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FALSO MITO N.1: per CAMBIARE ABITUDINI non ci vogliono 21 GIORNI

Il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, o perché siamo mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in un’abitudine o per cambiarne una.

Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento, quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno rimuovere le cattive abitudini. Anche se non sono pochi coloro che ancora tentano di vendere soluzioni facili propinando tecniche di vario tipo.

Chi dispensa tali consigli, semplicemente non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

   •   un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

   •   un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

   •   una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere.

Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

“Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?“

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington: “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare.

Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia.

In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso.

Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione.

E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante dimostrare che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza.

Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento. Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

FALSO MITO: NON è il LEADER a DOVER MOTIVARE i COLLABORATORI (piuttosto aiutarli a trovare il perchè in ciò che fanno!)

 

In un supermercato americano il responsabile, per spingere i dipendenti a rispettare le disposizioni legate alla sicurezza, ha messo al collo, di coloro che venivano sorpresi a violare le procedure, un pollo di gomma, da indossare anche di fronte ai clienti. Per sbarazzarsi del pollo, lo sfortunato o poco attento mal capitato di turno, doveva scovare un altro collega che veniva meno alle regole. Puoi immaginare come sia andato a finire l’esperimento, con le persone che si rincorrevano fra le corsie del supermercato, alla ricerca della minima violazione pur di sbarazzarsi del pollo[1].

Quello di attaccare un pollo di gomma al collo non è sicuramente un buon modo per motivare le persone. Sebbene, fortunatamente, pochi ricorrano a questi bizzarri escamotage, non necessariamente promozioni, bonus, premi e discorsi di incoraggiamento danno risultati migliori. Secondo uno studio Gallup, il 60-80% dei lavoratori non è ingaggiato e motivato rispetto il lavoro che sta facendo. Sentono poca lealtà, passione o motivazione. Mettono il tempo, ma non lo utilizzano in modo produttivo e di certo non sono felici!

 

I QUATTRO TIPI DI MOTIVAZIONE

Quattro sono i tipi di motivazione:

  1. Intrinseca
  2. Estrinseca
  3. Positiva
  4. Negativa

 

La motivazione intrinseca si verifica quando agiamo senza il bisogno di ottenere ricompense esterneCi piace eseguire un’attività, un compito, ecc., o la vediamo come un’opportunità per esplorare, apprendere e agire i nostri potenziali. Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.

La motivazione estrinseca nasce dall’esterno, da qualcuno o qualcosa che ci spinge a fare o non fare qualcosa che non avremmo fatto di nostra iniziativa.

La motivazione positiva è un metodo di incoraggiamento basato sulla ricompensa, una spinta verso un obiettivo. Potrebbe essere un premio in denaro o il sorriso sul volto di un indigente. Indipendentemente dall’obiettivo o l’attività, l’aspettativa di qualsiasi forma di ricompensa è l’impulso della motivazione positiva.

La motivazione negativa è un metodo di potenziamento basato sulla punizione e dalla spinta ad allontanarsi da qualcosa che si vuole evitare.

La motivazione su cui occorre puntare è quella positiva intrinseca. Vediamo perché le altre non hanno la stessa efficacia.

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA NON FUNZIONA

In laboratorio, per spingere i topi a fare qualcosa, viene dato loro del cibo. In classe gli studenti migliori ottengono voti alti, e in fabbrica o in ufficio i lavoratori che raggiungono gli obiettivi meglio e/o prima di altri, ottengono aumenti e avanzamenti di carriera. Siamo spinti a credere che le ricompense promuovono prestazioni migliori[2]. Ma un numero crescente di ricerche suggerisce che non è così… (non da sola). Se una ricompensa – denaro, premi, lodi o vincere una gara – viene vista come la ragione per cui si sta intraprendendo un’attività, quella l’attività sarà considerata di per sé meno piacevole[3].

 La motivazione estrinseca ha alcuni seri inconvenienti:

  1. Non è sostenibile. Non appena ritiri la punizione o la ricompensa, la motivazione scompare.
  2. Ottieni rendimenti decrescenti. Se la punizione o le ricompense rimangono agli stessi livelli, la motivazione diminuisce lentamente. Ottenere la stessa motivazione la prossima volta richiede una ricompensa più grande.
  3. Fa male alla motivazione intrinseca. Punire o premiare le persone per aver fatto qualcosa rimuove il loro desiderio innato di farlo da soli. E per convincere i collaboratori a fare o non fare qualcosa, ogni volta si è costretti a punirli/ricompensarli.

In un esperimento, a dei bambini sono stati dati punti per ogni libro preso in prestito dalla biblioteca durante le vacanze estive. I punti potevano essere riscattati per avere in cambio una pizza in omaggio, questo nel tentativo di incoraggiare i piccoli, alla lettura. Alla fine, i bambini hanno effettivamente letto più libri degli altri compagni che non sono stati premiati con una pizza. Ma quando la lettura non è più stata ripagata con la pizza, quei bambini leggevano molti meno libri degli altri loro coetanei. Il desiderio intrinseco di leggere libri era stato sostituito dalla ricompensa estrinseca, e la motivazione se n’è andata con la pizza.

 

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE NEGATIVA NON FUNZIONA

I cardiopatici che hanno subito operazioni di bypass devono fare una scelta molto semplice: smettere di mangiare grasso, fumare, bere e lavorare troppo o questo può essere letale. Indovina quanti riescono effettivamente a cambiare stile di vita in modo sostenibile? A distanza di due anni dall’operazione, quanti di questi cardiopatici sono riusciti a mantenere le loro nuove abitudini?

10%. 9 su 10 non sono stati in grado di apportare semplici cambiamenti allo stile di vita, nonostante questo fosse vitale per loro.

Possiamo quindi dire che la motivazione negativa non funziona (almeno nel medio/lungo periodo).

