PERCHE’ diventiamo IMMUNI alla SOFFERENZA (di MASSA)

“Più persone muoiono, meno ce ne importa”. Senza mezze parole lo psicologo americano Paul Slovic (che alla percezione del rischio e alla matematica della compassione ha dedicato decenni di studi), riassume la naturale reazione umana di fronte alle tragedie.

Poiché l’indifferenza e l’insofferenza rispetto alle tragedie delle masse è direttamente proporzionale all’aumentare dei numeri. E non perché siamo cattivi, ma, banalmente, perché siamo condizionati da distorsioni cognitive e errori di pensiero.

I numeri, per enormi che siano, anzi proprio quando sono enormi, non riescono a far scattare in noi una risposta emotiva. Per dirla con le parole di Paul Brodeurle statistiche sono esseri umani le cui lacrime sono state asciugate”.

Anziché causarci una risposta emotiva, determinano ciò che Slovic chiama “intorpidimento psichico”: quel distacco che si crea nel cervello di tutti noi, o per lo meno la maggioranza, quando leggiamo i numeri del fenomeno delle migrazioni e dei morti causati da guerre e carestie. Centinaia di migliaia di persone sotto le bombe costrette ad abbandonare le proprie case per colpa di tumulti, fame e siccità. Troppe. Ed è questo che fa scattare in noi il secondo perverso meccanismo: il falso senso di impotenza.

Quando i problemi sono così grandi, per il nostro cervello è difficile pensare di poter fare qualcosa, una qualunque differenza, così ci spinge a rinunciare a fare anche il poco che potremmo.

Il modo in cui razionalmente sappiamo che dovremmo considerare il valore di ogni vita umana, man mano che il numero di persone a rischio aumenta purtroppo non è lo stesso con cui effettivamente lo valutiamo”, spiega Slovic.

Ogni vita umana è di pari valore, più vite sono a rischio più l’importanza di fare qualcosa aumenta. In pratica però la reazione comune è che “la prima vita è la più importante da proteggere in assoluto. Due vite non valgono per noi esattamente il doppio di una, ma un po’ meno”. E il valore che attribuiamo a ogni singola vita diminuisce man mano mentre il numero totale sale. “Quando le potenziali vittime salgono, poniamo da 87 a 88, per non c’è più alcuna differenza, segno che si perde sensibilità man mano che quel numero aumenta”.

L’empatia consiste nel provare a mettersi nei panni dell’altro per capire come si sente, cosa prova. Ma se le persone sono due come si fa? Diventa più difficile e ancor più lo diventa quando sono tante.

Nei suoi esperimenti Slovic (i cui studi si sono incrociati con quelli sulla teoria del prospetto di Kahneman e Tversky) ha dimostrato proprio questo: siamo meno portati ad aiutare il singolo quando abbiamo la percezione che ci siano molte altre persone nelle sue stesse condizioni rispetto a quando non ne siamo consapevoli.

Eppure, anche se non possiamo aiutare tutti, non vuol dire che non dobbiamo aiutare nessuno.

Alla fine è la singola storia che ci commuove, la singola persona quella che vogliamo aiutare. Come la foto di un bimbo siriano di tre anni morto su una spiaggia turca, che ha fatto di più per la causa siriana, dei bollettini di guerra con il computo delle centinaia di morti quotidiane. Prima della pubblicazione della foto il fondo istituito per la Siria dalla Croce Rossa svedese riceveva donazioni per 8 mila dollari al giorno. Dopo la foto, sono diventati 430 mila. “I 250 mila morti in Siria fino a quel momento non avevano suscitato la stessa compassione”.  Le donazioni sono rimaste elevate per circa un mese, poi sono tornate ai livelli precedenti.

Le storie drammatiche su un singolo individuo riescono a regalare una finestra di opportunità in cui siamo improvvisamente svegli e non intorpiditi, e vogliamo, riusciamo a fare qualcosa. Ma poi, se non c’è nient’altro che possiamo fare, nel tempo, ci spegniamo nuovamente. Sono storie importanti e possono essere efficaci ma solo se c’è un’azione concreta che può essere intrapresa.

Al momento una soluzione all’intorpidimento psichico non esiste ancora. Ma essere consapevoli che esiste e degli effetti che causa è il primo passo. E, a mio avviso, non è così poco.

Cosa ne pensate? Anche voi siete caduti in questa trappola?

Le COSE veramente IMPORTANTI… sai quali sono?

Alcuni, io sono fra questi, hanno la tendenza a dire sempre sì. Consci che benché sul momento sembri la decisione più facile, non lo sarà nel tempo. Il rischio è di essere impegnati ma non produttivi e scambiare l’iperattività per produttività.

Dire no, nei momenti giusti, aiuta a concentrare l’attenzione e gli sforzi sulle cose realmente importanti e massimizzare il successo.

Un integralista del no è il consulente di gestione e redattore di HBR Greg McKeown. Nel best seller Essentialism: The Disciplined Pursuit of Less (Dritto al sodo. Come scegliere ciò che conta e vivere felici), espone una metodologia utile allo scopo e che è possibile concentrare in tre punti:

·        Meno è meglio;

·        Poche sono le cose veramente essenziali nella vita;

·        Creare una routine è importante per concentrarsi solo su ciò che è essenziale.

Detta così, suona semplice. In parte lo è ma, per far propria questa metodologia, occorre essere aperti al cambiamento. Non a caso è un ottimo esercizio di Change Management.

Per diventare essenziali, secondo Greg, occorre sostituire i falsi presupposti: “Ho bisogno di farlo”; “Questo è tutto importante” e “Posso fare entrambe le cose”, con:

1.  “Scelgo di fare”;

2. “Solo poche cose contano davvero”;

3. “Posso fare qualsiasi cosa, ma non posso fare tutto.”

Alla base del successo di tale filosofia, c’è la necessità di riconoscere di avere una scelta. Se lo dimentichiamo, cadiamo facili prede delle scelte altrui.

Un essenzialista è colui che apprezza il potere di scelta

Molte persone non riescono a performare poiché credono che tutto sia importante. Quindi è essenziale investire del tempo per valutare le diverse opzioni. Con questa valutazione, un essenzialista è in grado di separare ciò che è vitale (di solito poche cose) da ciò che è banale. Spesso l’errore deriva dal fatto che confondiamo iperattività con produttività.

Inconsciamente associamo più lavoro a più risultati. Crediamo che più ore impieghiamo, migliore sarà la nostra produzione. Questo atteggiamento è intrinsecamente imperfetto. Cercando di fare il più possibile, non ottimizziamo i nostri sforzi.

Prendiamo l’esempio della lettura.

Sei libri contengono più conoscenza di uno. Di conseguenza, un approccio iperattivo sarebbe quello di leggerli tutti e sei il più rapidamente possibile. In questo modo, saremo sicuri di assorbire tutta la saggezza e ottenere più valore dalla nostra attività di lettura. Tuttavia, cercando di leggere i sei libri in un breve periodo, non abbiamo l’attenzione alla lettura necessaria per digerire le lezioni dei libri. Leggere uno dei sei è la soluzione essenzialista. Prendendo il tempo necessario per leggere correttamente quel libro, consentiremo al nostro cervello di metabolizzare ciò che serve e usarlo al meglio. Nel tempo, trarremo maggiori benefici da aver letto correttamente un unico libro che aver sfogliato tanti libri: una perfetta manifestazione della regola di Pareto . 

