comunque?

·        Se non avessi già trascorso del tempo in una relazione, riavvieresti la stessa relazione oggi?

·        Questo modello a base zero ci consente di fare un passo indietro e analizzare con chiarezza le sfide della vita.

·        Se vuoi spendere in modo più razionale, chiediti se ti libereresti di un articolo se non lo avessi già pagato.

Applicando criteri di consumo a base zero, impari a stabilire regole di acquisto.

Stabilisci confini chiari nella tua vita

L’essenzialismo va di pari passo con confini ben definiti. Un essenzialista non è un egoista o un individualista, ma i suoi confini sono chiari. Che sia al lavoro, nella vita sociale o nel tempo libero, dire di no non è una debolezza. È una parte cruciale per liberarti dalle cose che non ti interessano. C’è sempre quel collega che mette tutto sulla tua scrivania e si aspetta che tu sia disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Se non fissi mai dei limiti e dici sempre , agirai secondo le priorità di qualcun altro, non le tue. Credendo (erroneamente) che questo verrà a tuo vantaggio, che accumuli crediti e via dicendo. Purtroppo, le persone non faranno altro che approfittarne e arrabbiarsi per quell’unica volta che non hai potuto far altro che dire no.

L’approccio di McKeown consiste nello stabilire in anticipo dei confini chiari per eliminare la necessità di un no diretto, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Predefinendo le priorità e i limiti sul lavoro e nella vita personale, il tuo approccio essenzialista sarà evidente ed eviterai i conflitti quando i tuoi confini cambiano nel tempo.

Fai meno cose meglio

Prendi come esempio la tua vita professionale.

· A quanti progetti stai lavorando in questo momento?

· Quante persone dipendono da te?

· Quanto ti impegni in ogni parte del tuo lavoro?

Tutti possiamo trovare modi per fare meno cose meglio. Fare meno cose permette di comunicare meglio e potenziare sé stessi e gli altri.

Se sei il leader, avrai più tempo per comunicare correttamente la tua strategia e questo, a sua volta, consentirà ad altre persone di assumersi maggiori responsabilità. Questa migliore comunicazione porterà anche a una maggiore responsabilità per il leader e i suoi collaboratori.

Infine, fare meno cose nella vita ti aiuterà a ottenere risultati migliori. Poiché un approccio essenzialista garantisce uno sforzo unitario verso un obiettivo ben definito, i risultati saranno più soddisfacenti.

Trasliamo il tutto in un esempio sportivo.

Se stai cercando di allenarti per una maratona e un’esperienza di arrampicata allo stesso tempo, è probabile che non otterrai né l’una né l’altra. Farai progressi in entrambe le direzioni, ma mai abbastanza per raggiungere l’obiettivo finale. Almeno questo è ciò che succede alla maggior parte delle persone.

E se NON fosse un PLAGIO? ..Ma solo CRIPTOMNESIA!

Una serata come tante, un gruppo di amici che cenano insieme, chiacchiere che si mescolano e confondono in un’unica trama senza né strappi o fronzoli. Ad un tratto, il discorso piega sulla difficoltà celata nel cucire racconti, di libri incompiuti, manoscritti lasciati ammuffire in un cassetto e di pensieri annotati nel cuore della notte che si sgretolano alle prime luci dell’alba. Di quelle storie appena abbozzate, ne avevo non poche, e va a finire che, fra un piatto e l’altro, ne parlo con un’amica.

Passano le settimane e poi qualche mese, e rivedo quell’amica che, con leggerezza e spensieratezza, interrompe i convenevoli per mettermi al corrente di una novità che la riguarda: “Sto scrivendo un libro”. Sapevo che subiva da tempo il blocco dello scrittore, e fui felice per lei, fino a che, ascoltandone i contenuti, mi sono resa conto che era esattamente il tema di cui avevo parlato quella sera a cena.

Non volendo rovinare la nostra amicizia, ho taciuto. Mi era difficile credere che lo stesse facendo di proposito, visto che me lo stava raccontando. Impossibile credere che mi avesse deliberatamente rubato un’idea. Mi rannicchiai fra la tristezza e la delusione, la rabbia e lo stupore fino a che mi ricordai che ciò che avevo appena sperimentato, non era nient’altro che una dinamica piuttosto diffusa, e dal nome inusuale: criptomnesia[1].

