Sono INTROVERSO e all’OCCORRENZA ESTROVERSO. Come contesto e obiettivi spingono fuori dalla zona di comfort

Ci sono due uomini:

  • il primo è un professore che ha l’abitudine di cantare, volteggiare sul palco, ed enfatizzare consonanti e vocali. 
  • il secondo vive con la moglie in una casa isolata in oltre due acri di boschi canadesi, dove occasionalmente riceve le visite di figli e nipoti, ma per il resto del tempo frequenta nessuno.

Due personalità distinte e riconoscibili. Peccato però che la prima persona vaudevilliana e la seconda solitaria, siano lo stesso uomo, l’ex professore di psicologia ad Harvard, Brian Little, a cui si deve la Free Trait theory. La teoria secondo cui ogni persona è incline ad attare la propria personalità in base al contesto e a ciò che vuole raggiungere.

LA TEORIA DEI TRATTI LIBERI

Little è il padre della teoria dei tratti liberi o Free Trait Theory in inglese. Secondo questa teoria gli individui esibiscono, allo stesso tempo, tratti caratteriali fissi e tratti liberi. Per la Free Trait Theory, siamo nati e culturalmente dotati di certi tratti di personalità – l’introversione, per esempio, ma possiamo agire diversamente per realizzare progetti personali fondamentali.

Per questo motivo un introverso può essere un appassionato conferenziere, e questo è un esempio di come gli introversi possono dire la loro in un mondo che dà tanta (troppa?) importanza agli estroversi. Little ritiene che ci siano molti individui pseudo-estroversi: persone pronte ad adattare la loro personalità nell’interesse di un progetto personale molto importante come, ad esempio, un lavoro che amano.

OBIETTIVO: SVILUPPO DI CARRIERA

Non è così semplice fingere di essere diversi da come si è anche quando si è molto ambiziosi.

Little crede infatti che abbiamo tratti caratteriali fissi che rimangono costanti per tutta la vita e ci influenzano profondamente. Quindi, come possono molti introversi agire fuori dal loro carattere? Secondo la teoria di Little, i progetti personali fondamentali, ovvero quegli obiettivi che contano davvero per noi, possono spingerci a comportamenti lontani dal nostro stesso modo di essere.

Per esempio, un introverso potrebbe essere un insegnante appassionato pur di condividere il suo entusiasmo per la sua materia. Attenzione però: non riuscirai ad agire fuori dal tuo tratto per portare avanti un progetto che non ti interessa abbastanza o a veramente. Tuttavia, gli introversi possono avere difficoltà a identificare i loro progetti personali fondamentali perché sono abituati a ignorare le proprie preferenze perchè il sentirsi a disagio in molte situazioni è un freno non da poco.

COME RICONOSCERE UN PROGETTO PERSONALE

1. Identifica i tuoi progetti personali principali

– Ripensa a quando da bambino, ti chiedevano cosa avresti voluto fare da grande. Qual era l’impulso dietro la tua risposta? Se volevi fare il medico, per esempio, cosa significava per te? Aiutare le persone che soffrivano?

– Quale lavoro hai poi scelto di fare? Quali caratteristiche di quel lavoro alimentano la tua passione?

– Cosa invidi? Sebbene la gelosia sia un’emozione che tendiamo a nascondere, indica spesso la verità su chi invidi e su ciò che ha e tu non hai.

Capire cosa ti motiva può aiutarti a determinare i tuoi interessi principali per i quali saresti e sei disposto a superare i limiti del tuo carattere.

 

2. Identifica la tua nicchia riparatrice

Una nicchia riparatrice è un posto importante e necessario in cui andare quando vuoi tornare al tuo vero io. Può essere fisico, come un bosco dove fare una passeggiata in tranquillità o semplicemente una poltrona in ufficio dove recuperare energia fra una riunione e l’altra.

La nicchia riparatrice è utile, ad esempio, quando si deve scegliere un nuovo lavoro.

Per gli introversi: chiediti se avrai la possibilità di dedicarti ad attività solitarie nell’arco della giornata lavorativa. L’area di lavoro è un open space o avrai il tuo ufficio?

Per gli estroversi: il lavoro implica l’interazione sociale, l’incontro con nuove persone e i viaggi? Il nuovo lavoro e il team saranno abbastanza stimolanti?

 

3. Utilizza gli accordi sui tratti gratuiti

Trovare nicchie riparative non è facile, ed è qui che arriva l’ultimo pezzo della teoria: gli accordi che dovrai fare con te stesso.

Gli accordi richiedono che tu sia consapevole che “agirai in modo diverso per una parte del tempo, in cambio dell’essere te stesso per la maggior parte del resto del tempo”. 

Ad esempio, una moglie estroversa e un marito introverso potrebbero concordare sul fatto che metà delle volte usciranno e l’altra metà rimarranno a casa. Oppure che l’uomo parteciperà alla festa di addio al celibato di un amico ma non al matrimonio.

Gli accordi sono più facili da definire nella vita personale, ma anche nella vita lavorativa vanno delineati e seguiti.

La persona più importante con cui avere un accordo sei tu. Più sei consapevole e hai chiari gli spazi di manovra e i confini, più ti sarà facile gestire contesti che poco ti appartengono.

In questo modo non ti sentirai in colpa o prigioniero di scelte che non sono dipese da te. L’agire prolungato in un modo che non fa parte di come sei, può avere effetti collaterali importanti quali stress, malattie cardiovascolari e aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo, che possono compromettere il funzionamento immunitario.

UN AVVERTIMENTO

I consigli mediati da Little non hanno lo scopo di cambiare il nostro carattere. Per quanto un estroverso si impegni non potrà mai diventare un introverso e viceversa.

L’esposizione prolungata in un tratto che non è il nostro, richiede un prezzo da pagare, ancor più se non si ha una nicchia riparatrice dove assecondare la propria prima natura.

Ciò che questa teoria insegna è che usciamo dalla nostra zona di comfort molto più di quello che pensiamo e ciò che ci spinge a farlo sono contesto e obiettivi. E’ una sorta di compromesso, non sempre facile da accettare, ma spesso necessario per ciò che per noi è importante. E spesso è così naturale che nemmeno ce ne rendiamo conto.

Stasera, a giornata conclusa, prova a pensare alle cose che ti hanno portato fuori dal tuo tratto naturale. Quanto ti è costato farlo e dove hai trovato la tua nicchia riparatrice, la tua zona di recupero. Potresti scoprire che “veleggi” fuori dalla tua zona di comfort molto più di quello che credevi.

Spesso professionisti e non, di tutti i tipi, cercano di venderci a peso d’oro percorsi, sessioni e corsi su come uscire dalla zona di comfort, sei ancora sicuro di averne bisogno?

PENSARE POSITIVO… Se fosse SOLO un MODO per VENDERCI QUALCOSA?

 

Se si digita “pensiero positivo” su un qualsiasi motore di ricerca, escono una grande quantità di articoli. La maggior parte con il chiaro intento di venderci la formula magica per una vita di successo, ricchezza e ovviamente salute. Ciò che tanti ignorano e a tanti fa comodo che non si sappia, è che pensare positivo non aiuta a raggiungere gli obiettivi, non ci rende persone di successo, non facilita la carriera e non ci rende nemmeno più simpatici.

Molto di ciò che si è detto e si dice sul pensiero positivo come panacea di tutti i mali e acceleratore di successo è falso. Così come è falso credere che sia sufficiente scrivere gli obiettivi su carta per renderli realizzarli.

Quest’ultima falsa credenza si deve a una ricerca che si fa ricondurre a Yale, nel 1953, dove a degli studenti sarebbe stato chiesto se avessero l’abitudine di scrivere gli obiettivi che intendevano raggiungere. Solo il 3% degli intervistati avrebbe risposto positivamente. Vent’anni dopo le stesse persone sarebbero state ricontattate, scoprendo che quel 3% rappresentava l’80% della ricchezza del paese. Questo studio viene citato ancora oggi per vendere alle persone il metodo infallibile per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Se così fosse, saremmo tutti persone di successo. Ciò che però molti non sanno è che quello studio non è mai stato svolto: è un falso. A scoprirlo, nel 1996, è stato Lawrence Tabak, giornalista della rivista Fast Company, su cui scrisse anche un pezzo: “If your goal is success, don’t consult these gurus” (Se il tuo obiettivo è il successo, non consultare questi guru).