Trade-off

Parliamo di compromesso quando dobbiamo operare una scelta tra due cose che desideriamo. Di solito, il nostro desiderio è fare entrambe le cose, tenere entrambe le opzioni. Raramente è una buona decisione. In questa situazione, un essenzialista non si chiede come fare entrambe le cose, ma decide quale può coltivare di più. E meglio. Con questa riflessione, è in grado di giudicare ciò che gli darà la maggiore opportunità e concentrarsi su quello, cioè concentrarsi solo sull’essenziale.

Regola del 90%

Il funzionamento è semplice: va valutata ogni opzione con un punteggio fra 0 e 100. Quelle sotto 90, sono da eliminare. In questo modo, si evita di rimanere bloccati con le opzioni medie.

1.  Annota su un foglio quale opportunità ti viene offerta (ad esempio, tenere un discorso a un evento);

2. Di seguito, decidi 3 criteri in base ai quali deve essere approvata l’opportunità per iniziare a prenderla in considerazione (Es .: pubblico di oltre mille persone; spese di trasporto pagate, possibilità di vendere il proprio libro);

3. Infine, scrivi i criteri ideali per l’opportunità di essere approvato. (Es. 5000 persone parteciperanno alla conferenza e riceverai un bonus).

Ottimale è accettare solo un’opportunità, quella che soddisfatta tutti i criteri iniziali e almeno due ideali. In questo modo, puoi separare le opportunità che porteranno grandi benefici e sono essenziali da tutte le altre.

“Applicare criteri più severi alle grandi decisioni consente di attingere meglio al sofisticato motore di ricerca del nostro cervello. Pensala come la differenza tra la ricerca su Google di “buon ristorante a New York City” e “la migliore fetta di pizza nel centro di Brooklyn”.

Anche in questo caso per prendere la corretta decisione, occorre porsi e porre domande pertinenti.

Modello di proprietà e budget a base zero

L’approccio essenzialista di McKeown funziona bene nel contesto del minimalismo grazie al suo modello di proprietà e budget a base zero.

Il concetto è semplice.

·        Se non possedessi già un oggetto, lo compreresti comunque?

·        Se non avessi già investito denaro ed energie in un progetto, continueresti comunque?

·        Se non avessi già trascorso del tempo in una relazione, riavvieresti la stessa relazione oggi?

·        Questo modello a base zero ci consente di fare un passo indietro e analizzare con chiarezza le sfide della vita.

·        Se vuoi spendere in modo più razionale, chiediti se ti libereresti di un articolo se non lo avessi già pagato.

Applicando criteri di consumo a base zero, impari a stabilire regole di acquisto.

Stabilisci confini chiari nella tua vita

L’essenzialismo va di pari passo con confini ben definiti. Un essenzialista non è un egoista o un individualista, ma i suoi confini sono chiari. Che sia al lavoro, nella vita sociale o nel tempo libero, dire di no non è una debolezza. È una parte cruciale per liberarti dalle cose che non ti interessano. C’è sempre quel collega che mette tutto sulla tua scrivania e si aspetta che tu sia disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Se non fissi mai dei limiti e dici sempre , agirai secondo le priorità di qualcun altro, non le tue. Credendo (erroneamente) che questo verrà a tuo vantaggio, che accumuli crediti e via dicendo. Purtroppo, le persone non faranno altro che approfittarne e arrabbiarsi per quell’unica volta che non hai potuto far altro che dire no.

L’approccio di McKeown consiste nello stabilire in anticipo dei confini chiari per eliminare la necessità di un no diretto, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Predefinendo le priorità e i limiti sul lavoro e nella vita personale, il tuo approccio essenzialista sarà evidente ed eviterai i conflitti quando i tuoi confini cambiano nel tempo.

Fai meno cose meglio

Prendi come esempio la tua vita professionale.

· A quanti progetti stai lavorando in questo momento?

· Quante persone dipendono da te?

· Quanto ti impegni in ogni parte del tuo lavoro?

Tutti possiamo trovare modi per fare meno cose meglio. Fare meno cose permette di comunicare meglio e potenziare sé stessi e gli altri.

Se sei il leader, avrai più tempo per comunicare correttamente la tua strategia e questo, a sua volta, consentirà ad altre persone di assumersi maggiori responsabilità. Questa migliore comunicazione porterà anche a una maggiore responsabilità per il leader e i suoi collaboratori.

Infine, fare meno cose nella vita ti aiuterà a ottenere risultati migliori. Poiché un approccio essenzialista garantisce uno sforzo unitario verso un obiettivo ben definito, i risultati saranno più soddisfacenti.

Trasliamo il tutto in un esempio sportivo.

Se stai cercando di allenarti per una maratona e un’esperienza di arrampicata allo stesso tempo, è probabile che non otterrai né l’una né l’altra. Farai progressi in entrambe le direzioni, ma mai abbastanza per raggiungere l’obiettivo finale. Almeno questo è ciò che succede alla maggior parte delle persone.

E se NON fosse un PLAGIO? ..Ma solo CRIPTOMNESIA!

Una serata come tante, un gruppo di amici che cenano insieme, chiacchiere che si mescolano e confondono in un’unica trama senza né strappi o fronzoli. Ad un tratto, il discorso piega sulla difficoltà celata nel cucire racconti, di libri incompiuti, manoscritti lasciati ammuffire in un cassetto e di pensieri annotati nel cuore della notte che si sgretolano alle prime luci dell’alba. Di quelle storie appena abbozzate, ne avevo non poche, e va a finire che, fra un piatto e l’altro, ne parlo con un’amica.

Passano le settimane e poi qualche mese, e rivedo quell’amica che, con leggerezza e spensieratezza, interrompe i convenevoli per mettermi al corrente di una novità che la riguarda: “Sto scrivendo un libro”. Sapevo che subiva da tempo il blocco dello scrittore, e fui felice per lei, fino a che, ascoltandone i contenuti, mi sono resa conto che era esattamente il tema di cui avevo parlato quella sera a cena.

Non volendo rovinare la nostra amicizia, ho taciuto. Mi era difficile credere che lo stesse facendo di proposito, visto che me lo stava raccontando. Impossibile credere che mi avesse deliberatamente rubato un’idea. Mi rannicchiai fra la tristezza e la delusione, la rabbia e lo stupore fino a che mi ricordai che ciò che avevo appena sperimentato, non era nient’altro che una dinamica piuttosto diffusa, e dal nome inusuale: criptomnesia[1].

COSA È LA CRIPTOMNESIA

La criptomnesia è un disturbo della memoria[2] che ci porta a ricordare un’informazione, ma non il contesto in cui l’abbiamo appresa. Trasformando quel ricordo, che affiora alla mente in un secondo tempo, come idee e intuizioni originali.

