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Le TRAPPOLE dei LEADER e della LEADERSHIP

Il potere ha un impatto non indifferente sulle persone, poiché ne cambia le percezioni, il giudizio e il comportamento. Non solo in coloro che lo detengono ma anche in coloro che stanno intorno, collaboratori, amici e colleghi.

Quando si ricopre una posizione di comando, infatti, non si è più visti come individui bensì come simbolo di autorità. Ed è facile che se ne sopravvalutino le idee, si tenda a dare feedback meno onesti e accurati, a essere meno disposti a parlare, a fidarsi e ad assumersi dei rischi, così come chiudere un occhio sulle eventuali cattive condotte. O si ripongano aspettative irrealistiche su ciò che il leader può realizzare o, al contrario, considerarlo con scetticismo, per vedere se è degno del nuovo status.

Il risultato?

Il modo in cui le persone reagiscono al potere, modella il leader in modi di cui non è facile rendersi conto. Senza la consapevolezza di questa dinamica, è facile cadere nelle trappole che il potere crea, minando la capacità di fare ciò che è giusto per l’organizzazione. Gli studi dimostrano che quando i leader usano male il loro potere, la motivazione dei collaboratori e delle persone loro vicine diminuisce, così come la loro intenzione di dare il massimo contributo all’organizzazione.

Per questo è importante evidenziare le trappole che possono mettere a rischio i leader a tutti i livelli: più a lungo si ricopre un ruolo apicale, più potenzialmente estreme – e pericolose – possono diventare le trappole. Sebbene non sia possibile controllare il modo in cui le persone reagiscono, è possibile però controllare il nostro comportamento e impiegare strategie per mitigare le conseguenze negative.

LA TRAPPOLA DEL SALVATORE

Si manifesta con la tendenza a dare una moltitudine di consigli, spesso non richiesti, avere tutte le risposte ed essere eccessivamente disponibili. Questo può spingere il leader a identificarsi in una sorta di salvatore, annientando il team. O ancora, dire la propria su ogni cosa, anche su questioni che non rientrano nella sua area di competenza. I sintomi della trappola del salvatore includono il tentativo di risolvere i problemi di tutti, la microgestione di progetti o prodotti e l’offerta di suggerimenti che non sono necessari o che esulano dalle proprie competenze.

Perché è un problema?

Quando si è presi dal salvare gli altri, si ha un’eccessiva fiducia nelle proprie capacità (overconfidence bias). Il bisogno di essere utili o di controllare rende il leader più a rischio di fallimento. Inoltre, limita la capacità e la motivazione dei collaboratori a contribuire o sviluppare nuove idee, fino a sentirsi sempre meno autonomi e responsabili.

Per evitare la trappola del potere:

·      Prima di proporre soluzioni e risposte, abituati a porre domande.

·      Sii onesto con te stesso. Quante delle idee e dei suggerimenti che condividi in riunione vengono effettivamente attuati? Chiedi ai colleghi di valutare anonimamente l’utilità dei tuoi suggerimenti.

·      Quando gli altri sono competenti ma cauti su un obiettivo o un compito, ascolta attivamente le loro preoccupazioni e facilita la soluzione dei problemi.

LA TRAPPOLA DELL’AUTOCOMPIACIMENTO

In un ruolo di responsabilità, volenti o nolenti, si diventa spesso l’esperto elettivo, quello che ha le risposte. A differenza della trappola del salvatore, questa trappola corrisponde a un calo della curiosità. Poiché si pensa di sapere tutto, si fanno meno domande, si presume di aver capito il problema e non si sollecitano ulteriori informazioni, si considera il silenzio come consenso e si presume che ci sia vero accordo e non compiacenza.

Cadere nella trappola dell’autocompiacimento significa non arrivare alla verità perché non si è cercato di approfondire la discussione. Non ci si è chiesti: “Mi sto perdendo qualcosa?” o “Cosa potrei aver trascurato?”. Quando qualcuno viene a chiedervi aiuto, gli date la risposta invece di chiedere: “Cosa avete provato?” o “Quale pensate sia il problema?”.

Perché è un problema?

L’autocompiacimento rischia di farci perdere le informazioni e i dati necessari per prendere buone decisioni. Inoltre, non si è nelle condizioni di aiutare il team a sviluppare il pensiero critico e diventare autosufficienti nella risoluzione di problemi.

Per superare la trappola dell’autocompiacimento:

·      Sviluppa una pratica di indagine che metta in luce le ipotesi, i valori e le convinzioni insite nella discussione. Chiedi: “Quali ipotesi stiamo facendo?”. “Cosa non abbiamo ancora chiesto?”. “Cosa potrebbero vedere uno stakeholder esterno, un competitor o un cliente che non abbiamo ancora considerato?”.

·      Usa la tecnica dei “cinque perché” nelle discussioni. Quando qualcuno pone una domanda o solleva un problema, chiedi “perché” fino a quando non avrete individuato la causa principale o il livello più profondo del problema.

·      Condividi in modo proattivo ciò che stai imparando, in modo che l’autocompiacimento non diventi mai un’abitudine e che l’apprendimento continuo diventi un valore.

·      Sii presente. La compiacenza può essere un sintomo di distrazione, il risultato del multitasking e della disattenzione. Stacca il telefono quando parli con qualcuno. Se sei in riunione, fai domande. In questo modo aumenterai la presenza e la curiosità e, di conseguenza, dimostrerai agli altri che ciò che dicono e hanno da offrire è importante.

LA TRAPPOLA DELL’EVITAMENTO

Una posizione di potere consente di prendere scorciatoie. Se da un lato offre maggiore autonomia, possibilità di scelta e opportunità, dall’altro permette di evitare compiti spiacevoli affidandoli ad altri o, quando possibile, evitandoli del tutto. Come, ad esempio, non affrontare una conversazione difficile o dare un feedback severo, o un conflitto che si sta incancrenendo all’interno del team.

Perché questo è un problema?

Evitare le parti spiacevoli e difficili del ruolo può alleggerire il carico nel breve termine, ma finisce per indebolire la capacità di fare da soli. Un leader che sceglie i propri compiti trasmette il messaggio che rendere conto del ruolo è facoltativo. Viene visto come inaffidabile e la mancanza di affidabilità è nota per diminuire la fiducia e nell’organizzazione che lo consente.

Per evitare la trappola dell’evitamento e orientarsi verso le sfide:

·      Chiediti: “Quali sono i doveri del mio ruolo? Cosa richiede? È il mio lavoro? Devo farlo?”.