Per comprendere meglio il fenomeno occorre però andare ancora più indietro nel tempo.

KEEP CALM AND CARRY ON

Se siete stati in un qualsiasi souvenir shop di Londra, non avrete potuto non notare la scritta Keep calm and carry on, impressa ovunque, dalle tazze da the, alle magliette, a una marea di accessori di ogni genere.

Nel 1939il governo inglese commissionò al ministero dell’Informazione una serie di poster di propaganda, con l’obiettivo di rassicurare i cittadini preoccupati per l’imminente conflitto. Furono realizzati tre diversi modelli, utilizzando un font creato appositamente e la corona Tudor come “marchio di garanzia”.

La versione Keep calm and carry on – di cui furono stampate 2,5 milioni di copie – fu tenuta da parte, per essere utilizzata solo in casi di grave crisi o invasione. Per tutta la durata del conflitto il Ministero dell’Informazione non ritenne opportuno diffondere l’ultima versione del poster, che non fu quindi mai mostrata al pubblico.

Per oltre 50 anni le copie furono conservate in qualche remoto archivio del Regno Unito, fino a quando, nel 2000, i proprietari di una piccola libreria si aggiudicarono all’asta un baule contenente libri usati. All’interno scoprirono il manifesto, che diventò subito richiestissimo prima tra i clienti del negozio e poi in tutta Europa.

Testate come il Guardian, The Independent e il New York Times si interrogarono sul perché questo poster riscuotesse tale successo, collegandone la fama al clima politico depresso e alla crisi economica che nel 2009 ricordavano il periodo pre-bellico.

Nonostante il contesto sia cambiato, una marea di coach, formatori, fanatici del fitness, guru spirituali e quant’altro continua a proporre la propria visione del mondo, frasi e post motivazionali dove, dicono, tutto è raggiungibile, se vuoi, e se non riesci è solo perché hai pensieri negativi.

TOXIC POSITIVITY

L’estremizzazione del pensiero positivo è stato chiamato in diversi modi: “Toxic positivity”, “Oppressive positivity”, “Fake positivity”, tutti termini che si riferiscono sia alla cultura dell’ottimismo tout court sia alla rigogliosa industria che la sostiene: il problema non è condividere la scritta “Stay positive” o frasi motivazionali, ma il fatto che chi le posta sta cercando di venderci qualcosa, con la promessa di cambiare le nostre vite in meglio. E poco conta se tanto ardore positivo abbia ben poca presa sulla sua…

Ciò che è utile sottolineare è che l’approccio, promosso da Martin Seligman ex presidente della American Psychology Association, divenuto famoso per i suoi studi sulla psicologia positiva, si concentrava sull’aspetto patologico della salute mentale, e non sull’ottimismo e la felicità. Questi concetti introdotti vent’anni fa, vengono spesso svuotati e semplificati per un consumo immediato diventando, come dice Nicholas Gilmore sul Saturday Evening Post, materiale “da workshop motivazionali e meeting aziendali”. Il marketing ha sempre sfruttato la felicità per venderci di tutto, ma ora sembra che si sia creata una “meta-industria” che usa questi valori non per proporci un prodotto, ma la felicità in sé.

Il sistema si autoalimenta in modo sapiente ma lascia poco spazio al pensiero critico: la falsa positività ci induce a nascondere le emozioni negative e riduce la complessità dei nostri sentimenti portandoci a valutare tutto in modo binario: buoni e cattivi, felici e tristi… che a lungo andare si rivela nocivo. La repressione genera frustrazione, e di conseguenza nuove emozioni negative: non basta fare pensieri felici per essere felici, anzi, questa convinzione può rivelarsi controproducente. Secondo due studi pubblicati dalla rivista scientifica Motivation and Emotion, le persone che credono che le proprie emozioni possano essere cambiate con la forza di volontà e la positività sono più inclini a incolparsi per le proprie emozioni negative.

L’idea che basti pensare positivo per far sì che le cose belle accadano, significa far ricadere la responsabilità delle esperienze e dei sentimenti negativi esclusivamente sulle scelte dell’individuo. Ma le persone non decidono di essere depresse, o tristi: la falsa positività è una forma di gaslighting, che invalida emozioni che tutti proviamo, con l’aggravante di farlo spesso nel nome del profitto.

LA CHIAVE è NELLA AGILITA’ EMOZIONALE

Essere positivi è diventata una nuova forma di correttezza morale”, ha spiegato la psicologa della Harvard Medical School Susan David in un Ted Talk, “Alle persone col cancro viene detto che basta pensare positivo. Alle donne viene detto di non essere così arrabbiate. E la lista va avanti. È una tirannia. È la tirannia della positività, ed è crudele, ingiusta e inefficace”. La cosa fondamentale per sottrarsi a questo dominio dell’ottimismo è interpretare le emozioni non come un’imposizione, ma come dati da cui partire per analizzare la propria condizione. Secondo la studiosa, la chiave è nella ‘agilità emozionale’. Uno strumento che consentirebbe di silenziare il giudizio sulle proprie emozioni, fino al punto di smettere di chiedersi se esse siano giuste o sbagliate. Per raggiungere questo obbiettivo può essere utile chiamare le emozioni con il loro nome. Rabbia con rabbia, odio con odio e non un generico ‘sono stressato’.

A sfatare l’idea che il pensiero positivo sia la soluzione ci hanno pensato anche Gabriele Oettingen e Thomas Walden dell’Università della Pennsylvania, i quali hanno seguito, per un intero anno, delle donne in sovrappeso iscritte a un programma di dimagrimento.

A inizio dieta, i ricercatori hanno sottoposto le donne a una serie di domande su come avrebbero affrontato l’anno, classificando le risposte sulla base della loro positività o negatività: quelle che davano importanza agli aspetti negativi della motivazione (“Non voglio mai più vedermi grassa”) e quelle che prestavano attenzione agli aspetti positivi (“Non vedo l’ora di poter indossare quei vestiti”).

Terminato l’anno, i ricercatori hanno scoperto che le donne motivate dal pensiero positivo erano dimagrite 12 kg in meno rispetto alle altre. Oettingen ha poi ripetuto questi studi anche in altri contesti, ottenendo risultati simili.

Non dimentichiamo quindi che il Keep calm and carry on serviva a nascondere agli inglesi che sarebbe arrivata l’invasione nazista.

QUATTRO CONSIGLI per MEGLIO GESTIRE i CONFLITTI sul LAVORO

 

Noi, dobbiamo parlare…

Non è sempre facile mantenere la calma di fronte a un collega che con sguardo accigliato, le braccia incrociate e una richiesta perentoria, entra con violenza nel nostro ufficio. Eppure essere in grado di calmare la situazione e gestire il conflitto può fare la differenza. In termini di performance ma soprattutto di benessere.  Anche perchè un luogo di lavoro privo di conflitti non esiste. Per fortuna. Il confronto e talvolta anche lo scontro, se finalizzati, possono essere un modo per migliorare e crescere.

Occupandomi di emozioni, decisioni e comportamenti sono spesso chiamata a risolvere conflitti interni ai team e attraverso microinterventi aiuto le persone a gestire situazioni stressanti e complesse.

Ecco riassunte quattro strategie scientificamente supportate che possono tornare utili.

 

ASCOLTA

Chi è arrabbiato, di solito, ha un problema che deve risolvere. La cosa migliore da fare è ascoltare attentamente e cercare di comprendere la situazione, lasciando pregiudizi e giudizi al di fuori del contesto. Anche se ti rendi conto che non è un problema che si può risolvere sull’immediato, ascoltare è il modo migliore per andare avanti.

Le persone si sfogano perché vogliono sentirsi ascoltate o perché cercano empatia. In uno studio che ha analizzato la rabbia dei clienti nei confronti di alcuni prodotti, la semplice ricezione di una risposta da parte della azienda in questione, anche se non risolveva il problema, aumentava la fedeltà del cliente al brand[1]. Questo vale anche per te. Resisti alla tentazione di intervenire, alzare i toni o avviare un dibattito e fai del tuo meglio per essere presente. Nella maggior parte dei casi, il contenuto della tua risposta è meno importante del tuo semplice ascolto.