Dean Ornish ha creato un programma in cui ai malati di cuore veniva insegnato ad apprezzare la vita (piuttosto che a temere la morte). Praticavano yoga, meditavano, ricevevano consulenze antistress e seguivano una dieta sana. Il risultato: 2 anni dopo, il 70% dei pazienti ha mantenuto il nuovo stile di vita. Quando nemmeno la paura della morte può far cambiare lo stile di vita in modo sostenibile, diventa chiaro che la motivazione basata sull’evitare qualcosa non è efficace quanto la motivazione basata sul raggiungimento di qualcosa. Almeno non nel medio/lungo termine. Nel breve periodo, la motivazione negativa può essere uno stimolo all’azione, ma si esaurisce in fretta poichè è fisicamente e psicologicamente poco sostenibile.

 

COSA FUNZIONA?

Ci comportiamo come se le persone non fossero intrinsecamente motivate, e vadano a lavorare ogni giorno aspettando che qualcun altro accenda il fuoco per loro. Questa convinzione è piuttosto comune.  È giusto e umano che i manager si preoccupino della motivazione e del morale delle loro persone, è solo che non ne sono la causa[4].

Quindi il manager anziché essere la fonte della motivazione, deve aiutare i dipendenti a trovare la propria motivazione intrinseca.

Il leader non è colui che motiva, il vero leader è colui che aiuta i collaboratori a trovare il loro perchè in ciò che fanno.

 

Cosa migliora la motivazione intrinseca?

  • Sfida: essere in grado di sfidare te stesso e portare a termine nuovi compiti.
  • Controllo: avere la possibilità di scegliere cosa fare.
  • Cooperazione: essere in grado di lavorare e aiutare gli altri.
  • Riconoscimento: ottenere un riconoscimento significativo e positivo per il tuo lavoro.
  • Felicità sul lavoro: le persone a cui piace il proprio lavoro e il proprio posto di lavoro hanno molte più probabilità di trovare una motivazione intrinseca.
  • Fiducia: quando ti fidi delle persone con cui lavori, la motivazione intrinseca è molto più forte.

Ciò che va fatto è spingere i collaboratori a scoprire il loro personale purpose, e sviluppare abilità sul lavoro.  Crea un ambiente di lavoro felice, positivo e le persone saranno naturalmente motivate. Ancora meglio: motivano sé stessi e gli altri, alimentando un circolo virtuoso. Questo sicuramente batte, nel medio-lungo termine, punizioni e ricompense.

 

Fonti

[1] workingamerica.com’s MyBadBoss contest

[2] http://naggum.no/motivation.html

[3] https://www.alfiekohn.org/

[4] Koestenbaum P., Block P., Freedom and accountability at work: applying philosophic insight to the real world, 2001.

 

COME ESSERE CERTI DI AVER PRESO UNA BUONA DECISIONE?

Come possiamo essere certi di aver preso una buona decisione?

Non necessariamente soddisfare l’obiettivo prefissato è sintomo di buona decisione.

Supponiamo di essere il direttore commerciale di un’azienda e di annoverare fra i collaboratori un commerciale di indubbia qualità e bravura, riconosciuto da tutti e a cui le società concorrenti fanno il filo da tempo.

Un giorno il commerciale arriva in ritardo a un meeting importante, si siede al suo posto come niente fosse e non chiede scusa e nemmeno imputa a qualche evento straordinario o grave la mancata puntualità.

Come vi comportereste nei panni del direttore? E come potete essere certi che la decisione presa sia buona?

Potreste riprendere il commerciale seduta stante o far finta di niente. In ogni caso, il rischio di incorrere in una decisione sbagliata potrebbe avere conseguenze pesanti: il commerciale potrebbe risentirsi e andarsene altrove oppure, se non agite, perdere credibilità e rispetto degli altri collaboratori.

Spesso la decisione che si prende è inficiata da convinzioni, valori e strategie adattive che in altri contesti e nel tempo si sono dimostrate efficaci. Non necessariamente però anche in questo caso, può funzionare. Mi spiego meglio.

Se per noi la puntualità è un valore importante e distintivo, difficilmente riusciremmo a tacere e saremo tentati di trattare il commerciale come tutti gli altri venditori della squadra e quindi a non considerarlo come il migliore dell’organizzazione. Di fatto, lo puniremmo appena entra in sala riunioni.

Se invece per noi è il valore della bravura a guidarci, saremo tentati di trattare i collaboratori proporzionalmente al loro merito e ai loro risultati. Di fatto, ignoreremo il ritardo certi dei vantaggi che il commerciale saprà portare all’azienda.

Quale decisione vi sembra corretta?

Nessuna delle due. Sia rimproverare sia ignorare il commerciale non sono decisioni corrette, poiché guidate dalla nostra storia, da pregiudizi e credenze e non dall’analisi del contesto, della situazione e di una visione a medio/lungo termine.

Riprendendo il commerciale, si potrebbero aprire due scenari. Il commerciale, accortosi dell’errore, potrebbe essere spinto a fare di più sul lavoro, aumentando ulteriormente il fatturato. E facilmente penseremmo che intervenire sui comportamenti sbagliati sia la miglior soluzione in frangenti di questo tipo, anche verso i collaboratori più efficaci e bravi.

Oppure il commerciale potrebbe prendere contatto con altre aziende del settore e imputarvi (imputare al direttore commerciale) la responsabilità della decisione, con il rischio che il CEO insoddisfatto di come è stata gestita la situazione, vi licenzi o perda fiducia in voi.

Quindi? Cosa è giusto fare?

Entrambe le scelte possono funzionare, purchè l’indicatore da considerare non sia semplicemente il risultato finale ma il processo che sottende a quella decisione.

Sapere quanto e quali valori, convinzioni e pregiudizi ci spingono verso strategie adattive e standardizzate è importante. Questo impedisce loro di portarci all’azione senza aver verificato le variabili e lo specifico contesto, rischi e opportunità di ciascuna opzione. Conoscere i rischi e gli effetti sia in negativo sia in positivo, ci guida verso la scelta corretta. In quel momento, in quel contesto.

Ogni decisione complessa non può essere presa senza un’analisi e un’attenzione al contesto.

Come è possibile prendere la giusta decisione?

