Tag Archivio per: #bias

I MIGLIORI (AD) NON smettono MAI di IMPARARE

Laura, credo di essere quella lepre che, nel racconto di Esopo, ha fatto l’errore di sottovalutare una tartaruga. Dalla lentezza con la quale arrancava, mai avrei pensato mi potesse superare. Mi sa che sono caduto nella trappola dell’autocompiacimento”.

E’ facile che questo accada quando, in una posizione di comando e in breve tempo, si sono ottenuti grandi risultati; mentre colleghi in posizione analoga, in altre organizzazioni, non essendo riusciti ad avere risultati simili, nel peggiore dei casi sono stati estromessi dal ruolo o nella migliore delle ipotesi si sono trovati alle prese con la temuta sindrome dell’hockey stick: quella in cui un AD che prevede miglioramenti oltre misura ottiene, nel tempo, solo piccoli progressi.

Diventare AD di successo è impresa difficile, ma mantenere il ruolo lo è ancora di più. I dati lo confermano: più della metà delle società Fortune 500 nel 2000 sono fallite, sono state acquisite o hanno cessato di esistere nei successivi 15 anni.

Questo a causa dell’autocompiacimento: nessuno vuole essere il pugile che vince il massimo titolo, si ammorbidisce e lo perde senza tante cerimonie a favore di un altro pugile promettente ma più affamato.

Raro è incontrare un AD che dica: “Sto diventando autocompiacente“. Ne ho incontrati molti che riconoscono di esserne vittime solo quando vedono una tartaruga davanti a loro.

ANCHE SE HAI TUTTE LE RISPOSTE…

Uno degli AD più rispettati, influenti e di successo del 21° secolo, Jamie Dimon di JPMorgan Chase, nel suo primo mandato, ha navigato abilmente all’interno del colosso dei servizi finanziari durante la crisi finanziaria del 2008. Un anno dopo, è stato nominato AD della società di revisione Brendan Wood International. E così, avanti veloce fino al 2012, quando si è trovato ad affrontare una crisi dopo che la sua azienda ha subito una perdita commerciale di 6 miliardi di dollari. Quando gli è stato chiesto cosa fosse andato storto ha confessato: “La grande lezione che ho imparato è quella di non accontentarsi, nonostante un track record di successo“.

Negli anni centrali del percorso di un AD, è l’AD l’autore dello status quo dell’organizzazione. Ciò rende molto più difficile per lui giudicare l’attività in modo spassionato e interrompere o cambiare ciò che (non) funziona. Inoltre, con più successo arriva anche una maggiore #fiducia nel proprio giudizio e nelle proprie capacità. “Il problema di essere un AD da molto tempo”, afferma James Gorman, CEO di Morgan Stanley “è che tutti ti dicono che hai tutte le risposte. È confortante per l’ego ma anche molto pericoloso”.

Quando si riesce a sopraffare la concorrenza e pochi sono i competitor che possono intimorire, diventa via via più difficile definire cosa significhi #vincere. Nel frattempo, a meno che non si sia ancora il primo motore del cambiamento, anche l’organizzazione diventerà compiacente.

COME SOSTENERE PRESTAZIONI ELEVATE NEL TEMPO (a scapito dell’ego)

DEDICA TEMPO ALL’APPRENDIMENTO.

Nei primi anni da AD, hai imparato una quantità straordinaria di cose. Le conversazioni, i confronti con clienti, dipendenti, investitori, analisti, consiglieri e altre parti interessate ti hanno aiutato a plasmare la strategia che ha portato al successo che ti stai godendo oggi. Ora sei inondato di richieste per raccontare la tua storia e condividere le tue vittorie con gli altri. Sebbene queste richieste siano ben meritate, parimenti aumentano le distrazioni.

Puoi vincere premi; ottenere riconoscimenti. Tutte cose buone. Ma il tuo compito è fare ogni anno meglio di quello precedente”. Sono i pericoli su cui Flemming Ørnskov, CEO della società farmaceutica Galderma, punta il dito.

Il punto non è ritirarsi dall’impegno esterno. Ma assicurarsi di passare il tempo ad ascoltare, imparare e collegare i punti invece di parlare (solo e semplicemente) dei #successi ottenuti.

Nel caso di Ørnskov, il suo successo all’inizio gli ha permesso di delegare maggiori responsabilità al team, il che significava che poteva trascorrere più tempo al di fuori dell’ufficio, ma solo su cose che avrebbero aiutato l’azienda a rimanere competitiva. “Conoscevo tutti i principali opinion leader. Ho passato tantissimo tempo a capire cosa stava succedendo, vedere pazienti, incontrare medici, andare a conferenze scientifiche per conoscere le ultime novità dalla ricerca e studiare i concorrenti sul campo[1].