 

RICONOSCI COME SI SENTE L’ALTRA PERSONA

Per aiutare l’altro a sentirsi ascoltato, fai capire di aver compreso il suo punto di vista. Usa un linguaggio che rifletta ciò che ti è stato detto e fai attenzione a non minimizzare le emozioni. Sottovalutare i sentimenti è molto più costoso che sopravvalutarli[2].

Se il tuo collega è turbato, non dire: “Capisco che ti senti a disagio“. È meglio esagerare: “Capisco che sei devastato“.

Se anche tu sei contrariato per il problema in questione, riconosci apertamente i tuoi sentimenti: “Capisco perfettamente che sei arrabbiato. Sono ugualmente frustrato e condivido la tua preoccupazione“. Sopprimere le emozioni non aiuta: quando cerchiamo di nascondere come ci sentiamo, gli altri lo percepiscono e il rischio è che si sentiranno meno a loro agio con noi[3].

 

CONCENTRATI SUI FATTI

Anziché soccombere in pensieri negativi o sentirti in colpa (“Sono un collega orribile, ho commesso un errore enorme e questo ha fatto arrabbiare il collega”) prova a mappare i suoi sentimenti. Cerca di capire perché è frustato, adirato, ecc. C’è qualcosa che puoi fare per cambiare la situazione?

Focalizza quindi la tua attenzione sul bisogno che sta dietro le emozioni. Questo ti permetterà di essere più obiettivo e distaccato dalla situazione e proteggere[4] il tuo benessere emotivo.

Ciò che devi tenere a mente è di non prendere sul personale i commenti pungenti. È probabile che la persona si stia semplicemente sfogando e non pensi assolutamente ciò che sta dicendo preso dalla foga del momento.

 

IMPARA DALL’ESPERIENZA E POI VAI OLTRE

Una volta compreso il problema, pensa a come potresti risolverlo. O, se ti rendi conto che hai commesso un errore, chiedi scusa in modo semplice e diretto.

Quando sarai da solo, prenditi qualche minuto per scrivere ogni feedback ricevuto o le lezioni che hai imparato in quel contesto. Può essere difficile elaborare un feedback critico nel momento in cui le emozioni sono alle stelle, quindi impegnati a rivisitare gli appunti a distanza di qualche giorno[5].

Una volta che hai risolto il problema, volta pagina. Tornare sull’argomento e sulla lite può portarti a rimuginare e a nuovi scontri con quegli stessi colleghi proprio a causa delle parole che sono seguite nel momento di crisi.

 

FONTI

[1] https://hbr.org/2018/01/how-customer-service-can-turn-angry-customers-into-loyal-ones

[2] Klein N., Better to overestimate than to underestimate others’ feelings: Asymmetric cost of errors in affective perspective-taking, Organizational Behavior and Human Decision Processes, Vol 151, 2019: 1-15.

[3] Butler E.A., Egloff B., Wilhelm F.H., Smith N.C., Erickson E.A., Gross J.J. The social consequences of expressive suppression. Emotion. 2003 Mar;3(1):48-67.

[4] Shiota M.N., Levenson R.W., Turn down the volume or change the channel? Emotional effects of detached versus positive reappraisal. J Pers Soc Psychol. 2012;103(3):416-429.

[5] Fredrickson B.L., Branigan C., Positive emotions broaden the scope of attention and thought-action repertoires. Cogn Emot. 2005;19(3):313-332.

FALSO MITO: NON è il LEADER a DOVER MOTIVARE i COLLABORATORI (piuttosto aiutarli a trovare il perchè in ciò che fanno!)

 

In un supermercato americano il responsabile, per spingere i dipendenti a rispettare le disposizioni legate alla sicurezza, ha messo al collo, di coloro che venivano sorpresi a violare le procedure, un pollo di gomma, da indossare anche di fronte ai clienti. Per sbarazzarsi del pollo, lo sfortunato o poco attento mal capitato di turno, doveva scovare un altro collega che veniva meno alle regole. Puoi immaginare come sia andato a finire l’esperimento, con le persone che si rincorrevano fra le corsie del supermercato, alla ricerca della minima violazione pur di sbarazzarsi del pollo[1].

Quello di attaccare un pollo di gomma al collo non è sicuramente un buon modo per motivare le persone. Sebbene, fortunatamente, pochi ricorrano a questi bizzarri escamotage, non necessariamente promozioni, bonus, premi e discorsi di incoraggiamento danno risultati migliori. Secondo uno studio Gallup, il 60-80% dei lavoratori non è ingaggiato e motivato rispetto il lavoro che sta facendo. Sentono poca lealtà, passione o motivazione. Mettono il tempo, ma non lo utilizzano in modo produttivo e di certo non sono felici!

 

I QUATTRO TIPI DI MOTIVAZIONE

Quattro sono i tipi di motivazione:

  1. Intrinseca
  2. Estrinseca
  3. Positiva
  4. Negativa

 

La motivazione intrinseca si verifica quando agiamo senza il bisogno di ottenere ricompense esterneCi piace eseguire un’attività, un compito, ecc., o la vediamo come un’opportunità per esplorare, apprendere e agire i nostri potenziali. Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.

La motivazione estrinseca nasce dall’esterno, da qualcuno o qualcosa che ci spinge a fare o non fare qualcosa che non avremmo fatto di nostra iniziativa.

La motivazione positiva è un metodo di incoraggiamento basato sulla ricompensa, una spinta verso un obiettivo. Potrebbe essere un premio in denaro o il sorriso sul volto di un indigente. Indipendentemente dall’obiettivo o l’attività, l’aspettativa di qualsiasi forma di ricompensa è l’impulso della motivazione positiva.

La motivazione negativa è un metodo di potenziamento basato sulla punizione e dalla spinta ad allontanarsi da qualcosa che si vuole evitare.

La motivazione su cui occorre puntare è quella positiva intrinseca. Vediamo perché le altre non hanno la stessa efficacia.

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA NON FUNZIONA

In laboratorio, per spingere i topi a fare qualcosa, viene dato loro del cibo. In classe gli studenti migliori ottengono voti alti, e in fabbrica o in ufficio i lavoratori che raggiungono gli obiettivi meglio e/o prima di altri, ottengono aumenti e avanzamenti di carriera. Siamo spinti a credere che le ricompense promuovono prestazioni migliori[2]. Ma un numero crescente di ricerche suggerisce che non è così… (non da sola). Se una ricompensa – denaro, premi, lodi o vincere una gara – viene vista come la ragione per cui si sta intraprendendo un’attività, quella l’attività sarà considerata di per sé meno piacevole[3].

 La motivazione estrinseca ha alcuni seri inconvenienti:

  1. Non è sostenibile. Non appena ritiri la punizione o la ricompensa, la motivazione scompare.
  2. Ottieni rendimenti decrescenti. Se la punizione o le ricompense rimangono agli stessi livelli, la motivazione diminuisce lentamente. Ottenere la stessa motivazione la prossima volta richiede una ricompensa più grande.
  3. Fa male alla motivazione intrinseca. Punire o premiare le persone per aver fatto qualcosa rimuove il loro desiderio innato di farlo da soli. E per convincere i collaboratori a fare o non fare qualcosa, ogni volta si è costretti a punirli/ricompensarli.

In un esperimento, a dei bambini sono stati dati punti per ogni libro preso in prestito dalla biblioteca durante le vacanze estive. I punti potevano essere riscattati per avere in cambio una pizza in omaggio, questo nel tentativo di incoraggiare i piccoli, alla lettura. Alla fine, i bambini hanno effettivamente letto più libri degli altri compagni che non sono stati premiati con una pizza. Ma quando la lettura non è più stata ripagata con la pizza, quei bambini leggevano molti meno libri degli altri loro coetanei. Il desiderio intrinseco di leggere libri era stato sostituito dalla ricompensa estrinseca, e la motivazione se n’è andata con la pizza.