Facendoci le giuste domande. Più domande ci facciamo più riusciremo a prevedere incertezza, eventi e rischi.

… to be continued

NON TUTTO va COME PREVISTO. IL BOOMERANG delle CONSEGUENZE INATTESE

Quando agiamo, solitamente, lo facciamo in funzione di un obiettivo. Per quanto ragionate siano le strategie, non sempre però il risultato è prevedibile. Talvolta ci stupisce in positivo, altre il risultato delle scelte attuate produce risultati perversi, tornando violentemente indietro come un boomerang.

Non sempre prevedere le conseguenze è facile, soprattutto perchè l’irrazionalità umana è tutt’altro che prevedibile.

Delhi, periodo coloniale

Il governo inglese dell’India, preoccupato per l’alto numero di serpenti nelle strade, decide di offrire una taglia per ogni esemplare ucciso. Molti indiani iniziano così ad allevare cobra con il preciso intento di ucciderli e incassare il denaro. Fino a che il governo si trova costretto ad eliminare la ricompensa. A quel punto però gli allevatori liberano i serpenti che invadono le strade della capitale, moltiplicandosi rapidamente. Da qui il nome di effetto cobra, un boomerang inatteso e piuttosto velenoso.

Password

Se da un lato dovrebbero rendere più sicura la navigazione, essendo spesso complicate, si fa fatica a ricordarle, quindi si appuntano su post it che si lasciano in giro, o le si raccolgono in un unico foglio, riducendo di fatto la sicurezza.

Effetto Streisand

Nel 2013 l’omonima cantante intenta una causa legale contro un fotografo che, effettuando riprese dall’alto per motivi scientifici (stava studiando l’erosione costiera), ha scattato un’immagine della sua villa di Malibu, pubblicandola. Anche se la foto l’hanno vista solo sei persone, Streisand accusa il fotografo di violazione della privacy. Risultato: la notizia (foto compresa) fa il giro del mondo. Streisand, tra l’altro, perde la causa.

Assuan, 1970

L’inaugurazione della diga fu salutata come una benedizione per l’agricoltura. Con il passare del tempo, comparve un serio problema. Prima del progetto, i sedimenti del Nilo rendevano fertili le pianure a valle di Assuan. Lo sbarramento tratteneva invece i sedimenti sul fondo del nuovo lago Nasser, rendendoli inutili. Gran parte dell’energia elettrica generata dalla diga dovette essere impiegata per alimentare impianti di fertilizzazione artificiale. Altro effetto boomerang: l’iniziale successo si ritorse, almeno in parte, contro se stesso.

5 CAUSE ALLA BASE DELLE CONSEGUENZE IMPREVISTE

Esperto conoscitore delle conseguenze inattese è il sociologo della Columbia University Robert K. Merton che evidenziò 5 possibili cause alla base delle conseguenze impreviste.
Ignoranza: non teniamo conto delle informazioni disponibili, o l’informazione disponibile è incompleta.
Errore e ragionamenti fallaci. Come mostrò il Nobel per l’Economia, Herbert Simon, la razionalità umana è limitata, non corrisponde a quella (perfetta) attribuita dalla teoria neoclassica all’Homo oeconomicus. Ignoranza ed errore sono costitutivamente inevitabili, e con loro gli effetti imprevisti dell’azione.
Prevalenza del breve periodo e pregiudizi di valore. Entrambe operano spesso nella sfera politica.
Profezie autoavveranti: quelle che si ritorcono contro chi le fa. Durante la crisi del 1929, molti risparmiatori si convinsero che le banche sarebbero fallite e si precipitarono a ritirare i propri risparmi. Rimasti a corto di liquidità, molti istituti fallirono per davvero.

Individuare i meccanismi alla base degli effetti non previsti significa poterli almeno in parte controllare; il boomerang veniva anticamente usato come arma da combattimento. Siccome, nel mondo sociale, gli effetti boomerang sono spesso negativi, è giusto comprenderne il funzionamento e mettere in atto le più efficaci tattiche di difesa. Cercando di sconfiggere la realtà prima che questa possa prendersi la rivincita.

Per fortuna le cose possono anche andare meglio del previsto, come nel caso di Alexander Fleming a cui si deve la scoperta della penicillina, il primo antibiotico, imbattendosi in una muffa, il penicillium notatum, che ha distrutto una delle colture di batteri su cui stava lavorando. O la vicenda di un padrone di casa che aumenta la pigione ai due inquilini. La conseguenza inattesa è l’invenzione di Airbnb da parte dei due che, per far quadrare i conti, decidono di affittare i tre materassi ad aria che hanno in casa (ecco svelata la ragione dietro il prefisso Air)

E se gli INCENTIVI OSTACOLASSERO INNOVAZIONE e PROBLEM SOLVING? Mettiti alla prova con il problema della candela

Ti va di testare la tua capacità di problem solving?

Hai una candela, una scatola di fiammiferi e una di puntine, il tutto su un tavolo vicino a una parete. L’obiettivo è, usando solo gli oggetti indicati “fissare la candela alla parete in modo tale che la cera non cada nè sul tavolo né sul pavimento”.

Fai partire il cronometro e trova la soluzione, in meno di 7 minuti.

Il problema della candela” è l’esperimento condotto dallo psicologo tedesco Karl Duncker nel 1945. Non sembra un quesito complesso da risolvere… all’apparenza!

Eppure una parte di coloro che vengono messi alla prova tendono a iniziare cercando di inchiodare la candela alla parete, con scarsi risultati. Altri di sciogliere la candela per incollarla alla parete, ma nemmeno questa è una buona idea poiché la cera cade ugualmente sul tavolo. Dopo una media di 7 minuti, i partecipanti giungono alla miglior soluzione: utilizzare la scatola delle puntine come base per sostenere la candela e fissare la scatola alla parete utilizzando le puntine.

LA SCOPERTA DI DUNCKER

Duncker scoprì che i risultati dell’esperimento cambiavano se gli elementi venivano presentati in modo diverso. Per esempio, presentando una scatola contenente puntine (illustrazione A) o le puntine fuori dalla scatola (illustrazione B), nel secondo caso le persone tardavano meno nella risoluzione del problema.