Per l’ex CEO di LEGO Jørgen Vig Knudstorp, un improbabile gruppo di clienti è stato determinante: la community di adulti, fan del gioco. L’AD si unì a una delle loro conferenze, guadagnandone la fiducia, e loro lo aiutarono in alcune #scelte strategiche. I clienti adulti di LEGO ora ammontano a più di un milione in tutto il mondo, il 30% del business globale di LEGO.

Il CEO di Dupont, Ed Breen: “Mi incontro spesso con gli attivisti. Se sai ascoltare, spesso hanno buone idee. E quando non mi sono trovato d’accordo con loro, ho cercato soluzioni che potessero soddisfare entrambi. Il loro punto di vista è: se Ed ha un modo migliore per risolvere un problema, bene. Lo faccia. Con questo approccio, ho scoperto che spesso diventano tuoi alleati”.

Breen consiglia inoltre di unirsi fra pari e parlare liberamente di argomenti chiave. “Si impara molto ascoltando ciò che le persone vedono nei loro mercati, ed è a un livello che va più in profondità di quello che si legge sul Wall Street Journal. Ogni volta, trovo sempre nuove idee”.

L’ex CEO di Nestlé Peter Brabeck-Letmathe ha invece ricalcato la #strategia Disney: mentre progettava i film d’animazione, già pensava a come ottenere il massimo da quei film nei successivi dieci anni. “Invece di creare un solo ingrediente per un prodotto, che ha un valore limitato, mi sono messo a pensare a come trasformare un ingrediente nutrizionale in un marchio e come sfruttarlo nel successivo decennio” Le persone fanno cose in modi diversi, e puoi sempre imparare qualcosa e applicarlo nella tua organizzazione.

Si può apprendere molto anche dall’interno, come ha fatto Brad Smith, ex CEO del gigante del software finanziario Intuit: “solitamente dedicavo due incontri a settimana con persone di diversi livelli inferiori nell’organizzazione e a tutti ponevo tre domande:

–      Cosa sta migliorando rispetto a sei mesi fa?

–      Cosa non sta facendo abbastanza progressi o sta andando nella direzione sbagliata?

–      C’è qualcosa che temi e che nessuno mi sta dicendo ma credi che io abbia bisogno di sapere?’

Questo permette di accedere a ogni livello dell’organizzazione, eliminando ogni filtro.

PRENDI LA PROSPETTIVA DI UN ESTRANEO.

In uno degli esperimenti di Kahneman, un negozio di alimentari ha messo in vendita i prodotti Campbell Soup per 79 centesimi con un cartello che diceva “limite 12 barattoli per cliente“. Un altro negozio gestiva la stessa vendita ma senza limiti di acquisto. In media, nel primo punto vendita sono stati acquistati 7 barattoli, nel secondo 3.

L’esperimento mostra il potere dell’ancoraggio. Un’ancora è un’informazione su cui si fa affidamento per prendere una #decisione. Il cervello degli acquirenti si è ancorato al limite di acquisto di 12. Coloro che hanno acquistato solo tre barattoli non avevano in mente il numero 12, quindi hanno fatto un acquisto ancorato verso il basso (allo zero).

Questo concetto è simile al modo in cui molti AD organizzano la loro strategia: aggiornandola annualmente sulla base dei presupposti dell’anno precedente, su cosa vale ancora e cosa no.

Al contrario, i migliori AD effettuano periodicamente analisi approfondite di tutti gli aspetti delle attività nello stesso modo in cui lo facevano quando si sono insediati, come se arrivassero dall’esterno con occhi nuovi. Non sono ancorati al passato, gravati da lealtà interne o disposti a piegarsi a pressioni a breve termine.

All’inizio degli anni ’80, quando i profitti di Intel crollarono da 198 milioni di dollari a 2 milioni l’anno successivo, l’allora presidente Andy Grove chiese a Gordon Moore, all’epoca CEO di Intel, che decisioni avrebbe preso un nuovo AD. Moore rispose che non si sarebbe più dedicato ai chip di memoria, ma avrebbe scommesso il proprio futuro su un nuovo prodotto: il microprocessore. E così fecero, contribuendo a inaugurare una serie di successi.

DEFINISCI la PROSSIMA CURVA a S in MODO COLLABORATIVO.

Visto che a nessuno piace il #cambiamento, si rende necessario creare un ritmo di cambiamento. E lo si può fare coinvolgendo le parti interessate.

Lo spiega bene l’ex CEO di Medtronic Bill George: “Le persone supportano ciò che aiutano a creare“. Ossia, non distruggono ciò che hanno costruito.

