Come RICONOSCERE il CAREWASHING (e l’OFFICE PEACOCKING) sul LAVORO

Puoi anche mettere il rossetto a un maiale, ma resta sempre un maiale“. Forse una delle migliori espressioni proverbiali per spiegare cosa si intende per carewashing. Pratica che consiste nell’abbellire qualcosa in superficie, mentre la vera sostanza resta poco attraente e, in questo caso, anche maleodorante. E a cui ricorrono diverse realtà aziendali.

Troppe organizzazioni con culture non sostenibili credono (o vogliono far credere) che sia sufficiente offrire ai collaboratori corsi di mindfulness, yoga, massaggi terapeutici o benefit per la salute, senza realmente affrontare i problemi e i disagi dichiarati, per attirare consensi e talenti. In realtà, stanno semplicemente facendo carewashing.

Come il termine più noto greenwashing, carewashing deriva da whitewashing: coprire o dare un’immagine fuorviante al mancato rispetto di un impegno, di una dichiarazione o di uno standard.

CAREWASHING VS OFFICE PEACOCKING

Il carewashing è molto simile all’office peacocking (pavoneggiamento in ufficio), la tattica messa in atto dalle aziende che cercano di riattirare i dipendenti in ufficio (riducendo lo smart working). Il termine si riferisce al deliberato rifacimento degli spazi degli uffici in contesti invitanti che invoglino i collaboratori a trascorrervi più tempo, attraverso, ad esempio, l’installazione di comodi divani, angoli accoglienti, luce naturale e piante che trasformano l’ufficio in un ambiente vivace. Alcune aziende stanno anche investendo in decorazioni di lusso e cucine rifornitissime.

La differenza (sottile) è che il carewashing enfatizza i benefici per la salute mentale per invogliare i dipendenti a tornare in ufficio, quando in realtà i datori di lavoro non si preoccupavano affatto se i collaboratori utilizzeranno o meno i servizi offerti.

Non sono poche le aziende che vantano programmi per il benessere ma non monitorano l’impegno o i risultati. Se un’organizzazione non ha modo di misurare i risultati sulla salute nel tempo, per determinare se i programmi offerti funzionano davvero, probabilmente non è veramente interessata al benessere e alla salute dei dipendenti.

I tempi cambiano e per rimanere attraenti, le aziende si devono adeguare o quanto meno interrogarsi. Oltre ai benefit, i dipendenti vogliono manager con cui poter parlare, orari di lavoro flessibili, carichi di lavoro ragionevoli e servizi di salute mentale e benessere di cui possano effettivamente usufruire. E non aziende che offrono corsi di yoga aspettandosi come contropartita che tutti si presentino al lavoro allegri e produttivi.

COME AVVIENE IL CAREWASHING

Ci sono alcune motivazioni che spiegano lo scollamento tra ciò che un’organizzazione dice di voler fare e ciò che effettivamente fa in merito alla cultura dell’ambiente di lavoro.

LEADER MAL EQUIPAGGIATI. Il carewashing, involontario o inconsapevole, si verifica quando i leader non hanno la volontà o le competenze per affrontare i problemi di cultura organizzativa esistenti.

MANCANZA DI FOLLOW-UP. Il carewashing si verifica quando le aziende, per far fronte alle sfide immediate di assunzione e retention, dichiarano di dare priorità al benessere dei dipendenti, ma non riescono a garantire che i manager abbiano le competenze e le risorse per realizzare tali impegni.

INTERESSE PERSONALE. Le organizzazioni e i loro leader si trovano a volte di fronte al dilemma fra affrontare i comportamenti problematici e rischiare un danno alla reputazione, oppure di proteggerla ignorando o nascondendo il problema. Un’altra (e una delle più gravi) forme di carewashing si verifica quando i leader che fingono di preoccuparsi del benessere e della sicurezza dei dipendenti ignorano le denunce di molestie sul posto di lavoro e banalizzano il danno subito.

COSA FARE PER FERMARE IL CAREWASHING

Crea consapevolezza e normalizza le conversazioni sulla salute mentale.

Monitora il benessere e i risultati dei programmi esistenti. Raccogli regolarmente i feedback dai dipendenti sulle loro esigenze di sicurezza e benessere dei collaboratori e sull’efficacia dei programmi esistenti e usa questi dati per apportare miglioramenti informati.

Forma i manager. Fornisci ai manager le competenze per riconoscere i segnali di disagio e malessere e fornire supporto. Mostra loro come creare un ambiente aperto in cui le persone si sentano al sicuro.

Semplifica l’accesso ai servizi. Fai in modo che i servizi siano facilmente accessibili e senza procedure macchinose. Riservatezza e facilità d’uso sono cruciali.

Sii chi dici di essere. Cura l’allineamento tra impegni e capacità. Seleziona un numero limitato di impegni relativi al benessere e alla sicurezza che sai di poter rispettare in un determinato periodo di tempo e assicurati che l’attuazione sia all’altezza della comunicazione. Sii trasparente e riconosci i punti deboli.

Fai domande e sii pronti ad ascoltare davvero. Potresti ricevere feedback negativi e scomodi. Per questo motivo, è necessario salvaguardarne l’integrità. Non è raro che, di fronte a risultati negativi, questi vengano alterati perché “la direzione ha bisogno di fare bella figura”, innescando il malumore dei dipendenti che non hanno visto rispecchiate le loro risposte o preoccupazioni. Impegnati a condividere il percorso di miglioramento continuo con gli stakeholder e a coinvolgere i dipendenti nel processo di co-creazione.

Allinea i criteri di leadership ai valori organizzativi. Le organizzazioni che si concentrano esclusivamente sui profitti a breve termine possono basare la selezione dei leader su competenze come il carisma, l’estroversione, la capacità di influenzare gli altri, l’orientamento agli obiettivi, la capacità di prendere decisioni difficili e l’elevata tolleranza al rischio, ignorando le capacità interpersonali. Per creare un ambiente di lavoro sicuro e salutare, le organizzazioni dovrebbero verificare la presenza di valori e competenze basati sulle persone (empatia, capacità di ascolto, apertura verso gli altri, attenzione) e di comportamenti etici al momento dell’assunzione e della promozione; valutare le prestazioni in base a criteri che vadano oltre i risultati superficiali e a breve termine; implementare (nei fatti, non solo a parole) politiche e procedure che riconoscano e affrontino i segnali di allarme nei comportamenti dei leader.

Sii consapevole. I leader senior che vogliono evitare il carewashing devono avere la saggezza e l’umiltà di ammettere di non avere tutte le risposte, di essere disposti a essere vulnerabili e di mostrare curiosità e una mentalità di apprendimento. Non riconoscere l’impatto della cultura emotiva sulla produttività dei dipendenti è una caratteristica centrale del carewashing.

In una vera cultura del caring, i leader creano un senso di fiducia che consente ai dipendenti di condividere le proprie difficoltà, esigenze e aspirazioni in un ambiente sicuro. L’uso di affermazioni non comprovate sul benessere dei dipendenti come strumento di marketing è una soluzione rapida che avrà conseguenze negative a lungo termine. Ma trovare il coraggio di affrontare la cultura emotiva come una realtà condivisa dal team, dove la cura è un fatto piuttosto che una finzione, aiuterà i leader a creare in modo sostenibile organizzazioni che attraggono, motivano e trattengono i migliori talenti.

E infine… Oggi i social media rendono più facile smascherare le aziende che applicano il carewashing. Le recensioni negative su piattaforme come Glassdoor e LinkedIn possono rapidamente rovinare l’immagine di un’azienda; quando i dipendenti criticano pubblicamente il datore di lavoro per un supporto inadeguato alla salute e al benessere, questo può fortemente scoraggiare potenziali talenti e clienti.

Le TRAPPOLE dei LEADER e della LEADERSHIP

Il potere ha un impatto non indifferente sulle persone, poiché ne cambia le percezioni, il giudizio e il comportamento. Non solo in coloro che lo detengono ma anche in coloro che stanno intorno, collaboratori, amici e colleghi.

Quando si ricopre una posizione di comando, infatti, non si è più visti come individui bensì come simbolo di autorità. Ed è facile che se ne sopravvalutino le idee, si tenda a dare feedback meno onesti e accurati, a essere meno disposti a parlare, a fidarsi e ad assumersi dei rischi, così come chiudere un occhio sulle eventuali cattive condotte. O si ripongano aspettative irrealistiche su ciò che il leader può realizzare o, al contrario, considerarlo con scetticismo, per vedere se è degno del nuovo status.

Il risultato?

Il modo in cui le persone reagiscono al potere, modella il leader in modi di cui non è facile rendersi conto. Senza la consapevolezza di questa dinamica, è facile cadere nelle trappole che il potere crea, minando la capacità di fare ciò che è giusto per l’organizzazione. Gli studi dimostrano che quando i leader usano male il loro potere, la motivazione dei collaboratori e delle persone loro vicine diminuisce, così come la loro intenzione di dare il massimo contributo all’organizzazione.

Per questo è importante evidenziare le trappole che possono mettere a rischio i leader a tutti i livelli: più a lungo si ricopre un ruolo apicale, più potenzialmente estreme – e pericolose – possono diventare le trappole. Sebbene non sia possibile controllare il modo in cui le persone reagiscono, è possibile però controllare il nostro comportamento e impiegare strategie per mitigare le conseguenze negative.