La spiegazione è semplice: nel primo caso i partecipanti credono che la scatola possa unicamente contenere le puntine e, di conseguenza, non giungono a considerare la possibile soluzione. Questo fenomeno prende il nome di Fissità Funzionale e consiste nel fissarsi sulla funzione di un elemento, in questo caso la scatola delle puntine. Detta in altri termini ci rende in grado di vedere soltanto le soluzioni che implicano l’impiego di oggetti nel modo più consueto e mette in pericolo la nostra capacità di ideare soluzioni nuove per risolvere un problema.

La fissità non è di per sé totalmente negativa, ma potrebbe risultare limitante, poiché chiude la porta a molte possibilità che potrebbero renderci le cose più facili o persino aiutarci a risolvere problemi non così complicati.

IL POTERE DEGLI INCENTIVI

L’esperimento venne ritentato, con l’aggiunta di una ricompensa, anche da Sam Glucksberg professore a Princeton.

Glucksberg ha costituito due gruppi.  Al primo gruppo ha detto: “Vi cronometro per creare un riferimento, il tempo medio che richiede la soluzione di questo tipo di problema.”
Al secondo gruppo ha offerto premi: “Chi finisce nel 25% dei più veloci, avrà ( x ) dollari. Il più veloce avrà, invece ( y ) dollari”. Le persone del secondo gruppo hanno impiegato, in media, tre minuti e mezzo in più, del primo gruppo, di coloro cioè a cui non veniva dato alcun incentivo economico.

Controintuitivo…

Di solito, affinchè le persone rendano di più, le si premia. È così che funziona il mercato. Ma in questo caso non funziona. C’è un incentivo diretto ad affinare il pensiero e accelerare la creatività. E funziona esattamente all’opposto. Offusca il pensiero e blocca la creatività.

La cosa interessante di questo esperimento è che non è un caso anomalo. È stato ripetuto più e più volte, per 40 anni. Gli incentivi condizionati, ossia se tu fai questo ottieni quest’altro, funzionano solo in alcune circostanze. Ma, per molti incarichi o non funzionano, o sono controproducenti. Si tratta di una delle scoperte più solide delle scienze sociali. E anche di una delle più ignorate.

Glucksberg propose l’esperimento anche nella modalità B, con le puntine fuori della scatola: un gruppo veniva cronometrato e all’altro venivano dati incentivi.
Il gruppo con gli incentivi ha stracciato l’altro gruppo. Perché? Perché quando le puntine sono fuori dalla scatola è più facile arrivare alla soluzione e non è richiesto eccessivo ragionamento.

Gli incentivi funzionano benissimo per attività in cui ci sono regole semplici e un chiaro traguardo da raggiungere. Le ricompense, per loro stessa natura, concentrano l’attenzione, restringono il pensiero. Ecco perché funzionano in tanti casi. E così, in attività come questa, con l’attenzione concentrata e l’obiettivo ben chiaro, funzionano ottimamente.

Ma con il vero problema della candela, illustrazione A, non è così. La soluzione non ce l’abbiamo davanti. La soluzione è alla periferia. Occorre guardare il contesto e la ricompensa restringe l’attenzione e riduce le  possibilità.

Non convinti, gli scienziati hanno riproposto il test a Madurai, in India, dove la vita media costa meno. A Madurai, una ricompensa che per i nordamericani è modesta là è molto più significativa. Stesso schema. Un gruppo di giochi, tre gradi di ricompensa. Le persone a cui avevano offerto il premio medio non hanno fatto meglio di quelli a cui avevano offerto quello minore. Ma stavolta quelli a cui avevano offerto il premio più alto sono andati peggio di tutti. Otto volte su nove, incentivi maggiori hanno condotto a esiti peggiori.

A condurre esperimenti sono stati gli economisti del MIT, della Carnegie Mellon, dell’Università di Chicago e della London School of Economics.  Gli economisti della LSE hanno esaminato 51 studi di piani d’incentivazione aziendali per risultati, all’interno di società. Ecco cosa hanno detto:

Troviamo che gli incentivi economici possono produrre un impatto negativo sul risultato globale.

IL GAP FRA QUANTO LA SCIENZA SA E CIO’ CHE LE IMPRESE METTONO IN ATTO

C’è un disallineamento tra quanto la scienza sa e ciò che le imprese praticano. Molto più produttivo è un approccio basato sulla motivazione interna. Sul desiderio di fare cose perché hanno senso, perché ci piacciono, perché sono interessanti, perché fanno parte di qualcosa di importante.

Ricapitolando ciò che sa la scienza:

1) I premi tipici, questi motivatori che pensiamo siano la parte naturale del mercato funzionano, ma solo in casi sorprendentemente limitati.

2) Gli incentivi spesso distruggono la creatività.

3) Il segreto per risultati di alto livello non sta nei premi o nelle punizioni, ma nella pulsione interna che non si vede. La pulsione a fare le cose per il loro valore. La spinta a fare le cose perché hanno senso.

Per CAMBIARE ABITUDINI, 21 GIORNI NON BASTANO!

“Vorrei che i miei dipendenti cambiassero atteggiamento” … “Vorrei che i miei collaboratori fossero più assertivi, collaborativi, puntuali, simpatici, performanti…” … “Ho bisogno che lei cambi il loro comportamento” …

Generare cambiamento è una delle richieste che più facilmente mi muovono le aziende. Purtroppo però, il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, anche se mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in una abitudine o per cambiarne una. Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno che occorra rimuovere le cattive abitudini.

Chi dispensa tali consigli non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

1) un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

2) un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

3) una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere. Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare. Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo infatti a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia. In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso. Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione. E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante “dimostrare” che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza. Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento.  Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

IMPAZIENTE? Attento, forse non sai che più CERCHI di SBRIGARTI meno TEMPO RISPARMI

Come ti comporti quando, alla guida dell’auto, benchè sei già in ritardo per il primo appuntamento della giornata, sei costretto a fermarti a causa del semaforo rosso?