COSA È LA CRIPTOMNESIA

La criptomnesia è un disturbo della memoria[2] che ci porta a ricordare un’informazione, ma non il contesto in cui l’abbiamo appresa. Trasformando quel ricordo, che affiora alla mente in un secondo tempo, come idee e intuizioni originali.

Qualcuno etichetta il fenomeno come furto inconsapevole, tanto per delimitare un verdetto di innocenza, ma seminare comunque il dubbio. Ricordare quel fenomeno, mi ha permesso di preservare l’amicizia. E, anche, di portare alla memoria molti altri casi più o meno noti.

JUNG, MELVILLE, BALZAC, WILDE

Jung parla di criptomnesia nei suoi scritti, riferendola anche a sé stesso. Nel corso degli anni, venne a scoprire che molte cose, che lui attribuiva al suo intuito e alla sua creatività, già esistevano, in qualche libro o in qualche credenza.

Ricordate Ishmael, il naufrago caro a Melville? E’ il 1851 quando, negli Stati Uniti, viene pubblicato il libro. Nel 1719, un altro naufrago, Robinson Crusoe, si rivela al mondo. Melville aveva forse letto Crusoe? Ha forse ripescato Ishmael dal mare di Defoe? Chissà se il ricordo è diventato opportunità…

Balzac, ne “Le chef d’oevre inconnu”, racconta di un grande pittore che sta lavorando al ritratto di una donna, così intenso da suscitare in lui una passione smisurata. Finirà tutto in tragedia nel momento in cui il pittore mostrerà il dipinto, morendo dopo aver dato fuoco a tutti i suoi dipinti. Oltre la Manica, Oscar Wilde invece era intento a scrivere “Il ritratto di Dorian Gray”, un racconto inverso rispetto a quello dello scrittore francese. Un uomo, innamorato di sé stesso, vuole trasformare la sua vita in un’opera d’arte e ucciderà, fra gli altri, il pittore che lo ha ritratto.

… e OLIVER SACKS

A raccontare un caso personale di criptomnesia è Oliver Sacks, ne “Il fiume della coscienza”, una raccolta postuma di inediti, e dove in uno dei saggi, narra di un suo falso ricordo: i bombardamenti subiti da Londra durante la seconda guerra mondiale. Sacks ha descritto l’esplosione di una bomba incendiaria vicino a casa, per poi scoprire, a pubblicazione avvenuta, che quel ricordo non era suo, ma di suo fratello maggiore, che gliel’aveva descritto in modo dettagliato in una lettera. Negli anni, Oliver aveva ricreato nella propria mente l’immagine evocata da quella lettera, rendendola man mano sempre più sua: fino a sovrapporre la linea di demarcazione tra racconto e ricordo.

Ho il sospetto che molti degli entusiasmi e degli impulsi, che mi sembrano in tutto e per tutto miei, possano essere scaturiti da suggerimenti altrui dei quali ho subito, in modo più o meno consapevole, la forte influenza, e che ho poi dimenticato. […] In qualche caso queste dimenticanze possono estendersi all’autoplagio, e mi trovo a riprodurre intere frasi ed espressioni trattandole come nuove. […] Ho il sospetto che tutti incappino in tali dimenticanze, forse comuni soprattutto in chi scrive, dipinge o compone, giacché è probabile che la creatività ne abbia bisogno per riportare alla luce ricordi e idee, e osservarli in contesti e prospettive nuovi”.

GEORGE HARRISON, STEVENSON E UMBERTO ECO

Un altro caso eclatante è quello che ha protagonista George Harrison, che nel 1970 incise una canzone, My sweet lord, che conteneva parti sovrapponibili a quelle di un brano di Ronald Mack di otto anni prima (He’s so fine). Il plagio fu così palese che Harrison al proposito disse che era stupito lui stesso che non fosse riuscito a notarlo. Questo errore gli costò 587 mila dollari[3].