Per avere successo occorre adottare un approccio collaborativo nel definire la prossima curva a S. Nel 2015, Maurice Lévy, CEO di Publicis, si è reso conto che la sua strategia di crescita basata sulle acquisizioni si era conclusa. Era giunto il momento per un’altra curva a S. Anche se aveva una visione chiara di ciò che doveva essere fatto, ha coinvolto per diversi mesi, il suo team esecutivo e il livello dirigenziale, 300 leader veterani più 50 manager under 30 neo promossi, perchè comprendessero il punto di vista di Lévy e lo perfezionassero.

ORGANIZZAZIONI A PROVA DI FUTURO.

Quando le cose vanno bene, è difficile immaginare che possa incombere una #crisi. Sfortunatamente, non importa quanto bene sia gestita un’azienda, la domanda anche per i migliori AD non è se dovranno superare una crisi, ma quando.

Una crisi può nascere ovunque e in qualsiasi momento. E può porre fine al mandato altrimenti eccezionale di un CEO, o può essere abilmente sfruttata per spingere un’azienda a nuovi livelli di #prestazioni post-crisi.

Coloro che ottengono risultati positivi riconoscono che il momento migliore per prepararsi a una crisi non è il giorno della crisi e quindi sottopongono regolarmente a stress test la propria attività.

Un buon esercizio di stress test è quello a cui si sottopone Reed Hastings: “Sono trascorsi dieci anni e Netflix è un’azienda fallita. Stimiamo le probabilità delle diverse cause”. Hastings e il suo team esaminano l’elenco, valutando le rispettive probabilità. “A volte la discussione si sposta su cosa possiamo fare per alcuni di questi rischi, ma molte volte, solo definire quali rischi dobbiamo affrontare spingerà le persone ad adattare il comportamento in modi intelligenti che ci rendono più resilienti“.

Il segreto per gestire al meglio una crisi è riconoscere di essere in crisi.

Fonti

[1]  CEO Excellence: The Six Mindsets That Distinguish the Best Leaders from the Rest: Dewar, Carolyn, Keller, Scott, Malhotra, Vikram: 9781982179670: Amazon.com: Books


Dewar C., Keller S., Malhotra V., Strovink K., (2023) “Staying ahead: how the best CEOs continually improve performance”, McKinsey Quarterly.

Un VOLTO, TRE EMOZIONI. Come ci INGANNA l’EFFETTO KULESHOV

Lo dirò senza mezzi termini: non importa quando si è empatici e/o allenati a leggere le #espressioni facciali per attribuire la corretta #emozione al volto di chi ci sta di fronte. Il medesimo volto comunicherà un’emozione diversa a seconda del #contesto. Quindi, al modificarsi del #contesto, cambierà anche la nostra #percezione sull’emozione che quello stesso viso trasmette.

Ecco l’effetto Kuleshov.

EFFETTO KULESHOV

È un #bias che si verifica nella mente dello spettatore. Utilizzato per la prima volta, negli anni ‘20, dal regista sovietico Lev Kuleshov, venne associata l’inquadratura di un volto senza espressione a una scena comunicante una particolare emozione.

Questo fa in modo che lo spettatore abbia l’impressione che l’attore comunichi attraverso il viso un’emozione coerente alla scena proposta. E spiega come la stessa espressione facciale possa cambiare significato a seconda dell’immagine a cui viene associata. 

L’esperimento dimostrò come un filmato potesse far nascere emozioni differenti negli spettatori a seconda delle inquadrature e, come due inquadrature in una sequenza avessero (e hanno) più impatto di una singola inquadratura.

Kuleshov credeva che l’interazione delle inquadrature nel cinema fosse ciò che differenziava il cinema dalla fotografia poiché le fotografie sono singole inquadrature isolate che non consentono di ricavare lo stesso significato.

Affascinato dal potere che i montatori avevano nel manipolare le #emozioni del pubblico, volle creare una distinzione fra i vari mezzi artistici, fra cui cinema, letteratura, teatro e fotografia. Nacque così l’effetto Kuleshov, che continua ancor oggi a influenzare il cinema moderno.

IN CHE MODO KULESHOV HA DIMOSTRATO IL SUO EFFETTO?

Kuleshov ha dimostrato l’effetto proponendo la stessa inquadratura di un uomo associata a scene diverse:

–       la prima inquadratura ritraeva l’uomo e un bambino in una bara,

–       la seconda, l’uomo e una scodella di zuppa,

–       la terza, l’uomo e una donna su un divano.

Rispettivamente, questi scatti trasmettevano tristezza, fame e lussuria.