·      Chiediti: “Qual è il costo dell’inazione per me stesso, gli altri, il team e l’azienda?”. “Se non affronti il problema, quali potrebbero essere le conseguenze?”.Stai dando al team esempi che ti costeranno nel lungo termine?”. “Stai riducendo o aumentando il tuo carico di lavoro evitando il problema?”.

·      Cambia mentalità, passando da una in cui lo stress è debilitante a una in cui lo stress è positivo. Il modo in cui percepisci la sfida influenza il grado di stress connesso alla sfida stessa. Sviluppando una mentalità secondo cui lo stress è benefico per affrontare situazioni difficili ti renderà un leader più forte, sarai meno incline a evitare compiti spiacevoli.

·      Tendiamo ad evitare le cose per le quali ci sentiamo inadeguati. Fai un elenco dei compiti richiesti dal ruolo che preferisci evitare o su cui tendi a procrastinare. Fatti aiutare da un mentor per esaminare la lista, identificando le competenze necessarie per affrontarli.

LA TRAPPOLA DELL’AMICO

Il potere può essere scomodo e i leader che faticano a far proprio il ruolo possono cadere, con i propri collaboratori, nella trappola dell’amico: ossia comportarsi come un pari quando non lo si è.

Tali leader fanno eccessivo affidamento sul loro potere personale e rinunciano al potere posizionale, nel tentativo di essere apprezzati e minimizzare la loro autorità. Lo vediamo quando qualcuno viene promosso e si trova a dover gestire un ex collega. Il nuovo leader può avere difficoltà a responsabilizzare le persone o a prendere decisioni. Può anche condividere informazioni riservate o fare favoritismi: tutte cose che seminano confusione e caos.

Perché è un problema?

L’abuso di potere è tanto un atto di omissione (non fare la cosa giusta) quanto un atto di commissione (fare qualcosa di sbagliato). Quando i leader non incarnano il potere della loro posizione, le persone che li circondano non sanno cosa ci si aspetta da loro, il che compromette la loro capacità di concentrarsi ed eseguire. Inoltre, il fatto di non intervenire in ciò che richiede la propria autorità lascia un vuoto che spesso viene riempito dalla persona più dominante del team, non necessariamente la più competente, con conseguenti tensioni e conflitti.

Per navigare nella trappola dell’amico:

·      Prendi nota del motivo per cui sei stato promosso; molto probabilmente hai le competenze per adempiere agli obblighi del ruolo. Fai un elenco delle ragioni per cui sei la persona giusta e appendilo in un posto a te accessibile.

·      Fai pace con il potere. Sappiamo che molte persone non si sentono a proprio agio con il potere a causa di tutti i modi in cui lo hanno visto usato male. Pensa alle persone che usano il potere in modo efficace. “Che cosa li rende efficaci?”; “Ci sono comportamenti che potresti mettere in pratica anche tu?”.

·      Fai un inventario dei tuoi punti di forza e di come puoi sfruttarli per il ruolo. Quando dai per scontato i tuoi poteri personali, è facile che li userai in modo casuale invece che deliberato. Qualsiasi punto di forza, anche la cordialità, può diventare un ostacolo, se usato in modo eccessivo.

·      Stabilisci esplicitamente le nuove relazioni e responsabilità con il team. Prendi in considerazione l’utilizzo di un quadro decisionale per progetti specifici. Le discussioni intenzionali eliminano i dubbi su come utilizzare il nuovo potere.

LA TRAPPOLA DELLO STRESS

La leadership è intrinsecamente stressante e i leader sono sottoposti a enormi pressioni per ottenere risultati. I rapidi cambiamenti tecnologici e la volatilità del mercato creano incertezza e instabilità costanti. Molti leader sono anche schiacciati tra i dipendenti e l’alta dirigenza, destreggiandosi tra scadenze e risultati, tagli al budget e turnover.

Lo stress non gestito è deleterio, non solo per il leader che lo subisce, ma anche per chi gli sta accanto. Se si inviano e-mail nel cuore della notte, si risponde in modo sgarbato alle richieste o si esegue una microgestione per ansia, si crea uno “stress di seconda mano”, trasmettendo il proprio stato emotivo agli altri. Tutto ciò è amplificato dalla lente del tuo potere. A tutti è concesso di avere una giornata storta, ma quando sei il capo, potresti pensare di essere solo un po’ scontroso; per i collaboratori, invece, potrebbe essere molto di più.

Perché è un problema?

Per evitare di trovarsi sulla linea di tiro, i collaboratori diretti potrebbero minimizzare le cattive notizie o non dire quando le cose non vanno bene finché non è troppo tardi. Le persone non riescono a pensare in modo chiaro e creativo in un’atmosfera di sovraccarico.

Per navigare in questa trappola:

· Riconosci di essere sotto stress quando lo sei e i comportamenti e i segnali disfunzionali o poco strategici che metti in atto

. Sviluppa attività per gestire lo stress: mindfulness, tecniche di respirazione o di rilassamento, terapia cognitivo-comportamentale o altri approcci.

·      Riduci e gestisci lo stress migliorando le routine quotidiane. Fai pause tra una riunione e l’altra, esercizio fisico, mangia correttamente e prevedi piccole pause.

·      Lo stress è inevitabile, quindi, per esempio, rimanda la scrittura di un’e-mail difficile o la risposta a una richiesta impegnativa fino a quando non avrai avuto il tempo di riflettere, di parlarne con qualcuno, fare una passeggiata, ecc.

CONCLUDENDO

Le trappole sono evitabili e mitigabili, ma trattandosi di un terreno scivoloso è comunque facile cadervi. Se sei fortunato da ricevere un feedback che ti dice che sei intrappolato in una di queste dinamiche di potere o ti accorgi di dipendere eccessivamente da una posizione di comfort che il ruolo ti offre, fanne buon uso e correggi il tiro!

Poiché quando rafforzi il modo in cui eserciti la tua leadership, dai potere a chi ti circonda e crei ambienti generativi e risultati migliori per l’organizzazione.

PS. hai riconosciuto la trappola in cui tendi a cadere più facilmente?

QUANTO sono (in)UTILI i MEMI?