Qualcuno etichetta il fenomeno come furto inconsapevole, tanto per delimitare un verdetto di innocenza, ma seminare comunque il dubbio. Ricordare quel fenomeno, mi ha permesso di preservare l’amicizia. E, anche, di portare alla memoria molti altri casi più o meno noti.

JUNG, MELVILLE, BALZAC, WILDE

Jung parla di criptomnesia nei suoi scritti, riferendola anche a sé stesso. Nel corso degli anni, venne a scoprire che molte cose, che lui attribuiva al suo intuito e alla sua creatività, già esistevano, in qualche libro o in qualche credenza.

Ricordate Ishmael, il naufrago caro a Melville? E’ il 1851 quando, negli Stati Uniti, viene pubblicato il libro. Nel 1719, un altro naufrago, Robinson Crusoe, si rivela al mondo. Melville aveva forse letto Crusoe? Ha forse ripescato Ishmael dal mare di Defoe? Chissà se il ricordo è diventato opportunità…

Balzac, ne “Le chef d’oevre inconnu”, racconta di un grande pittore che sta lavorando al ritratto di una donna, così intenso da suscitare in lui una passione smisurata. Finirà tutto in tragedia nel momento in cui il pittore mostrerà il dipinto, morendo dopo aver dato fuoco a tutti i suoi dipinti. Oltre la Manica, Oscar Wilde invece era intento a scrivere “Il ritratto di Dorian Gray”, un racconto inverso rispetto a quello dello scrittore francese. Un uomo, innamorato di sé stesso, vuole trasformare la sua vita in un’opera d’arte e ucciderà, fra gli altri, il pittore che lo ha ritratto.

… e OLIVER SACKS

A raccontare un caso personale di criptomnesia è Oliver Sacks, ne “Il fiume della coscienza”, una raccolta postuma di inediti, e dove in uno dei saggi, narra di un suo falso ricordo: i bombardamenti subiti da Londra durante la seconda guerra mondiale. Sacks ha descritto l’esplosione di una bomba incendiaria vicino a casa, per poi scoprire, a pubblicazione avvenuta, che quel ricordo non era suo, ma di suo fratello maggiore, che gliel’aveva descritto in modo dettagliato in una lettera. Negli anni, Oliver aveva ricreato nella propria mente l’immagine evocata da quella lettera, rendendola man mano sempre più sua: fino a sovrapporre la linea di demarcazione tra racconto e ricordo.

Ho il sospetto che molti degli entusiasmi e degli impulsi, che mi sembrano in tutto e per tutto miei, possano essere scaturiti da suggerimenti altrui dei quali ho subito, in modo più o meno consapevole, la forte influenza, e che ho poi dimenticato. […] In qualche caso queste dimenticanze possono estendersi all’autoplagio, e mi trovo a riprodurre intere frasi ed espressioni trattandole come nuove. […] Ho il sospetto che tutti incappino in tali dimenticanze, forse comuni soprattutto in chi scrive, dipinge o compone, giacché è probabile che la creatività ne abbia bisogno per riportare alla luce ricordi e idee, e osservarli in contesti e prospettive nuovi”.

GEORGE HARRISON, STEVENSON E UMBERTO ECO

Un altro caso eclatante è quello che ha protagonista George Harrison, che nel 1970 incise una canzone, My sweet lord, che conteneva parti sovrapponibili a quelle di un brano di Ronald Mack di otto anni prima (He’s so fine). Il plagio fu così palese che Harrison al proposito disse che era stupito lui stesso che non fosse riuscito a notarlo. Questo errore gli costò 587 mila dollari[3].

Robert Louis Stevenson, riprendendo in mano “Racconti di un viaggiatore” di Washington Irving, si rese conto di aver inavvertitamente sottratto diverse frasi dallo scritto dell’autore statunitense per comporre “L’Isola del tesoro”.

Umberto Eco, confessò di aver scoperto che alcuni dettagli che aveva letto da un antico volume erano affondati nei meandri della memoria per poi riemergere ne “Il nome della rosa”[4].

I BRAVI ARTISTI TRASFORMANO IN MEGLIO CIO’ CHE PRENDONO IN PRESTITO

Il fenomeno è piuttosto diffuso. E nonostante sia facile pensare male, è sufficiente conoscere almeno un po’ cosa sta dietro l’attitudine creativa, per capire che molti plagi sono stati fatti in buona fede[5].

C’è un esperimento, del 1989, che lo dimostra: è stato chiesto a gruppi di quattro studenti di produrre un certo numero di voci per una data categoria; conclusa questa fase, agli stessi studenti veniva richiesto di ricordare quali tra le varie voci appartenessero a ciascun soggetto; in una terza fase, infine, veniva chiesto di generare nuove voci per le stesse categorie: alla fine, il 70% dei partecipanti si ritrovava a segnare come nuova voce una di quelle prodotte dai compagni di gruppo.

Ciò che ci impedisce di ricordare la fonte e l’origine di ogni informazionein nostro possesso, è in realtà un punto di forza: se così fosse saremmo sopraffatti da informazioni spesso irrilevanti.

Il disinteresse per le fonti ci consente di assimilare quello che leggiamo, quello che ci viene raccontato, quello che altri dicono, pensano, scrivono e dipingono, con la stessa intensità e ricchezza di un’esperienza primaria. Questo ci permette di assimilare l’arte, la scienza e la religione attingendo alla cultura nella sua totalità, di penetrare e contribuire alla mente collettiva”.

Alla mia amica, non ho mai fatto notare il plagio. Chissà se ne è resa conto da sola, o se è ancora convinta della bontà della sua intuizione. E chissà, se di quell’idea, alla fine io ci avrei fatto qualcosa. Come scrisse Philip Massinger: “I cattivi poeti deturpano ciò che prendono in prestito, i buoni poeti lo trasformano in qualcosa di migliore, o se non altro in qualcosa di diverso”.

E poi, chissà quante idee che considero mie, le ho in realtà sottratte ad altri… Quante delle narrazioni[6] che reputo mie per intero, sono travestimenti più o meno simili dall’originale.

E voi, avete in mente qualche plagio innocente a cui avete assistito, di cui siete stati vittime o inconsapevoli carnefici?

FONTI

[1]  Brown A.S., Murphy D.R., (1989). Cryptomnesia: delineating inadvertent plagiarism. Journal of Experimental psychology: learning, memory and cognition, 15(3), 432-442

[2]  Macrae C.N., Bodenhausen G.V., Calvini G., (1999), Context of cryptomnesia; may the source be with you, Social Cognition 17, 273-297

[3] Criptomnesia: you’ve never had an original thought, feb. 3, 2023

[4]  Eco U., (1992), Interpretaion and overinterpretation. Cambridge University Press

[5]  Tenpenny P.L., Keriazakos M.S., Lew G.S., Phelan T.P., (1998), In search of inadvertent plagiarism. The American journal of psychology, 111(4); 529-559

[6] Gorvett Z., (2023, March 26), Why your colleagues can’t help stealing your ideas, BBC Worklife

Legge di FALKLAND: se NON vuoi prendere una DECISIONE, NON prenderla

Ci sono situazioni durante le quali tutto ciò che vorremmo fare è posticipare la presa di una decisione. Non decidere ci sembra, in quel frangente, l’unica cosa da fare. In fondo, ce lo consiglia anche la legge di Falkland che recita: “Se non vuoi prendere una decisione, non prenderla”.

