Sono INTROVERSO e all’OCCORRENZA ESTROVERSO. Come contesto e obiettivi spingono fuori dalla zona di comfort

Ci sono due uomini:

  • il primo è un professore che ha l’abitudine di cantare, volteggiare sul palco, ed enfatizzare consonanti e vocali. 
  • il secondo vive con la moglie in una casa isolata in oltre due acri di boschi canadesi, dove occasionalmente riceve le visite di figli e nipoti, ma per il resto del tempo frequenta nessuno.

Due personalità distinte e riconoscibili. Peccato però che la prima persona vaudevilliana e la seconda solitaria, siano lo stesso uomo, l’ex professore di psicologia ad Harvard, Brian Little, a cui si deve la Free Trait theory. La teoria secondo cui ogni persona è incline ad attare la propria personalità in base al contesto e a ciò che vuole raggiungere.

LA TEORIA DEI TRATTI LIBERI

Little è il padre della teoria dei tratti liberi o Free Trait Theory in inglese. Secondo questa teoria gli individui esibiscono, allo stesso tempo, tratti caratteriali fissi e tratti liberi. Per la Free Trait Theory, siamo nati e culturalmente dotati di certi tratti di personalità – l’introversione, per esempio, ma possiamo agire diversamente per realizzare progetti personali fondamentali.

Per questo motivo un introverso può essere un appassionato conferenziere, e questo è un esempio di come gli introversi possono dire la loro in un mondo che dà tanta (troppa?) importanza agli estroversi. Little ritiene che ci siano molti individui pseudo-estroversi: persone pronte ad adattare la loro personalità nell’interesse di un progetto personale molto importante come, ad esempio, un lavoro che amano.

OBIETTIVO: SVILUPPO DI CARRIERA

Non è così semplice fingere di essere diversi da come si è anche quando si è molto ambiziosi.

Little crede infatti che abbiamo tratti caratteriali fissi che rimangono costanti per tutta la vita e ci influenzano profondamente. Quindi, come possono molti introversi agire fuori dal loro carattere? Secondo la teoria di Little, i progetti personali fondamentali, ovvero quegli obiettivi che contano davvero per noi, possono spingerci a comportamenti lontani dal nostro stesso modo di essere.

Per esempio, un introverso potrebbe essere un insegnante appassionato pur di condividere il suo entusiasmo per la sua materia. Attenzione però: non riuscirai ad agire fuori dal tuo tratto per portare avanti un progetto che non ti interessa abbastanza o a veramente. Tuttavia, gli introversi possono avere difficoltà a identificare i loro progetti personali fondamentali perché sono abituati a ignorare le proprie preferenze perchè il sentirsi a disagio in molte situazioni è un freno non da poco.

COME RICONOSCERE UN PROGETTO PERSONALE

1. Identifica i tuoi progetti personali principali

– Ripensa a quando da bambino, ti chiedevano cosa avresti voluto fare da grande. Qual era l’impulso dietro la tua risposta? Se volevi fare il medico, per esempio, cosa significava per te? Aiutare le persone che soffrivano?

– Quale lavoro hai poi scelto di fare? Quali caratteristiche di quel lavoro alimentano la tua passione?

– Cosa invidi? Sebbene la gelosia sia un’emozione che tendiamo a nascondere, indica spesso la verità su chi invidi e su ciò che ha e tu non hai.

Capire cosa ti motiva può aiutarti a determinare i tuoi interessi principali per i quali saresti e sei disposto a superare i limiti del tuo carattere.

 

2. Identifica la tua nicchia riparatrice

Una nicchia riparatrice è un posto importante e necessario in cui andare quando vuoi tornare al tuo vero io. Può essere fisico, come un bosco dove fare una passeggiata in tranquillità o semplicemente una poltrona in ufficio dove recuperare energia fra una riunione e l’altra.

La nicchia riparatrice è utile, ad esempio, quando si deve scegliere un nuovo lavoro.

Per gli introversi: chiediti se avrai la possibilità di dedicarti ad attività solitarie nell’arco della giornata lavorativa. L’area di lavoro è un open space o avrai il tuo ufficio?