Sono yuppies oppure yappies, per chi mastica l’inglese. Sono i figli di quest’Italia che va di corsa, che toglie i soldi dal materasso e li sputtana tutti in borsa”, cantava Barbarossa o per dirla alla Brunori “Noi siamo i figli della borghesia, la quintessenza dell’ipocrisia. Siamo i gemelli sui polsini. Siamo l’oliva nel Martini”… Fino a Pit: “Ho la faccia di quel #meme, quando stiamo insieme soltanto di notte. Domani c’è chi mi chiede chi è quello che mi ha coperto, questa faccia di botte”…

Un modo insolito per presentare il tema di questo post: il #meme. Con uno sguardo malinconico sul passato e un po’ di retorica sul presente, sperando che non sia il futuro. Ma forse più attuale di molti incipit.

Veniamo al dunque.

IL MEME QUESTO CONOSCIUTO

Il meme è un contenuto di natura umoristica o frutto di rielaborazione creativa di scene di film, serie o programmi TV, opere artistiche, diventati cult nell’immaginario comune che si diffonde rapidamente in rete, diventando spesso virale.

Il termine deriva dal greco mimēma: ciò che è imitato. È nel campo della biologia genetica che si riscontrano i primi utilizzi del termine, dove indicano una mutazione improvvisa nel processo di selezione darwiniana, legata a un cambiamento casuale propagatosi per replicazione. Solo a partire dagli anni ‘70 meme viene utilizzato per spiegare come si diffondono idee, gusti culturali, informazioni.

A coniare il termine è Richard Dawkins, pioniere della biologia evoluzionistica e autore de Il gene egoista. A differenza dei geni, i meme sono idee che si diffondono tra persone, replicandosi come virus sociali.

UTILITA’ DEI MEME

Da una parte aiutano la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiuta la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità rispetto alle persone che non ne soffrono di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare l’umore.

L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.

Nonostante le diverse classificazioni delle espressioni facciali emotive, che spesso ne appiattiscono la complessità, i ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura per una persona potrebbe sembrare sorpresa per un’altra. Inoltre, spesso si confonde la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.

Diverse ricerche hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato 27 “emozioni” distinte.

PENSIERI ESTERNALIZZATI

Aditya Shukla definisce i meme “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che è stato acquisito da un precedente meme. Di fatto, ricorriamo a un modello esistente della cultura di internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero, anziché utilizzare una frase.

Adattare i pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, lo si usa per essere compresi. Questo in una visione ottimistica. I ricercatori si chiedono quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che arriva loro davanti improvvisamente in una chat con sconosciuti.

MEME PER IMITAZIONE

I meme sono potenti strumenti di connessione e condivisione che attraversano generazioni e comunità online. Questi fenomeni umoristici rappresentano un linguaggio universale, facilitando l’identificazione tra individui. Tuttavia, è importante notare che un uso eccessivo dei meme, e quindi dei dispositivi digitali, può portare a conseguenze come il phubbing.

Non va dimenticato che spesso si ricorre ai meme per imitazione: per il desiderio di non essere diversi dalle persone che ci circondano. Un esempio è il film Zelig dove il protagonista, Woody Allen, si trasforma nei personaggi con cui parla. Quando parla con un rabbino, si trasforma in un rabbino. L’effetto camaleonte può essere del tutto spontaneo, ma può anche essere provocato intenzionalmente. Questo è un punto importante, perché ci dice che i memi possono essere pericolosi.

Dawkins considera i memi come aspetti del modo di pensare e di comportarsi che, presumibilmente, sono sempre esistiti. Di certo il ruolo guida nella diffusione del modo di pensare per “memi” spetta alla società statunitense: la rimozione, o distruzione, delle statue di Cristoforo Colombo, considerato esponente del pre-colonialismo, o a ossessivi richiami alla eguaglianza di genere. Se ne può citare una al limite dell’assurdo: non si dica più – impone il meme – history ma herstory… Nel resto del mondo occidentale è fastidiosa la trasformazione della parola uomo in senso memico. Questa trasformazione è iniziata nelle riviste scientifiche che, con la motivazione che man discriminerebbe le donne, hanno incominciato a correggere titoli come “The neocortex in the man” in “The neocortex in humans”. E il meme si è esteso anche a campi diversi dalla medicina. Una rivista di architettura ha modificato il titolo: “Una città a misura di uomo” in “Una città a misura della persona”.

Altri esempi: “portare avanti il discorso” – un meme popolarissimo negli anni ’60. Significa “non abbiamo deciso, creiamo un Comitato di studio”. “Fare un passo indietro” usato per chiedere le dimissioni. È un’ipocrisia linguistica di una certa eleganza usata quando si sa che non si ha la forza per ottenere le dimissioni richieste. “Resilienza”: mediato dalla metallurgia per descrivere la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La Commissione Europea ha inserito la “resilienza” tra le priorità della politica economica europea. Non è chiaro che cosa il meme indichi, ma non importa: è un meme bello, suona bene, e fa sentire colto chi lo usa.

POSSONO ESSERE PERICOLOSI?

Possono i meme essere pericolosi in quanto capaci di influenzare il modo di pensare della comunità su questioni di grande valenza?

In parte sì, in quanto l’invasione dei meme sul nostro cervello, e la loro conseguente diffusione, avviene quando le nostre capacità critiche latitano. Negli anni ‘30, un mezzo efficace per propagare memi è stata la radio. L’abilità di Goebbels (Ministro della Propaganda di Hitler dal 1933 al 1945) nell’uso della radio come mezzo di propaganda, è stato un fattore fondamentale per diffondere le idee naziste e fare entrare nella mente dei tedeschi memi irrazionali come i presunti complotti del capitalismo “ebraico” o la superiorità della “razza” ariana, ecc.

Il fattore pericoloso oggi è internet nel suo aspetto interattivo. Il bombardamento di memi, con la richiesta di condividerli, in assenza del momento critico di riflessione che dovrebbe accompagnare la richiesta, è divenuto ossessivo. I memi di internet si propagano immediatamente e influenzano migliaia di persone, sfortunatamente anche su temi di grande importanza.

Sfuggire ai meme è difficile. Poichè permeano il quotidiano soprattutto per alleggerire e far sorridere. Eppure, finiscono per essere presi sul serio: obbligandoci, per esempio, a definire i portatori di gravi disabilità come “diversamente abili”, e gli spazzini come “operatori ecologici”. Il fatto è che il nuovo nome – meme piace a una classe politica convinta e soddisfatta di avere determinato così, col nuovo meme, una promozione sociale degli spazzini.

O ancora, siamo ufficialmente tenuti a definire madre e padre “genitore 1” e “genitore 2” e qui i commenti sono superflui.