 

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE NEGATIVA NON FUNZIONA

I cardiopatici che hanno subito operazioni di bypass devono fare una scelta molto semplice: smettere di mangiare grasso, fumare, bere e lavorare troppo o questo può essere letale. Indovina quanti riescono effettivamente a cambiare stile di vita in modo sostenibile? A distanza di due anni dall’operazione, quanti di questi cardiopatici sono riusciti a mantenere le loro nuove abitudini?

10%. 9 su 10 non sono stati in grado di apportare semplici cambiamenti allo stile di vita, nonostante questo fosse vitale per loro.

Possiamo quindi dire che la motivazione negativa non funziona (almeno nel medio/lungo periodo).

Dean Ornish ha creato un programma in cui ai malati di cuore veniva insegnato ad apprezzare la vita (piuttosto che a temere la morte). Praticavano yoga, meditavano, ricevevano consulenze antistress e seguivano una dieta sana. Il risultato: 2 anni dopo, il 70% dei pazienti ha mantenuto il nuovo stile di vita. Quando nemmeno la paura della morte può far cambiare lo stile di vita in modo sostenibile, diventa chiaro che la motivazione basata sull’evitare qualcosa non è efficace quanto la motivazione basata sul raggiungimento di qualcosa. Almeno non nel medio/lungo termine. Nel breve periodo, la motivazione negativa può essere uno stimolo all’azione, ma si esaurisce in fretta poichè è fisicamente e psicologicamente poco sostenibile.

 

COSA FUNZIONA?

Ci comportiamo come se le persone non fossero intrinsecamente motivate, e vadano a lavorare ogni giorno aspettando che qualcun altro accenda il fuoco per loro. Questa convinzione è piuttosto comune.  È giusto e umano che i manager si preoccupino della motivazione e del morale delle loro persone, è solo che non ne sono la causa[4].

Quindi il manager anziché essere la fonte della motivazione, deve aiutare i dipendenti a trovare la propria motivazione intrinseca.

Il leader non è colui che motiva, il vero leader è colui che aiuta i collaboratori a trovare il loro perchè in ciò che fanno.

 

Cosa migliora la motivazione intrinseca?

  • Sfida: essere in grado di sfidare te stesso e portare a termine nuovi compiti.
  • Controllo: avere la possibilità di scegliere cosa fare.
  • Cooperazione: essere in grado di lavorare e aiutare gli altri.
  • Riconoscimento: ottenere un riconoscimento significativo e positivo per il tuo lavoro.
  • Felicità sul lavoro: le persone a cui piace il proprio lavoro e il proprio posto di lavoro hanno molte più probabilità di trovare una motivazione intrinseca.
  • Fiducia: quando ti fidi delle persone con cui lavori, la motivazione intrinseca è molto più forte.

Ciò che va fatto è spingere i collaboratori a scoprire il loro personale purpose, e sviluppare abilità sul lavoro.  Crea un ambiente di lavoro felice, positivo e le persone saranno naturalmente motivate. Ancora meglio: motivano sé stessi e gli altri, alimentando un circolo virtuoso. Questo sicuramente batte, nel medio-lungo termine, punizioni e ricompense.

 

Fonti

[1] workingamerica.com’s MyBadBoss contest

[2] http://naggum.no/motivation.html

[3] https://www.alfiekohn.org/

[4] Koestenbaum P., Block P., Freedom and accountability at work: applying philosophic insight to the real world, 2001.

 

QUAL E’ LA MIGLIORE CULTURA ORGANIZZATIVA PER LA TUA AZIENDA? Per (eventualmente) cambiarla…

 

Quello della cultura organizzativa è un argomento affascinante. Approfondirlo ti permette di avere informazioni preziose per compiere con sicurezza i prossimi passi verso i tuoi obiettivi. Tuttavia, il termine in sé, può sembrare non così intuitivo.

COSA INTENDIAMO PER “CULTURA ORGANIZZATIVA”?

La cultura si apprende dall’ambiente ed è sempre un fenomeno condiviso e collettivo. Ed è composta da vari strati[1].

Sullo strato esterno, ci sono i simboli: cibo, loghi, colori o monumenti.

Il livello successivo è costituito dagli eroi: personaggi pubblici della vita reale, statisti, atleti o personaggi della cultura popolare, ecc

Sul terzo strato, più vicino al nucleo, i rituali: eventi ricorrenti che modellano la nostra mente inconscia. Esistono sia nella società (es. celebrazione di ricorrenze, mance nei ristoranti) sia nelle organizzazioni (es. riunioni, lunch meeting, ecc).

Al centro, ci sono i valori: trasmessi dall’ambiente in cui cresciamo, come il comportamento dei genitori o degli insegnanti che ci mostrano cosa è accettabile e cosa no.

I problemi con la cultura di solito non emergono quando tutto va bene: è quando ci sentiamo minacciati o a disagio che abbiamo la tendenza a tornare alle origini.

Poiché la cultura è un fenomeno di gruppo, la usiamo per analizzare il comportamento dei gruppi e fare una  valutazione  della probabilità che gruppi di persone agiscano in un certo modo. Una persona non rappresenta l’intera cultura, ma in un gruppo di persone di una cultura, è probabile che le persone agiscano in un modo appropriato per quella cultura.

Da un punto di vista aziendale questo fa della cultura un importante strumento di gestione , nei confronti di gruppi di persone. Anche se non puoi cambiare i valori delle persone, puoi apportare modifiche appropriate nelle pratiche della tua organizzazione per assicurarti di lavorare con quei valori culturali, piuttosto che contro di loro.

Per meglio comprendere quale cultura abita la nostra organizzazione si può ricorrere a due modelli:

  • Teoria delle dimensioni culturali di Hofstede
  • Modello di Schein

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede[2]:

Il modello di Geert Hofstede (professore di antropologia delle organizzazioni all’università di Maastricht), destruttura la cultura in sei dimensioni:

  • Indice di distanza dal potere. E’ il grado in cui le persone accettano e si aspettano che il potere sia distribuito inegualmente. Orwell lo spiegherebbe in questo modo: tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Questa dimensione riguarda il fatto che tutti gli individui nelle diverse società non sono uguali. La dimensione esprime l’atteggiamento della cultura verso queste disuguaglianze. Il valore di questa dimensione è tanto più alta quanto più gli individui con meno potere di un’organizzazione accettano che questo sia distribuito in maniera diseguale.
  • Collettivismo vs individualismo. Questa dimensione cerca di determinare quanto si è focalizzati su se stessi o sugli altri, è il grado di interdipendenza che una società mantiene tra i suoi membri.
  • Evitare l’incertezza. Misura la tolleranza per l’ambiguità e l’incertezza. Hofstede si chiede: Dovremmo provare a controllare il futuro o semplicemente lasciare che accada? Questa dimensione rappresenta “quanto” una società riconosca il “limite” che il futuro non può essere conosciuto. Il modo in cui si affronta ambiguità e incertezza è legato alla cultura di origine e può generare più o meno ansia. Un punteggio alto vuol dire che la società tende a evitare situazioni di incertezza e ambiguità.
  • Femminilità contro mascolinità. Un punteggio più alto (maschile) di questa dimensione indica che la società avrà come driver principale la competizione e l’orientamento al successo. Un punteggio basso (femminile) significa che i valori dominanti sono la cura del prossimo e la qualità della vita. Una società femminile è quella in cui la qualità della vita viene prima della ricerca del successo.
  • Breve termine vs lungo termine. Come le società affrontano le sfide del presente mantenendo il loro legame con le tradizioni e il passato. Società con punteggio basso su questa dimensione tendono a mantenere le tradizioni.
  • Restrizione vs indulgenza. Misura quanto le persone cercano di controllare i loro desideri e impulsi. È legato al tipo di educazione ricevuta. E’ indulgente una società con un controllo più blando, restrittiva laddove abbiamo un forte controllo.

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede può essere estremamente utile anche per comprendere i diversi stili di comunicazione, culture, comportamenti e atteggiamenti.

 

Edgar Schein e la cultura organizzativa

Edgard Schein, ex professore alla MIT Sloan School of Management, ha ipotizzato un modello suddiviso in 3 parti.