LA TRAPPOLA DEL SALVATORE

Si manifesta con la tendenza a dare una moltitudine di consigli, spesso non richiesti, avere tutte le risposte ed essere eccessivamente disponibili. Questo può spingere il leader a identificarsi in una sorta di salvatore, annientando il team. O ancora, dire la propria su ogni cosa, anche su questioni che non rientrano nella sua area di competenza. I sintomi della trappola del salvatore includono il tentativo di risolvere i problemi di tutti, la microgestione di progetti o prodotti e l’offerta di suggerimenti che non sono necessari o che esulano dalle proprie competenze.

Perché è un problema?

Quando si è presi dal salvare gli altri, si ha un’eccessiva fiducia nelle proprie capacità (overconfidence bias). Il bisogno di essere utili o di controllare rende il leader più a rischio di fallimento. Inoltre, limita la capacità e la motivazione dei collaboratori a contribuire o sviluppare nuove idee, fino a sentirsi sempre meno autonomi e responsabili.

Per evitare la trappola del potere:

·      Prima di proporre soluzioni e risposte, abituati a porre domande.

·      Sii onesto con te stesso. Quante delle idee e dei suggerimenti che condividi in riunione vengono effettivamente attuati? Chiedi ai colleghi di valutare anonimamente l’utilità dei tuoi suggerimenti.

·      Quando gli altri sono competenti ma cauti su un obiettivo o un compito, ascolta attivamente le loro preoccupazioni e facilita la soluzione dei problemi.

LA TRAPPOLA DELL’AUTOCOMPIACIMENTO

In un ruolo di responsabilità, volenti o nolenti, si diventa spesso l’esperto elettivo, quello che ha le risposte. A differenza della trappola del salvatore, questa trappola corrisponde a un calo della curiosità. Poiché si pensa di sapere tutto, si fanno meno domande, si presume di aver capito il problema e non si sollecitano ulteriori informazioni, si considera il silenzio come consenso e si presume che ci sia vero accordo e non compiacenza.

Cadere nella trappola dell’autocompiacimento significa non arrivare alla verità perché non si è cercato di approfondire la discussione. Non ci si è chiesti: “Mi sto perdendo qualcosa?” o “Cosa potrei aver trascurato?”. Quando qualcuno viene a chiedervi aiuto, gli date la risposta invece di chiedere: “Cosa avete provato?” o “Quale pensate sia il problema?”.

Perché è un problema?

L’autocompiacimento rischia di farci perdere le informazioni e i dati necessari per prendere buone decisioni. Inoltre, non si è nelle condizioni di aiutare il team a sviluppare il pensiero critico e diventare autosufficienti nella risoluzione di problemi.

Per superare la trappola dell’autocompiacimento:

·      Sviluppa una pratica di indagine che metta in luce le ipotesi, i valori e le convinzioni insite nella discussione. Chiedi: “Quali ipotesi stiamo facendo?”. “Cosa non abbiamo ancora chiesto?”. “Cosa potrebbero vedere uno stakeholder esterno, un competitor o un cliente che non abbiamo ancora considerato?”.

·      Usa la tecnica dei “cinque perché” nelle discussioni. Quando qualcuno pone una domanda o solleva un problema, chiedi “perché” fino a quando non avrete individuato la causa principale o il livello più profondo del problema.

·      Condividi in modo proattivo ciò che stai imparando, in modo che l’autocompiacimento non diventi mai un’abitudine e che l’apprendimento continuo diventi un valore.

·      Sii presente. La compiacenza può essere un sintomo di distrazione, il risultato del multitasking e della disattenzione. Stacca il telefono quando parli con qualcuno. Se sei in riunione, fai domande. In questo modo aumenterai la presenza e la curiosità e, di conseguenza, dimostrerai agli altri che ciò che dicono e hanno da offrire è importante.

LA TRAPPOLA DELL’EVITAMENTO

Una posizione di potere consente di prendere scorciatoie. Se da un lato offre maggiore autonomia, possibilità di scelta e opportunità, dall’altro permette di evitare compiti spiacevoli affidandoli ad altri o, quando possibile, evitandoli del tutto. Come, ad esempio, non affrontare una conversazione difficile o dare un feedback severo, o un conflitto che si sta incancrenendo all’interno del team.

Perché questo è un problema?

Evitare le parti spiacevoli e difficili del ruolo può alleggerire il carico nel breve termine, ma finisce per indebolire la capacità di fare da soli. Un leader che sceglie i propri compiti trasmette il messaggio che rendere conto del ruolo è facoltativo. Viene visto come inaffidabile e la mancanza di affidabilità è nota per diminuire la fiducia e nell’organizzazione che lo consente.

Per evitare la trappola dell’evitamento e orientarsi verso le sfide:

·      Chiediti: “Quali sono i doveri del mio ruolo? Cosa richiede? È il mio lavoro? Devo farlo?”.

·      Chiediti: “Qual è il costo dell’inazione per me stesso, gli altri, il team e l’azienda?”. “Se non affronti il problema, quali potrebbero essere le conseguenze?”.Stai dando al team esempi che ti costeranno nel lungo termine?”. “Stai riducendo o aumentando il tuo carico di lavoro evitando il problema?”.

·      Cambia mentalità, passando da una in cui lo stress è debilitante a una in cui lo stress è positivo. Il modo in cui percepisci la sfida influenza il grado di stress connesso alla sfida stessa. Sviluppando una mentalità secondo cui lo stress è benefico per affrontare situazioni difficili ti renderà un leader più forte, sarai meno incline a evitare compiti spiacevoli.

·      Tendiamo ad evitare le cose per le quali ci sentiamo inadeguati. Fai un elenco dei compiti richiesti dal ruolo che preferisci evitare o su cui tendi a procrastinare. Fatti aiutare da un mentor per esaminare la lista, identificando le competenze necessarie per affrontarli.

LA TRAPPOLA DELL’AMICO

Il potere può essere scomodo e i leader che faticano a far proprio il ruolo possono cadere, con i propri collaboratori, nella trappola dell’amico: ossia comportarsi come un pari quando non lo si è.

Tali leader fanno eccessivo affidamento sul loro potere personale e rinunciano al potere posizionale, nel tentativo di essere apprezzati e minimizzare la loro autorità. Lo vediamo quando qualcuno viene promosso e si trova a dover gestire un ex collega. Il nuovo leader può avere difficoltà a responsabilizzare le persone o a prendere decisioni. Può anche condividere informazioni riservate o fare favoritismi: tutte cose che seminano confusione e caos.

Perché è un problema?

L’abuso di potere è tanto un atto di omissione (non fare la cosa giusta) quanto un atto di commissione (fare qualcosa di sbagliato). Quando i leader non incarnano il potere della loro posizione, le persone che li circondano non sanno cosa ci si aspetta da loro, il che compromette la loro capacità di concentrarsi ed eseguire. Inoltre, il fatto di non intervenire in ciò che richiede la propria autorità lascia un vuoto che spesso viene riempito dalla persona più dominante del team, non necessariamente la più competente, con conseguenti tensioni e conflitti.

Per navigare nella trappola dell’amico:

·      Prendi nota del motivo per cui sei stato promosso; molto probabilmente hai le competenze per adempiere agli obblighi del ruolo. Fai un elenco delle ragioni per cui sei la persona giusta e appendilo in un posto a te accessibile.

·      Fai pace con il potere. Sappiamo che molte persone non si sentono a proprio agio con il potere a causa di tutti i modi in cui lo hanno visto usato male. Pensa alle persone che usano il potere in modo efficace. “Che cosa li rende efficaci?”; “Ci sono comportamenti che potresti mettere in pratica anche tu?”.

·      Fai un inventario dei tuoi punti di forza e di come puoi sfruttarli per il ruolo. Quando dai per scontato i tuoi poteri personali, è facile che li userai in modo casuale invece che deliberato. Qualsiasi punto di forza, anche la cordialità, può diventare un ostacolo, se usato in modo eccessivo.

·      Stabilisci esplicitamente le nuove relazioni e responsabilità con il team. Prendi in considerazione l’utilizzo di un quadro decisionale per progetti specifici. Le discussioni intenzionali eliminano i dubbi su come utilizzare il nuovo potere.

LA TRAPPOLA DELLO STRESS

La leadership è intrinsecamente stressante e i leader sono sottoposti a enormi pressioni per ottenere risultati. I rapidi cambiamenti tecnologici e la volatilità del mercato creano incertezza e instabilità costanti. Molti leader sono anche schiacciati tra i dipendenti e l’alta dirigenza, destreggiandosi tra scadenze e risultati, tagli al budget e turnover.

Lo stress non gestito è deleterio, non solo per il leader che lo subisce, ma anche per chi gli sta accanto. Se si inviano e-mail nel cuore della notte, si risponde in modo sgarbato alle richieste o si esegue una microgestione per ansia, si crea uno “stress di seconda mano”, trasmettendo il proprio stato emotivo agli altri. Tutto ciò è amplificato dalla lente del tuo potere. A tutti è concesso di avere una giornata storta, ma quando sei il capo, potresti pensare di essere solo un po’ scontroso; per i collaboratori, invece, potrebbe essere molto di più.

Perché è un problema?

Per evitare di trovarsi sulla linea di tiro, i collaboratori diretti potrebbero minimizzare le cattive notizie o non dire quando le cose non vanno bene finché non è troppo tardi. Le persone non riescono a pensare in modo chiaro e creativo in un’atmosfera di sovraccarico.

Per navigare in questa trappola:

· Riconosci di essere sotto stress quando lo sei e i comportamenti e i segnali disfunzionali o poco strategici che metti in atto

. Sviluppa attività per gestire lo stress: mindfulness, tecniche di respirazione o di rilassamento, terapia cognitivo-comportamentale o altri approcci.

·      Riduci e gestisci lo stress migliorando le routine quotidiane. Fai pause tra una riunione e l’altra, esercizio fisico, mangia correttamente e prevedi piccole pause.