Non fa una piega.

Forse.

In realtà, anche non decidere, è di fatto una decisione.

Spesso, procedere a una scelta è difficile per diverse ragioni. Per citarne un paio, una è legata al timore di non fare la scelta migliore. Avrai sentito, al riguardo, parlare di FOBO (fear of a better option), la paura che scatta quando si deve scegliere fra diverse opzioni all’apparenza ugualmente valide.

Quando le informazioni sono troppe si genera un sopraccarico cognitivo che porta, in molti casi, a procrastinare la decisione o lasciare che siano altri a scegliere per noi.

Un altro fattore che può minare il processo decisionale è la paura di dover fare i conti con effetti e conseguenze irreversibili e negative causati da una decisione errata. Si tratta, di fatto, di fare una valutazione fra guadagno e perdita. Il costo di una scelta, in questa ottica, corrisponde al valore della migliore alternativa scartata. E proprio l’alternativa scartata torna con le sue caratteristiche attraenti e positive quando abbiamo operato la nostra scelta, dandoci la percezione di essere vicini al fallimento. Come canta Passenger, nel brano Let her go: “Only know you love her when you let her go”, ovvero: “Capisci di amarla solo quando l’hai persa”.

COSA HA A CHE FARE LA LEGGE DI FALKLAND IN TUTTO QUESTO?

L’utilità della legge di Falkland è quella di spingerci a pensare in modo più critico prima di decidere. Spesso, per toglierci un problema, decidiamo senza riflettere sulle conseguenze o non decidiamo affatto ma prima o poi la nostra immobilità ci porterà il conto.

La legge di Falkland inoltre ci esorta ad ascoltare l’istinto soprattutto se ti invia segnali. Anche perché l’istinto non è magia ma l’esperienza che si fa voce. E poi, per quanto banale: una decisione andrebbe presa quando si ritiene che sia corretta. Così facendo, anche se si rivelerà sbagliata, non avremo rimpianti e saremo in grado di imparare dall’errore.

Ma se né Kidlin, di cui ho scritto nella scorsa newsletter, né Falkland ti sono di aiuto, ecco qualche consiglio che può comunque tornarti utile.

E ALTRI 8 CONSIGLI

Scegli sempre, anche non scegliere è una scelta. Come già scritto, non decidere è una decisione che ti porta a stare dove sei. Chiediti: È quello che voglio? L’importante è che tu ne sia consapevole.

Riduci le possibilità di scelta. Esplicita il problema e procedi a delineare pro e contro per ogni alternativa, eliminando quelle che non ti soddisfano o non sono strategiche rispetto all’obiettivo che vuoi raggiungere. Non sempre e non tutte le opzioni sono utili.

Chiediti: «Cosa succederebbe se sbagliassi?». Quale potrebbe essere lo scenario peggiore? È davvero così drammatico? Di solito quando ti fai questa domanda trovi anche le possibili soluzioni a un eventuale errore. «Se sbaglio farò così…». Pensare un’alternativa fa sentire più sicuri.

Non rimandare. Procrastinare ti fa sentire meglio solo all’inizio perché pensi che prima o poi prenderai una decisione, ma non ora e intanto speri che le cambino. Di solito succede nelle relazioni, e si sta in attesa che qualcosa accada. Se a volte dormirci su può aiutare a prendere una buona decisione, ci sono situazioni in cui rimandare equivale a non vivere il presente.

Non aspettare che tutto sia perfetto. A volte le soluzioni sono intermedie, richiedono molto impegno, ma ti consentono di fare delle scelte.

Si può spesso tornare indietro. Sii sincero con te stesso e cerca di capire se la scelta che dovrai operare ti permetterà o meno di rettificare, modificare delle azioni strada facendo o se una volta presa non ti sarà più possibile tornare indietro. Raramente qualcosa è definitivo.

Immagina di aver già scelto. E guarda che effetto e che conseguenze potrebbe avere l’alternativa che hai scelto. Annota le tue sensazioni, cogli le tue perplessità, usa carta e penna e pondera le opzioni.

Non farti condizionare dagli altri. Più una scelta è importante per te meno persone devi coinvolgere. Confrontati solo con cui può dare del reale valore aggiunto, altrimenti assumiti la tua responsabilità decisionale.

Per quanto difficile sia decidere, è una fatica che vale la pena fare. O per usare le pare di Jean Paul Sarte: “La cosa essenziale nella vita è scegliere. Se ti tolgono la possibilità di farlo è come se ti togliessero la libertà”.

Legge di KIDLIN: per trovare una SOLUZIONE a un PROBLEMA troppo difficile da RISOLVERE

Ti sei mai trovato nella situazione di avere un problema che sembrava troppo difficile da risolvere?

La domanda è retorica. Un po’ tutti ci siamo trovati a dover gestire un problema che, a prescindere dalle soluzioni, dal tempo e dalle energie profuse, non siamo riusciti a risolvere.

Quando ci si trova bloccati su un problema o quando quest’ultimo è vago, sfaccettato e poco chiaro, ricorrere alla legge di Kidlin può essere utile.

La legge di Kidlin è un principio di risoluzione dei problemi che dice: “Se scrivi chiaramente il problema, la questione è risolta a metà”.

Questa legge prende il nome da Kidlin, un personaggio immaginario in un romanzo di James Clavell che utilizzò questa tecnica in diverse sue sfide.

COME APPLICARE IL PRINCIPIO DI KIDLIN

Definisci il problema: il primo passo è riconoscere un problema esistente o l’incapacità di raggiungere l’obiettivo desiderato. È importante avere consapevolezza sulla natura e sulla portata del problema, nonché necessario rispondere al motivo per cui il problema è percepito tale.  Quindi occorre descriverlo in modo semplice e chiaro, evitando affermazioni vaghe o generiche, come “Sono infelice” o “Ho bisogno di più soldi”. Cerca invece di essere specifico e concreto: “Non sono soddisfatto del mio lavoro attuale perché non corrisponde alle mie capacità e ai miei interessi” oppure “Ho bisogno di più soldi per saldare i debiti e risparmiare per comprarmi un appartamento”.

Analizza il problema e determina le cause: il passo successivo è scomporre il problema in parti più piccole e semplici così da trovare la causa principale. Poniti domande del tipo: “Quali sono le cause del problema?”; “Quali sono gli effetti del problema?”; “Quali sono i vincoli o i limiti del problema?”; “Quali sono le ipotesi o le convinzioni alla base del problema?”; “Quali sono gli obiettivi o i risultati desiderati per risolvere il problema?”; “Da dove viene esattamente questo problema?”; Quali sono le sue dimensioni e il grado di impatto, qual è il livello di priorità?”.

Definisci gli obiettivi.Cosa si otterrà una volta risolto il problema? Che tipo di risultato ti aspetterà una volta raggiunto l’obiettivo? Immagina la sensazione che proverai quando il problema sarà risolto. Per natura, programmiamo la nostra vita in base a ciò che ci aspetta alla fine della giornata. Agiamo in base al rapporto profitti-perdite.