Per gli estroversi: il lavoro implica l’interazione sociale, l’incontro con nuove persone e i viaggi? Il nuovo lavoro e il team saranno abbastanza stimolanti?

 

3. Utilizza gli accordi sui tratti gratuiti

Trovare nicchie riparative non è facile, ed è qui che arriva l’ultimo pezzo della teoria: gli accordi che dovrai fare con te stesso.

Gli accordi richiedono che tu sia consapevole che “agirai in modo diverso per una parte del tempo, in cambio dell’essere te stesso per la maggior parte del resto del tempo”. 

Ad esempio, una moglie estroversa e un marito introverso potrebbero concordare sul fatto che metà delle volte usciranno e l’altra metà rimarranno a casa. Oppure che l’uomo parteciperà alla festa di addio al celibato di un amico ma non al matrimonio.

Gli accordi sono più facili da definire nella vita personale, ma anche nella vita lavorativa vanno delineati e seguiti.

La persona più importante con cui avere un accordo sei tu. Più sei consapevole e hai chiari gli spazi di manovra e i confini, più ti sarà facile gestire contesti che poco ti appartengono.

In questo modo non ti sentirai in colpa o prigioniero di scelte che non sono dipese da te. L’agire prolungato in un modo che non fa parte di come sei, può avere effetti collaterali importanti quali stress, malattie cardiovascolari e aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo, che possono compromettere il funzionamento immunitario.

UN AVVERTIMENTO

I consigli mediati da Little non hanno lo scopo di cambiare il nostro carattere. Per quanto un estroverso si impegni non potrà mai diventare un introverso e viceversa.

L’esposizione prolungata in un tratto che non è il nostro, richiede un prezzo da pagare, ancor più se non si ha una nicchia riparatrice dove assecondare la propria prima natura.

Ciò che questa teoria insegna è che usciamo dalla nostra zona di comfort molto più di quello che pensiamo e ciò che ci spinge a farlo sono contesto e obiettivi. E’ una sorta di compromesso, non sempre facile da accettare, ma spesso necessario per ciò che per noi è importante. E spesso è così naturale che nemmeno ce ne rendiamo conto.

Stasera, a giornata conclusa, prova a pensare alle cose che ti hanno portato fuori dal tuo tratto naturale. Quanto ti è costato farlo e dove hai trovato la tua nicchia riparatrice, la tua zona di recupero. Potresti scoprire che “veleggi” fuori dalla tua zona di comfort molto più di quello che credevi.

Spesso professionisti e non, di tutti i tipi, cercano di venderci a peso d’oro percorsi, sessioni e corsi su come uscire dalla zona di comfort, sei ancora sicuro di averne bisogno?

PENSARE POSITIVO… Se fosse SOLO un MODO per VENDERCI QUALCOSA?

 

Se si digita “pensiero positivo” su un qualsiasi motore di ricerca, escono una grande quantità di articoli. La maggior parte con il chiaro intento di venderci la formula magica per una vita di successo, ricchezza e ovviamente salute. Ciò che tanti ignorano e a tanti fa comodo che non si sappia, è che pensare positivo non aiuta a raggiungere gli obiettivi, non ci rende persone di successo, non facilita la carriera e non ci rende nemmeno più simpatici.

Molto di ciò che si è detto e si dice sul pensiero positivo come panacea di tutti i mali e acceleratore di successo è falso. Così come è falso credere che sia sufficiente scrivere gli obiettivi su carta per renderli realizzarli.

Quest’ultima falsa credenza si deve a una ricerca che si fa ricondurre a Yale, nel 1953, dove a degli studenti sarebbe stato chiesto se avessero l’abitudine di scrivere gli obiettivi che intendevano raggiungere. Solo il 3% degli intervistati avrebbe risposto positivamente. Vent’anni dopo le stesse persone sarebbero state ricontattate, scoprendo che quel 3% rappresentava l’80% della ricchezza del paese. Questo studio viene citato ancora oggi per vendere alle persone il metodo infallibile per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Se così fosse, saremmo tutti persone di successo. Ciò che però molti non sanno è che quello studio non è mai stato svolto: è un falso. A scoprirlo, nel 1996, è stato Lawrence Tabak, giornalista della rivista Fast Company, su cui scrisse anche un pezzo: “If your goal is success, don’t consult these gurus” (Se il tuo obiettivo è il successo, non consultare questi guru).