Non è stato fornito nessun testo alternativo per questa immagine

Nel creare questa dimostrazione, Kuleshov ha fatto credere che l’uomo nell’inquadratura stesse guardando ciò che seguiva (bambino, scodella, donna), anche se in realtà non era così. Ciò che è cambiato è la percezione della sua espressione quando è stata abbinata a un’altra inquadratura che ha generato emozione nel pubblico.

Questo effetto ha trasformato il processo di creazione dei film, poiché ha dimostrato di poter suscitare qualsiasi reazione montando e mettendo insieme le riprese: ossia di manipolare il tempo, lo spazio e la reazione dello spettatore.

L’effetto ha continuato a influenzare l’industria cinematografica ben oltre Kuleshov e non sono pochi i registi contemporanei che lo utilizzano.

ESEMPI DELL’EFFETTO KULESHOV

Alfred Hitchcock ha usato l’effetto Kuleshov, evolvendolo. La finestra sul cortile si basa ampiamente su questo effetto per creare la tensione che si accumula nel film. Intere scene si alternano tra il personaggio principale e ciò che vede attraverso la sua finestra, generando varie emozioni mentre il pubblico assiste al suo punto di vista.

Un altro thriller di Hitchcock, Psycho, utilizza l’effetto Kuleshov nella famosa scena della doccia. La comprensione di ciò che accade, l’accoltellamento del personaggio di Janet Leigh, è solo immaginato, poiché il pubblico vede solo tre fotogrammi di un coltello che perfora la carne. La vista passa da Leigh all’assassino armato di coltello, che crea questo effetto per evocare paura e tensione nello spettatore.

Una scena in Se7en, trasla fra ciò che è all’interno di una scatola e le reazioni di ogni personaggio nella scena, ognuno dei quali è drasticamente diverso dagli altri. Per capire la scena e cosa accadrà dopo, il pubblico deve vedere la reazione a ciò che c’è nella scatola.

La teoria di Kuleshov è pienamente efficace ne Il silenzio degli innocenti, generando tensione tra i personaggi mentre la scena è pronta per un’emozionante rivelazione. Questa particolare sequenza genera anche una reazione unica tra la maggior parte degli spettatori, poiché fa scoprire di una cosa che si pensava vera, il contrario.

L’effetto Kuleshov viene utilizzato anche nei film per bambini. Ne Inside Out il pubblico vive le emozioni attraverso la reazione di Riley, Fear, e gli altri personaggi.

In The Dark Knight Risesl’ultimo capitolo della serie “Batman”, il pubblico osserva Catwoman mentre Batman viene picchiato dal cattivo del film. Vedere la scena dal punto di vista della donna evoca rimpianto.

Spielberg è un maestro dell’effetto Kuleshov. Ne Incontri ravvicinati del terzo tipo, una delle inquadrature principali è il “volto di Spielberg”, che è una reazione ravvicinata a qualcosa che il personaggio vede, generando una reazione da parte del pubblico.

E così in molti altri film famosi.

CONTEXT IS KING

Benchè noi esseri umani siamo, in parte, capaci di leggere le emozioni nelle altre persone, non dobbiamo dimenticare la nostra incapacità di dare #giudizi imparziali e accurati. Questo per due ipotesi.

La prima sostiene che sarebbe il #contesto a suggerirci quali #emozioni dobbiamo aspettarci di provare quando osserviamo un volto. Questa teoria mette in discussione l’universalità della percezione delle emozioni umane e prevede che attribuiamo un valore emotivo viziato dal contesto a espressioni che in realtà sarebbero neutre.

La seconda ipotesi sostiene invece che è legata alla necessità di proiettare le nostre stesse emozioni sugli altri. Il contesto attiva in noi una risposta emotiva e fisiologica che verrebbe poi proiettata o attribuita a espressioni neutre altrui.

D’ora in poi, non dimenticate di considerare il contesto non solo per prendere decisioni ma anche nella lettura delle emozioni di chi vi sta di fronte, chiedendovi quanto sta influenzando la vostra percezione. Che piaccia o meno context is king.

CONTROLLARE ciò che POSSIAMO CONTROLLARE: il miglior antidoto al senso di impotenza (anche sul lavoro)

Sarà capitato anche a voi di entrare in ascensore e non riuscire a resistere alla tentazione di premere compulsivamente il pulsante chiusura porte. Vi siete mai chiesti #perché?

Schiacciando ripetutamente il pulsante si ha (l’errata) sensazione che le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, quanto questo innervosisse gli altri giocatori. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003.