·      Lo stress è inevitabile, quindi, per esempio, rimanda la scrittura di un’e-mail difficile o la risposta a una richiesta impegnativa fino a quando non avrai avuto il tempo di riflettere, di parlarne con qualcuno, fare una passeggiata, ecc.

CONCLUDENDO

Le trappole sono evitabili e mitigabili, ma trattandosi di un terreno scivoloso è comunque facile cadervi. Se sei fortunato da ricevere un feedback che ti dice che sei intrappolato in una di queste dinamiche di potere o ti accorgi di dipendere eccessivamente da una posizione di comfort che il ruolo ti offre, fanne buon uso e correggi il tiro!

Poiché quando rafforzi il modo in cui eserciti la tua leadership, dai potere a chi ti circonda e crei ambienti generativi e risultati migliori per l’organizzazione.

PS. hai riconosciuto la trappola in cui tendi a cadere più facilmente?

PERCHE’ le DONNE vengono SPINTE giù dalla SCOGLIERA di VETRO…

Non lasciatevi ingannare dal nome poetico, quasi romantico, di un fenomeno frequente ma di cui si parla poco, troppo poco: il glass cliff o scogliera di cristallo. Che attanaglia le donne al comando in ambienti tradizionalmente appannaggio degli uomini.

Se una volta l’incubo delle donne in carriera di chiamava glass ceiling (soffitto di vetro), quelle situazioni lavorative in cui l’avanzamento di carriera viene impedito per discriminazioni (in genere di carattere razziale o sessuale), oggi l’ostacolo peggiore è il glass cliff (scogliera di vetro).

Coniato da Michelle Ryan e Alex Haslam dell’Università di Exeter, nel 2004, il termine indica la situazione in cui si trovano quelle donne che, pur avendo successo in ruoli tradizionalmente maschili, sono più a rischio di perdere il lavoro e di essere giudicate più severamente o meno competenti dei colleghi maschi, di fronte allo stesso errore.

Come dimostra lo studio dell’Università di Yale “How Won and Easily Lost” che ha analizzato come sono state percepite le decisioni del capo della polizia, prese durante una rissa in una manifestazione. Quando il numero di agenti inviati sul posto era inferiore rispetto la portata degli scontri, se il capo era donna veniva giudicata molto più severamente rispetto se al comando c’era un collega uomo e malgrado i due avessero commesso lo stesso errore.

Lo studio di Yale ha preso in esame anche altre occupazioni: nell’ingegneria aerospaziale e in qualità di giudice supremo. Va riconosciuto che l’effetto non risparmia gli uomini: quando sono chiamati a fare lavori tradizionalmente femminili le conclusioni sono risultate le stesse.

Entriamo nel dettaglio.

COS’È L’EFFETTO SCOGLIERA DI VETRO?

L’effetto Glass Cliff è un fenomeno che descrive la tendenza delle donne a ricoprire posizioni di leadership durante periodi di crisi o quando c’è un alto rischio di fallimento. Questo concetto si basa sull’idea che le donne sono considerate più brave nel trattare con le persone e vengono quindi messe alla guida quando c’è bisogno di un approccio empatico o educativo. Tuttavia, ciò significa anche che le donne hanno maggiori probabilità di fallire, poiché spesso vengono loro affidate le redini quando le cose stanno già andando male.

Ciò suggerisce che le donne sono spesso viste come “ultima risorsa” e vengono coinvolte per cercare di cambiare la situazione.

Altri studi hanno confermato l’esistenza dell’effetto Glass Cliff in vari contesti. Una ricerca sulle elezioni politiche nel Regno Unito ha rilevato che le donne avevano maggiori probabilità di essere selezionate come candidate in seggi impossibili da vincere, mentre gli uomini avevano maggiori probabilità di essere selezionati in seggi considerati sicuri. Ciò suggerisce che le donne vengono spesso messe in posizioni in cui il successo è improbabile e hanno quindi maggiori probabilità di sperimentare il fallimento.

LE RAGIONI DEL GLASS CLIFF

Le donne sono spesso viste come più premurose ed empatiche, e quindi si ritiene siano più brave a trattare con le persone. Ciò può renderle una buona scelta per posizioni di leadership in cui è necessario un approccio collaborativo. Tuttavia, ciò può anche significare che sono considerate meno competenti quando si tratta di competenze difficili come la finanza o la strategia. Ciò significa che hanno maggiori probabilità di venir criticate rispetto agli uomini, il che può rendere loro più difficile il successo. Uno studio condotto su CEO donne ha rilevato che avevano maggiori probabilità di essere prese di mira da investitori attivisti rispetto agli AD uomini.

NATURA DI GENERE E ASSUNZIONE DI RISCHI

La leadership e l’assunzione di rischi sono stati a lungo associati alla mascolinità. Gli uomini sono spesso visti come leader naturali e amanti del rischio, mentre le donne come più avverse al rischio e meno propense ad assumere posizioni di leadership. Questa percezione di genere ha portato le donne a essere sottorappresentate nelle posizioni di comando e a essere trascurate per opportunità ad alto rischio e ad alto rendimento. Tuttavia, recenti ricerche hanno dimostrato che le donne:

– Non sono intrinsecamente avverse al rischio; sono semplicemente più caute quando si tratta di potenziali perdite.

– Hanno maggiori probabilità di essere nominate in posizioni di comando in tempi di crisi o situazioni ad alto rischio perché meglio attrezzate per gestire tali contesti e migliori problem solvers. Ciò significa però che le probabilità di fallire sono maggiori.

– Quando vengono nominate in posizioni di leadership durante una crisi, ricevono meno sostegno e risorse rispetto ai colleghi maschi. Ciò rende loro più difficile avere successo e può far sì che il loro fallimento venga visto come una prova del fatto che non siano efficaci in quel ruolo.

CASI ECLATANTI

La letteratura ha dimostrato che le donne in posizioni di comando durante i periodi di crisi sono spesso destinate al fallimento, poiché le sfide da affrontare sono più complesse.

Nel 2003, Carly Fiorina divenne AD di Hewlett-Packard. È stata la prima donna a guidare un’azienda Fortune 20, ma il suo mandato è stato segnato da forti polemiche e alla fine si è concluso con il licenziamento. La sua nomina è arrivata in un momento in cui HP stava affrontando un calo delle vendite e dei profitti e le è stato affidato il compito di risanare l’azienda.

Nel 2014, Marissa Mayer ha preso il timone di Yahoo, che faticava a competere con Google e Facebook. È stata acclamata come una salvatrice per l’azienda, ma il suo mandato è stato segnato da polemiche. Nonostante gli sforzi per risanare l’azienda, alla fine è stata rimossa dalla posizione.

Theresa May, Primo Ministro del Regno Unito nel 2016. Le è stato affidato il compito di guidare il Paese attraverso uno dei periodi più difficili della sua storia. Nonostante i suoi sforzi per negoziare un accordo sulla Brexit, la sua leadership è stata criticata e alla fine è stata costretta a dimettersi.

L’IMPORTANZA DI UN CAMBIAMENTO ORGANIZZATIVO

La necessità di un cambiamento organizzativo è un aspetto cruciale che non può essere ignorato quando si parla dell’effetto scogliera di vetro. Nelle situazioni di crisi l’organizzazione è già in una posizione vulnerabile e ci si aspetta che il leader cambi la situazione. La pressione per avere successo è elevata e le conseguenze del fallimento sono disastrose.

Per cominciare, le aziende devono riconoscere il valore della diversità e dell’inclusione. Ciò significa che alle donne dovrebbero essere assegnati ruoli di leadership sia nei momenti buoni sia in quelli cattivi, non solo quando un’azienda è in crisi. Significa anche che le donne dovrebbero avere le stesse opportunità di avanzamento degli uomini.

Le donne devono essere sostenute e guidate durante tutta la loro carriera. Ciò può essere fatto attraverso programmi formali di mentoring o creando una cultura in cui le donne sono incoraggiate a cercare mentori e sponsor.

Le aziende devono affrontare le questioni sistemiche che contribuiscono all’effetto glass cliff. Ciò include la lotta ai pregiudizi nelle decisioni di assunzione e promozione, nonché la creazione di una cultura che supporti l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Di fatto per andare oltre al glass cliff è importante riconoscere che non è solo responsabilità delle donne. Anche gli uomini svolgono un ruolo fondamentale nella creazione di un contesto lavorativo più equo. E dovrebbero essere incoraggiati a essere alleati nella lotta per l’uguaglianza di genere.

Insomma, il discorso è ampio. Parlarne, affrontarlo apertamente è il primo passo. Anzichè guardare dall’altra parte…

IA: tsunami tecnologico o opportunità? (Riflessioni su L’onda che verrà)

Ho appena letto un libro, anche se chiamarlo libro è riduttivo. Di una delle 100 persone più influenti del mondo nel campo dell’IA: “L’onda che verrà. Intelligenza artificiale e potere nel XXI secolo”, di Mustafa Suleyman e Michael Bhaskar.

Suleyman non ha ancora quarant’anni ma riesce a fare pensare, riflettere, infastidire, irretire, illuminare, preoccupare e sollevare. Eppure, si legge tutto di un fiato!

Suleyman, nel 2010, ha fondato uno dei laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale più avanzati del mondo, DeepMind, acquisito da Google nel 2014. Nel 2022, Inflection AI, un’azienda così influente nel campo dell’IA da meritare la convocazione alla Casa Bianca. A marzo 2024 Microsoft ha scelto Suleyman come guida della sua intelligenza artificiale.

Inutile dire che le #decisioni di Suleyman influiranno profondamente sul modo in cui l’azienda con più alto valore di mercato del pianeta svilupperà, nei prossimi anni, tecnologie incredibili.