Per comprendere meglio il fenomeno occorre però andare ancora più indietro nel tempo.

KEEP CALM AND CARRY ON

Se siete stati in un qualsiasi souvenir shop di Londra, non avrete potuto non notare la scritta Keep calm and carry on, impressa ovunque, dalle tazze da the, alle magliette, a una marea di accessori di ogni genere.

Nel 1939il governo inglese commissionò al ministero dell’Informazione una serie di poster di propaganda, con l’obiettivo di rassicurare i cittadini preoccupati per l’imminente conflitto. Furono realizzati tre diversi modelli, utilizzando un font creato appositamente e la corona Tudor come “marchio di garanzia”.

La versione Keep calm and carry on – di cui furono stampate 2,5 milioni di copie – fu tenuta da parte, per essere utilizzata solo in casi di grave crisi o invasione. Per tutta la durata del conflitto il Ministero dell’Informazione non ritenne opportuno diffondere l’ultima versione del poster, che non fu quindi mai mostrata al pubblico.

Per oltre 50 anni le copie furono conservate in qualche remoto archivio del Regno Unito, fino a quando, nel 2000, i proprietari di una piccola libreria si aggiudicarono all’asta un baule contenente libri usati. All’interno scoprirono il manifesto, che diventò subito richiestissimo prima tra i clienti del negozio e poi in tutta Europa.

Testate come il Guardian, The Independent e il New York Times si interrogarono sul perché questo poster riscuotesse tale successo, collegandone la fama al clima politico depresso e alla crisi economica che nel 2009 ricordavano il periodo pre-bellico.

Nonostante il contesto sia cambiato, una marea di coach, formatori, fanatici del fitness, guru spirituali e quant’altro continua a proporre la propria visione del mondo, frasi e post motivazionali dove, dicono, tutto è raggiungibile, se vuoi, e se non riesci è solo perché hai pensieri negativi.

TOXIC POSITIVITY

L’estremizzazione del pensiero positivo è stato chiamato in diversi modi: “Toxic positivity”, “Oppressive positivity”, “Fake positivity”, tutti termini che si riferiscono sia alla cultura dell’ottimismo tout court sia alla rigogliosa industria che la sostiene: il problema non è condividere la scritta “Stay positive” o frasi motivazionali, ma il fatto che chi le posta sta cercando di venderci qualcosa, con la promessa di cambiare le nostre vite in meglio. E poco conta se tanto ardore positivo abbia ben poca presa sulla sua…

Ciò che è utile sottolineare è che l’approccio, promosso da Martin Seligman ex presidente della American Psychology Association, divenuto famoso per i suoi studi sulla psicologia positiva, si concentrava sull’aspetto patologico della salute mentale, e non sull’ottimismo e la felicità. Questi concetti introdotti vent’anni fa, vengono spesso svuotati e semplificati per un consumo immediato diventando, come dice Nicholas Gilmore sul Saturday Evening Post, materiale “da workshop motivazionali e meeting aziendali”. Il marketing ha sempre sfruttato la felicità per venderci di tutto, ma ora sembra che si sia creata una “meta-industria” che usa questi valori non per proporci un prodotto, ma la felicità in sé.

Il sistema si autoalimenta in modo sapiente ma lascia poco spazio al pensiero critico: la falsa positività ci induce a nascondere le emozioni negative e riduce la complessità dei nostri sentimenti portandoci a valutare tutto in modo binario: buoni e cattivi, felici e tristi… che a lungo andare si rivela nocivo. La repressione genera frustrazione, e di conseguenza nuove emozioni negative: non basta fare pensieri felici per essere felici, anzi, questa convinzione può rivelarsi controproducente. Secondo due studi pubblicati dalla rivista scientifica Motivation and Emotion, le persone che credono che le proprie emozioni possano essere cambiate con la forza di volontà e la positività sono più inclini a incolparsi per le proprie emozioni negative.