Forse, non ci rendiamo conto della pericolosità della situazione per il dilagare di tutti questi memi minori. È indispensabile opporvisi, seguendo l’esortazione scrittore brasiliano Jorge Amado: “Io dico no quando tutti in coro dicono sì. Questo è il mio impegno”. Dire no, quando i memi in coro dicono sì, pare a ogni modo una buona regola.

Cosa ne pensate?

Il MALE che fa il PHUBBING sul LAVORO e nelle RELAZIONI

Lo subiamo e lo imponiamo, spesso in modo così ripetitivo da esserne inconsapevoli. Cosa? Il “phubbing“: l’atto di trascurare il proprio interlocutore per consultare spesso, in modo più o meno compulsivo, il cellulare o un altro dispositivo interattivo.

Il termine è stato coniato nel 2012 dall’Università di Sidney; ed è il risultato della crasi tra le parole inglesi phone e snubbing.

Un comportamento che, secondo uno studio dell’Università del Kent, è considerato “normativo e non dannoso in generale”, in quanto risponde a tre criteri: falso consenso, reciprocità e frequenza, che portano le persone a considerare un atteggiamento ampiamente diffuso come accettato e accettabile su larga scala.

In realtà, il messaggio che passa è che qualunque notifica arrivi è più importante rispetto alla persona che si ha davanti.

A questo punto, vi sarà chiaro se il phubbing è un atto che tendete maggiormente a infliggere o a subire…

Benché il fenomeno possa sembrare relativamente innocuo, al limite fastidioso, in realtà è determinante nel buon esito di molte relazioni. Ironia della sorte, “il phubbing ha lo scopo di connetterci, presumibilmente, con qualcuno attraverso i social o i messaggi“- afferma Emma Seppälä, psicologa a Stanford e Yale – “in realtà, interrompe le relazioni di persona nel momento presente“.

IL PHUBBING FA SENTIRE MENO CONNESSI

Diversi studi hanno dimostrato che il phubbing rende le interazioni faccia a faccia meno significative. Un articolo pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology ha scoperto che anche le persone che immaginavano di essere phubbate mentre guardavano una conversazione simulata si sentivano negativamente riguardo all’interazione rispetto alle persone che non immaginavano il phubbing.

Un altro studio, pubblicato su Computers in Human Behavior nel 2016, ha scoperto che inviare messaggi di testo durante una conversazione rende il discorso meno soddisfacente. Uno studio del 2012 ha scoperto che la semplice presenza di un telefono cellulare durante una conversazione, anche se nessuno lo usa, è sufficiente per far sentire le persone meno connesse tra loro.

IL PHUBBING PUÒ DANNEGGIARE LA SALUTE MENTALE

In un ulteriore studio, è stato riscontrato che il phubbing minaccia quattro “bisogni fondamentali”: appartenenza, autostima, esistenza significativa e controllo. Poiché fa sentire le persone escluse e ostracizzate.

Altre ricerche hanno dimostrato che il phubbing può influenzare le relazioni di coppia. Due diversi studi hanno evidenziato che, quando i coniugi si coccolano a vicenda, è più probabile che sperimentino una minore soddisfazione coniugale. Se il partner è al telefono, significa che sta dando la priorità a qualcos’altro rispetto a te in quei momenti di unione…

Lapallissiano, ma non così elementare, visto il numero di volte che ricorriamo al phubbing.

PHUBBING NEL CONTESTO AZIENDALE

Consci di quanto engagement, soddisfazione e motivazione siano elementi cardine per il benessere dei collaboratori, spendere qualche riflessione circa gli effetti negativi del phubbing nei luoghi di lavoro può essere utile. O almeno, un utile reminder.

Le conseguenze si aggravano quando avviene quello che i ricercatori della Hankamer School of Business della Baylor University definiscono boss phubbing: l’abitudine di un supervisore, o un responsabile, di essere distratto dallo smartphone quando parla o è in stretto contatto con i collaboratori. Questo può essere un vero ostacolo nella costruzione di una relazione proficua, ma soprattutto può minare lo sviluppo professionale del collaboratore.

La ricerca ha dimostrato che le conseguenze più importanti sul team del boss phubbing riguardano:

  • mancanza di fiducia nel supervisore (76%)
  • diminuzione dell’autostima e del benessere mentale (75%)
  • inferiore impegno nelle attività lavorative (5%)

I dipendenti che sperimentano il boss phubbing, hanno livelli inferiori di fiducia nei confronti del loro manager e questo comporta anche meno probabilità di sentire che il loro lavoro è prezioso o che sia possibile una crescita professionale. Di conseguenza, i dipendenti che lavorano sotto la supervisione di un phubber tendono ad avere meno fiducia nella propria capacità di svolgere il lavoro. Non esattamente la situazione che un manager auspicherebbe per l’azienda.

COME CONTRASTARE IL PHUBBING SUL POSTO DI LAVORO

Il phubbing è diventato quasi naturale (uno studio di reviews.org  sostiene che le persone controllano il telefono 144 volte al giorno), ed è qualcosa a cui tendiamo a non fare caso quando lo attuiamo e di conseguenza non notiamo il disagio della persona su cui lo stiamo esercitando.

Per questo è utile lavorare sulla costruzione di una cultura organizzativa che ponga l’accento sulla qualità delle relazioni e sul rispetto reciproco e sulla consapevolezza.

CONCLUSIONI

Il phubbing è segno di un uso problematico della tecnologia, soprattutto quando non possiamo farne a meno o perdiamo la capacità di scegliere cosa è meglio per noi e cosa ci fa bene. Che sia in un ambiente di lavoro o conviviale. Il rischio infatti è quello di perdere poco a poco l’aspetto emozionale che una conversione fisica regala. Dimenticandoci inoltre che a risultare ferito da questa pratica, non è solo chi la subisce ma anche chi la impone, soprattutto se è diventata un’abitudine.

Forse, non dico sempre, ma più di quanto pensiamo, spegnere (o allontanare) il cellulare, può essere una buona cosa. Se non per noi, almeno per chi ci sta di fronte. Chiunque esso sia!

FALSO MITO N.1: per CAMBIARE ABITUDINI non ci vogliono 21 GIORNI

Il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, o perché siamo mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in un’abitudine o per cambiarne una.

Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento, quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno rimuovere le cattive abitudini. Anche se non sono pochi coloro che ancora tentano di vendere soluzioni facili propinando tecniche di vario tipo.

Chi dispensa tali consigli, semplicemente non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

   •   un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

   •   un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

   •   una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere.

Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

“Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?“

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington: “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare.

Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia.

In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso.

Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione.

E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante dimostrare che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza.

Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento. Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

FALSO MITO: NON è il LEADER a DOVER MOTIVARE i COLLABORATORI (piuttosto aiutarli a trovare il perchè in ciò che fanno!)

 

In un supermercato americano il responsabile, per spingere i dipendenti a rispettare le disposizioni legate alla sicurezza, ha messo al collo, di coloro che venivano sorpresi a violare le procedure, un pollo di gomma, da indossare anche di fronte ai clienti. Per sbarazzarsi del pollo, lo sfortunato o poco attento mal capitato di turno, doveva scovare un altro collega che veniva meno alle regole. Puoi immaginare come sia andato a finire l’esperimento, con le persone che si rincorrevano fra le corsie del supermercato, alla ricerca della minima violazione pur di sbarazzarsi del pollo[1].

Quello di attaccare un pollo di gomma al collo non è sicuramente un buon modo per motivare le persone. Sebbene, fortunatamente, pochi ricorrano a questi bizzarri escamotage, non necessariamente promozioni, bonus, premi e discorsi di incoraggiamento danno risultati migliori. Secondo uno studio Gallup, il 60-80% dei lavoratori non è ingaggiato e motivato rispetto il lavoro che sta facendo. Sentono poca lealtà, passione o motivazione. Mettono il tempo, ma non lo utilizzano in modo produttivo e di certo non sono felici!

 

I QUATTRO TIPI DI MOTIVAZIONE

Quattro sono i tipi di motivazione:

  1. Intrinseca
  2. Estrinseca
  3. Positiva
  4. Negativa

 

La motivazione intrinseca si verifica quando agiamo senza il bisogno di ottenere ricompense esterneCi piace eseguire un’attività, un compito, ecc., o la vediamo come un’opportunità per esplorare, apprendere e agire i nostri potenziali. Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.

La motivazione estrinseca nasce dall’esterno, da qualcuno o qualcosa che ci spinge a fare o non fare qualcosa che non avremmo fatto di nostra iniziativa.

La motivazione positiva è un metodo di incoraggiamento basato sulla ricompensa, una spinta verso un obiettivo. Potrebbe essere un premio in denaro o il sorriso sul volto di un indigente. Indipendentemente dall’obiettivo o l’attività, l’aspettativa di qualsiasi forma di ricompensa è l’impulso della motivazione positiva.

La motivazione negativa è un metodo di potenziamento basato sulla punizione e dalla spinta ad allontanarsi da qualcosa che si vuole evitare.

La motivazione su cui occorre puntare è quella positiva intrinseca. Vediamo perché le altre non hanno la stessa efficacia.

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA NON FUNZIONA

In laboratorio, per spingere i topi a fare qualcosa, viene dato loro del cibo. In classe gli studenti migliori ottengono voti alti, e in fabbrica o in ufficio i lavoratori che raggiungono gli obiettivi meglio e/o prima di altri, ottengono aumenti e avanzamenti di carriera. Siamo spinti a credere che le ricompense promuovono prestazioni migliori[2]. Ma un numero crescente di ricerche suggerisce che non è così… (non da sola). Se una ricompensa – denaro, premi, lodi o vincere una gara – viene vista come la ragione per cui si sta intraprendendo un’attività, quella l’attività sarà considerata di per sé meno piacevole[3].

 La motivazione estrinseca ha alcuni seri inconvenienti:

  1. Non è sostenibile. Non appena ritiri la punizione o la ricompensa, la motivazione scompare.
  2. Ottieni rendimenti decrescenti. Se la punizione o le ricompense rimangono agli stessi livelli, la motivazione diminuisce lentamente. Ottenere la stessa motivazione la prossima volta richiede una ricompensa più grande.
  3. Fa male alla motivazione intrinseca. Punire o premiare le persone per aver fatto qualcosa rimuove il loro desiderio innato di farlo da soli. E per convincere i collaboratori a fare o non fare qualcosa, ogni volta si è costretti a punirli/ricompensarli.

In un esperimento, a dei bambini sono stati dati punti per ogni libro preso in prestito dalla biblioteca durante le vacanze estive. I punti potevano essere riscattati per avere in cambio una pizza in omaggio, questo nel tentativo di incoraggiare i piccoli, alla lettura. Alla fine, i bambini hanno effettivamente letto più libri degli altri compagni che non sono stati premiati con una pizza. Ma quando la lettura non è più stata ripagata con la pizza, quei bambini leggevano molti meno libri degli altri loro coetanei. Il desiderio intrinseco di leggere libri era stato sostituito dalla ricompensa estrinseca, e la motivazione se n’è andata con la pizza.

 

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE NEGATIVA NON FUNZIONA

I cardiopatici che hanno subito operazioni di bypass devono fare una scelta molto semplice: smettere di mangiare grasso, fumare, bere e lavorare troppo o questo può essere letale. Indovina quanti riescono effettivamente a cambiare stile di vita in modo sostenibile? A distanza di due anni dall’operazione, quanti di questi cardiopatici sono riusciti a mantenere le loro nuove abitudini?

10%. 9 su 10 non sono stati in grado di apportare semplici cambiamenti allo stile di vita, nonostante questo fosse vitale per loro.

Possiamo quindi dire che la motivazione negativa non funziona (almeno nel medio/lungo periodo).

Dean Ornish ha creato un programma in cui ai malati di cuore veniva insegnato ad apprezzare la vita (piuttosto che a temere la morte). Praticavano yoga, meditavano, ricevevano consulenze antistress e seguivano una dieta sana. Il risultato: 2 anni dopo, il 70% dei pazienti ha mantenuto il nuovo stile di vita. Quando nemmeno la paura della morte può far cambiare lo stile di vita in modo sostenibile, diventa chiaro che la motivazione basata sull’evitare qualcosa non è efficace quanto la motivazione basata sul raggiungimento di qualcosa. Almeno non nel medio/lungo termine. Nel breve periodo, la motivazione negativa può essere uno stimolo all’azione, ma si esaurisce in fretta poichè è fisicamente e psicologicamente poco sostenibile.

 

COSA FUNZIONA?

Ci comportiamo come se le persone non fossero intrinsecamente motivate, e vadano a lavorare ogni giorno aspettando che qualcun altro accenda il fuoco per loro. Questa convinzione è piuttosto comune.  È giusto e umano che i manager si preoccupino della motivazione e del morale delle loro persone, è solo che non ne sono la causa[4].

Quindi il manager anziché essere la fonte della motivazione, deve aiutare i dipendenti a trovare la propria motivazione intrinseca.