A parte passare a rosso pieno, ovviamente…

Ai semafori rossi e agli stop, tendiamo a fermarci in estrema prossimità del veicolo che ci precede perché pensiamo di avere più probabilità di attraversare l’incrocio prima che scatti nuovamente il rosso e di arrivare a destino in tempi ridotti, anche se  così aumenta sensibilmente il rischio di tamponamento.

Mi spiace dirti che questa è una convinzione errata.

A studiare il fenomeno Jonathan Boreyko, un ingegnere americano, che ha ricreato la scena del semaforo su una pista di prova, dimostrando così che gli automobilisti che si attaccavano al paraurti del veicolo davanti al loro, non procedevano più rapidamente. Pur essendo appena più vicini al semaforo, in realtà impiegavano più tempo a ripartire e i due fattori di fatto, si annullavano a vicenda. In altri termini: più cerchi di sbrigarti, meno tempo risparmi. E più il rischio di incidenti si alza.

Allo stesso modo degli automobilisti, anche quando si ha a che fare con scrittura e attività creative, gli addendi non cambiano: l’impazienza non paga (quasi mai). Compresa quella delle persone che quando hanno un obiettivo diventano inarrestabili. Anche se all’apparenza pare producano molto di più.

A sostenerlo è lo psicologo Robert Boice. Per lui l’impazienza è una delle principali cause della sofferenza che si prova mentre si scrive. “Quando finisce il tempo che un determinato giorno avete destinato alla scrittura, smettere immediatamente, anche se avete l’ispirazione – si legge in How writers journey to comfort and fluency. – Il bisogno di continuare contiene già una forte componente di impazienza per non aver ancora finito, per non aver prodotto abbastanza, perché forse non si troverà mai più un momento tanto perfetto. Quando si stabilisce un orario per scrivere, è fondamentale rispettarne l’inizio e la fine, sempre”.

Affrettarsi a finire qualcosa ha un costo che bilancia o supera i benefici: si rischia di metterci più tempo, farlo peggio, essere più stanchi, o danneggiare ciò che già è stato fatto. Smettete quando il tempo scade e imparerete l’autodisciplina, continuate e asseconderete la vostra insicurezza.

Inevitabilmente mi tornano in mente le basi della comunicazione strategica: partire dopo per arrivare prima. La spontaneità, qualcuno potrebbe ribattere, in questo modo viene meno. “Ciò che viene definita spontaneità altro non è che una serie di apprendimenti divenuti acquisizioni”.

I NUDGE al TEMPO del CORONAVIRUS. E se Boris Johnson non avesse torto?

A qualcuno, la scelta del governo inglese di applicare misure gentili per contenere la diffusione del coronavirus, ha fatto storcere il naso. Eppure una spiegazione c’è. Anzi, c’è molto di più di una spiegazione, c’è una teoria: quella dei Nudge.

Boris Johnson non ha chiuso le scuole o impedito ai grandi eventi sportivi di svolgersi. Ha invece preferito applicare i Nudge, le spinte gentili, far diventare abitudini pratiche essenziali lavarsi le mani, non toccarsi il viso, non stringere mani, rimanere a casa se ci si sente male e isolarsi se affetti da tosse continua.

Questo approccio differisce non poco dalle misure di quarantena imposte nei diversi Paesi, fra cui l’Italia e in qualche modo segna lo spartiacque fra il Regno Unito e il resto del mondo.

IMMUNITA’ di GREGGE

Patrick Vallance, consigliere scientifico del governo inglese, ha spiegato che la ragione per non abbracciare i divieti è incoraggiare l’immunità di gregge,  e affinché il Paese possa beneficiarne dev’essere contagiato il 60 per cento della popolazione.

La dichiarazione ha ovviamente suscitato polemiche. “Per le malattie che si trasmettono da persona a persona, le vaccinazioni non solo proteggono i vaccinati, ma anche le persone che non possono essere vaccinate (perché non ancora in età raccomandata, perché non rispondono alla vaccinazione o perché presentano controindicazioni)”, spiega l’Istituto superiore di sanità italiano.

Questo avviene grazie all’immunità di gregge per cui, se la percentuale di individui vaccinati all’interno di una popolazione è elevata si riduce la possibilità che le persone non vaccinate (o su cui la vaccinazione non è efficace) entrino in contatto con il virus e, di conseguenza, si riduce la trasmissione dell’agente infettivo. Questo significa che se vengono mantenute coperture sufficientemente alte si impedisce al virus di circolare fino alla sua scomparsa permanente“.

Tuttavia, Sir Patrick Vallance ha affermato che un vaccino contro il coronavirus efficace non sarà prodotto in tempo. Pertanto, in assenza di un programma di vaccinazioni di massa, affinché la popolazione del Regno Unito ottenga l’immunità di gregge, un numero sufficiente di persone dovrà contrarre il virus e guarire.

NUDGE E STRATEGIE

L’approccio di Johnson, sebbene più gentile rispetto a quello attuato nel resto del mondo, si basa in realtà su modelli sofisticati che potrebbero ridurre il tasso di mortalità di un terzo tra i gruppi ad alto rischio nel Regno Unito.

Stiamo cercando, in un modo mai fatto prima, di utilizzare tutti gli strumenti disponibili: medici e matematici ma anche esperti del comportamento“, ha affermato David Halpern, capo del Behavioral Insights Team del Governo.

Al centro della strategia del Regno Unito c’è la consapevolezza che, se il coronavirus continua a diffondersi, sarà impossibile impedire a molte persone di ammalarsi.

È qui che entrano in gioco gli esperti di Halpern. Il gruppo è stato creato una decina di anni fa dall’ex primo ministro David Cameron per attuare le intuizioni dell’economista americano Premio Nobel Richard Thaler. “I modelli si basano su ciò che la gente farà“, ha detto Halpern. “Le persone rispetteranno le istruzioni e fino a che punto? Per quanto tempo la gente sopporterà ristrettezze, divieti e costrizioni?“. Difficile dargli torto, vedendo quanto poco disciplinati sono gli italiani nel seguire le regole.