L’idea che basti pensare positivo per far sì che le cose belle accadano, significa far ricadere la responsabilità delle esperienze e dei sentimenti negativi esclusivamente sulle scelte dell’individuo. Ma le persone non decidono di essere depresse, o tristi: la falsa positività è una forma di gaslighting, che invalida emozioni che tutti proviamo, con l’aggravante di farlo spesso nel nome del profitto.

LA CHIAVE è NELLA AGILITA’ EMOZIONALE

Essere positivi è diventata una nuova forma di correttezza morale”, ha spiegato la psicologa della Harvard Medical School Susan David in un Ted Talk, “Alle persone col cancro viene detto che basta pensare positivo. Alle donne viene detto di non essere così arrabbiate. E la lista va avanti. È una tirannia. È la tirannia della positività, ed è crudele, ingiusta e inefficace”. La cosa fondamentale per sottrarsi a questo dominio dell’ottimismo è interpretare le emozioni non come un’imposizione, ma come dati da cui partire per analizzare la propria condizione. Secondo la studiosa, la chiave è nella ‘agilità emozionale’. Uno strumento che consentirebbe di silenziare il giudizio sulle proprie emozioni, fino al punto di smettere di chiedersi se esse siano giuste o sbagliate. Per raggiungere questo obbiettivo può essere utile chiamare le emozioni con il loro nome. Rabbia con rabbia, odio con odio e non un generico ‘sono stressato’.

A sfatare l’idea che il pensiero positivo sia la soluzione ci hanno pensato anche Gabriele Oettingen e Thomas Walden dell’Università della Pennsylvania, i quali hanno seguito, per un intero anno, delle donne in sovrappeso iscritte a un programma di dimagrimento.

A inizio dieta, i ricercatori hanno sottoposto le donne a una serie di domande su come avrebbero affrontato l’anno, classificando le risposte sulla base della loro positività o negatività: quelle che davano importanza agli aspetti negativi della motivazione (“Non voglio mai più vedermi grassa”) e quelle che prestavano attenzione agli aspetti positivi (“Non vedo l’ora di poter indossare quei vestiti”).

Terminato l’anno, i ricercatori hanno scoperto che le donne motivate dal pensiero positivo erano dimagrite 12 kg in meno rispetto alle altre. Oettingen ha poi ripetuto questi studi anche in altri contesti, ottenendo risultati simili.

Non dimentichiamo quindi che il Keep calm and carry on serviva a nascondere agli inglesi che sarebbe arrivata l’invasione nazista.

LE RIUNIONI, quelle UTILI e che LE PERSONE AMANO (davvero)

A: sono esausto

B: cosa hai fatto oggi per essere tanto stanco?

A: sono stato in riunione tutto il giorno

B: Sì, ma cosa hai fatto?

A (esasperato): Te l’ho appena detto, sono stato in riunione tutto il giorno!

B: E io ti ho chiesto: cosa hai fatto?!

 

Questo è uno stralcio di conversazione avuta con un cliente. Gli ci è voluto un momento per capire dove volevo arrivare, stanco e frustrato per le ore di riunione che ha dovuto sostenere perché per lui, il lavoro, è ciò che accade tra una riunione e l’altra.

Nel peggiore dei casi, le riunioni sono simili a brevi prigionie che costringono a contare i minuti/ore che mancano al rilascio. Per fortuna, ci sono anche incontri utili, produttivi e divertenti.

Nel mio lavoro, ho trovato tre tipi di riunioni che vale la pena elencare.

 

I meeting a colazione

Il successo è legato alla capacità del team di condividere informazioni, e capire le giuste connessioni fra persone ed eventi. È utile, questa tipologia di incontri, per porre domande difficili e offrire feedback schietti e diretti. Oltre al fatto che incontrarsi fuori ufficio alimenta lo spirito di gruppo, il cameratismo, che va oltre il tempo del breakfast e fa sembrare le informazioni più preziose.

 

La mischia

L’ Economist ha  pubblicato un resoconto degli incontri editoriali del lunedì mattina in cui vengono presentate le storie, viene pianificata la copertina e discussa la posizione del settimanale sugli eventi globali.