Il leader non è colui che motiva, il vero leader è colui che aiuta i collaboratori a trovare il loro perchè in ciò che fanno.

 

Cosa migliora la motivazione intrinseca?

  • Sfida: essere in grado di sfidare te stesso e portare a termine nuovi compiti.
  • Controllo: avere la possibilità di scegliere cosa fare.
  • Cooperazione: essere in grado di lavorare e aiutare gli altri.
  • Riconoscimento: ottenere un riconoscimento significativo e positivo per il tuo lavoro.
  • Felicità sul lavoro: le persone a cui piace il proprio lavoro e il proprio posto di lavoro hanno molte più probabilità di trovare una motivazione intrinseca.
  • Fiducia: quando ti fidi delle persone con cui lavori, la motivazione intrinseca è molto più forte.

Ciò che va fatto è spingere i collaboratori a scoprire il loro personale purpose, e sviluppare abilità sul lavoro.  Crea un ambiente di lavoro felice, positivo e le persone saranno naturalmente motivate. Ancora meglio: motivano sé stessi e gli altri, alimentando un circolo virtuoso. Questo sicuramente batte, nel medio-lungo termine, punizioni e ricompense.

 

Fonti

[1] workingamerica.com’s MyBadBoss contest

[2] http://naggum.no/motivation.html

[3] https://www.alfiekohn.org/

[4] Koestenbaum P., Block P., Freedom and accountability at work: applying philosophic insight to the real world, 2001.

 

COME ESSERE CERTI DI AVER PRESO UNA BUONA DECISIONE?

Come possiamo essere certi di aver preso una buona decisione?

Non necessariamente soddisfare l’obiettivo prefissato è sintomo di buona decisione.

Supponiamo di essere il direttore commerciale di un’azienda e di annoverare fra i collaboratori un commerciale di indubbia qualità e bravura, riconosciuto da tutti e a cui le società concorrenti fanno il filo da tempo.

Un giorno il commerciale arriva in ritardo a un meeting importante, si siede al suo posto come niente fosse e non chiede scusa e nemmeno imputa a qualche evento straordinario o grave la mancata puntualità.

Come vi comportereste nei panni del direttore? E come potete essere certi che la decisione presa sia buona?

Potreste riprendere il commerciale seduta stante o far finta di niente. In ogni caso, il rischio di incorrere in una decisione sbagliata potrebbe avere conseguenze pesanti: il commerciale potrebbe risentirsi e andarsene altrove oppure, se non agite, perdere credibilità e rispetto degli altri collaboratori.

Spesso la decisione che si prende è inficiata da convinzioni, valori e strategie adattive che in altri contesti e nel tempo si sono dimostrate efficaci. Non necessariamente però anche in questo caso, può funzionare. Mi spiego meglio.

Se per noi la puntualità è un valore importante e distintivo, difficilmente riusciremmo a tacere e saremo tentati di trattare il commerciale come tutti gli altri venditori della squadra e quindi a non considerarlo come il migliore dell’organizzazione. Di fatto, lo puniremmo appena entra in sala riunioni.

Se invece per noi è il valore della bravura a guidarci, saremo tentati di trattare i collaboratori proporzionalmente al loro merito e ai loro risultati. Di fatto, ignoreremo il ritardo certi dei vantaggi che il commerciale saprà portare all’azienda.

Quale decisione vi sembra corretta?

Nessuna delle due. Sia rimproverare sia ignorare il commerciale non sono decisioni corrette, poiché guidate dalla nostra storia, da pregiudizi e credenze e non dall’analisi del contesto, della situazione e di una visione a medio/lungo termine.

Riprendendo il commerciale, si potrebbero aprire due scenari. Il commerciale, accortosi dell’errore, potrebbe essere spinto a fare di più sul lavoro, aumentando ulteriormente il fatturato. E facilmente penseremmo che intervenire sui comportamenti sbagliati sia la miglior soluzione in frangenti di questo tipo, anche verso i collaboratori più efficaci e bravi.

Oppure il commerciale potrebbe prendere contatto con altre aziende del settore e imputarvi (imputare al direttore commerciale) la responsabilità della decisione, con il rischio che il CEO insoddisfatto di come è stata gestita la situazione, vi licenzi o perda fiducia in voi.

Quindi? Cosa è giusto fare?

Entrambe le scelte possono funzionare, purchè l’indicatore da considerare non sia semplicemente il risultato finale ma il processo che sottende a quella decisione.

Sapere quanto e quali valori, convinzioni e pregiudizi ci spingono verso strategie adattive e standardizzate è importante. Questo impedisce loro di portarci all’azione senza aver verificato le variabili e lo specifico contesto, rischi e opportunità di ciascuna opzione. Conoscere i rischi e gli effetti sia in negativo sia in positivo, ci guida verso la scelta corretta. In quel momento, in quel contesto.

Ogni decisione complessa non può essere presa senza un’analisi e un’attenzione al contesto.

Come è possibile prendere la giusta decisione?

Facendoci le giuste domande. Più domande ci facciamo più riusciremo a prevedere incertezza, eventi e rischi.

… to be continued

NON TUTTO va COME PREVISTO. IL BOOMERANG delle CONSEGUENZE INATTESE

Quando agiamo, solitamente, lo facciamo in funzione di un obiettivo. Per quanto ragionate siano le strategie, non sempre però il risultato è prevedibile. Talvolta ci stupisce in positivo, altre il risultato delle scelte attuate produce risultati perversi, tornando violentemente indietro come un boomerang.

Non sempre prevedere le conseguenze è facile, soprattutto perchè l’irrazionalità umana è tutt’altro che prevedibile.

Delhi, periodo coloniale

Il governo inglese dell’India, preoccupato per l’alto numero di serpenti nelle strade, decide di offrire una taglia per ogni esemplare ucciso. Molti indiani iniziano così ad allevare cobra con il preciso intento di ucciderli e incassare il denaro. Fino a che il governo si trova costretto ad eliminare la ricompensa. A quel punto però gli allevatori liberano i serpenti che invadono le strade della capitale, moltiplicandosi rapidamente. Da qui il nome di effetto cobra, un boomerang inatteso e piuttosto velenoso.

Password

Se da un lato dovrebbero rendere più sicura la navigazione, essendo spesso complicate, si fa fatica a ricordarle, quindi si appuntano su post it che si lasciano in giro, o le si raccolgono in un unico foglio, riducendo di fatto la sicurezza.