Come era abituato a fare in #azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo, è descritta come un’“illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e #incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere #obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è #pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di #impotenza, alla scarsa #fiducia in noi stessi. L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

NON BASTANO i BIAS, ora ci si mettono anche i NOISE (i RUMORI decisionali)

Immaginiamo, ipoteticamente, di aver commesso un reato. Qual è, a vostro avviso, il migliore momento della giornata per trovarsi di fronte a un giudice?

La mattina presto o subito dopo una pausa caffè o il pranzo.

Fame e stanchezza condizionano fortemente le nostre #decisioni, come ha rilevato uno studio condotto su oltre mille sentenze: mattina presto, dopo una pausa e post pranzo sono i momenti in cui le sentenze sono più clementi.

Ad avere la peggio è, di fatto, chi viene ascoltato a fine giornata o poco prima di pranzo.

Questo è solo un assaggio dell’impatto che i noise (rumori o errori decisionali) hanno sulle nostre #decisioni: capaci di colpire laddove i giudizi sono soggettivi e influenzabili da fattori non correlabili.

Il #noise è un problema a cui finora è stato dato poco risalto rispetto a bias ed euristiche poiché “il bias ha una sorta di fascino esplicativo che manca al rumore”. Solamente una visione statistica, permette di vedere il rumore, ma noi umani preferiamo le narrazioni causali alla statistica.

Ad affrontare il concetto di rumore nei contesti decisionali è ancora una volta, il premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, già autore di Pensieri lenti e veloci.  Lo psicologo ha, anche questa volta, raccolto le sue scoperte in un libro divulgativo Rumore. Un difetto del ragionamento umano, scritto insieme a Olivier Sibony, consulente specializzato in pensiero strategico e processi decisionali e Cass R. Sunstein, giurista, docente alla Harvard Law School e studioso della razionalità e dell’irrazionalità dei comportamenti economici, nonché, quest’ultimo, anche co-autore con Richard Thaler di Nudge, la spinta gentile.

COS’ È IL RUMORE?

Non è stato fornito nessun testo alternativo per questa immagine

Per spiegare il concetto, Kahneman è ricorso all’analogia del poligono di tiro. Sia i bias sia i noise non permettono di centrare il bersaglio, fare cioè la scelta giusta. Se per i bias, però, gli errori sono persistenti e sistematici, quindi classificabili, per i noise gli errori sono casuali, ma contro intuitivamente, possono essere corretti più agevolmente.

Metaforicamente, il rumore è rappresentato dalle frecce che mancano il centro ma colpiscono il bersaglio in modo casuale, i bias dalle frecce che mancano il centro in modo coerente, sistematico e prevedibile.

Tradotto: dati gli stessi fatti, un criminale ottiene l’ergastolo e un altro, ugualmente colpevole, se la cava.

I NOISE NELLA PRATICA

CAMPO MEDICO

Un noise è ciò che porta i radiologi a fornire diagnosi differenti nel 23% dei casi guardando la stessa radiografia a distanza di una settimana. Considerando che i medici erano consapevoli di essere sotto esame e, con molta probabilità, avranno fatto del loro meglio per ottimizzare le loro prestazioni, il tasso di errore potrebbe essere più alto in un contesto privo di supervisione.

L’angiografia coronarica è un metodo per rilevare le cardiopatie, prima causa di morte negli Stati Uniti. Benché possa apparire un esame semplice e obiettivo, uno studio ha riscontrato un certo grado di variabilità nell’interpretazione dell’esame: nel 31% dei casi tra i medici vi è un disaccordo sul fatto che in un grande vaso vi sia un’ostruzione superiore al 70%.

E’ inoltre, molto più probabile che i medici prescrivano uno screening per la prevenzione del cancro al mattino presto anziché nel tardo pomeriggio.

Una possibile spiegazione risiede nel fatto che inevitabilmente i medici accumulano stanchezza psicofisica e ritardo nelle visite giornaliere ambulatoriali e di conseguenza questo “rumore occasionale” nella decisione medica diagnostica fa sì che i medici saltino il colloquio sulle misure di screening e prevenzione per le ultime visite, sebbene previsti da linee guida ben definite.

Se ci pensiamo bene, a quanti è capitato di ricevere diagnosi o cure discordanti da due o più medici? Ogni volta che un secondo parere diverge dal primo si è in presenza di rumore. il vero problema, però, non è la discrepanza fra il primo e il secondo parere, ovvero la presenza del rumore nella professione medica, quanto la sua pervasività.

La letteratura sul rumore in medicina è vasta. Non sorprende che in questo ambito si sia cercato di contrastare il fenomeno. Un esempio sono le linee guida, la più celebre è l’indice di Apgar sviluppato nel 1952 dall’anestesista ostetrica Virginia Apgar, utile a valutare lo stato di salute di un neonato.