Ciò che rende le riunioni dell’Economist così produttive è la loro natura egualitaria. Grado e ruolo viene messo da parte e tutti sono incoraggiati a contribuire.

“L’intero giornale si riunisce e chiunque, dallo stagista all’editor più anziano, può proporre e scrivere un articolo. Ciò che conta non è l’anzianità di un collaboratore, ma la forza e la qualità delle sue argomentazioni”.

Immagina se altre organizzazioni seguissero questa pratica. Il coinvolgimento aumenterebbe perché investirebbero nella discussione. I pregiudizi potrebbero essere mitigati e le opinioni divergenti palesate e dibattute. Le persone avrebbero la possibilità di affinare il loro pensiero critico e la capacità di argomentazione costruttiva. La qualità delle decisioni migliorerebbe.

 

Il focus

Ogni mattina dal 12 settembre 2001, le persone interessate alla sicurezza e alla protezione all’aeroporto internazionale di Boston Logan si incontrano per condividere informazioni sui probabili eventi della giornata. Scossi dagli attacchi dell’11 settembre, i funzionari hanno deciso che ottimizzare la collaborazione e il coordinamento tra le varie agenzie e società afferenti all’aeroporto, fosse fondamentale per migliorare la sicurezza. A differenza della maggior parte di tante nobili iniziative, questa dura sette giorni alla settimana da allora. Non è un incontro obbligatorio. Le persone continuano a partecipare perché lo trovano prezioso e utile.

L’incontro è incentrato su tutto ciò che potrebbe avere un impatto sull’aeroporto quel giorno o nell’immediato futuro: il ritorno a casa di una squadra sportiva, un temporale, i lavori in corso o un allarme dell’intelligence.  Tutto ciò che è rilevante per il gruppo è il benvenuto. Anche “oggi niente” è un contributo accettabile, e riduce al minimo la tentazione di riempire il tempo in modo infruttuoso. L’incontro dura non un minuto in meno o più del necessario, ma mai più di un’ora.

È un modo efficiente per connettersi, condividere, ricevere informazioni e porre domande. L’incontro è una componente chiave della costruzione di una cultura duratura in cui la collaborazione e il coordinamento attraverso i confini organizzativi sono la norma, eliminando la rete di canali secondari che può portare a lacune informative e incomprensioni.

 

4 CONSIGLI PER MIGLIORARE LE RIUNIONI AL LAVORO

Sebbene questi tre tipi di incontri siano molto diversi fra loro, ci sono alcuni concetti essenziali di facile applicazione.

  • Coinvolgi le giuste persone

Invita solo le persone utili. Sii chiaro sullo scopo, il formato, le decisioni necessarie da prendere e il risultato desiderato. Crea e definisci norme sociali che si allineino con quei parametri. Sii puntuale e mantieni la rotta.

 

  • Stabilisci le tempistiche

Le informazioni pertinenti devono fluire alle persone giuste al momento giusto. Le riunioni utili riducono al minimo le speculazioni e migliorano la coesione del gruppo.

 

  • Non tutto è per tutti

Non mettere tutte o tante persone in una stanza se è più utile agire per piccoli gruppi. Cerca di capire quando e che tipo di informazioni vanno condivise e come, e quale modo è più efficace.

 

  • Conosci il ROI

Anche le riunioni hanno dei costi. Calcola l’equivalente di stipendio approssimativo per le ore in cui le persone sono presenti e stima il ritorno su tale investimento, per ciascun partecipante. Qual è il contributo di ogni persona e cosa riceve in cambio? Qual è il ritorno per l’organizzazione? Un modo per scoprire se le persone ritengono che un incontro valga la pena è renderlo facoltativo e vedere chi si presenta.

Le riunioni scandiscono il ritmo della nostra vita organizzativa; in alcuni casi, sembrano essere fine a sé stesse. Ma gli incontri sopra descritti sono un utile investimento di tempo, talento ed energia. I partecipanti ricevono e danno valore. È così che crei incontri che le persone abbracciano con entusiasmo.