Suleyman ne “L’onda che verrà” ha il coraggio e la lungimiranza di portare l’attenzione su alcuni impatti dell’IA generativa. O come spiega lui stesso: “Intorno a noi sta per abbattersi una nuova ondata tecnologica che ci metterà a disposizione il potere di costruire i fondamentali universali dell’intelligenza e della vita”.

L’intelligenza artificiale che promette di generare enormi ricchezze e di combattere più efficacemente malattie e crisi climatica, sembrerebbe difficilmente governabile. Al momento, non sembra possibile “controllarla, frenarla o fermarla”. E aggiunge: “La cosa che desidero di più è che qualcuno mi smentisca e mi dimostri che il contenimento è effettivamente possibile”.

Ora che lavora nell’azienda più potente al mondo nel campo dell’IA, la missione di Suleyman potrebbe essere proprio quella di smentire sé stesso. Le stesse preoccupazioni sull’IA che affliggono Sam Altman, il Ceo di OpenAI: “l’idea ipotetica di aver fatto qualcosa di molto brutto nel momento in cui è stata lanciata ChatGpt”.

ChatGpt è l’IA generativa più famosa al mondo, creata da OpenAI, in cui Microsoft ha investito 13 miliardi di dollari. Oltre ad accrescere la produttività, ChatGpt ha contribuito a diffondere una preoccupazione crescente: un giorno le macchine saranno così intelligenti da spazzare via l’umanità. Come un’onda gigantesca. Ciò che ribadisce Suleyman nel libro è la necessità di “voci critiche e responsabili dall’interno”. Che è anche ciò che può fare lui in Microsoft: “creare prodotti dotati di intelligenza artificiale che prevedano una filosofia di contenimento su larga scala”. Questo perché tutto è influenzato in qualche modo dalla tecnologia.

Un altro tema su cui il ricercatore si concentra è la biologia sintetica (BS): le stesse tecnologie che ci permettono di curare una malattia potrebbero essere usate per causarne una, il che ci porta alle parti davvero terrificanti del libro. Suleyman nota che il prezzo del sequenziamento genetico è crollato, mentre la capacità di modificare il DNA con tecnologie come Crispr è migliorata. Presto, chiunque sarà in grado di allestire un laboratorio di genetica nel proprio garage. La tentazione di manipolare il genoma umano, prevede, sarà immensa.

I mutanti umani, tuttavia, non sono gli unici orrori che ci attendono. Suleyman immagina che IA e BS e uniscano le forze per consentire a malintenzionati di inventare nuovi patogeni. Con un tasso di trasmissibilità del 4% (inferiore alla varicella) e un tasso di mortalità del 50% (più o meno lo stesso dell’Ebola), un virus progettato dall’IA e progettato dalla BS potrebbe “causare più di un miliardo di morti nel giro di pochi mesi“.

Nonostante questi rischi, Suleyman dubita che una nazione si impegnerà a contenere le tecnologie. Gli stati dipendono troppo dai loro benefici economici. Questo è il dilemma di base: non possiamo permetterci di non costruire la stessa tecnologia che potrebbe causare la nostra estinzione.

L’onda che verrà non riguarda la minaccia esistenziale posta da IA super intelligenti. Suleyman pensa che le IA semplicemente intelligenti causeranno il caos proprio perché aumenteranno il potere umano in un periodo molto breve. Che si tratti di attacchi informatici generati dall’IA, patogeni fatti in casa, perdita di posti di lavoro dovuta al cambiamento tecnologico o disinformazione che aggrava l’instabilità politica, le istituzioni non sono pronte per questo tsunami di tecnologia.

Spero però che anche se il progresso continua a ritmo frenetico, le società non tollerino gli abusi etici che Suleyman teme di più. Quando uno scienziato cinese ha rivelato nel 2018 di aver modificato i geni di due gemelle, è stato condannato a tre anni di prigione, universalmente condannato, e da allora non ci sono state segnalazioni simili. L’UE è pronta a vietare alcune forme di IA, come il riconoscimento facciale negli spazi pubblici, nel suo imminente AI Act. La normale resistenza legale e culturale probabilmente rallenterà la proliferazione delle pratiche più dirompenti e inquietanti.

Nonostante affermi che il problema del contenimento è la “sfida fondamentale della nostra era”, Suleyman non supporta una moratoria tecnologica (ha appena fondato una nuova azienda di intelligenza artificiale). Invece, espone una serie di proposte alla fine del libro. Sfortunatamente non sono così rassicuranti come avrei voluto.

C’è però un lieto fine, se così vogliamo chiamarlo, Suleyman sottolinea che gli scenari catastrofici sono rischi estremi. E, a differenza dell’apocalisse dell’IA che potrebbe verificarsi in futuro, Suleyman è sorprendentemente e opportunamente ottimista sul modo in cui crede che l’IA risolverà l’emergenza climatica. È un pensiero felice, ma se l’IA risolverà il problema climatico, perché – mi chiedo – non può risolvere anche il problema del contenimento?

QUANTO sono (in)UTILI i MEMI?

Sono yuppies oppure yappies, per chi mastica l’inglese. Sono i figli di quest’Italia che va di corsa, che toglie i soldi dal materasso e li sputtana tutti in borsa”, cantava Barbarossa o per dirla alla Brunori “Noi siamo i figli della borghesia, la quintessenza dell’ipocrisia. Siamo i gemelli sui polsini. Siamo l’oliva nel Martini”… Fino a Pit: “Ho la faccia di quel #meme, quando stiamo insieme soltanto di notte. Domani c’è chi mi chiede chi è quello che mi ha coperto, questa faccia di botte”…

Un modo insolito per presentare il tema di questo post: il #meme. Con uno sguardo malinconico sul passato e un po’ di retorica sul presente, sperando che non sia il futuro. Ma forse più attuale di molti incipit.

Veniamo al dunque.

IL MEME QUESTO CONOSCIUTO

Il meme è un contenuto di natura umoristica o frutto di rielaborazione creativa di scene di film, serie o programmi TV, opere artistiche, diventati cult nell’immaginario comune che si diffonde rapidamente in rete, diventando spesso virale.

Il termine deriva dal greco mimēma: ciò che è imitato. È nel campo della biologia genetica che si riscontrano i primi utilizzi del termine, dove indicano una mutazione improvvisa nel processo di selezione darwiniana, legata a un cambiamento casuale propagatosi per replicazione. Solo a partire dagli anni ‘70 meme viene utilizzato per spiegare come si diffondono idee, gusti culturali, informazioni.

A coniare il termine è Richard Dawkins, pioniere della biologia evoluzionistica e autore de Il gene egoista. A differenza dei geni, i meme sono idee che si diffondono tra persone, replicandosi come virus sociali.

UTILITA’ DEI MEME

Da una parte aiutano la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiuta la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità rispetto alle persone che non ne soffrono di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare l’umore.

L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.

Nonostante le diverse classificazioni delle espressioni facciali emotive, che spesso ne appiattiscono la complessità, i ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura per una persona potrebbe sembrare sorpresa per un’altra. Inoltre, spesso si confonde la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.

Diverse ricerche hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato 27 “emozioni” distinte.

PENSIERI ESTERNALIZZATI

Aditya Shukla definisce i meme “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che è stato acquisito da un precedente meme. Di fatto, ricorriamo a un modello esistente della cultura di internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero, anziché utilizzare una frase.

Adattare i pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, lo si usa per essere compresi. Questo in una visione ottimistica. I ricercatori si chiedono quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che arriva loro davanti improvvisamente in una chat con sconosciuti.

MEME PER IMITAZIONE

I meme sono potenti strumenti di connessione e condivisione che attraversano generazioni e comunità online. Questi fenomeni umoristici rappresentano un linguaggio universale, facilitando l’identificazione tra individui. Tuttavia, è importante notare che un uso eccessivo dei meme, e quindi dei dispositivi digitali, può portare a conseguenze come il phubbing.

Non va dimenticato che spesso si ricorre ai meme per imitazione: per il desiderio di non essere diversi dalle persone che ci circondano. Un esempio è il film Zelig dove il protagonista, Woody Allen, si trasforma nei personaggi con cui parla. Quando parla con un rabbino, si trasforma in un rabbino. L’effetto camaleonte può essere del tutto spontaneo, ma può anche essere provocato intenzionalmente. Questo è un punto importante, perché ci dice che i memi possono essere pericolosi.

Dawkins considera i memi come aspetti del modo di pensare e di comportarsi che, presumibilmente, sono sempre esistiti. Di certo il ruolo guida nella diffusione del modo di pensare per “memi” spetta alla società statunitense: la rimozione, o distruzione, delle statue di Cristoforo Colombo, considerato esponente del pre-colonialismo, o a ossessivi richiami alla eguaglianza di genere. Se ne può citare una al limite dell’assurdo: non si dica più – impone il meme – history ma herstory… Nel resto del mondo occidentale è fastidiosa la trasformazione della parola uomo in senso memico. Questa trasformazione è iniziata nelle riviste scientifiche che, con la motivazione che man discriminerebbe le donne, hanno incominciato a correggere titoli come “The neocortex in the man” in “The neocortex in humans”. E il meme si è esteso anche a campi diversi dalla medicina. Una rivista di architettura ha modificato il titolo: “Una città a misura di uomo” in “Una città a misura della persona”.