SCIENZA FORENSE

Anche l’affidabilità delle analisi delle impronte digitali è soggetta ai bias degli esaminatori, che possono creare più rumore e quindi più errori di quanto si creda, come il caso Mayfield dimostra.

Nel 2004 delle bombe piazzate su diversi treni regionali a Madrid provocò quasi 200 morti e migliaia di feriti. Un’impronta sospetta trovata sulla scena del crimine fu trasmessa alle forze dell’ordine di tutto il mondo e i laboratori forensi del FBI la attribuirono a un cittadino americano: Brandon Mayfield. Il sospetto sembrava credibile, ex ufficiale dell’esercito statunitense, si era prima sposato con una donna egiziana e poi convertito all’Islam. L’uomo fu posto sotto sorveglianza, la sua abitazione perquisita e le sue chiamate intercettate. Non riuscendo a ottenere informazioni utili, l’FBI lo arrestò nonostante la mancanza di un’accusa formale. Durante la custodia cautelare, però, gli investigatori spagnoli individuarono un altro sospettato e fu successivamente accertata la mancata corrispondenza tra le impronte digitali di Mayfield e quelle presenti sulla scena del crimine.

Mayfield fu quindi rilasciato e il governo americano dovette pagare un risarcimento di 2 milioni di dollari. L’FBI fece un’indagine per scoprire le cause di quell’errore: non si trattò di un problema metodologico o tecnologico ma di un errore umano.

Itiel Dror, neuroscienziato cognitivista dello University college di Londra fu tra i primi a domandarsi quanto rumore fosse presente nelle analisi delle impronte digitali, sapendo che dove c’è giudizio c’è rumore.

Dror scoprì che gli esaminatori erano suscettibili di bias che derivavano dalle informazioni fornite. Gli esaminatori erano tutt’altro che immuni ai condizionamenti. Quando un esperto che aveva già espresso un giudizio entrava in possesso di informazioni aggiuntive condizionanti spesso era tentato da rivalutare le stesse impronte digitali considerate in precedenza, specie davanti a decisioni difficili. Lo scienziato scoprì anche che gli esaminatori posti in un contesto affetto da bias non vedevano le stesse cose (in particolare osservavano un numero decisamente inferiore di dettagli) di chi non veniva esposto a informazioni condizionanti.

Per indicare l’impatto delle informazioni condizionanti a discapito delle informazioni reali contenute nelle impronte è stato coniato il termine bias di conferma forense.

LEGALE

Che dire invece delle sentenze che avvengono la settimana dopo che la squadra del cuore ha perso la partita? I giudici della Louisiana hanno dato sentenze più severe ai minori, in particolare di colore, la settimana dopo che la squadra di football della LSU aveva perso una partita.

In Francia e negli Stati Uniti, uno studio che ha analizzato oltre 5 milioni di decisioni ha documentato quanto i giudici tendano a essere più indulgenti quando l’udienza si svolge nel giorno del compleanno dell’imputato. La data di nascita, da sola, è sufficiente a condizionare la decisione di un giudice.

Secondo un’altra indagine, i giudici potrebbero essere influenzati perfino da un fattore apparentemente irrilevante come la temperatura esterna.

Ciò che molteplici studi hanno rilevato è che “l’assenza di consenso è la norma“.

FACCIAMO IL PUNTO

Il mantra del lavoro di Kahneman è:

“Dove c’è giudizio c’è rumore, e più di quanto non si pensi”.

In qualsiasi tipo di giudizio umano esisterà rumore in percentuali variabili, motivo per il quale, tanto quanto per i bias, è auspicabile ridurlo.

Questo, infatti, è l’antidoto più potente che abbiamo a disposizione per poter migliorare la qualità delle nostre decisioni, antidoto, che gli autori definiscono igiene decisionale. Ovviamente, la variabilità nel giudizio non è sempre un problema, altrimenti non avrebbero dignità di esistere opinioni, pareri e critiche. Nelle questioni di giudizio in senso stretto, però, il rumore sistematico (oltre che i bias) è sempre un problema e sorprende sapere in quanti casi sia presente.

COME RIDURRE IL RUMORE

Oltre a competenze, intelligenza e apertura mentale gli autori indicano fra le strategie di igiene decisionale:

  • L’obiettivo del giudizio è l’accuratezza non l’espressione individuale, il giudizio non è la sede appropriata per esprimere la propria individualità.
  • Pensare in termini statistici e assumere la visione esterna del caso.
  • Strutturare i giudizi in diversi compiti indipendenti per evitare quello che viene chiamato eccesso di coerenza che porta a distorcere o escludere informazioni che non si inseriscono in una narrazione preesistente.
  • Resistere alle intuizioni premature.
  • Ottenere giudizi indipendenti da più valutatori per poi eventualmente aggregarli.
  • Preferire giudizi e scale relative.