Troppe restrizioni, divieti e chiusure forzate hanno infatti spesso l’effetto opposto.

EFFETTO BOOMERANG

Se vogliamo spingere le persone verso comportamenti virtuosi, dobbiamo lasciare loro delle opzioni fra le quali scegliere. Perché quando ci viene proibito qualcosa, la più comune delle reazioni è la reattanza, un fenomeno che consiste nel rifiuto di accettare regole che limitano i comportamenti individuali.

La reattanza ha una base prettamente emotiva e si manifesta soprattutto quando la persona si sente eccessivamente costretta in una direzione che non condivide. Risultato? Adotta esattamente il comportamento opposto. I principi centrali della teoria della reattanza sono due: se uno dei comportamenti che una persona può scegliere è minacciato di eliminazione (per effetto di una legge, per esempio), l’individuo sperimenterà la reattanza emotiva.

Inoltre il comportamento vietato aumenterà automaticamente in attrattiva e porterà il soggetto a battersi per riconquistare il livello di libertà individuale perduto.

Questa teoria è stata più volte dimostrata in esperimenti di psicologia sociale, per esempio in uno studio di Paul Silvia dell’Università del North Carolina, pubblicato nel 2005 «il miglior modo per ottenere un effetto boomerang è vietare qualcosa. Ciò significa che dobbiamo insistere soprattutto nel rafforzare i messaggi positivi a favore dei comportamenti corretti piuttosto che vietare quelli scorretti”.

Studi successivi hanno dimostrato anche che la reattanza è misurabile ed è proporzionale alla riduzione delle scelte disponibili: in sostanza, in un paese in cui molte cose sono vietate, la reattanza nei confronti di ogni singolo divieto è più forte di quanto accade dove lo stesso divieto è posto in un contesto generale più tollerante. In pratica, non ci si abitua mai a veder ridurre la propria gamma di scelte possibili, e non si diventa più obbedienti perché si vive in un luogo dove la società esercita un forte controllo sull’individuo, bensì esattamente il contrario»

Difficile non essere d’accordo, dopo appena qualche giorno, proprio stamane c’è stata la seconda grande corsa ai treni per raggiungere i luoghi di residenza al Sud, senza contare chi invece sale approfitta del fermo forzato per farsi una vacanza, in beffa a decreti e divieti in vigore nel Bel Paese.

Ciò su cui sta lavorando la Nudge Unit inglese è creare architetture di scelte capaci di generare una nuova abitudine, facendo diventare il lavaggio delle mani parte di una routine, come quando le persone tornano a casa o al lavoro e si tolgono il cappotto.

Se i metodi di Halpern sembrano nuovi, va invece ricordato che derivano da una lunga tradizione scientifica, come quel medico che lavorava a un’epidemia di colera nella Londra vittoriana e si rese conto che molte vittime stavano attingendo acqua da una singola pompa. Togliere la maniglia alla pompa ha contribuito a porre fine allo scoppio. Nient’altro che un Nudge, una spinta gentile.

Io che scrivo, ovviamente non sono ferrata sul problema coronavirus in modo tanto specifico per dire la mia, ma credo che riflettere su due strategie tanto diverse, è sempre utile e costruttivo.

Gli approcci nel Regno Unito e nel resto d’Europa sono nettamente diversi. Gli errori di un paese si trasformeranno in risultati per un altro. L’ approccio Keep Calm And Wash Your Hands è ancora una scommessa per Johnson. Se bloccare milioni di persone si rivelerà efficace altrove e il virus si diffonderà in modo incontrollato in Gran Bretagna, la politica sembrerà un terribile errore.

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AL CIBO NON SI COMANDA… Ma con i Nudge seguire una dieta non è mai stato così facile!

E’ fra le parole più cercate sul web. La (in)seguiamo di continuo, spesso senza grandi risultati. Eppure non ci arrendiamo, come dimostrano i ciclici tentativi che mettiamo in atto per mitigare il nostro senso di colpa. Soprattutto dopo aver esagerato con le calorie ingerite, dopo i falsi buoni propositi di andare in palestra, le taglie dei vestiti che si fanno sempre più strette e l’impietoso giudizio dello specchio.

Insomma al cibo non si comanda. Non a caso, tutto sembra metterci i bastoni fra le ruote quando vogliamo… vorremmo ridurre di qualche centimetro il nostro giro vita. Andiamo al ristorante e nonostante il nostro convincimento a ordinare insalata e riso integrale, alla fine divoriamo più di quanto facciamo quando non siamo sotto regime dietetico.

A venirci in aiuto, per fortuna, anche questa volta ci sono i Nudge, le spinge gentili. La strategia che ci insegna come prendere decisioni funzionali al nostro benessere senza sforzo e con il minimo sforzo.

ATTENTI ALLA TAGLIA DEI VOSTRI OSPITI

Lo sapevi che siamo influenzati sia dalla taglia degli altri commensali, sia da quella del cameriere, quando ci troviamo seduti allo stesso tavolo, menù alla mano? A seconda della corporatura del cameriere cambia il tipo e il numero di portate ordinate. Anche se può sembrare bizzarro, è provato scientificamente da uno studio congiunto condotto dai ricercatori dell’università tedesca di Jena e di Ithaca (Stato di New York) e pubblicato sulla rivista scientifica Environment & Behaviour: al variare dell’indice di massa corporea (IMC) del cameriere, cambia anche il quantitativo di cibo mangiato e di liquidi bevuti a tavola. E, in particolare, più il valore dell’IMC (che si ottiene dividendo il proprio peso corporeo in chilogrammi per il quadrato della propria altezza in metri) è alto, più chi siede al tavolo tende a ordinare cibi ipercalorici e dolce, vino, liquori e caffè zuccherato a fine pasto.

Detto in altri termini: la rotondità del cameriere induce a esagerare in fatto di calorie, a non sentirci in colpa se mangiamo oltremisura e a non sentirci giudicati.