  • Artefatti. E’ il primo livello, quello fisico. L’organizzazione si esprime anche attraverso l’arredo, la tecnologia, l’utilizzo degli spazi. Un open space e un ufficio organizzato in cubicoli o ancora un ufficio organizzato in stanze con porte chiuse, un ambiente completamente spoglio e uno curato e ricco di verde… Sono ben evidenti gli stili di approccio dell’organizzazione. Stessa cosa si ribalta sul ruolo dei singoli e dell’interazione tra funzioni.
  • Valori espliciti. Non c’è niente di più immediato, quando si valuta un’organizzazione, della pagina “Chi siamo” sul sito internet.
  • Assunti o presupposti – Secondo Schein esiste un livello più profondo di conoscenza della cultura organizzativa, che passa attraverso il non detto: le leggi che non hanno bisogno di essere espresse per influenzare l’organizzazione. Gli assunti di base sono le norme che regolano l’azione dei membri dell’organizzazione e di cui gli stessi membri sono spesso inconsapevoli, tanto sono radicate. Un livello che appare agli occhi dei soli analisti più esperti, ma che è in grado di rivelare la vera anima del modello organizzativo.

 

COME SI CREA UNA BUONA CULTURA DI SQUADRA?

  • Diventa consapevole della cultura

Inizia a notare le sue caratteristiche. Presta attenzione ai valori condivisi, al modo in cui le persone si esprimono e alle storie che raccontano sui loro successi e fallimenti.

  • Valuta la tua cultura attuale

Inizia creando tre elenchi:

  1. Cosa dovrebbe rimanere? Annota gli aspetti della cultura della tua organizzazione che ti piacciono e che vuoi preservare
  2. Cosa dovrebbe andare? Annota gli aspetti della tua cultura che devono essere modificati se vuoi andare avanti.
  3. Che cosa manca? Annota gli aspetti della cultura che sembrano mancare o deboli.
  • Immagina una nuova cultura

Questa è la parte divertente. Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere. Come sarebbe la cultura ideale? Scrivilo nel modo più dettagliato possibile.

Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere.

  • Condividi la visione con tutti

La cultura non cambierà a meno che tu non proponga una visione per qualcosa di nuovo. Devi articolare in un modo che sia avvincente e specifico. E non puoi farlo solo una volta. Inizialmente, l’unica visione dell’esistenza è nelle tue parole. Devi continuare a parlarlo finché non mette radici e comincia a crescere.

  • Ottieni l’allineamento dal tuo team di leadership

Sto parlando di più di un accordo. Hai bisogno di allineamento. Questo è qualcosa di completamente diverso. Vuoi una squadra che acquisti la visione, capisca cosa è in gioco e sia disposta a prendere una posizione per realizzarla. Consideralo un complotto. Non in senso negativo, ma in senso positivo. Tu e il tuo team state cospirando insieme per apportare un cambiamento positivo che trasformerà la tua organizzazione.

E infine…

  • Agisci sulle persone

Intuitivamente, sembra l’approccio più naturale: se la cultura è associata al modo di pensare delle persone, per cambiarla è necessario agire direttamente sulle persone. Eppure cambiare direttamente il modo di pensare delle persone è una missione impossibile. Ciò che va cambiato è il modo di agire delle persone

Le persone non oppongono resistenza al cambiamento, ma a essere cambiate. Pertanto guardano con sospetto a ogni tentativo di cambiare il loro modo di pensare, in particolare quando il cambiamento sembra assumere un carattere manipolativo o viene interpretato come una minaccia alla propria persona o all’organizzazione.

  • Agisci sul contesto

La logica in base alla quale per ottenere un cambiamento della cultura è preferibile agire sul contesto parte dall’assunto che le persone sono positive e gli eventuali comportamenti negativi sono determinati da pressioni del contesto stesso o da assunti errati, della cui correttezza però le persone sono convinte. Pertanto, di fronte a un comportamento negativo, è necessario separare nettamente il giudizio sul comportamento, dal giudizio sulla persona che lo ha adottato.

Tale approccio fa leva su due strumenti chiave del change management: i nudge e i feedback. Anziché agire direttamente sulla cultura al fine di produrre un cambiamento nel contesto, risulta più efficace agire sul contesto, introducendo nuove regole, procedure e meccanismi operativi, in grado di favorire un progressivo cambiamento nel modo di pensare e di agire delle persone. Questo richiede che i leader progettino sistemi nei quali appaia facile e conveniente per le persone assumere decisioni corrette, delle quali possono beneficiare sia loro che l’organizzazione.

 

Fonti

[1] https://hi.hofstede-insights.com/organisational-culture

[2] Hofstede G., Hosfede G.J., Minkov M., Culture e organizzazioni, Franco Angeli, 2014

Schein, E.H. (1999), “Empowerment, coercive persuasion and organizational learning: do they connect?”, The Learning Organization, Vol. 6 No. 4, pp. 163-172.

Schein E.H., (2018), Cultura d’azienda e leadership, Raffaello Cortina ed.

https://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.475.3285&rep=rep1&type=pdf

IL COSTO DEI SEGRETI (nelle organizzazioni)

Abbiamo tutti dei segreti.

Potrebbe essere quello di sapere che la promozione promessa a un collaboratore sarà disattesa; il trasferimento in un altro dipartimento non sarà bloccato, il tempo determinato non sarà rinnovato, e via dicendo.

Qualunque sia la decisione, prima di poterla comunicare talvolta occorre tenerla segreta, autocensurarsi, far buon viso a cattivo gioco, adattarsi… E non tutti riescono ad accettarlo.

D’altra parte però, decenni di studi scientifici, dimostrano che spesso preferiamo non smascherarli i segreti, perché incrinerebbero (finchè durano) il nostro bisogno di falso controllo. Fintanto che fingo di non vedere, il problema non esiste, l’effetto struzzo nel pieno delle sue potenzialità.

L’IMPATTO SU BENESSERE E PRESTAZIONI

Celare la verità ha dei costi su prestazioni e benessere.

Il 97% delle persone coinvolte in uno studio, ha in media 13 segreti che riguardano il posto di lavoro, come licenziamenti o promozioni in sospeso, vita personale e famiglia[1].

Due sono i principali danni a cui si può andare incontro:

∑         Danneggia il benessere. L’energia per resistere, autocensurarsi, pensieri ossessivi e ansia nell’anticipare cosa sarebbe successo quando il segreto sarebbe stato rivelato non fanno bene alla salute.

∑         Danneggia la concentrazione e il processo decisionale: quando si è distratti da un segreto non si è completamente presenti, con la conseguenza che l’irrazionalità avrà vita più facile.

 

COSA SUCCEDE NEL CERVELLO DI CHI DEVE MANTENERE UN SEGRETO

∑         L’amigdala è super irritabile, pronta a mettersi in azione, con tutto ciò che ne consegue

∑         L’ippocampo, a causa dello stress da eccesso di cortisolo, è compromesso con una ripercussione su apprendimento, memoria e sistema immunitario,

∑         La corteccia prefrontale è offline a causa dell’iperattività della amigdala, quindi la capacità di comunicare, collaborare, innovare saranno limitate.

 

I DATI

Per molti, avere dei segreti, è utile. Una necessità che sovrasta ampiamente la difficoltà di dover mentire.

Una ricerca di Glassdoor, condotta nel Regno Unito, ha rivelato che il 44% degli intervistati dice di mentire per evitare di mettersi nei guai e il 34% per nascondere gli errori commessi[2].

Il 40% del campione, lo fa perché è “più facile essere d’accordo con la maggioranza” e il 24% perché al manager o ai colleghi non piace sentire opinioni diverse dalle loro.

Il 17% ha affermato di aver mentito perché si sentiva a disagio nel dare un feedback onesto ai colleghi.

Il 72% del campione ha detto che l’autenticità sul lavoro permette di creare una cultura solida e il 77% che questa favorisce le relazioni tra colleghi e clienti, ma solo il 51% crede che i loro CEO e manager siano autentici.

 

I COSTI ECONOMICI DEL MENTIRE

Scandagliando i dati scientifici, l’unica verità sembra essere che tutti mentano e celino segreti. Qualcuno ci riesce meglio di altri. D’altronde  viviamo in un tempo in cui la bugia e l’inganno sono sempre più tollerate e non rappresentano un’eccezione, anche se questo costa molti soldi.