Effetto Streisand

Nel 2013 l’omonima cantante intenta una causa legale contro un fotografo che, effettuando riprese dall’alto per motivi scientifici (stava studiando l’erosione costiera), ha scattato un’immagine della sua villa di Malibu, pubblicandola. Anche se la foto l’hanno vista solo sei persone, Streisand accusa il fotografo di violazione della privacy. Risultato: la notizia (foto compresa) fa il giro del mondo. Streisand, tra l’altro, perde la causa.

Assuan, 1970

L’inaugurazione della diga fu salutata come una benedizione per l’agricoltura. Con il passare del tempo, comparve un serio problema. Prima del progetto, i sedimenti del Nilo rendevano fertili le pianure a valle di Assuan. Lo sbarramento tratteneva invece i sedimenti sul fondo del nuovo lago Nasser, rendendoli inutili. Gran parte dell’energia elettrica generata dalla diga dovette essere impiegata per alimentare impianti di fertilizzazione artificiale. Altro effetto boomerang: l’iniziale successo si ritorse, almeno in parte, contro se stesso.

5 CAUSE ALLA BASE DELLE CONSEGUENZE IMPREVISTE

Esperto conoscitore delle conseguenze inattese è il sociologo della Columbia University Robert K. Merton che evidenziò 5 possibili cause alla base delle conseguenze impreviste.
Ignoranza: non teniamo conto delle informazioni disponibili, o l’informazione disponibile è incompleta.
Errore e ragionamenti fallaci. Come mostrò il Nobel per l’Economia, Herbert Simon, la razionalità umana è limitata, non corrisponde a quella (perfetta) attribuita dalla teoria neoclassica all’Homo oeconomicus. Ignoranza ed errore sono costitutivamente inevitabili, e con loro gli effetti imprevisti dell’azione.
Prevalenza del breve periodo e pregiudizi di valore. Entrambe operano spesso nella sfera politica.
Profezie autoavveranti: quelle che si ritorcono contro chi le fa. Durante la crisi del 1929, molti risparmiatori si convinsero che le banche sarebbero fallite e si precipitarono a ritirare i propri risparmi. Rimasti a corto di liquidità, molti istituti fallirono per davvero.

Individuare i meccanismi alla base degli effetti non previsti significa poterli almeno in parte controllare; il boomerang veniva anticamente usato come arma da combattimento. Siccome, nel mondo sociale, gli effetti boomerang sono spesso negativi, è giusto comprenderne il funzionamento e mettere in atto le più efficaci tattiche di difesa. Cercando di sconfiggere la realtà prima che questa possa prendersi la rivincita.

Per fortuna le cose possono anche andare meglio del previsto, come nel caso di Alexander Fleming a cui si deve la scoperta della penicillina, il primo antibiotico, imbattendosi in una muffa, il penicillium notatum, che ha distrutto una delle colture di batteri su cui stava lavorando. O la vicenda di un padrone di casa che aumenta la pigione ai due inquilini. La conseguenza inattesa è l’invenzione di Airbnb da parte dei due che, per far quadrare i conti, decidono di affittare i tre materassi ad aria che hanno in casa (ecco svelata la ragione dietro il prefisso Air)

E se gli INCENTIVI OSTACOLASSERO INNOVAZIONE e PROBLEM SOLVING? Mettiti alla prova con il problema della candela

Ti va di testare la tua capacità di problem solving?

Hai una candela, una scatola di fiammiferi e una di puntine, il tutto su un tavolo vicino a una parete. L’obiettivo è, usando solo gli oggetti indicati “fissare la candela alla parete in modo tale che la cera non cada nè sul tavolo né sul pavimento”.

Fai partire il cronometro e trova la soluzione, in meno di 7 minuti.

Il problema della candela” è l’esperimento condotto dallo psicologo tedesco Karl Duncker nel 1945. Non sembra un quesito complesso da risolvere… all’apparenza!

Eppure una parte di coloro che vengono messi alla prova tendono a iniziare cercando di inchiodare la candela alla parete, con scarsi risultati. Altri di sciogliere la candela per incollarla alla parete, ma nemmeno questa è una buona idea poiché la cera cade ugualmente sul tavolo. Dopo una media di 7 minuti, i partecipanti giungono alla miglior soluzione: utilizzare la scatola delle puntine come base per sostenere la candela e fissare la scatola alla parete utilizzando le puntine.

LA SCOPERTA DI DUNCKER

Duncker scoprì che i risultati dell’esperimento cambiavano se gli elementi venivano presentati in modo diverso. Per esempio, presentando una scatola contenente puntine (illustrazione A) o le puntine fuori dalla scatola (illustrazione B), nel secondo caso le persone tardavano meno nella risoluzione del problema.

La spiegazione è semplice: nel primo caso i partecipanti credono che la scatola possa unicamente contenere le puntine e, di conseguenza, non giungono a considerare la possibile soluzione. Questo fenomeno prende il nome di Fissità Funzionale e consiste nel fissarsi sulla funzione di un elemento, in questo caso la scatola delle puntine. Detta in altri termini ci rende in grado di vedere soltanto le soluzioni che implicano l’impiego di oggetti nel modo più consueto e mette in pericolo la nostra capacità di ideare soluzioni nuove per risolvere un problema.

La fissità non è di per sé totalmente negativa, ma potrebbe risultare limitante, poiché chiude la porta a molte possibilità che potrebbero renderci le cose più facili o persino aiutarci a risolvere problemi non così complicati.

IL POTERE DEGLI INCENTIVI

L’esperimento venne ritentato, con l’aggiunta di una ricompensa, anche da Sam Glucksberg professore a Princeton.

Glucksberg ha costituito due gruppi.  Al primo gruppo ha detto: “Vi cronometro per creare un riferimento, il tempo medio che richiede la soluzione di questo tipo di problema.”
Al secondo gruppo ha offerto premi: “Chi finisce nel 25% dei più veloci, avrà ( x ) dollari. Il più veloce avrà, invece ( y ) dollari”. Le persone del secondo gruppo hanno impiegato, in media, tre minuti e mezzo in più, del primo gruppo, di coloro cioè a cui non veniva dato alcun incentivo economico.

Controintuitivo…

Di solito, affinchè le persone rendano di più, le si premia. È così che funziona il mercato. Ma in questo caso non funziona. C’è un incentivo diretto ad affinare il pensiero e accelerare la creatività. E funziona esattamente all’opposto. Offusca il pensiero e blocca la creatività.