Genera soluzioni. A questo punto occorre fare il brainstorming delle possibili soluzioni per ciascuna parte del problema. Non giudicare o valutare le tue idee in questa fase; ma scrivine il maggior numero possibile. Sii creativo e aperto.  Prova a guardare il contesto da diverse angolazioni e prospettive.

Valuta le soluzioni. Valuta le risposte e scegli quella migliore per ciascuna parte del problema. Considerare fattibilità, efficacia, efficienza, costi, rischi e fattori di impatto.

Implementa le soluzioni. Verifica se la soluzione è fattibile. Ci sono domande a cui è necessario rispondere per garantire la fattibilità: “Può essere implementata entro un lasso di tempo accettabile?”; “Si adatta a un piano scalabile?”; “È efficace, affidabile e realistica?”; “E’ tecnicamente possibile?”.

Dopo aver trovato una risposta alle domande, scegli la soluzione. Imposta scadenze e traguardi per ogni azione per misurare i progressi. Uno degli elementi più importanti è avviare un rigoroso processo di follow-up.

Affinché il processo sia applicabile in modo sano è necessario procedere costruendo un meccanismo di feedback.

Scrivere il problema aiuta a chiarire il pensiero, focalizzare l’attenzione, organizzare le informazioni e comunicare le idee. Consente inoltre di ridurre lo stress, aumentare la fiducia e motivare l’azione.

A questo punto, non ti rimane che applicare la legge di Kidling ogni qual volta un problema è troppo complesso o non riesci a trovare la soluzione.

BOSS in INCOGNITO NON è la SOLUZIONE ai PROBLEMI (in AZIENDA)

Facendo zapping, mi sono accorta che Boss in incognito – un reality game che mette a confronto il capo di una fabbrica con i dipendenti – è ripartito sui canali Rai. Più nello specifico, al capo di una importante realtà imprenditoriale, viene camuffato l’aspetto e fatta assumere una identità fittizia così da mescolarsi ai dipendenti e scoprire cosa pensano dell’azienda.

Il successo di un programma televisivo però non sempre è proporzionale alla sua utilità nel risolvere problemi. Per risolvere un problema occorre capire qual è il problema.

Se informazioni e tempo scarseggiano, si diventa vittime di decisioni irrazionali, una tra tutte l’euristica della disponibilitàche fa considerare eventi con una forte componente emotiva, più decisivi e probabili.

Eppure…

Segretezza: elemento chiave di Boss in incognito. È necessaria?

Mere observation effect: la semplice osservazione di un fenomeno lo modifica. Se sappiamo esserci un vigile modereremo la velocità alla guida. Ma l’effetto induce una modifica esclusivamente in quei comportamenti che sappiamo essere osservati e per i quali ci saranno conseguenze. Non è questo a rendere un comportamento, virtuoso e sostenibile nel tempo.

Campionamento sporadico, basato sulla ricerca di eventi eclatanti. L’approccio non è dettato da una scelta metodologica ma dall’esigenza di segretezza; se vogliamo mantenere l’incognito, dobbiamo prevedere che uno stesso “agente” non possa osservare una situazione più di una volta.

L’unico approccio utile è mantenere il senso della prospettiva e basare le decisioni su evidenze certe e numericamente rappresentative. Nonché cercare comportamenti positivi da estendere a tutti e non additare ciò che è negativo.

Soprattutto perché se ciò che è considerato negativo non lo è in percentuale maggioritaria, evidenziarlo servirà solo a farlo percepire come “la norma” e quindi invoglierà a uniformarsi. Questa è anche una delle ragioni che spiega il fallimento di tante campagne sociali, come dimostra l’economia comportamentale.

Cosa ne pensate?

SOPRAVVIVERE a un CAPO con un EGO smisurato

Talvolta accade. Di ritrovarsi a lavorare per un capo (o un socio) dall’ego spropositato ma che, inizialmente, era sembrato solo un po’ esuberante. Quasi simpatico. Se ne era anche apprezzata la capacità di eloquio, l’originalità nel proporre la sua ostinata visione del mondo.

Fino a quando si è scoperto, o dovuto ammettere, che la sua non era estroversione, ma puro egocentrismo. E le cose sono precipitate…

A me è accaduto, qualche anno fa. Ciò che più mi ha fatto riflettere è l’averne voluto ignorare i segnali, benché palesi. Forse, a spingermi in direzione opposta, è stato il fatto che il progetto su cui lavoravamo era particolarmente interessante. Sulla carta. Quando è venuto meno l’entusiasmo, e la sinergia ha perso la sua ragione d’essere, anche l’aurea magica che ruotava intorno al soggetto in questione si è dissolta. E io, ho dovuto fare i conti con la realtà.

LE MIE LEZIONI IMPARATE

DARE UN NOME ALLE COSE. La prima cosa da fare è riconoscere con chi si ha a che fare. E accettarlo. Anche se non ci piace. Ma è necessario se si vuol sopravvivere, ancor più se in quel momento non si ha modo di andarsene dall’azienda o lasciare il progetto su cui si sta lavorando. Più capiamo con chi abbiamo a che fare e più sarà possibile mettere in atto strategie funzionali al nostro obiettivo o quanto meno alla nostra sopravvivenza.

CAMBIARE STILE DI COMUNICAZIONE. Relazionarsi con chi ha un ego smisurato richiede l’apprendimento di una nuova lingua. O, meglio, di una parte. Allo stesso modo di come fanno gli attori. Quindi considerare l’utilità di frasi quali “Sì, hai assolutamente ragione“, seguito da “Hai mai considerato quest’altra idea che probabilmente ti era già venuta in mente?”. È una forma d’arte, in realtà, che naviga nel delicato equilibrio tra l’adulazione e il far capire il proprio punto di vista senza gonfiare ulteriormente l’ego di chi ci sta di fronte.

RENDI IL TUO LAVORO A PROVA DI EGO. Il tuo lavoro deve brillare, ma non così tanto da accecare l’ego del capo. Si tratta di far fare bella figura al capo senza annullarti. E’ un po’ come essere un ghostwriter per i tuoi successi. “Questo vecchio progetto? Ci ho lavorato nei ritagli di tempo, ma in realtà è stata la tua guida a renderlo tanto strategico“.

DAGLI, DI TANTO IN TANTO, QUELLO CHE VUOLE. A volte, il modo migliore per gestire chi ha un ego colossale è dargli ciò che vuole. Non dico di esagerare, ma la giusta quantità di elogi può oliare le ruote, rendendo la tua vita lavorativa meno in salita.

TIENI PRONTO UN PIANO B. Non sempre sarà possibile evitare le sfuriate di chi ha un ego spropositato. Per questo è utile avere un riparo dove proteggersi, fino a che la tempesta non sarà passata. Tieni a portata di mano una scorta di ombrelli metaforici, come un’e-mail di elogio o un promemoria di un successo passato. Questi piccoli stimolatori dell’ego possono essere la tua offerta di pace agli dei del narcisismo.