Secondo i dati dell’Association of Certified Fraud Examiners, in media ogni società perde il 5% dei guadagni annuali a causa di frodi, per un totale di circa 3.5 trilioni di dollari ogni anno. Le ricerche hanno determinato che ogni giorno, ogni individuo può ricevere dalle 10 alle 200 informazioni false. Un americano su quattro ritiene ammissibile mentire a un assicuratore, un terzo dei curriculum sono “aggiustati”. Un lavoratore su cinque dice di essere a conoscenza di frodi nel suo ambiente professionale ma non le riporta ai superiori.

 

A QUALI BUGIE PIACE CREDERE

Secondo Marcus Buckingham[3] e Ashley Goodall[4], NOVE sono le bugie a cui tutti, indistintamente, piace credere[5]:

∑         Alle persone importa per quale azienda lavorano

∑         A vincere è la migliore pianificazione

∑         Le migliori aziende lavorano su obiettivi

∑         I migliori talenti hanno un profilo completo

∑         Le persone hanno bisogno di feedback

∑         Le persone possono valutare altre persone in modo affidabile

∑         Le persone hanno un potenziale

∑         La cosa più importante è il work-life balance

∑         La leadership ha caratteristiche precise

 

L’esperienza di una persona in un’azienda è influenzata soprattutto dalle relazioni individuali. Per questo, è più importante il comportamento del proprio referente rispetto a un’astratta cultura aziendale che non si può verificare sulla propria pelle. La cultura aziendale è, secondo gli autori, un’utile convinzione condivisa che serve a orientare il comportamento di tutti.

Riguardo al talento, la convinzione è che chi ce l’ha sia concentrato su uno o due punti di forza. Il miglior nuotatore, il miglior calciatore o il miglior manager, sono coloro che hanno alcuni talenti precisi limitati a un’area specifica. Prendiamo Messi, che fa tutto con il piede sinistro. Chissà, forse con il destro sarebbe solo uno dei tanti.

Per capire i punti di forza di una persona? Non affidatevi alle review tra colleghi perché le persone semplicemente non sanno giudicare altre persone: troppi pregiudizi, troppi punti di vista parziali e poca chiarezza su cosa c’è da valutare. Per non parlare dei feedback: evitateli perché fanno cascare nell’errore di cercare di cambiare le persone invece di cambiare le situazioni e i contesti che portano problemi.

Lapidari i due ricercatori, mi piace credere che gli esseri umani siano meglio di così. Che sia, il mio, un bisogno di celare a me stessa la verità?

 

LE (NON) SOLUZIONI

∑    Comunicare che nella propria sfera di influenze non c’è spazio per la menzogna è un buon modo, un nudge che diventa un impegno, se fatto nel modo giusto. A cui si aggiunge dare il buon esempio.

∑    Non confondere il segreto con la bugia. Il costo dei segreti ha un prezzo emozionale e psicologico, tutti paghiamo per gli inganni, direttamente o indirettamente.

∑    Ricordarsi che ci si può proteggere tenendo a mente che una bugia non ha potere. Ne acquista nel momento in cui qualcuno decide di crederci. E se fossi tu a volerci credere a tutti i costi, quale bisogno credi così di soddisfare (e problema procrastinare)?

 

Queste ti sembrano soluzioni a basso impatto e magari anche banali? Forse, ma essere consapevoli di cosa spinge a mentire o a tenere un segreto è qualcosa che non trascurerei.

Quali (s)vantaggi ha sulla mia serenità e benessere, sul mio lavoro e sulla mia carriera? Cosa penso di ottenere o di evitare?  Cosa rispondi?

 

Tutto ha un prezzo. Spetta a ognuno di noi dargli un valore e tenerlo a mente quando saremo di fronte a una scelta.

 

FONTI

[1] Slepian ML, Chun JS, Mason MF. The experience of secrecy. J Pers Soc Psychol. 2017 Jul;113(1):1-33.

[2] http://hrnews.co.uk/half-of-employees-have-lied-at-work/

[3] https://www.marcusbuckingham.com

[4] https://www.ashleygoodall.com

[5] https://www.amazon.it/Nine-Lies-about-Work-Freethinking-ebook/dp/B07C3ZT28C

DIO ESISTE, MA NON SEI TU

Tutti ne abbiamo incontrato uno. Almeno una volta. Con il complesso di Dio.
All’inizio, ci può anche essere sembrato divertente… all’inizio…
Poi, più il tempo passava e più quel bisogno di erigersi al di sopra di tutto e tutti, ha cominciato a erodere la nostra pazienza.
Ma a quel punto, talvolta, è troppo tardi…

 

FAUST, HITLER E TANTI ALTRI

Faust vendette l’anima al diavolo per appropriarsi dell’onnipotenza, il potere infinito negato agli esseri umani.
E da lì, i posteri, affamati dello stesso male e desiderosi di superare ogni limite terreno, ne hanno modellato il profilo, questo è infatti il processo evolutivo del nazismo e del suo capo Hitler.
Nei tempi moderni si aggiunge anche l’insoddisfazione di chi non è pago di nulla, vittima dei miraggi del suo desiderio.
Un desiderio che ossessiona l’umanità dalle origini e che ha il suo campione iniziale in Lucifero, che sfida Dio e induce ognuno di noi, a fare altrettanto.
Per alcuni elevarsi al di sopra di tutti si fa necessità, spinti dalla convinzione assolutamente schiacciante che la propria soluzione sia infallibilmente esatta.

 

E questi alcuni sono facili da riconoscere: sono coloro che di fronte a un mondo incredibilmente complicato, sono intimamente convinti di capire come funziona. Tutto.

 

IL COMPLESSO DI DIO

Il Complesso di Dio. E’ questo il nome che veste chi non accetta di sbagliare, di essere fallibile. Eppure è la realtà e difficilmente siamo disposti a concedere potere e credibilità a chi dice di non sapere, nonostante da millenni siano prove ed errori ad aver permesso evoluzione e scoperte scientifiche. Edison con il suo filamento per la lampadina ne è l’emblema. Ma lui aveva quella sensibilità paradigmatica che molti hanno perso: l’umiltà.
In ogni sistema complesso i dati hanno preso il sopravvento sulla sensibilità. Ti mostrano grafici che dovrebbero inquadrare meglio un problema, ma ogni grafico è solo un trucco, l’incapacità di schematizzare il tutto.

 

LA VERA STORIA DI COCHRANE

Prendiamo la storia del medico Archie Cochrane.
Voleva compiere un esperimento:  si chiese se le persone infartuate avessero migliori possibilità di guarigione post infarto, in ospedale o a casa.
Tutti i cardiologi tentano di farlo tacere. Loro sapevano che il posto migliore era l’ospedale, in virtù del complesso di Dio.
Cochrane a conclusione dell’esperimento, convocò i colleghi:
Ho i risultati preliminari che non sono significativi statisticamente. Ma qualcosa abbiamo. Ho scoperto che voi avete ragione e io ho torto. E’ pericoloso per i pazienti riabilitarsi a casa. Dovrebbero rimanere in ospedale”.
I medici cominciarono a lanciare commenti di giubilo.
Te lo avevamo detto che eri immorale, uccidi le persone per fare esperimenti clinici. Ora devi stare zitto”.
Cochrane aspettò che l’ambiente si calmasse e poi:
“E’ molto interessante signori, perchè quando vi ho dato le due tabelle ho invertito i risultati. Ho scoperto che i vostri ospedali stanno uccidendo le persone, e che i pazienti dovrebbero stare a casa. Volete sospendere gli esperimenti adesso o volete aspettare di avere risultati più significativi?”.
Cochrane faceva quel genere di cose. E il motivo per cui faceva quel genere di cose è perché aveva capito che ci si sente molto meglio a dire:
“Qui nel mio piccolo mondo, sono un Dio, capisco tutto. Non voglio che le mie opinioni vengano sfidate. Non voglio che le mie conclusioni siano messe alla prova”.
E’ rassicurante.
Cochrane capì che l’incertezza, la fallibilità, l’essere sfidati, è doloroso. E qualche volta bisognerebbe affrontare la realtà.
Così come è dolorosa la vita di Bucky Cantor in Nemesi di Roth, forte di una idea delirante di onnipotenza. Segnato, per tutta la vita, dalla tragica perdita della madre, morta mettendolo alla luce. Rimarrà per sempre interiormente legato alla convinzione di essere l’autore, insieme a Dio, della malvagità onnipotente e di quella assurda morte.