Robert Louis Stevenson, riprendendo in mano “Racconti di un viaggiatore” di Washington Irving, si rese conto di aver inavvertitamente sottratto diverse frasi dallo scritto dell’autore statunitense per comporre “L’Isola del tesoro”.

Umberto Eco, confessò di aver scoperto che alcuni dettagli che aveva letto da un antico volume erano affondati nei meandri della memoria per poi riemergere ne “Il nome della rosa”[4].

I BRAVI ARTISTI TRASFORMANO IN MEGLIO CIO’ CHE PRENDONO IN PRESTITO

Il fenomeno è piuttosto diffuso. E nonostante sia facile pensare male, è sufficiente conoscere almeno un po’ cosa sta dietro l’attitudine creativa, per capire che molti plagi sono stati fatti in buona fede[5].

C’è un esperimento, del 1989, che lo dimostra: è stato chiesto a gruppi di quattro studenti di produrre un certo numero di voci per una data categoria; conclusa questa fase, agli stessi studenti veniva richiesto di ricordare quali tra le varie voci appartenessero a ciascun soggetto; in una terza fase, infine, veniva chiesto di generare nuove voci per le stesse categorie: alla fine, il 70% dei partecipanti si ritrovava a segnare come nuova voce una di quelle prodotte dai compagni di gruppo.

Ciò che ci impedisce di ricordare la fonte e l’origine di ogni informazionein nostro possesso, è in realtà un punto di forza: se così fosse saremmo sopraffatti da informazioni spesso irrilevanti.

Il disinteresse per le fonti ci consente di assimilare quello che leggiamo, quello che ci viene raccontato, quello che altri dicono, pensano, scrivono e dipingono, con la stessa intensità e ricchezza di un’esperienza primaria. Questo ci permette di assimilare l’arte, la scienza e la religione attingendo alla cultura nella sua totalità, di penetrare e contribuire alla mente collettiva”.

Alla mia amica, non ho mai fatto notare il plagio. Chissà se ne è resa conto da sola, o se è ancora convinta della bontà della sua intuizione. E chissà, se di quell’idea, alla fine io ci avrei fatto qualcosa. Come scrisse Philip Massinger: “I cattivi poeti deturpano ciò che prendono in prestito, i buoni poeti lo trasformano in qualcosa di migliore, o se non altro in qualcosa di diverso”.

E poi, chissà quante idee che considero mie, le ho in realtà sottratte ad altri… Quante delle narrazioni[6] che reputo mie per intero, sono travestimenti più o meno simili dall’originale.

E voi, avete in mente qualche plagio innocente a cui avete assistito, di cui siete stati vittime o inconsapevoli carnefici?

FONTI

[1]  Brown A.S., Murphy D.R., (1989). Cryptomnesia: delineating inadvertent plagiarism. Journal of Experimental psychology: learning, memory and cognition, 15(3), 432-442

[2]  Macrae C.N., Bodenhausen G.V., Calvini G., (1999), Context of cryptomnesia; may the source be with you, Social Cognition 17, 273-297

[3] Criptomnesia: you’ve never had an original thought, feb. 3, 2023

[4]  Eco U., (1992), Interpretaion and overinterpretation. Cambridge University Press

[5]  Tenpenny P.L., Keriazakos M.S., Lew G.S., Phelan T.P., (1998), In search of inadvertent plagiarism. The American journal of psychology, 111(4); 529-559

[6] Gorvett Z., (2023, March 26), Why your colleagues can’t help stealing your ideas, BBC Worklife

Legge di FALKLAND: se NON vuoi prendere una DECISIONE, NON prenderla

Ci sono situazioni durante le quali tutto ciò che vorremmo fare è posticipare la presa di una decisione. Non decidere ci sembra, in quel frangente, l’unica cosa da fare. In fondo, ce lo consiglia anche la legge di Falkland che recita: “Se non vuoi prendere una decisione, non prenderla”.

Non fa una piega.

Forse.

In realtà, anche non decidere, è di fatto una decisione.

Spesso, procedere a una scelta è difficile per diverse ragioni. Per citarne un paio, una è legata al timore di non fare la scelta migliore. Avrai sentito, al riguardo, parlare di FOBO (fear of a better option), la paura che scatta quando si deve scegliere fra diverse opzioni all’apparenza ugualmente valide.