MANTIENI L’EQUILIBRIO. Bilanciare l’adulazione con una delicata quanto necessaria verifica della realtà può talvolta essere pericoloso ed elettrizzante allo stesso tempo. Nonchè richiede una certa dose di equilibrio fatto di tatto e tempismo. “È un’idea rivoluzionaria, ma forse potremmo prendere in considerazione questa piccola modifica per renderla ancora più innovativa?“. Si tratta di fare in modo che l’ego atterri dolcemente, senza lividi o ammaccature.

NON E’ SOLO SOPRAVVIVENZA. Ciò che ho imparato è che non si riduce tutto a una mera questione di sopravvivenza. Ma si tratta di crescere, maturare. E’ la capacità di trovare l’umorismo nell’assurdità, imparare la pazienza che non sapevi di avere e sviluppare le capacità di negoziazione. Perché, alla fine, non è quasi mai una questione personale. È solo ego.

Con un po’ di pratica, anche se in certi momenti risulta difficile crederlo possibile, si può anche diventare indispensabili per quel capo dall’ego tanto smisurato. Trasformando quello che avrebbe potuto essere il nostro più grande incubo sul posto di lavoro in una masterclass di agilità psicologica. Dopotutto, se riesci a gestire un capo di questo tipo, cosa non puoi gestire?

Ci sono VOLTE in cui TACERE è peggio che DIRE ciò che si PENSA. Attenti all’IGNORANZA PLURALISTICA…

Ti è mai capitato di trovarti in mezzo a un gruppo di persone e non riuscire a sopportarne una in particolare? Potrebbe trattarsi di un amico di un amico, un collega o della nuova fidanzata di tuo fratello. Poco importa. Ciò che è rilevante è che mentre tu ritieni questa persona odiosa o indelicata, sembri anche l’unica a pensarla così. Così per non rovinare la serata, fai buon viso a cattivo gioco e cerchi di celare il tuo disappunto.

Ma, anche se nessuno palesa di non apprezzare quella persona, è comunque corretto ritenere che piaccia a tutti?

Assolutamente no, il gruppo potrebbe solo sperimentare ignoranza pluralistica.

Che cos’è l’ignoranza pluralistica?

Il termine è stato coniato, a inizio del Novecento, da Allport per descrivere una situazione in cui tutti i membri di un gruppo rifiutano privatamente le sue norme, credendo però, allo stesso tempo, che tutti gli altri membri le accettino.

Detto in altri termini: è quel fenomeno in cui la maggioranza delle persone non è d’accordo con l’opinione della minoranza, ma crede che l’opinione della minoranza sia l’opinione della maggioranza.

Questo accade perché nessuno parla contro l’opinione prevalente, presumendo che tutti gli altri siano d’accordo poiché nessuno sta parlando.

E’ dunque quella sensazione che proviamo quando crediamo che amici e colleghi la pensino diversamente riguardo a un argomento, anche se questi sono, in realtà, sulla nostra lunghezza d’onda. Un esempio si ha in un’aula universitaria quando gli studenti non interrompono un professore che dice una cosa sbagliata, poiché, guidati dall’inazione generale, credono di aver capito male.

In concreto

È dimostrato come i membri esterni di alcuni C.d.A. possano sottostimare la preoccupazione dei membri interni dello stesso consiglio riguardo a una performance non soddisfacente della propria azienda. E’ sufficiente che i membri interni non manifestino le loro preoccupazioni affinché il punto di vista della minoranza, quello dei membri esterni, venga percepito come quello di una larga maggioranza. Il supporto che ha la visione della minoranza viene così sovrastimato a causa dell’inazione dei membri interni.

Non è raro che i dipendenti di un’azienda, pur di dare sostegno al proprio gruppo supportino alcuni valori che, in privato, rigettano.

Una delle maggiori conseguenze dell’ignoranza pluralistica a livello aziendale è l’influenza negativa che questa può avere nei processi decisionali di gruppo. Dato che i dipendenti non condividono le loro reali opinioni in un contesto di decisione di gruppo, potrebbero essere inclini a intraprendere azioni che non sono supportate dai singoli membri del gruppo.

O più banalmente, potrebbe accadere al bar o in un contesto pubblico: un cliente abituale prende a fare battute sessiste ad alta voce verso alcune donne sedute al bancone. Per un po’ si tenderà ad osservare il comportamento dell’avventore, provando disagio ma anche un po’ di timore. Poi, una volta che ci è guardati intorno e resi conto che nessuno dice niente, si è tentati di pensare che forse non è un atteggiamento tanto errato visto che mette a disagio solo te.

Sfortunatamente, in casi come questo più a lungo il cattivo comportamento viene tollerato, più la persona è portata a pensare di essere appropriata e facilmente cercherà di spingere i limiti ancora più in là.

Perché si verifica l’ignoranza pluralistica?

Se ti sei trovato in una situazione come quelle sopra menzionate, o simili, conosci la sensazione. Hai paura di essere l’unica persona a sentirsi in difficoltà. Non vuoi causare problemi, innescare una lite o attirare l’attenzione. O, dai per scontato che qualcun altro interverrà. Due sono i fenomeni che spiegano perché ci sentiamo a disagio e come questo possa portare un intero gruppo a presumere la cosa sbagliata.

Effetto spettatore. Se a nessuno in un gruppo viene assegnato un compito, tutti possono presumere che qualcun altro se ne occuperà. Soprattutto se l’attività richiede di mettersi in evidenza o di separarsi dagli altri membri. L’effetto spettatore può avere conseguenze disastrose in caso di emergenza. In quanto, anziché intervenire, la prima cosa che fanno tutti è guardarsi intorno per vedere chi sta per agire e aiutare la persona in difficoltà. Perdendo tempo prezioso che potrebbe fare la differenza in caso di vita o di morte.

Ingroup Effetto. Agli albori dell’umanità, andare controcorrente era pericoloso. Nessuno voleva separarsi dalla propria “tribù”. Questa mentalità è ancora radicata in noi. Sentiamo il bisogno di conformarci agli altri, anche se quegli “altri” sono solo persone nella nostra stessa stanza mentre partecipiamo a un esperimento di psicologia sociale!

Per questo, ci vuole molto coraggio per andare controcorrente e dare voce a quella che si crede sia un’opinione minoritaria. Ma ci vuole anche fiducia. Se non sei sicuro che le persone del tuo gruppo reagiranno con rispetto alla tua opinione, specie se negativa, potresti pensare che sia più sicuro per te tenere la bocca chiusa.

L’ignoranza pluralistica può verificarsi in quegli ambienti tutt’altro che sicuri dove proteggersi è più proficuo che dare la propria opinione.

Come superare l’ignoranza pluralistica

Il primo passo dovrebbe farlo colui che ha convocato la riunione per decidere su un determinato argomento. Questo individuo dovrebbe essere il primo a mostrarsi aperto a un potenziale feedback negativo, e dovrebbe in qualche modo cercarlo, esternando le proprie preoccupazioni qualora la decisione presa dovesse andare contro i desideri di un membro del gruppo stesso.

Le realtà aziendali però richiedono spesso decisioni complesse, non riducibili a semplici aperture verso potenziali feedback negativi. Nonostante ciò, essere consapevoli dell’esistenza di questo bias, può aiutare le organizzazioni ad approfondire l’argomento e ad affrontare i loro processi decisionali di modo da non andare contro gli interessi dei decisori stessi.