 

SOCRATE DOCET

Forse andrebbe ricordato a chi vende l’anima al Diavolo per sostituirsi a Dio (e ce ne sono tanti, basta accendere la tv), che il male non ha nulla di sovrannaturale.
Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata, perchè il degrado sembra sempre irreversibile.
Non è neppure questione religiosa. In realtà sono sufficienti umiltà e cultura. Le performance incredibili sono, di fatto, il risultato di tentativi e di errori.
Perché ci sono problemi che non hanno una risposta giusta. Sapere di non sapere… insomma… ma Socrate non sentì il bisogno di vendere l’anima al diavolo…

C’E’ IL PECCATO E C’E’ IL PERDONO. NON C’E’ NIENT’ALTRO. PANICO – L’ULTIMA CICATRICE DI ELLROY

Credo sia la maestria crudele, la capacità di raccontare il reale senza fronzoli, e proporre argomenti feroci a legarmi a scrittori quali Ellroy, Roth e Amis.

E Panico, l’ultima fatica di James Ellroy, non è da meno: ex tossico, ex alcolista, ex topo di appartamento ossessionato dalla morte della madre, assassinata quando lui aveva dieci anni, nel 1958. Tutto per il romanziere è fermo a quel giorno: tutte le vittime sono sua madre, l’America degli anni ‘50 è la scena del delitto.

Ho trascorso ventotto anni in questo buco infernale. Ora mi dicono che scrivendo le memorie delle mie disavventure potrei uscirne”.

A parlare è Freddy Otash, poliziotto corrotto, poi investigatore privato esperto in estorsione, che tiene in pugno mezza Hollywood. Freddy è un uomo morto. Morto nel ’92.

Faccio di tutto tranne l’omicidio. Lavoro per chiunque tranne i comunisti.”

Ellroy non è diverso da Philip Roth, capace di sbattere in faccia tragedia e speranza, attesa e dolore. Orrore e mostruosità. Niente di meno di ciò che accade, parole non edulcorate, non tramutate, non castigate per qualche pseudo sorta di moralismo o ignoranza. Non sopra o sotto, ma dentro la storia è dove Roth, parola dopo parola, conduce. Un orizzonte ristretto e dove paura e dramma dei protagonisti si fa cronaca semplice e diretta.

Ellroy non ha pc, non ha internet e neppure un cellulare e racconta i suoi personaggi con una vecchia macchina da scrivere: killer mafiosi, poliziotti corrotti, squillo, agenti della CIA, trafficanti di tutto. Ogni personaggio ha uno scopo preciso. Molti ritornano in un tempo che si perde fra il prima e il dopo. Se si ha pazienza di aspettare. E labile si fa il confine fra realtà e fantasia. Ed Ellroy ben sa che la gente è avida di notizie, segreti e vizi di politici, star del cinema, poliziotti e giornalisti.

L’America non è mai stata innocente

Otash spia, ricatta e spiffera tutto a Confidential. Nel tritacarne finiscono tra gli altri John Kennedy, Marlon Brando, Rock Hudson, James Dean.

C’è il Peccato e il Perdono. Non c’è nient’altro”,

è una delle mille frasi da ricordare.

Leggere Ellroy è complesso, faticoso: ritmo vertiginoso, frasi brevissime, molti punti, qualche virgola, innumerevoli personaggi che entrano ed escono dalla storia. Ancor più quest’ultima cicatrice, molto distante dal resto dei suoi libri, per lingua – oscena e tagliente, ma più colta, ricca di allitterazioni – e per ironia. E’ un viaggio nel purgatorio, dove il protagonista è un peccatore alla ricerca di redenzione.

E poi arriva il mio preferito Martin Amis, bocca alla Mick Jagger e fascino da vendere e l’inarrivabile incipit de L’informazione:

Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere”.

Panico non si dimentica. Anche se lo si capisce e accetta solo per metà. Come l’Informazione o Nemesi o il teatro di Sabbath. Forse è anche questo che unisce i tre scrittori.

«Sono cresciuto ignorato e inquieto. E ho sempre desiderato che la gente mi guardasse. Dopo la morte di mia madre attiravo l’attenzione degli amici ebrei gridando “Heil Hitler”: pura provocazione. Poi ho capito che sapevo far bene solo due cose nella vita: scrivere e parlare in pubblico. Far ridere, piangere, sospirare. Per iscritto o a parole. E allora vai! Ho sognato di diventare uno scrittore famoso da quando avevo otto anni. Perché leggere era ciò che amavo di più: mi consentiva di evadere da quell’infanzia di merda. Genitori che si odiavano, la casetta lercia di una madre alcolizzata, i weekend con un padre smidollato. Perfino quando dormivo in strada divoravo i libri della biblioteca pubblica. Ho smesso di bere e inghiottire anfetamine anche per quella fissa di scrivere. Per svettare. Per dare ad altri la possibilità di sfuggire alla realtà. Con libri che non finiscono mai”.

Gli occhi feroci e la parlata sciolta è quella di Ellroy, capace di esprimere tutte le emozioni possibili tranne il sorriso.

 

La tentazione irrazionale di privilegiare i brand attenti ai problemi della società

Quanto pensi che la frase

“Tutti i profitti andranno in beneficenza”

possa influenzare le tue decisioni e il tuo comportamento di acquisto?

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un notevole aumento delle azioni socialmente responsabili da parte delle aziende di tutto il mondo.

Ti sei mai chiesto perché ?

Noi, come consumatori, quindi esseri irrazionali , tendiamo a percepire i prodotti delle aziende che fanno uno sforzo sociale come superiori a quelli che non adottano questo tipo di politica .

Questo errore di valutazione è causato dall’effetto Noble Edge , o effetto beneficenza.

Questo effetto è in grado di modificare il nostro comportamento d’acquisto tanto da preferire il negozio di alimentari che dista 15 minuti di macchina, piuttosto che quello sulla nostra strada, se il primo sostiene di devolvere parte dei suoi guadagni a qualche società di beneficenza .

Se da un lato questo effetto ha i suoi pro, in quanto porta ad un aumento delle donazioni ea una maggiore attenzione ai fornitori, dall’altro può portare a errori di valutazione che non possono essere considerati insignificanti.

Effetto alone

L’effetto Noble Edge è strettamente legato all’effetto alone : il fenomeno permette alla prima impressione positiva di un singolo tratto di un individuo, oggetto o prodotto di influenzare in modo positivo la valutazione di altri tratti che non sono collegati a il tratto originariamente valutato. In altre parole, la valutazione di un singolo item influenza la valutazione di altri elementi, incidendo sul giudizio finale.

Come suggerito dai ricercatori Alexander Chernev e Sean Blair, tendiamo a percepire in modo più positivo i prodotti delle aziende che sono socialmente investite, rispetto a coloro che non adottano questa politica , e di conseguenza li acquistano più frequentemente, pagandoli di più : il 53% dei consumatori coinvolti nello studio ha affermato che pagherebbe il 10% in più per i prodotti di aziende socialmente responsabili.

Perché succede

Ciò si verifica perché tendiamo a basarci maggiormente su euristiche e pregiudizi quando ci troviamo in situazioni incerte .

Nello specifico, è più probabile che si cada vittima dell’effetto alone nella formulazione di giudizi sulla qualità dei prodotti venduti in un punto vendita quando non si ha dimestichezza con quel tipo di prodotto. Per fare un esempio che tutti possano capire, la nostra impressione di una concessionaria di auto che ha donato una grossa somma sarà influenzata solo se non sappiamo nulla di auto.

Al contrario, è improbabile che il nostro comportamento cambi nei confronti delle auto vendute da quella specifica concessionaria. Quando abbiamo a nostra disposizione le conoscenze e le informazioni necessarie per esprimere noi stessi giudizi sulla qualità di un prodotto, diventiamo più resistenti a molti pregiudizi.