Quando le informazioni sono troppe si genera un sopraccarico cognitivo che porta, in molti casi, a procrastinare la decisione o lasciare che siano altri a scegliere per noi.

Un altro fattore che può minare il processo decisionale è la paura di dover fare i conti con effetti e conseguenze irreversibili e negative causati da una decisione errata. Si tratta, di fatto, di fare una valutazione fra guadagno e perdita. Il costo di una scelta, in questa ottica, corrisponde al valore della migliore alternativa scartata. E proprio l’alternativa scartata torna con le sue caratteristiche attraenti e positive quando abbiamo operato la nostra scelta, dandoci la percezione di essere vicini al fallimento. Come canta Passenger, nel brano Let her go: “Only know you love her when you let her go”, ovvero: “Capisci di amarla solo quando l’hai persa”.

COSA HA A CHE FARE LA LEGGE DI FALKLAND IN TUTTO QUESTO?

L’utilità della legge di Falkland è quella di spingerci a pensare in modo più critico prima di decidere. Spesso, per toglierci un problema, decidiamo senza riflettere sulle conseguenze o non decidiamo affatto ma prima o poi la nostra immobilità ci porterà il conto.

La legge di Falkland inoltre ci esorta ad ascoltare l’istinto soprattutto se ti invia segnali. Anche perché l’istinto non è magia ma l’esperienza che si fa voce. E poi, per quanto banale: una decisione andrebbe presa quando si ritiene che sia corretta. Così facendo, anche se si rivelerà sbagliata, non avremo rimpianti e saremo in grado di imparare dall’errore.

Ma se né Kidlin, di cui ho scritto nella scorsa newsletter, né Falkland ti sono di aiuto, ecco qualche consiglio che può comunque tornarti utile.

E ALTRI 8 CONSIGLI

Scegli sempre, anche non scegliere è una scelta. Come già scritto, non decidere è una decisione che ti porta a stare dove sei. Chiediti: È quello che voglio? L’importante è che tu ne sia consapevole.

Riduci le possibilità di scelta. Esplicita il problema e procedi a delineare pro e contro per ogni alternativa, eliminando quelle che non ti soddisfano o non sono strategiche rispetto all’obiettivo che vuoi raggiungere. Non sempre e non tutte le opzioni sono utili.

Chiediti: «Cosa succederebbe se sbagliassi?». Quale potrebbe essere lo scenario peggiore? È davvero così drammatico? Di solito quando ti fai questa domanda trovi anche le possibili soluzioni a un eventuale errore. «Se sbaglio farò così…». Pensare un’alternativa fa sentire più sicuri.

Non rimandare. Procrastinare ti fa sentire meglio solo all’inizio perché pensi che prima o poi prenderai una decisione, ma non ora e intanto speri che le cambino. Di solito succede nelle relazioni, e si sta in attesa che qualcosa accada. Se a volte dormirci su può aiutare a prendere una buona decisione, ci sono situazioni in cui rimandare equivale a non vivere il presente.

Non aspettare che tutto sia perfetto. A volte le soluzioni sono intermedie, richiedono molto impegno, ma ti consentono di fare delle scelte.

Si può spesso tornare indietro. Sii sincero con te stesso e cerca di capire se la scelta che dovrai operare ti permetterà o meno di rettificare, modificare delle azioni strada facendo o se una volta presa non ti sarà più possibile tornare indietro. Raramente qualcosa è definitivo.

Immagina di aver già scelto. E guarda che effetto e che conseguenze potrebbe avere l’alternativa che hai scelto. Annota le tue sensazioni, cogli le tue perplessità, usa carta e penna e pondera le opzioni.

Non farti condizionare dagli altri. Più una scelta è importante per te meno persone devi coinvolgere. Confrontati solo con cui può dare del reale valore aggiunto, altrimenti assumiti la tua responsabilità decisionale.

Per quanto difficile sia decidere, è una fatica che vale la pena fare. O per usare le pare di Jean Paul Sarte: “La cosa essenziale nella vita è scegliere. Se ti tolgono la possibilità di farlo è come se ti togliessero la libertà”.