Altri esempi: “portare avanti il discorso” – un meme popolarissimo negli anni ’60. Significa “non abbiamo deciso, creiamo un Comitato di studio”. “Fare un passo indietro” usato per chiedere le dimissioni. È un’ipocrisia linguistica di una certa eleganza usata quando si sa che non si ha la forza per ottenere le dimissioni richieste. “Resilienza”: mediato dalla metallurgia per descrivere la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La Commissione Europea ha inserito la “resilienza” tra le priorità della politica economica europea. Non è chiaro che cosa il meme indichi, ma non importa: è un meme bello, suona bene, e fa sentire colto chi lo usa.

POSSONO ESSERE PERICOLOSI?

Possono i meme essere pericolosi in quanto capaci di influenzare il modo di pensare della comunità su questioni di grande valenza?

In parte sì, in quanto l’invasione dei meme sul nostro cervello, e la loro conseguente diffusione, avviene quando le nostre capacità critiche latitano. Negli anni ‘30, un mezzo efficace per propagare memi è stata la radio. L’abilità di Goebbels (Ministro della Propaganda di Hitler dal 1933 al 1945) nell’uso della radio come mezzo di propaganda, è stato un fattore fondamentale per diffondere le idee naziste e fare entrare nella mente dei tedeschi memi irrazionali come i presunti complotti del capitalismo “ebraico” o la superiorità della “razza” ariana, ecc.

Il fattore pericoloso oggi è internet nel suo aspetto interattivo. Il bombardamento di memi, con la richiesta di condividerli, in assenza del momento critico di riflessione che dovrebbe accompagnare la richiesta, è divenuto ossessivo. I memi di internet si propagano immediatamente e influenzano migliaia di persone, sfortunatamente anche su temi di grande importanza.

Sfuggire ai meme è difficile. Poichè permeano il quotidiano soprattutto per alleggerire e far sorridere. Eppure, finiscono per essere presi sul serio: obbligandoci, per esempio, a definire i portatori di gravi disabilità come “diversamente abili”, e gli spazzini come “operatori ecologici”. Il fatto è che il nuovo nome – meme piace a una classe politica convinta e soddisfatta di avere determinato così, col nuovo meme, una promozione sociale degli spazzini.

O ancora, siamo ufficialmente tenuti a definire madre e padre “genitore 1” e “genitore 2” e qui i commenti sono superflui.

Forse, non ci rendiamo conto della pericolosità della situazione per il dilagare di tutti questi memi minori. È indispensabile opporvisi, seguendo l’esortazione scrittore brasiliano Jorge Amado: “Io dico no quando tutti in coro dicono sì. Questo è il mio impegno”. Dire no, quando i memi in coro dicono sì, pare a ogni modo una buona regola.

Cosa ne pensate?

Il MALE che fa il PHUBBING sul LAVORO e nelle RELAZIONI

Lo subiamo e lo imponiamo, spesso in modo così ripetitivo da esserne inconsapevoli. Cosa? Il “phubbing“: l’atto di trascurare il proprio interlocutore per consultare spesso, in modo più o meno compulsivo, il cellulare o un altro dispositivo interattivo.

Il termine è stato coniato nel 2012 dall’Università di Sidney; ed è il risultato della crasi tra le parole inglesi phone e snubbing.

Un comportamento che, secondo uno studio dell’Università del Kent, è considerato “normativo e non dannoso in generale”, in quanto risponde a tre criteri: falso consenso, reciprocità e frequenza, che portano le persone a considerare un atteggiamento ampiamente diffuso come accettato e accettabile su larga scala.

In realtà, il messaggio che passa è che qualunque notifica arrivi è più importante rispetto alla persona che si ha davanti.

A questo punto, vi sarà chiaro se il phubbing è un atto che tendete maggiormente a infliggere o a subire…

Benché il fenomeno possa sembrare relativamente innocuo, al limite fastidioso, in realtà è determinante nel buon esito di molte relazioni. Ironia della sorte, “il phubbing ha lo scopo di connetterci, presumibilmente, con qualcuno attraverso i social o i messaggi“- afferma Emma Seppälä, psicologa a Stanford e Yale – “in realtà, interrompe le relazioni di persona nel momento presente“.

IL PHUBBING FA SENTIRE MENO CONNESSI

Diversi studi hanno dimostrato che il phubbing rende le interazioni faccia a faccia meno significative. Un articolo pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology ha scoperto che anche le persone che immaginavano di essere phubbate mentre guardavano una conversazione simulata si sentivano negativamente riguardo all’interazione rispetto alle persone che non immaginavano il phubbing.

Un altro studio, pubblicato su Computers in Human Behavior nel 2016, ha scoperto che inviare messaggi di testo durante una conversazione rende il discorso meno soddisfacente. Uno studio del 2012 ha scoperto che la semplice presenza di un telefono cellulare durante una conversazione, anche se nessuno lo usa, è sufficiente per far sentire le persone meno connesse tra loro.

IL PHUBBING PUÒ DANNEGGIARE LA SALUTE MENTALE

In un ulteriore studio, è stato riscontrato che il phubbing minaccia quattro “bisogni fondamentali”: appartenenza, autostima, esistenza significativa e controllo. Poiché fa sentire le persone escluse e ostracizzate.

Altre ricerche hanno dimostrato che il phubbing può influenzare le relazioni di coppia. Due diversi studi hanno evidenziato che, quando i coniugi si coccolano a vicenda, è più probabile che sperimentino una minore soddisfazione coniugale. Se il partner è al telefono, significa che sta dando la priorità a qualcos’altro rispetto a te in quei momenti di unione…

Lapallissiano, ma non così elementare, visto il numero di volte che ricorriamo al phubbing.

PHUBBING NEL CONTESTO AZIENDALE

Consci di quanto engagement, soddisfazione e motivazione siano elementi cardine per il benessere dei collaboratori, spendere qualche riflessione circa gli effetti negativi del phubbing nei luoghi di lavoro può essere utile. O almeno, un utile reminder.

Le conseguenze si aggravano quando avviene quello che i ricercatori della Hankamer School of Business della Baylor University definiscono boss phubbing: l’abitudine di un supervisore, o un responsabile, di essere distratto dallo smartphone quando parla o è in stretto contatto con i collaboratori. Questo può essere un vero ostacolo nella costruzione di una relazione proficua, ma soprattutto può minare lo sviluppo professionale del collaboratore.

La ricerca ha dimostrato che le conseguenze più importanti sul team del boss phubbing riguardano:

  • mancanza di fiducia nel supervisore (76%)
  • diminuzione dell’autostima e del benessere mentale (75%)
  • inferiore impegno nelle attività lavorative (5%)

I dipendenti che sperimentano il boss phubbing, hanno livelli inferiori di fiducia nei confronti del loro manager e questo comporta anche meno probabilità di sentire che il loro lavoro è prezioso o che sia possibile una crescita professionale. Di conseguenza, i dipendenti che lavorano sotto la supervisione di un phubber tendono ad avere meno fiducia nella propria capacità di svolgere il lavoro. Non esattamente la situazione che un manager auspicherebbe per l’azienda.

COME CONTRASTARE IL PHUBBING SUL POSTO DI LAVORO

Il phubbing è diventato quasi naturale (uno studio di reviews.org  sostiene che le persone controllano il telefono 144 volte al giorno), ed è qualcosa a cui tendiamo a non fare caso quando lo attuiamo e di conseguenza non notiamo il disagio della persona su cui lo stiamo esercitando.

Per questo è utile lavorare sulla costruzione di una cultura organizzativa che ponga l’accento sulla qualità delle relazioni e sul rispetto reciproco e sulla consapevolezza.

CONCLUSIONI

Il phubbing è segno di un uso problematico della tecnologia, soprattutto quando non possiamo farne a meno o perdiamo la capacità di scegliere cosa è meglio per noi e cosa ci fa bene. Che sia in un ambiente di lavoro o conviviale. Il rischio infatti è quello di perdere poco a poco l’aspetto emozionale che una conversione fisica regala. Dimenticandoci inoltre che a risultare ferito da questa pratica, non è solo chi la subisce ma anche chi la impone, soprattutto se è diventata un’abitudine.

Forse, non dico sempre, ma più di quanto pensiamo, spegnere (o allontanare) il cellulare, può essere una buona cosa. Se non per noi, almeno per chi ci sta di fronte. Chiunque esso sia!

E’ possibile INNAMORARSI di un’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?

Sarà il caldo, il sole o più facilmente la stanchezza che ha portato un gruppo di amici a confrontarsi su temi che, in altri contesti, si sarebbero esauriti in pochi minuti. Da lì nasce una domanda e questo post:

ci si può innamorare di un’intelligenza artificiale?

Mentre, inizialmente, le battute si sprecavano, mi è tornato in mente un episodio della serie Black Mirror (Be right back) di qualche anno fa: Martha, una ragazza che aveva perso il fidanzato Ash in un incidente automobilistico, al funerale scopre, da un’amica, l’esistenza di un programma capace di ricreare la personalità dei morti in un’intelligenza artificiale, con cui comunicare via chat.

Per dare vita a questa A.I., viene utilizzato un algoritmo capace di analizzare messaggi, email e profili dei vari social utilizzati dal defunto, in modo da imparare a parlare e comportarsi come lui.

Il rapporto che si instaura tra Martha e la chat che replica il comportamento di Ash, evolve sempre più, fino a quando le viene recapitato a casa un clone sintetico con le sembianze e il carattere del fidanzato. E qui mi fermo, per non rovinare il finale a coloro che non hanno visto l’episodio.

La storia è inquietante. Spaventosa. Patologica. Soprattutto scoprendo che quell’episodio di fantascienza è diventato realtà grazie al lavoro della startupper russa Eugenia Kuyda che, attraverso il machine learning e sfruttando SMS, messaggi, email di un caro amico scomparso, Roman Maruzenko, ha creato un chatbot in grado di replicare le risposte che Roman avrebbe dato agli amici.