La cosa interessante di questo esperimento è che non è un caso anomalo. È stato ripetuto più e più volte, per 40 anni. Gli incentivi condizionati, ossia se tu fai questo ottieni quest’altro, funzionano solo in alcune circostanze. Ma, per molti incarichi o non funzionano, o sono controproducenti. Si tratta di una delle scoperte più solide delle scienze sociali. E anche di una delle più ignorate.

Glucksberg propose l’esperimento anche nella modalità B, con le puntine fuori della scatola: un gruppo veniva cronometrato e all’altro venivano dati incentivi.
Il gruppo con gli incentivi ha stracciato l’altro gruppo. Perché? Perché quando le puntine sono fuori dalla scatola è più facile arrivare alla soluzione e non è richiesto eccessivo ragionamento.

Gli incentivi funzionano benissimo per attività in cui ci sono regole semplici e un chiaro traguardo da raggiungere. Le ricompense, per loro stessa natura, concentrano l’attenzione, restringono il pensiero. Ecco perché funzionano in tanti casi. E così, in attività come questa, con l’attenzione concentrata e l’obiettivo ben chiaro, funzionano ottimamente.

Ma con il vero problema della candela, illustrazione A, non è così. La soluzione non ce l’abbiamo davanti. La soluzione è alla periferia. Occorre guardare il contesto e la ricompensa restringe l’attenzione e riduce le  possibilità.

Non convinti, gli scienziati hanno riproposto il test a Madurai, in India, dove la vita media costa meno. A Madurai, una ricompensa che per i nordamericani è modesta là è molto più significativa. Stesso schema. Un gruppo di giochi, tre gradi di ricompensa. Le persone a cui avevano offerto il premio medio non hanno fatto meglio di quelli a cui avevano offerto quello minore. Ma stavolta quelli a cui avevano offerto il premio più alto sono andati peggio di tutti. Otto volte su nove, incentivi maggiori hanno condotto a esiti peggiori.

A condurre esperimenti sono stati gli economisti del MIT, della Carnegie Mellon, dell’Università di Chicago e della London School of Economics.  Gli economisti della LSE hanno esaminato 51 studi di piani d’incentivazione aziendali per risultati, all’interno di società. Ecco cosa hanno detto:

Troviamo che gli incentivi economici possono produrre un impatto negativo sul risultato globale.

IL GAP FRA QUANTO LA SCIENZA SA E CIO’ CHE LE IMPRESE METTONO IN ATTO

C’è un disallineamento tra quanto la scienza sa e ciò che le imprese praticano. Molto più produttivo è un approccio basato sulla motivazione interna. Sul desiderio di fare cose perché hanno senso, perché ci piacciono, perché sono interessanti, perché fanno parte di qualcosa di importante.

Ricapitolando ciò che sa la scienza:

1) I premi tipici, questi motivatori che pensiamo siano la parte naturale del mercato funzionano, ma solo in casi sorprendentemente limitati.

2) Gli incentivi spesso distruggono la creatività.

3) Il segreto per risultati di alto livello non sta nei premi o nelle punizioni, ma nella pulsione interna che non si vede. La pulsione a fare le cose per il loro valore. La spinta a fare le cose perché hanno senso.

Per CAMBIARE ABITUDINI, 21 GIORNI NON BASTANO!

“Vorrei che i miei dipendenti cambiassero atteggiamento” … “Vorrei che i miei collaboratori fossero più assertivi, collaborativi, puntuali, simpatici, performanti…” … “Ho bisogno che lei cambi il loro comportamento” …

Generare cambiamento è una delle richieste che più facilmente mi muovono le aziende. Purtroppo però, il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, anche se mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in una abitudine o per cambiarne una. Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno che occorra rimuovere le cattive abitudini.

Chi dispensa tali consigli non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

1) un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

2) un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

3) una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere. Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare. Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo infatti a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia. In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso. Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione. E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante “dimostrare” che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza. Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento.  Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

IMPAZIENTE? Attento, forse non sai che più CERCHI di SBRIGARTI meno TEMPO RISPARMI

Come ti comporti quando, alla guida dell’auto, benchè sei già in ritardo per il primo appuntamento della giornata, sei costretto a fermarti a causa del semaforo rosso?

A parte passare a rosso pieno, ovviamente…

Ai semafori rossi e agli stop, tendiamo a fermarci in estrema prossimità del veicolo che ci precede perché pensiamo di avere più probabilità di attraversare l’incrocio prima che scatti nuovamente il rosso e di arrivare a destino in tempi ridotti, anche se  così aumenta sensibilmente il rischio di tamponamento.

Mi spiace dirti che questa è una convinzione errata.

A studiare il fenomeno Jonathan Boreyko, un ingegnere americano, che ha ricreato la scena del semaforo su una pista di prova, dimostrando così che gli automobilisti che si attaccavano al paraurti del veicolo davanti al loro, non procedevano più rapidamente. Pur essendo appena più vicini al semaforo, in realtà impiegavano più tempo a ripartire e i due fattori di fatto, si annullavano a vicenda. In altri termini: più cerchi di sbrigarti, meno tempo risparmi. E più il rischio di incidenti si alza.

Allo stesso modo degli automobilisti, anche quando si ha a che fare con scrittura e attività creative, gli addendi non cambiano: l’impazienza non paga (quasi mai). Compresa quella delle persone che quando hanno un obiettivo diventano inarrestabili. Anche se all’apparenza pare producano molto di più.

A sostenerlo è lo psicologo Robert Boice. Per lui l’impazienza è una delle principali cause della sofferenza che si prova mentre si scrive. “Quando finisce il tempo che un determinato giorno avete destinato alla scrittura, smettere immediatamente, anche se avete l’ispirazione – si legge in How writers journey to comfort and fluency. – Il bisogno di continuare contiene già una forte componente di impazienza per non aver ancora finito, per non aver prodotto abbastanza, perché forse non si troverà mai più un momento tanto perfetto. Quando si stabilisce un orario per scrivere, è fondamentale rispettarne l’inizio e la fine, sempre”.

Affrettarsi a finire qualcosa ha un costo che bilancia o supera i benefici: si rischia di metterci più tempo, farlo peggio, essere più stanchi, o danneggiare ciò che già è stato fatto. Smettete quando il tempo scade e imparerete l’autodisciplina, continuate e asseconderete la vostra insicurezza.

Inevitabilmente mi tornano in mente le basi della comunicazione strategica: partire dopo per arrivare prima. La spontaneità, qualcuno potrebbe ribattere, in questo modo viene meno. “Ciò che viene definita spontaneità altro non è che una serie di apprendimenti divenuti acquisizioni”.