Il rumore è poco prevedibile e non facilmente visibile o spiegabile, perciò, spesso tendiamo a trascurarlo anche quando causa danni importanti. Per questo il rapporto tra le strategie volte a ridurre il rumore e quelle volte a eliminare i bias è paragonabile a quello che accade con le misure di igiene o con un trattamento medico. L’obiettivo è prevenire una serie imprecisata di potenziali errori prima del loro verificarsi.

Come quando laviamo le mani, non sappiamo di preciso quali germi stiamo evitando, sappiamo solo che farlo è una buona prevenzione. Analogamente seguire dei principi di igiene decisionale significa adottare tecniche che permettono di ridurre il rumore senza sapere quali errori si stia contribuendo ad evitare. Il rumore è un nemico invisibile e prevenire l’attacco di un nemico invisibile non porterà che ha una vittoria invisibile. Tuttavia, visti i danni e le ripercussioni che può causare rumore vale la pena cercare di combatterlo.

Il tema, come avrete potuto constatare è ampio, e se in qualche modo vi ho incuriosito non vi resta, come primo passo, che leggere Noise.

NEVE, BIAS e tanti PICCOLI INDIZI… per NON lasciarsi SORPRENDERE da una VALANGA

L’ultimo giorno della sua vita Steve Carruthers si alzò presto, pronto ad affrontare il Big Cottonwood, leggendaria via di arrampicata su roccia nello Utah, con l’amico di cordata Ian Mc-Cammon e un terzo sciatore.

Conoscevano quei territori allo stesso modo di chi lì è nato, e fu questo a portarli, se vogliamo assecondare il senno di poi, a sottovalutare parte del rischio, tipico delle montagne il giorno successivo a una bufera di neve, finendo con il venire travolti da 100 tonnellate di ghiaccio a 80 chilometri all’ora[1].

Steve fu l’unico a non sopravvivere.

Forse, se Steve avesse tenuto conto del consiglio di Daniel Kahneman[2] secondo cui “sbagliamo tutti e tutti sbagliamo nello stesso modo, soprattutto laddove siamo più competenti”, non avrebbe sottovalutato l’impatto che #bias#noise ed #euristiche hanno nella presa di #decisione. E forse, quel giorno, le cose sarebbero andate diversamente.

BIAS, NOISE ED EURISTICHE

Si parla tanto di bias, noise[3] ed euristiche. Il dilagare di post sull’argomento, e l’appropriarsi del tema da parte di chiunque, a prescindere, è evidente. Ma fra il descrivere gli effetti di una distorsione cognitiva e contestualizzarla, per anticiparla, riconoscerla o mitigarla c’è ancora una certa differenza. Lo so io, lo sa chi legge e di certo anche Ian McCammon[4], sciatore esperto, istruttore di wilderness, ma anche ingegnere, ricercatore e consulente per la NASA e il Dipartimento della Difesa, che nei bias, nei noise e nelle euristiche cercò, trovandolo, il perché della tragedia.

Con il rigore di un ingegnere, Ian iniziò a leggere tutto ciò che trovava sulla scienza del #rischio e del #decision-making, a studiare e classificare poi i dettagli di oltre 700 valanghe mortali avvenute fra il 1972 e il 2003, sui 1355 sciatori coinvolti, sulle dinamiche della loro sciata, l’esperienza, gli orari e i minuti precedenti la loro morte, velocità del vento, caratteristiche del terreno e altri segni di instabilità, allo scopo di trovare similitudini che potessero spiegare la morte prematura dell’amico.

Ciò che emerse ha dello straordinario: Ian individuò #pattern ricorrenti, riconducibili a sei bias (in cui non sarebbero dovuti cadere sciatori esperti), ognuno capace di influenzare il giudizio, riassunti nell’acronimo FACETS, ed esplicitati nel documento: Evidence of Heuristic Traps in Recreational Avalanche Accidents. Il paper è tuttora una guida per mitigare i rischi nelle arrampicate e scalate in alta montagna.

FACETS

FAMILIARITY[5]. E’ la tendenza a sopravvalutare le cose che già conosciamo, anche quando è svantaggioso. Il problema con questo effetto è che man mano che diventiamo più familiari con qualcosa, ci sentiamo più a nostro agio, e abbassiamo la guardia: la stessa cosa che è accaduta ai tre sciatori, sicuri di quella escursione per averla compiuta un’infinità di volte nelle condizioni più diverse.