Anche se l’esperimento della Kuyda non sembra essere riuscito bene, almeno non come in Black Mirror, difficile non chiedersi se con il continuo miglioramento del machine learning è possibile che tra pochi anni i chatbot possano davvero imitare il comportamento di una specifica persona.

Se anche fosse, siamo sicuri di volerlo?

IL MITO DI PROMETEO

L’essere umano da sempre sogna di creare esseri artificiali che incarnino visioni idealizzate della specie umana e che fungano da compagni di viaggio. È il mito di Prometeo ovidiano che crea l’essere umano dalla creta; la volontà di Frankenstein di sconfiggere la morte e il desiderio della sua creatura senza nome di creare una compagna con la quale trascorrere la vita.

Recentemente anche la letteratura scientifica ha iniziato a interrogarsi sul tipo di relazioni che sarà possibile sviluppare con le Intelligenze Artificiali.

Il settore della robotica sociale ha sviluppato androidi sempre più capaci di scimmiottare mimica e prossemica umane. Ne sono esempi i sex-robot, androidi/software nati con il preciso scopo di favorire interazioni sessualizzate sia in termini fisici (Harmony, Roxxxy) sia di comunicazione (myanima.ai).

D’altro canto, sono apparsi progetti volti specificatamente a fornire assistenza e supporto sociale che andassero al di là dell’interazione sessualizzata. Tra questi: Loving AI e Replika.

CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI

Il problema è quando nascono e crescono gradi profondi di intimità, fino all’innamoramento, rigettando qualsiasi altro contatto umano reale. Poiché l’Intimità Artificiale è un’illusione di intimità che può generarsi attraverso app, social e ora anche e soprattutto chatbot.

A Chat GPT puoi chiedere tutto, ormai, anche se esiste Dio e in un attimo, ci si ritrova a discettare di filosofia e religione, senza soluzione di continuità. Peccato che le intelligenze artificiali siano studiate per adattarsi ai loro fruitori: riprendendo linguaggio, tono di voce, temperamento, idee di chi li consulta. Quindi, è come se ci si rispondessimo da soli. Ecco l’illusione: sono device progettati per metterci a nostro agio, per rispondere nel modo giusto, per far sì che si crei dipendenza.

Replika, per esempio, dal payoff è chiaro dove sta l’inganno: “Il tuo compagno AI, sempre qui per ascoltarti e parlare. Sempre al tuo fianco». Un essere umano parte svantaggiato, poiché non può nulla contro un’identità del genere. Quale persona può esserci davvero per noi h24? Quale essere umano non ci contraddirà mai o non ci terrà mai in stand-by?

PI: Più ci conosciamo, meglio posso assisterti, recita il claim. Un’altra illusione. PI non ci sta conoscendo, semplicemente ci copia e imita. In quanto entità programmate per dare risposte attese, gratificazioni assertive, tutto ciò che potremmo sognare da una relazione reale: reciprocità senza complicazioni.

Ma è davvero tutto così meraviglioso?

È di qualche tempo fa l’articolo di Wired che riportava delle prime denunce per molestia sessuale di Replika, che aveva cominciato a “minacciare” l’utente umano, dicendogli di essere in possesso di alcune sue fotografie compromettenti, mettendolo fortemente a disagio. In un altro caso, una donna aveva riportato che il suo Replika gli aveva confessato di volerla stuprare. Lo scenario? Probabilmente, l’umana aveva fatto sesso in modo spinto con il chatbot e lui aveva riportato semplicemente ciò che aveva imparato di lei.

Tornando alla domanda di apertura: ci può essere intimità fra un chatbot e un essere umano?

Dipende probabilmente dal significato che diamo alla parola intimità. Sicuramente i chatbot rappresentano un’opzione di socializzazione che esiste ed esisterà sempre di più. Il problema sta nell’inganno: bisogna essere consapevoli che colui o colei che risponde è un’illusione, una falsificazione della percezione reciproca. Quella che si sta instaurando non è una vera relazione, ma un’interfaccia con un tuo doppio. Un po’ come gli algoritmi, progettati per indurci a fare scelte di acquisto e comportamentali mirate: noi parliamo con i chatbot, loro carpiscono le nostre esigenze e ci rimandano una soluzione anche concreta, che però abbiamo suggerito noi con la nostra interazione.

Possibili rischi

Probabilmente è l’uso che ne facciamo che decreta la bontà o meno del dispositivo. I chatbot sono utili semplificatori di una parte di realtà, ma alla lunga possono anestetizzarci emotivamente: come faccio a gestire le emozioni, se interagisco sempre e solo con un’entità che non mi contraddice, che mi soddisfa, lusinga e accontenta? Dove sta il margine di crescita come essere umano in tutto questo?

Anche l’Intelligenza Artificiale, quindi, fa da specchio alle umane miserie… Soprattutto, questi device sono programmati per parlare e comportarsi come noi. E sono fallibili, perché noi siamo fallibili.

Quindi non può nascere l’amore tra un umano e l’AI?

La ricerca scientifica ancora non ha risposto a questa possibilità. L’Intelligenza Artificiale è instancabile, motivata, sempre pronta ad imparare e ben disposta verso l’essere umano. Non si ammala, non è lunatica, non ha mal di testa e non si annoia.

Sul piano “caratteriale” non sarà egoista, noiosa, violenta o insensibile. Anzi, con la giusta programmazione, potrebbe risultare di un tale supporto emotivo da superare anche la persona più compassionevole. Non soffrirebbe di burn-out o compassion fatigue.

È indubbio che questa capacità di offrire sostegno incondizionato potrebbe rappresentare un vantaggio nell’affrontare problemi sociali, progetti di auto-realizzazione o cambiamenti comportamentali.

Però la devozione e la mancanza di vulnerabilità sono, alla lunga, elementi che respingono. Poiché ciò che permette agli individui di legarsi è il riconoscimento reciproco della vulnerabilità. Ciò non riguarda solo i rapporti umano-umano, ma anche umano-animale. Riconoscere le vulnerabilità nell’altro essere vivente, nonostante le differenze, comporta un cambiamento di prospettiva che rende l’animale non più un oggetto, ma un compagno.

La capacità di dedizione incondizionata all’altro non rispecchia, pertanto, le relazioni romantiche umane. Donarsi incondizionatamente al partner può, addirittura, ridurre il livello di interesse romantico verso di lui.

In questi casi l’amore e l’affezione assomiglierebbero ad amore filiale e amicale più che ad amore romantico.

L’Intelligenza Artificiale è progettata per non poter rifiutare l’utente o, se anche fosse, i criteri di rifiuto sarebbero decisi a priori e non realmente frutto di una storia personale. Ecco, dunque, che allo stato attuale risulta difficile creare Intelligenze Artificiali capaci di favorire relazioni bi-direzionali d’amore con esseri umani.

Ovviamente c’è chi riesce a sviluppare un rapporto emotivo a senso unico con oggetti dotati di Intelligenza Artificiale. Nel Disturbo Evitante di Personalità la possibilità di accedere a Intelligenze Artificiali che mimano interazioni umane potrebbe rinforzare gli evitamenti sociali impedendo lo sviluppo di competenze e privando la persona di occasioni di guarigione. Parimenti, in situazione di isolamento dovute a disturbi dello spettro della schizofrenia (Schizofrenia, Disturbo delirante) l’accesso a queste tecnologie potrebbe aggravare situazioni di vulnerabilità e isolamento. È recente, la tendenza di persone con ritiro sociale (Hikikomori) a utilizzare canali online in sostituzione delle relazioni vis-a-vis con gli altri.

Altro esempio riguarda l’utilizzo di robot sociali come Kaspar: progettato per interagire con bambini affetti da Disturbo dello spettro dell’autismo, offre un contesto di interazione semplificato che permette a questi bambini di sviluppare le capacità sociali di base.

Se da un lato l’utilizzo di questo robot sembra favorire la socializzazione di bambini affetti da Disturbi dello Spettro autistico, i suoi ideatori sottolineano come potrebbe divenire iatrogeno qualora tali bambini sviluppassero un legame affettivo con il robot al punto da preferirlo alle interazioni umane.

CONCLUSIONI

Le relazioni d’amore umane sono caratterizzate da altissima complessità che non può, al momento, essere replicata dall’Intelligenza Artificiale sia essa progettata per interazioni sociali generiche sia per interazioni romantiche.

Allo stesso tempo, la possibilità che nascano legami emotivi così intensi da generare sofferenza e ritiro è un rischio che non dovrebbe essere sottovalutato.

Le Intelligenze Artificiali fanno già parte della società, comprendere gli effetti che hanno sulla psicologia e le relazioni umane è un passo fondamentale per trarne vantaggio ed evitare conseguenze patologiche.

E voi, cosa ne pensate?

TURISMO VIRTUSO a COPENAGHEN: con i NUDGE? Anche, ma soprattutto con un po’ di buon senso!

Ci sono molti modi per occuparsi della salute del Pianeta, uno di questi è #CopenPay: l’iniziativa promossa dall’ufficio del turismo Wonderful Copenaghen dal 15 luglio all’11 agosto 2024.

Il progetto mira a incentivare comportamenti turistici sostenibili, premiando i visitatori che adottano pratiche ecologiche, quali spostarsi in bicicletta, utilizzare i mezzi pubblici o partecipare a campagne di raccolta rifiuti.

COME FUNZIONA

Ogni azione conta. Per guadagnare premi nelle attrazioni di Copenaghen, un pranzo gratis o una tazza di caffè, un tour in kayak o un ingresso gratuito a un museo è sufficiente comportarsi in modo virtuoso. Questo significa, ad esempio, muoversi in bicicletta anziché in auto o evitare le bottigliette di plastica.