Un altro fattore che influenza la pericolosità dell’effetto Noble Edge è legato all’autenticità e sincerità delle donazioni. Se pensiamo che un’azienda sia socialmente investita solo per aumentare i profitti o migliorare la propria reputazione , l’effetto alone e, per estensione, l’effetto Noble Edge non ci ingannerà, deviando le nostre scelte.

Dove tutto ha avuto inizio

Sebbene non abbiano usato il termine “effetto Noble Edge”, Chernev e Blair propongono una descrizione dettagliata del pregiudizio nel loro lavoro intitolato Fare bene facendo del bene: l’alone benevolo della responsabilità sociale delle imprese .

Il focus del loro studio era l’effetto alone e come ha generato l’effetto Noble Edge. Oltre alla presentazione della teoria alla base del loro concetto, hanno descritto alcuni studi sperimentali per mostrare l’evidenza empirica delle loro ipotesi.

Degustazione di vini

Uno degli esperimenti è stato progettato per mostrare come la filantropia di un’azienda ha indotto a sviluppare comportamenti più positivi nei confronti dei propri prodotti. Hanno chiesto ai partecipanti di questo studio di prendere parte a una sessione di degustazione di vini, durante la quale hanno servito loro vino rosso in bicchieri di plastica non contrassegnati, insieme a un foglio con i dettagli sull’enologo. Ogni partecipante ha ricevuto la stessa descrizione, ma i ricercatori hanno detto ad alcune persone, inoltre , che l’enologo ha donato il 10% delle sue entrate all’American Heart Association. Ai partecipanti è stato chiesto di leggere la descrizione, degustare il vino, valutandolo poi su una scala da 1 a 9. Successivamente è stato chiesto loro quanto ne sapevano del vino in generale, sempre su una scala da 1 a 9, dove 1 è “molto poco” e 9 significa “molto”.

I risultati di questo esperimento hanno mostrato coerenza con l’effetto Noble Edge: i partecipanti che hanno ricevuto informazioni sulle attività di beneficenza dell’enologo hanno valutato il vino che avevano assaggiato più alto di quelli che non avevano ricevuto tali dati.

Un’altra importante informazione emersa dallo studio è stata determinata dal fattore esperienza . Nello specifico, i partecipanti che hanno valutato “pochissima” la conoscenza che avevano del vino hanno dato un punteggio più alto al gusto, rispetto a quelli che si sono descritti come grandi intenditori.

Scarpe di tela

Alcuni anni fa, le scarpe di tela sono diventate molto popolari, ma è difficile attribuire la loro notorietà solo al comfort e allo stile. Quando l’azienda Toms Shoes è stata lanciata sul mercato, hanno affermato che, per ogni paio venduto, un altro paio sarebbe stato donato a un bambino bisognoso . È possibile che la manifestazione di responsabilità sociale di Toms abbia contribuito al loro successo: il numero di scarpe donate è passato da 10mila nel primo anno a 200mila nel secondo anno. In effetti, Toms ha ispirato altre aziende ad adottare l’approccio ” compra uno, dona uno “.

Ma, a un certo punto, la reputazione di Toms è stata messa in discussione. In particolare quando la donazione era considerata dirompente dalle economie locali e poco utile per risolvere problemi più ampi affrontati da chi viveva in condizioni di estremo bisogno. L’azienda avrebbe potuto fare uno sforzo in altro modo per offrire un aiuto concreto.

Come evitare l’effetto Noble Edge

Il primo passo è riconoscere l’esistenza di pregiudizi e la nostra fallacia nel farci persuadere senza essere sufficientemente informati sulle campagne social che diversi brand pubblicizzano poco a poco verso gli utenti finali ingenui.

Possiamo allora adottare un approccio più razionale . Questo significa che, invece di acquistare in automatico, dobbiamo valutare preventivamente pregi e difetti del prodotto e dell’azienda/negozio, confrontandoli con la concorrenza. Il fatto che un marchio sia socialmente responsabile può essere un punto di forza, ma se crediamo che i loro prodotti o servizi lascino molto a desiderare, forse è il momento di iniziare a cercare alternative.

Ricordalo la prossima volta che una pubblicità toccherà il tuo buon cuore. Potrebbe non essere come sembra!

Fonti


[1] Asch, SE, Formare impressioni di personalità, Journal of anormal and social Psychology, Vol. 41, numero 3, luglio 1946, 258-290

[2] Chernev, A., & Blair, S. (2015). Fare bene facendo del bene: l’alone benevolo della responsabilità sociale delle imprese, Journal of Consumer Research , 41 (6), 1412–1425

[3] Montgomery, M. (2015), Cosa possono imparare gli imprenditori dalle lotte filantropiche delle scarpe TOMS. Forbes . https://www.forbes.com/sites/mikemontgomery/2015/04/28/how-entrepreneurs-can-avoid-the-philanthropy-pitfalls/#246802d51c38

[4] Lindström J., TOMS Shoes: effetti positivi e negativi nei paesi in via di sviluppo, Helsinki Metropolia University of Applied Sciences Bachelor of Business Administration European Management https://www.theseus.fi/bitstream/handle/10024/144020/Jasmin_Lindstrom. pdf?sequenza=1

Il LAVORO si PAGA. SEMPRE

“Non chiedermi di pagare per lavorare”.

E’ l’avviso che vorrei che tutti, sul proprio biglietto da visita, facessero imprimere. A scanso di equivoci e a protezione di chi più facilmente di altri, cade vittima di millantatori e manipolatori.

In poco più di due mesi, è il terzo cliente che mi chiama perché lo aiuti a prendere una decisione in merito ad una proposta di collaborazione “interessantissima e irrinunciabile”, alla quale però non solo non ci sarebbe remunerazione, ma addirittura viene chiesto del denaro (non poco) in cambio.

Detto in altri termini: “ti offro l’opportunità di lavorare con me, alla interessante cifra di $$$, che però mi versi tu che lavori”, senza contare gli altri “benefit” inclusi nell’offerta.

E’ indiscutibile la capacità manipolatoria di questi “venditori” di opportunità, ma ciò che più mi ha fatto pensare è che ben 3 (quindi non una coincidenza) manager di alto profilo, con un lavoro invidiabile e contenti di ciò che fanno, abbiano anche solo preso in considerazione simili proposte.

Ripensando agli studi fatti negli anni, riconduco il tutto a due facce dello stesso fenomeno. La prima, di ordine socio-culturale, chiama in causa la svalutazione del lavoro intellettuale, e della persona in questione. La seconda è di ordine antropologico: il commercio a prezzo fisso nasce con i grandi magazzini nell’800, precedentemente vigeva la pratica della contrattazione, erede del baratto, che nella sua versione più estrema includeva anche l’eventualità dell’acquisizione a titolo gratuito o per baratto.

Diverso, invece, il percepito per chi formula la richiesta. Chiedere può essere sfrontato, ma non è un peccato, e l’imbarazzo si fa pari a zero se sostenuto dalla miracolosa frase “senza fini di lucro”.

Ma se occorre addirittura pagare per lavorare, un professionista muore. L’individuo muore.

Ai professionisti che seguo, rispondo a questo quesito così: accettare un lavoro gratis o addirittura a fronte di un pagamento, senza le dovute riflessioni, ma solo per ‘esserci’, corrisponde ad auto-svalutare il valore della propria professionalità e le proprie competenze.

Se però quella di pagare per lavorare è una scelta alla quale non puoi sottrarti ricorda: il tuo lavoro sarà quotato di conseguenza sia dalle persone con cui hai già collaborato (e che ti faranno nuove proposte basandosi su questo dato, sottintendendo cioè che tu questi progetti li segui gratis o addirittura paghi tu chi te li commissiona), sia dal network che gira attorno a queste persone e riposizionare il proprio valore economico sarà molto difficile!

Imparare a dire no o avanzare richieste non è sempre facile, intendiamoci, ma è una scelta che ti tutela e che come professionista devi imparare a fare.

Ho imparato che la serietà di una persona o di un progetto si misura anche da questi parametri.