Il 18% dei clienti serviti da camerieri sovrappeso consuma più alcolici, mentre la scelta di ordinare il dessert è quattro volte più frequente, sempre se l’indice di massa corporea dell’inserviente è superiore a 25 (il valore oltre il quale si parla di sovrappeso per l’uomo).

Altri studi hanno dimostrato come ci lasciamo condizionare dalle scelte dichiarate dei nostri commensali quando ordiniamo al ristorante. E tendiamo a omologarci, ordinando le stesse cose dei nostri amici. Ma a farci cambiare idea su cosa mangiare può contribuire anche la musica: il New York Times già nel 2012 dimostrò come i locali usavano l’artificio della musica alta per convincere i clienti a… bere di più.

Sapere queste cose non ci farà perdere peso, ma credetemi, la consapevolezza è il primo passo verso abitudini più salutari o più allineate ad obiettivi che talvolta si fanno ostici. Detto in altri termini, ci sono molti modi per scalare una vetta!

TAKE AWAY

A mettere a rischio il nostro giro vita è (anche) il cibo da asporto. Sempre più in voga e soprattutto comodo. Pensiamo a quante nuove società fanno servizio a domicilio… Fino a qualche anno fa, ti sentivi fortunato se la pizzeria di fiducia ti portava a casa la margherita, nei giorni di pioggia battente.

Dati alla mano, ad usufruire maggiormente dei take away sono le persone socialmente svantaggiate, quelle meno istruite o con redditi più bassi. Questo può essere spiegato dal fatto che queste persone tendono ad avere meno tempo per cucinare, meno conoscenze su un’alimentazione sana e meno soldi per alimenti sani. I livelli di consumo di cibo da asporto sono, differentemente da quanto si potrebbe pensare, maggiori nei gruppi svantaggiati e dove, fra i cibi più richiesti ci sono appunto quelli che raddoppiano le probabilità di obesità: le patatine fritte.

A condizionare le nostre abitudini alimentari sono poi i cibi che più facilmente troviamo nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo. Per chi vive o lavora in aree dove le opzioni di cibo sano e fresco latitano, le scelte non salutari sono probabilmente l’opzione più semplice, se non l’unica.

A boicottare le nostre buone intenzioni è anche come il cibo ci viene servito. Il team di iNudgeYou, per esempio, ha condotto alcuni studi proprio in questo senso. A una conferenza, durante la pausa, gli ospiti potevano scegliere tra una mela intera e pezzetti di torta. Quando le mele sono presentate intere, soltanto il 32,9% delle persone le ha mangiate, invece quando sono state presentate tagliate, a sceglierle è stato l’85,3%.

SALE E SALIERE

Abbondare con il sale, se da un lato rende più saporite le pietanze, dall’altro ha ricadute pesanti sulla salute. In Inghilterra, alcune indagini hanno rivelato che venivano consumate ingenti quantità di sale nei locali di fish and chips: in un solo pasto era contenuto quasi la metà dell’apporto quotidiano consigliato. Per ridurne la quantità, sono state realizzate delle saliere con soli cinque fori (quelle tradizionali ne contengono diciassette): l’obiettivo era correggere il gesto automatico di ogni consumatore.

Prima di decidere quale fosse la quantità ideale di fori, gli architetti delle scelte (coloro che progettano i nudge) hanno esaminato campioni di fish and chips dei vari ristoranti della zona, per determinare come il design delle saliere potesse risolvere il problema. Con questo nuovo tipo di contenitori si poteva diminuire l’apporto del 60% senza sacrificare le esigenze del consumatore.

SE FOSSE LA FORMA DEL BICCHIERE A FARCI UBRIACARE?

Un altro piccolo trucco è porre attenzione alla forma del bicchiere. I ricercatori dell’Università di Bristol ritengono che beviamo più velocemente da bicchieri dalla forma ricurva rispetto a quelli dritti. Nel corso di un esperimento, infatti, i soggetti impiegavano sette minuti a bere mezza pinta di birra contenuta in un bicchiere ricurvo, contro gli undici impiegati quando la stessa quantità era servita in bicchieri dritti.

Un’altra spintarella è non servire vino in cartone e prediligere le bottiglie. Perché le bottiglie, essendo in vetro, sono trasparenti e permettono di vedere la quantità consumata, e di fissare degli indicatori, cosa non possibile con i contenitori in cartone.

OGNI GIORNO PRENDIAMO 200 DECISIONI SUL CIBO

Se sei stato assalito dallo sconforto, devo comunicarti che in media ogni giorno prendiamo duecento decisioni che hanno a che fare con il cibo, la maggioranza delle quali inconsce.

Ecco perché gestirle tutte è impresa ardua, però possiamo guidarle.

Per esempio possiamo iniziare a usare piatti più piccoli, che contengono una porzione di cibo più piccola di quella usata di solito. Tanto non sentirai la fame. A dimostrarlo, un esperimento in cui i partecipanti, divisi in due gruppi, venivano invitati a consumare una zuppa.

Un gruppo mangiava da una scodella che impercettibilmente e a loro insaputa, continuava a riempirsi di minestra da un foro nascosto sul fondo. L’altro gruppo invece consumava il cibo da una tazza normale. Chi mangiava dalla tazza truccata ha consumato il 73% di zuppa in più senza saperlo. Ma soprattutto non si sentiva più sazio di chi aveva invece mangiato una dose normale di zuppa. Il calcolo calorico non era stato fatto dalla pancia ma dagli occhi.

Ci sono molti modi per vivere una dieta. L’importante è scegliere un modo semplice e che nel possibile ci faccia anche divertire, giocando con le diverse opzioni che i Nudge ci mettono a disposizione. Se vuoi saperne di più ho racchiuso tanti altri consigli nel libro Nudge Revolution. La strategia che permette di rendere semplici scelte complesse.