O almeno, questo è quello che penserebbe una larga maggioranza.

Fonti

Miller D.T., McFarland C. (1987). Pluralistic ignorance: When similarity is interpreted as dissimilarity. Journal of Personality and Social Psychology, 53(2), 298-305.

Halbesleben J.R.B., Wheeler A.R., Buckley M.R., Understanding pluralistic ignorance in organizations: application and theory. J Manag Psychol. 2007;22(1):65–83.

Latané B., Darley J., The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, Appleton-Century-Crofts, 1970.

Effetto KAYAK: per fare dell’ATTESA un ALLEATO

C’era una volta un fabbro che si lamentava di quanto gli affari andassero male. All’inizio della sua carriera, scassinare serrature lo impegnava a lungo e talvolta era costretto a sfondarle per aprirle, ma i clienti apprezzavano i suoi sforzi e lo ricompensavano con mance generose. Con il tempo, diventato esperto, per scassinare le serrature gli ci volevano pochi istanti, e i clienti, vedendo quanto fosse facile, avevano smesso di lasciare la mancia, risentendosi persino di pagare il suo compenso per quello che sembrava un lavoro da poco.

L’effetto kayak si può raccontare anche in quest’altro modo.

Immagina di trovarti a cena, con amici, in un nuovo bellissimo ristorante. Sfogliando il menù, la tua attenzione cade sul risotto allo zafferano e champagne. Mentre le persone che sono con te ordinano tutti piatti diversi. Il cameriere trascrive gli ordini, ringrazia e si allontana. Per comparire pochi minuti più tardi, con in mano il tuo risotto.

La prima domanda che ti poni, se non sei super affamato, è come sia possibile che l’ordine sia pronto in così poco tempo… e non solo il tuo…

Lo assaggi e ti sembra anche abbastanza buono, ma continui a pensare che mancano due ingredienti fondamentali: lo sforzo e il tempo per prepararlo. Così il dubbio che il risotto fosse già pronto prende il sopravvento. Dubbio che andrà poi ad influenzare il tuo giudizio sul piatto.

EFFETTO KAYAK O LABOR ILLUSION

L’effetto kayak o labor illusion è lo stesso meccanismo che si cela osservando un quadro d’arte contemporanea esposto in un museo e che ci porta a pensare: ‘Avrei potuto farlo io!’. Poche cose sono semplici come sembrano.

Quante bozze stracciate ci sono dietro un romanzo? Quanti anni di allenamento dietro un tiro decisivo? Quante startup fallite dietro un’azienda di successo?

Quando vediamo lo sforzo impiegato per realizzare un prodotto o erogare un servizio, la nostra percezione del suo valore aumenta. Lo apprezziamo di più e, di conseguenza, siamo disposti a pagarlo di più.

È per questo che siamo più inclini a spendere per acquistare un vaso in vetro soffiato dopo avere osservato un artigiano modellarlo, con maestria, nel suo laboratorio a Murano. Sicuramente di più di quanto lo pagheremmo se lo trovassimo esposto in vetrina senza conoscere l’impegno che sta dietro.

Succede anche il contrario: quando un prodotto ci sembra troppo facile da ottenere, il nostro cervello tende inconsciamente a ridimensionarne il valore. Come con il risotto di cui sopra e il falegname.

Ecco perché occorre conoscere l’effetto kayak, noto anche come labor illusion. La tendenza a dare maggiore valore a servizi o beni per i quali possiamo immaginare od osservare lo sforzo impiegato per produrli[1].

Siamo cioè disposti a pagare di più per un servizio o un oggetto quando osserviamo lo sforzo profuso nella sua produzione e quindi, se rendiamo visibile l’illusione dello sforzo, possiamo creare un plusvalore attorno al nostro servizio/prodotto.

DOVE NASCE

Questo effetto prende il nome da Kayak, un famoso sito comparatore di prezzi che, per farsi perdonare i tempi di attesa fra una pagina e l’altra, ricorre al trucco di mostrare agli utenti i progressi della sua ricerca, dando l’impressione di poter assistere dal vivo al software che analizza i prezzi di ogni hotel o volo[2].

Alcune piattaforme usano questo effetto, nelle schermate di caricamento, mostrando i nomi di tutte le compagnie aeree analizzate dal loro software, creando l’illusione di un complesso work in progress. Il messaggio implicito inviato all’utente è: “Ecco quanto sforzo stiamo impiegando, in questo preciso momento, per soddisfare la tua richiesta”.

L’efficacia di questa strategia è stata confermata nel 2011 da un esperimentocondotto da due ricercatori di Harvard, Buell e Norton: gli utenti che osservano il meccanismo ‘in azione’ sono più soddisfatti del risultato finale e sono disposti a sopportare attese più lunghe.

Tornando all’esempio del ristorante, soprattutto se è la prima volta che ci entriamo, non avendo molti elementi per giudicarlo, tendiamo a pensare che il tempo e la cura con cui un piatto viene preparato sia un indicatore di qualità. Ecco perché molti ristoranti optano per cucine a vista, così da enfatizzare il lavoro degli chef e aumentare il valore percepito.

A mostrare la persuasione di questo effetto, è un altro esperimento, durante il quale a dei volontari fu chiesto di valutare la qualità di alcuni quadri dopo aver mostrato loro l’impegno che ci era voluto per crearli (2 ore vs 2 giorni). Il risultato fu che quando era occorso più tempo e impegno, il valore percepito era maggiore, anche in termini di prezzo che sarebbero stati disposti a pagare[3]. A prescindere dal risultato.

L’effetto kayak trova applicazione nel design di applicazioni e siti web. Dopo aver effettuato l’ordine in Deliveroo, l’app consente un tracciamento in tempo reale delle operazioni svolte dal ristorante e dal rider, rendendo l’attesa della consegna a domicilio meno lunga[4].

Così l’app di Uber che consente di tracciare posizione dell’autista e monitorare il tempo di attesa. La banca argentina BBVA mostra animazioni di conteggio delle banconote mentre i clienti aspettano che la macchina eroghi il denaro.

COME USARE IN MODO VANTAGGIOSO LA LABOR ILLUSION

Utenti, lettori o clienti valutano il nostro operato in base al prodotto finito: gli sforzi che abbiamo profuso per arrivare al risultato sono spesso invisibili ai loro occhi, e raramente incidono nella valutazione complessiva.

Per questo a volte essere più trasparenti come aziende o individui, svelando (anche parzialmente) meccanismi e processi, contribuisce ad aumentare il valore percepito in quello che facciamo.

È ciò che viene definita “trasparenza operazionale”.

A questo punto permettetemi una domanda: se poteste portare un po’ di effetto kayak nel vostro lavoro, si alzerebbe il valore percepito in quello che fate?

Fonti

[1] Efrat-Treister D., Cheshin A., Harari D., Rafaeli A., Agasi S., Moriah H., Admi H., 2009. How psychology might alleviate violence in queues: perceived future wait and perceived load moderate violence against service providers, Plos One 14.