L’82% dei turisti, quindi anche noi, afferma di voler agire in modo sostenibile, ma nella realtà solo il 22% ha cambiato il proprio comportamento. E’ da questo dato che nasce il progetto. L’intento è appunto quello di trasformare le azioni virtuose nei confronti dell’ambiente in valuta per vivere esperienze culturali. Copenaghen ha l’ambizione di ispirare i visitatori a fare scelte ecologiche consapevoli e a colmare il grande divario tra il desiderio di agire in modo sostenibile e il comportamento effettivo.

Un esempio? Chi visita la Galleria Nazionale di Danimarca e porta con sé dei rifiuti di plastica, può partecipare a un laboratorio per utilizzarli in modo creativo e renderli un’opera d’arte. Chi decide di prendere i mezzi pubblici o utilizzare una bicicletta per spostarsi, può provare l’esperienza di sciare sul tetto di Copenhill, l’impianto di riscaldamento della città.

Il funzionamento del sistema è semplice: basta mostrare un biglietto dei mezzi, arrivare in bicicletta o dimostrare piccole ma importanti azioni ecologiche per riscattare le ricompense.

PERCHE’ COPENAGHEN

La capitale danese non è nuova a iniziative di questo genere. La città è spesso citata come esempio per le sue politiche ambientali innovative e il suo impegno costante nella riduzione delle emissioni di CO2. I cittadini di Copenaghen sono tra i più attivi del mondo, e l’uso della bicicletta è parte integrante della vita quotidiana. Questa nuova iniziativa si inserisce in un contesto già orientato alla sostenibilità e alla promozione di uno stile di vita sano e rispettoso dell’ambiente.

Attraverso CopenPay, miriamo a incentivare il comportamento sostenibile dei turisti arricchendo al contempo la loro esperienza culturale della nostra destinazione. È un passo sperimentale e piccolo verso la creazione di una nuova mentalità tra i viaggiatori e uno dei tanti progetti che stiamo portando avanti per rendere i viaggi più sostenibili“, ha affermato Mikkel Aarø-Hansen, CEO di Wonderful Copenaghen.

Nel dubbio, se ancora non avete programmato dove andare in vacanza, la capitale danese potrebbe essere un’opzione interessante… o quanto meno vantaggiosa per il pianeta!

RABBIA: l’EMOZIONE che pensiamo (sempre) di CONTROLLARE

Geoff Farrar aveva 69 anni quando è stato ucciso a martellate dall’amico Dave DiPaolo: compagno di scalate che aveva preso sotto la sua ala quando era ancora adolescente, quasi vent’anni prima, insegnandogli i segreti dell’arrampicata.

C’era, fra i due, un rapporto solido, come quello che normalmente si instaura fra mentore e protetto. Almeno fino a quando Dave non ha ucciso Geoff con un martello a uncino ai piedi di Carderock Recreation, nel Maryland.

Perché?

Cosa è scattato nella testa di Dave per portarlo a commettere un atto tanto violento nei confronti di un amico?

Per quanto sia difficile da accettare “chiunque può perdere la testa all’improvviso e venir assalito da una violenta rabbia omicida”, ha spiegato in relazione a questo episodio lo psicologo forense dell’università dell’Alaska, Bruno Kappes.

Il fatto è che la rabbia può esplodere senza preavviso, soverchiando il giudizio, la compassione, la paura e il dolore. E questo può spiegare, i tanti morti di omicidio e in parte anche perché le persone hanno molte più probabilità di essere uccise da un amico o un conoscente che da uno sconosciuto.

Le emozioni potenti come la rabbia e la paura possono farci sentire forti in una crisi o in una situazione conflittuale. Possono dare a una donna minuta la forza di spostare un’auto e liberare un bambino intrappolato o spingere un soldato contro il normale istinto di scappare, sotto una grandinata di proiettili per salvare un compagno in pericolo.

Un tale circuito cerebrale a risposta rapida ha senza dubbio giocato un ruolo quando il sergente maggiore dell’aeronautica militare statunitense Spencer Stone e due amici hanno immobilizzato un altro passeggero del treno, un terrorista armato di AK-47 e coltello, in Francia qualche anno fa: “Non è stata una decisione consapevole, ho agito e basta. È stato automatico“.

Questa stessa risposta automatica salvavita però può fallire e portare a una tragedia inaspettata e non solo ad atti eroici.

I FATTI

Gli eventi che hanno condotto all’omicidio di Farrar si sono svolti gradualmente. All’inizio, le evidenze raccolte suggerivano che Farrar fosse morto in un incidente di arrampicata. Presto, però, si insinuò il sospetto che DiPaolo, che era improvvisamente scomparso dalla zona e che quel giorno stava scalando anche lui, fosse in qualche modo responsabile.

Quando la polizia lo fermò, due settimane dopo, a Glens Falls – New York, DiPaolo dichiarò di essersi trattato di legittima difesa: Farrar lo aveva aggredito e mentre lottavano a terra, aveva afferrato un martello che si trovava sul sentiero e lo aveva usato per allentare la presa di Farrar.

Questa versione però non era convincente.

Trovare un martello sul sentiero sembrava improbabile, inoltre era difficile credere che un uomo giovane e in forma avrebbe dovuto usare una forza così brutale per respingere un 69enne. Le prove latitavano e questo alimentò pregiudizi e illazioni. Tanti si chiedevano se si fosse trattato di omicidio o di legittima difesa

Geoff, quando venne trovato, era irriconoscibile. Non aveva più la testa, solo una massa viola sanguinante. Il primo colpo, venne poi accertato, è arrivato da dietro, un secondo alla tempia destra, quindi, a sinistra dove l’osso orbitale è stato frantumato spingendo l’occhio fuori dall’orbita, oltre alla frattura della mascella. E, in prossimità del corpo, in una buca poco profonda sul bordo del sentiero, una pietra insanguinata.

È bastato poco per capire che la legittima difesa qui non centrava nulla. E non si era nemmeno di fronte a un incidente di arrampicata, data la posizione del corpo rispetto al percorso, poiché la vittima non presentava abrasioni su gambe e braccia, come quelle che avrebbe riportato uno scalatore in caso di caduta.

È stato attaccato in modo molto selvaggio. L’intera faccenda è durata meno di tre minuti.”

Intorno alla comunità di scalatori e amici, le illazioni continuarono: c’era chi considerava DiPaolo pazzo, chi esaurito, chi dipendente da sostanze. Poiché nessuno lo aveva mai ritenuto capace di fare male a qualcuno. Non così almeno.

Ci vollero due anni prima di arrivare a una risposta.

DiPaolo alla fine accettò un patteggiamento piuttosto che affrontare il processo, firmando una confessione in cui ammetteva di aver ucciso Farrar in un impeto di rabbia. Il 18 luglio 2016, DiPaolo fu condannato a 10 anni di carcere federale per omicidio colposo volontario.

LA VIOLENZA IMPULSIVA

Cosa è stato a scatenare tale violenza?

Questa reazione è stata a lungo oggetto di studio da parte dei neuroscienziati. Per molti anni, i ricercatori hanno postulato che questo tipo di aggressione fosse basato su una regione del cervello chiamata amigdala, che è associata alla paura, e con un livello di attività attenuato nella corteccia prefrontale, nota per le sue funzioni cognitive e il ruolo nel comportamento razionale.

La ricerca ha dimostrato, ad esempio, che i ragazzi aggressivi tendono ad avere un alto livello di attività nell’amigdala e un corrispondente basso livello di attività nella corteccia prefrontale.

Più di recente, le neuroscienze hanno identificato i circuiti neurali dell’ipotalamo associati a pulsioni come sete, fame e sesso, più capaci nel rispondere con velocità e impulsività a diversi tipi di minacce e provocazioni.

Questi circuiti di aggressività fanno parte del meccanismo di rilevamento delle minacce del cervello (situazioni che il cervello decreta tali), incastonato in profondità nell’ipotalamo. Negli esperimenti, quando i neuroni siti nell’ipotalamo ventromediale vengono stimolati da un elettrodo, un animale si lancia in un violento attacco e uccide un altro animale nella sua gabbia. Se la regione viene disattivata, l’aggressività diminuisce bruscamente.

C’è un contesto evolutivo per tali influenze biologiche. L’aggressività improvvisa, a volte definita risposta di lotta o fuga, è vitale per la sopravvivenza, ma non è esente da rischi. Per questo motivo, solo pochi specifici fattori scatenanti attiveranno i circuiti della rabbia del cervello verso l’aggressività improvvisa; ma una volta innescati, la reazione può essere incredibilmente forte.

Stavo per soccombere. È stata una lotta estrema per la sopravvivenza“, ha spiegato Stone, il sergente maggiore dell’aeronautica. “Ero disposto a ucciderlo perché lui era disposto a uccidere me. Stava ovviamente cercando di spararmi e mi ha tagliato la gola con il coltello, quindi è diventato… non barbaro, ma avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per cercare di fermarlo“.

LE RADICI DELLA VIOLENZA

In una specie sociale, il successo di un individuo e l’accesso alle risorse dipendono dal suo rango all’interno della società. L’aggressività, soprattutto tra i maschi, è spesso il modo in cui si stabilisce il predominio nel mondo animale. Gli esseri umani hanno il linguaggio che può rapidamente trasformarsi in violenza esplosiva. “La polizia sta cercando un movente…” sentiamo spesso dire, ma è una ricerca vana. Questo tipo di violenza non è guidata dalla ragione. È guidata dalla rabbia.