Se accetti la spinta, potresti accorgerti che tante scelte possono essere davvero molto facili… anche seguire una dieta.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista DF Magazine: https://magazine.darioflaccovio.it/2020/02/06/come-fare-la-dieta-nudge-avere-forma-smagliante/

 

Le ABITUDINI si POSSONO MODIFICARE ma… NON nel MODO in cui PENSI. Dai retta, per una volta, alle Neuroscienze

Da tempo pseudo guru, formatori improvvisati e coach della domenica ci tormentano, cercando di farci credere sostanzialmente due cose: 1) la formazione è la panacea di tutti i mali 2) se si vuol avere successo bisogna uscire dalla propria zona di confort.

Mi dispiace, soluzione sbagliata.

A dirlo ovviamente non sono io, ma la scienza, le Neuroscienze. Vi spiego in cosa, guru, formatori e coach improvvisati sbagliano. Possiamo seguire i migliori corsi di formazione sul mercato, modellare i leader che riteniamo di riferimento alla nostra crescita, ma rimanere con le stesse abitudini di sempre.

PERCHE’ ACCADE QUESTO?

Il cervello è neofobico, non ama le novità. Non a caso le attività cerebrali rispondono a due necessità basilari: assicurare la sopravvivenza e contenere il dolore. E per farlo si avvalgono di due strategie: ripetizione e velocità. La velocità si ottiene con la spontaneità e l’automatizzazione nel percepire ciò che ci accade secondo dopo secondo, senza metterlo in discussione. La ripetizione si ottiene con l’avversione (emotiva e cognitiva) verso ciò che è sconosciuto e nuovo.

Questo è possibile perché il 95% delle strutture neurali operano in modo automatico, in assenza di valutazione e calibrazione di ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo e pensiamo. Altrimenti sarebbe impossibile decodificare ogni informazione con cui entriamo in relazione e processare le circa 15 mila decisioni a cui quotidianamente siamo chiamati.

Inoltre il cervello non è disponibile a cambiare in modo incondizionato. Accetta sì abbastanza di buon grado quei cambiamenti che sono allineati alle esperienze e alle credenze a cui già è abituato, e impara nuovi modi di pensare e di agire solo quando questi non richiedono di andare contro le abitudini cognitive ed emotive già strutturate.

Quando gli si chiede o impone di cambiare comportamenti per andare verso altre abitudini di cui non ha esperienza, il cervello erge muri difensivi belli spessi, chiudendosi, per usare una metafora, in una sorta di castello super fortificato e quasi inespugnabile.

In parole semplici: tutta la motivazione del mondo nel modificare un comportamento avrà presa come neve al sole se va in conflitto con le abitudini consolidate e cristallizzate nei circuiti sinaptici.

DUBBIO E AUTOCONTROLLO

Una soluzione per fortuna c’è. Grazie alla presenza nella corteccia pre-frontale di un circuito che mette a disposizione due risorse: il dubbio e l’autocontrollo.

Il dubbio ci permette di dare vita a nuove idee e a percepire la realtà in modo diverso da come l’abbiamo sempre vista. Da solo però, non è sufficiente per contrastare i circuiti sinaptici cristallizzati. Occorre anche l’autocontrollo, la forza di volontà, importante nel rallentare le abitudini.

L’autocontrollo è indispensabile per frenare il pilota automatico della spontaneità. Per cambiare abitudini deve però essere pervasivo, costante nel tempo e ben radicato. Così da modificare i circuiti sinaptici esistenti, sostituendoli con quelli nuovi.

Tutto questo cosa ci dice? Che per avviare il cambiamento nelle persone, che sia a livello personale sia aziendale, occorre guardare in direzioni diverse da quelle dei normali corsi di formazione. Diventati abitudine non solo nel modo in cui vengono espletati, ma per i nostri stessi circuiti cerebrali. Automatici, e incapaci di stuzzicare il dubbio e far attivare la consapevolezza.

Dobbiamo ricordare una lezione importante che viene dalle Neuroscienze. Dire o pretendere che una persona, un collega, un dipendente, un cliente, un paziente cambi, equivale a far entrare la mente di quella stessa persona in conflitto con se stessa.

Ecco la contraddizione in termini.

Cambiare non è un conflitto che si fa nascere verso colleghi, dipendenti, clienti, pazienti, non è uno sforzo che va in direzione contraria alla realtà esterna. Cambiare è uno scontro fra due strategie neurali presenti all’interno del nostro cervello.

Ben diverso cioè da come ci è sempre stato insegnato, detto, proclamato a gran voce da chi di Neuroscienze e cervello sa quello che può aver imparato spulciando quale nozione qua e là, o seguendo qualche corso tenuto da formatori improvvisati (almeno su questi temi).

Se veramente si vuole spingere verso il cambiamento qualcuno, e solo se ce lo chiede, ecco 5 domande che potrebbero essere utili e non invasive (per il cervello).

– I comportamenti che voglio attivare, vanno contro le abitudini di quella persona?

– Se sì, quanto?

-La resistenza che quella persona deve fare valgono lo sforzo? O fa solo bene a me, promotore del cambiamento a tutti i costi?

– In che modo posso innescare il dubbio, affinchè la persona veda quell’abitudine come obsoleta o poco funzionale? E sia quindi spinta a modificarla?

– Come posso nel tempo sostenere la nuova abitudine? Come posso far sì che la perseveranza non venga meno di fronte all’estenuante resistenza che i vecchi circuiti opporranno verso il nuovo?

Come vedete, il cambiamento è qualcosa di molto più personale di quello che si crede. Le abitudini ci regalano sicurezza e lasciarle è un po’ come abbandonare qualcosa di caro.. provate, a togliere la coperta a Linus e vedrete come reagisce. Cambiare per cambiare non serve. Ogni cambiamento, soprattutto a livello aziendale, deve essere frutto di una analisi profonda e ben motivata. Solo allora si potrà chiedere a chi, per quella azienda lavora, uno sforzo. E lo faranno se lo credono efficace e funzionale. Ma se il cambiamento che richiedete è schizofrenico, dettato dalle mode del momento e poco sostenuto da ragioni anche e soprattutto razionali, lasciate stare. Questa volta, accettate il consiglio.