[2] Marsden (2014). The kayak effect: why making customers wait drives satisfaction. www.digitalwellbeing.org

[3] https://online.ucpress.edu/collabra/article/9/1/87489/197632/The-Effort-Heuristic-Revisited-Mixed-Results-for

[4] https://www.bing.com/search?q=lee+kesavan+managing+the+impact+of+fitting+room&qs=n&form=QBRE&sp=-1&ghc=1&lq=0&pq=lee+kesavan+managing+the+impact+of+fitting+room&sc=6-47&sk=&cvid=46105991F7744532A0246A43A1BA42EE&ghsh=0&ghacc=0&ghpl=

Come DECIDONO i NAVY SEALs e come mettere in pratica i loro SUGGERIMENTI

Nonostante la si svolga migliaia di volte al giorno, prendere decisioni rimane un’attività complessa. E non solo per le scelte importanti. Spesso, sono le piccole decisioni ad avere l’impatto maggiore. Come sostiene Ryan Angold, ex Navy Seal e a.d. di ADS Inc, secondo cui “non esiste una decisione perfetta al 100 per cento[1].

Della stessa idea è Mike Hayes, Chief Digital Transformation Officer di VMWare, ed ex comandante dei Navy SEALs: “Tutte le decisioni sono fondamentalmente le stesse. Prendere decisioni sulla vita o sulla morte richiede lo stesso processo di scelta di quando la posta in gioco è più bassa[2].

Si può non essere d’accordo con Hayes, anche se di situazioni complesse ne ha vissute molte visti i 20 anni di carriera con i Navy SEAL, dove è stato comandante del SEAL Team TWO, e a capo di una task force per operazioni speciali in Afghanistan che includeva oltre mille missioni di bombardamento aereo.

Sia che, in azienda, io scelga di investire o che stia decidendo quali operazioni dovrebbero svolgere i SEAL, si tratta dello stesso quadro decisionale“, ha ribadito più volte.

Punto di vista forse un po’ estremo ma utile per mettere in discussione il nostro modo di fare una scelta.

RACCOGLI FEEDBACK, IDEE E PROPOSTE

Nella vita lavorativa si accumulano esperienze da cui si può attingere laddove e quando serve, se si è stati bravi a farne delle lezioni imparate.

Il requisito nei team SEAL è che tu abbia attraversato molteplici scenari diversi, ti sia allenato nei contesti più estremi, gli ambienti più difficili, gli scenari peggiori“, afferma Angold. “Questi vissuti sono utili poiché diventano punti di riferimento nel momento del bisogno”.

Anche se quello in cui ci si trova è raramente lo stesso scenario che si è vissuto in precedenza, ci permette comunque di imparare come funziona la squadra e noi stessi e ci consente di prendere decisioni rapide.

Raccogliere input, feedback e consigli dagli altri è fondamentale. Hayes, che è stato membro della Casa Bianca e direttore della politica e della strategia di difesa presso il Consiglio di sicurezza nazionale sotto le amministrazioni Bush e Obama, sottolinea quanto confrontarsi con persone che non la pensano come noi sia strategico e determinante.

Troppo spesso tendiamo a cercare idee e visioni di persone che pensano al nostro stesso modo“, afferma. “Gli artisti tendono ad assumere artisti e gli ingegneri assumono ingegneri. Ricevere input da chi non la pensa come noi, promuovendo una cultura che celebra le differenze e promuove altre idee, aiuti le persone a sentirsi a proprio agio nel dire cose come: Non penso che sia una grande idea. Ecco come farei…  Questo consente le migliori decisioni possibili”.

Per generare le migliori idee e soluzioni, far partecipare al tavolo voci diverse, è una best practice che fa bene, benchè non sia una pratica così diffusa.

Solo prendendo la tua migliore alternativa e confrontandola con una serie di altre, potrai decidere qual è la cosa migliore da fare”.

Troppi leader pensano di dover prendere la decisione da soli”, aggiunge Angold. “Contare sulla propria squadra non è un segno di debolezza. I leader forti sfruttano le proprie risorse”.

DECIDI QUANDO DECIDERE

La prima decisione, in un processo decisionale, non è la decisione. La prima decisione è quando prendere la decisione“, dice Hayes. “Questa è la cosa che la maggior parte delle persone sbaglia“.

Sapere quando prendere una decisione dipende dal tempo in cui si ottengono i migliori input e le alternative possibili. A volte il tempo decisionale è di 30 secondi, altre due settimane. Puoi anche decidere di non decidere.

A un certo punto, il valore delle diverse soluzioni costa più del tempo associato all’ottenimento di nuove“, afferma Hayes. “E’ quello il momento in cui prendere la decisione”.

Indugiando, si perde valore e si sprecano delle occasioni importanti.

Sapere quando è il momento giusto di decidere richiede però esperienza. “È quantitativo e qualitativo. Ci sono momenti in cui ottieni più informazioni utili per la tua decisione, ma ci sono altri momenti in cui devi agire d’istinto. L’istinto è in realtà un insieme di esperienze da cui estrai la logica”.

Spesso si tende a dare una rilevanza eccessiva a quello che definiamo “sesto senso”. In realtà l’istinto è spesso frutto dell’esperienza. L’essersi trovati in situazioni similari, aiuta il nostro cervello a fornire soluzioni, a unire i puntini. Spesso, in modo inconsapevole.

SII DISPOSTO A CAMBIARE ROTTA

Nonostante l’esperienza e le dovute valutazioni, si può incorrere in un errore.  La cosa importante è analizzare lo sbaglio e capire dove e quando questo è avvenuto.

Quando sbagliano, molti dirigenti senior lasciano che il loro ego prenda il sopravvento. Pensano che invertire la rotta farà fare loro brutta figura. Occorre sentirsi a proprio agio nel dire: ci sono nuove informazioni, lasciatemi rivalutare lo scenario“.

In poche parole, ci vuole umiltà.

Un leader è colui che non ha bisogno di fare bella figura di fronte alla squadra. Si prende le proprie responsabilità e sa mettere l’organizzazione prima di sé stesso. Ci vuole molta umiltà per ammettere di aver sbagliato. Ma è indispensabile per non perdere la fiducia del team“.

Che piaccia o meno, saper correggere il tiro dopo aver fallito, velocizza la nostra capacità di prendere decisioni.

Nessuno vuole o deve correre rischi inutili, ma un leader empatico, umile e trasparente, che dà l’esempio, sa che anche facesse una scelta sbagliata, la sua squadra gli coprirà le spalle perché confidano che risolverà il problema”.

I suggerimenti per migliorare la presa di decisione sono simili nei diversi settori. La differenza la fa mettere o meno in pratica i consigli che via via ci vengono offerti. Non tutti ci saranno di aiuto, ma andranno ad alimentare il nostro bagaglio esperienziale. E chissà che un domani possa essere determinante… anche se sarà più romantico chiamarlo sesto senso!

FONTI

[1] https://www.industryleadersmagazine.com/us-navy-seals-reveal-secrets-of-effective-decision-making/

[2] Hayes M., Never Enough: A Navy SEAL Commander on Living a Life of Excellence, Agility, and Meaning, Celadon Books2021