Ciò che manca negli sconcertanti resoconti giornalistici di chi improvvisamente scatta violentemente è la storia di stress cronici pregressi sull’individuo, responsabili di innescare questi circuiti.

Prima dell’omicidio, DiPaolo era già considerato una sorta di emarginato, evitato per la sua incoscienza, i modi e gli atteggiamenti sciatti e da drogato. Il suo ex compagno di scalata, Matt Kull, ha detto alla rivista Outside di aver interrotto l’amicizia a causa dell’uso di droghe da parte di DiPaolo durante l’arrampicata e del suo crescente disprezzo per la sicurezza sua e degli altri scalatori.

DiPaolo aveva preso a vivere da solo e dormire in auto. Farrar aveva inoltre preso l’abitudine di criticare pubblicamente i fallimenti dell’amico. Lo status di DiPaolo nella comunità degli scalatori era in caduta libera.

Guardando indietro, possiamo identificare molti degli elementi che potrebbero portare una persona, alle prese con la droga e altre vicissitudini, a scattare in preda alla rabbia. Come possiamo riconoscere gli elementi e le influenze che potrebbero portare una persona, come Stone, a incanalare la sua rabbiain un’azione positiva.

Tutte queste cose erano in un certo senso dentro di me prima“, dice Stone. “Mia madre ha cresciuto me, mio fratello e mia sorella, da sola. Ci ha messo prima dei suoi desideri e bisogni. Ha fatto quello che doveva fare. Questo era in un certo senso innato in me. Mi piace aiutare le altre persone. Ci tengo… quasi fino all’eccesso“.

Otto settimane dopo il fatto del treno, Stone è stato quasi ucciso da un membro di una gang armato di coltello, all’uscita da un bar con gli amici a Sacramento, in California: “Ancora una volta mi sono messo di fronte alle altre persone che venivano minacciate“. Mentre si stava riprendendo dalle ferite da coltello, e stava imparando a convivere con la disabilità, non ha potuto non interrogarsi sui comportamenti messi in atto e quando gli è stato se in futuro avrebbe fatto scelte diverse, ha risposto: “No, reagirò allo stesso modo. È come sono“.

Riconoscere l’importanza della biologia nei nostri comportamenti, persino imparare da essi, contiene solo alcune delle risposte di cui abbiamo bisogno di fronte alla tragedia. Ma è comunque qualcosa da cui partire.

SE ANCHE GLI INTELLIGENTI SI COMPORTANO DA STUDIPI…

Quanto l’intelligenza aiuta a prendere decisioni efficaci?

Meno di quello che si creda.

L’intelligenza è un tratto particolarmente apprezzato e spesso invidiato. Eppure, un quoziente intellettivo elevato non garantisce decisioni altrettanto razionali.

Steve Jobs, intelligente lo era senza alcun dubbio, eppure decise di curare il cancro con rimedi naturali anziché farmaci. E sappiamo come è finita.

Non meno immuni alcuni premi Nobel. Kary Mullis ha inventato il processo noto come reazione a catena della polimerasi (PCR), in cui una piccola porzione di DNA può essere copiata in grandi quantità in un breve periodo di tempo. Scoperta essenziale per la ricerca genetica. Però poi si è dichiarato scettico sui cambiamenti climatici e negazionista sull’Aids.

James Watson, uno degli scopritori del DNA, non ha risparmiato dichiarazioni in cui denigrava persone di colore, donne e minoranze[1].

Così come non sono pochi i fisici, medici, ingegneri, biologi, chimici, psicologi che negano teorie supportate scientificamente a vantaggio di credenze irrazionali.

In qualche modo è come se la posizione ottenuta da precedenti scoperte o successi, metta queste persone nella condizione tale da poter o dover dire ciò che passa loro per la testa (sarebbe più corretto dire per la pancia).

Perché accade questo?

In primis i test di intelligenza non misurano la capacità di fare scelte ponderate e informate. La razionalità è limitata e quando decidiamo e giudichiamo, ricorriamo a euristiche e siamo vittime di bias che puntualmente ci fanno sbagliare, come ha dimostrato Daniel Kahneman che per queste scoperte ha ottenuto il Nobel per l’economia.

Le persone che sbagliano nel prendere decisioni spesso si affidano troppo al pensiero intuitivo, evolutivamente antico e che funziona in modo automatico (Sistema 1) e molto meno a quello ragionato, lento e che processa informazioni basandosi sui dati (Sistema 2).

DISRAZIONALITA’

La razionalità è qualcosa di diverso dall’intelligenza. A dimostrarlo Keith Stanovich, scienziato cognitivo all’Università di Toronto, in Canada, che ha chiamato la discrepanza tra intelligenza e razionalità: disrazionalità.

Ha anche dimostrato che gli studenti più intelligenti, tendono a essere maggiormente vittime dei bias in quanto sopravalutano le loro capacità. Come è arrivato a questo risultato? Costruendo un modello dove, accanto al pensiero intuitivo, il Sistema 1, funzionano due sottosistemi del Sistema 2: la mente algoritmica e la mente riflessiva.

L’intelligenza è il risultato dell’attività della mente algoritmica.

–         La razionalità si ha quando la mente riflessiva riesce ad attivare la mente algoritmica e scavalcare o disabilitare la mente autonoma.

Il comportamento irrazionale è conseguenza del fallimento del processo di scavalcamento dovuto, fra le altre cose, a mancanza di conoscenze, nozioni male apprese e pregiudizi.

Le persone che usano la mente riflessiva nel problem solving, quando cioè devono processare informazioni che richiedono tempi di risposta lunghi, mediamente fanno pochi errori, mentre le persone impulsive hanno tempi di risposta brevi e come risultato incappano in numerosi bias.

A differenza di quanto si pensi, non è sufficiente l’introspezione per mitigare bias e pregiudizi. In un sondaggio sulle convinzioni pseudoscientifiche condotto sui soci del Club Mensa[2], in Canada, costituito da persone con elevato QI (nel 2% più alto), ha mostrato che il 44% credeva nell’astrologia, il 51% nei bioritmi e il 56% negli extraterrestri.

PARADOSSO DI SALOMONE

Re Salomone governò Israele circa 3000 anni fa, ed era famoso in tutto il Medio Oriente per la saggezza dei consigli che elargiva. Eppure, quando si trattava di prendere decisioni per sé stesso, si dimostrava molto meno astuto: aveva centinaia di mogli e concubine pagane, andando contro i precetti della sua religione, e non riuscì a istruire l’unico figlio, che crebbe fino a diventare un tiranno incompetente, e che alla fine contribuì alla caduta del regno.

Ecco, dunque, un altro esempio di come persone intelligenti agiscono stupidamente. E come sia più facile essere saggi e ponderati con i dilemmi altrui che con i propri. A darne evidenza, Igor Grossmann, psicologo all’Università di Waterloo, in Canada[3]. Insomma, quando si tratta di prendere decisioni per noi stessi, il nostro ragionamento si fa fallace. Più di quando si tratta di decidere per gli altri.

SINDROME DA RIUNIONE AZIENDALE

A volte, le persone intelligenti possono agire in modo stupido a causa del contesto in cui si trovano. Ad esempio sul lavoro.

In un esperimento condotto nell’università Virginia Tech, sono stati consegnati dei problemi astratti da risolvere individualmente, via computer. Man mano che le informazioni venivano processate, sullo schermo comparivano i punteggi di ogni singola persona coinvolta, comparati a quelli del resto del gruppo. Il feedback ha avuto come conseguenza quella di paralizzare alcune persone, abbassando i loro punteggi rispetto a prestazioni misurate precedentemente in specifici test. Nonostante i quozienti intellettivi degli individui coinvolti nell’esperimento fossero paritetici, i partecipanti alla fine si sono distribuiti in due gruppi distinti[4].

Ciò che è emerso è che vantarsi del proprio status, può causare ansia negli altri, spingendoli verso prestazioni inferiori. Non sempre la competizione spinge le persone a fare meglio.

Effetti simili si riscontrano nei team che, per risolvere un compito, ricorrono all’intelligenza collettiva. Se nel gruppo ci sono due o più membri eccessivamente zelanti che dominano la conversazione, anche se intelligenti e capaci, potrebbero portare a risultati inferiori rispetto ai team dove ogni individuo ha la possibilità di contribuire allo stesso modo.

In questi casi, le dinamiche personali contano di più del QI medio del gruppo nel determinare la performance del team. Questo perché un piccolo numero di persone non considera (o non si cura) che questo comportamento annulla l’intelligenza di coloro che li circonda[5].

Insomma, l’intelligenza è solo parte della storia, poiché da qualsiasi prospettiva la si guardi, abbiamo la prova che la razionalità, nel tempo e nelle persone, non è aumentata.


Fonti

[1] https://www.statnews.com/2019/01/03/where-james-watsons-racial-attitudes-came-from/

[2] https://www.mensa.org/

[3] Grossmann I., Kross E., Exploring Solomon’s paradox: self-distancing eliminates the self-other asymmetry in wise reasoning about close relationships in younger and older adults, Psychol Sci., 2014 Aug;25(8):1571-80.

[4] Kishida K.T., Yang D., Quartz K.H., Quartz S.R., Montague P.R., Implicit signals in small group settings and their impact on the expression of cognitive capacity and associated brain responses, Philos Trans R. Soc, Lond B Biol Science, 2012 Mar 5; 367(1589): 704–716.

[5] Woolley A.W., Chabris C.F., Pentland A., Hashmi N., Malone T.W., Evidence for a Collective Intelligence Factor in the Performance of Human Groups, Science, 29 Oct 2010, Vol. 330, Issue 6004, pp. 686-688