ACCEPTANCE. Vogliamo essere accettati dagli altri ed è per questo che tendiamo a prendere decisioni rischiose. Così facendo perdiamo di vista l’obiettivo originario.

CONSISTENCY. Gli sciatori, nel caso specifico, hanno maggiori probabilità di correre rischi quando sono seriamente impegnati in un obiettivo (coerenza) e ancor più quando si trovano in gruppi di quattro o più persone.

EXPERT HALO. E’ la convinzione di essere al sicuro sciando con qualcuno che si considera esperto (nel sciare), quando in realtà l’esperto sa certamente sciare bene ma sa molto poco di valanghe ed eventi avversi in montagna.

TRACKS/SCARCITY. Il non essersi mai imbattuti in una valanga nonostante si sia percorso quel tratto un numero infinito di volte, porta a sottovalutare il pericolo.

SOCIAL FACILITATION. Il fatto di imbattersi in gruppi di sciatori e scalatori meno esperti su territori pericolosi, predispone i più esperti a correre maggiori rischi. Questo effetto è direttamente proporzionale al livello di expertise.

NON TUTTE LE EURISTICHE VENGONO PER NUOCERE

Nonostante le decisioni sbagliate a cui ci conducono, le #euristiche sono utilissime perché ci permettono di risparmiare tempo ed energie. Per analogia, è come se al supermercato per fare la spesa, ci mettessimo a ponderare pro e contro di ogni prodotto, anziché dirigerci verso la marca del bene che abbiamo già comprato e gustato decine di volte. Così avviene anche per i medici del pronto soccorso, i piloti e i calciatori – persone che devono prendere decisioni rapide e sono addestrate a identificare rapidamente schemi familiari e (re)agire.

Purtroppo però quando smettiamo di considerare il #contesto, qualunque esso sia, ci assumiamo dei rischi.

Le vittime delle valanghe analizzate da McCammon, ad esempio, erano quasi tutti sciatori esperti, e quasi la metà aveva avuto una formazione specifica sul tema valanghe. L’esperienza, come già accennato, non porta necessariamente a scelte intelligenti. Anzi, in questo caso il contrario.

Paradossalmente, la #familiarità con un luogo, ha l’effetto di farlo sembrare sicuro anche quando non lo è, banalmente perché lo è stato fino a quel momento. E questo ci induce ad abbassare la guardia.

Non è un caso se McCammon ha scoperto che c’erano significativamente più incidenti da valanga quando gli sciatori conoscevano bene il luogo, rispetto a quando si avventuravano su percorsi nuovi.

La maggior parte delle valanghe non ha nulla a che fare con la neve. L’euristica della familiarità è stata ampiamente studiata nel campo dei comportamenti di acquisto e della finanza personale. Gli psicologi di Princeton hanno dimostrato che le persone sono più inclini ad acquistare azioni di nuove società se i nomi sono facili da leggere e pronunciare, il che influisce effettivamente sulla performance del titolo nel breve periodo.

QUANDO TUTTO HA AVUTO INIZIO

Il processo decisionale di Carruthers ha cominciato ad andare storto molto prima che mettesse gli scarponi ai piedi. Tutto è iniziato nella comodità del soggiorno di casa, quando lui o uno dei suoi amici ha proposto: “Facciamo un’escursione al Big Cottonwood, domani“, innescando l’euristica di #coerenza.

Anche se hanno discusso le condizioni, i pro e contro e fatto una valutazione deliberata dei #rischi, il loro focus era sull’impegno preso ed è quello che ha avuto il sopravvento. Abbiamo infatti una forte propensione a non cambiare rotta. A meno che non ci sia qualche ragione convincente per non farlo, lasciamo che le nostre menti si concentrino su ciò che è, o su ciò che è già stato deciso. Ci affidiamo alla rotta stabilita, spesso con buoni risultati. Cambiare può essere pericoloso.

Ma questo potente desiderio di stabilità può anche portare a cattive scelte[6].

I tre sciatori avrebbero potuto tornare indietro, il manto nevoso sembrava instabile, le condizioni peggiori di quanto si aspettavano e così altri indizi. Tutte informazioni che hanno sicuramente recepito ma che non hanno ponderato perché loro, la decisione, l’avevano già presa il giorno prima. Ad aggravare il tutto, sono anche state le due ore di trekking sostenute per arrivare fino al punto dove poi si è verificato l’incidente. Insomma, ci sarebbe voluto un grande sforzo mentale per elaborare tutti gli argomenti logici, voltarsi e tornare a casa.

Meglio quindi andare avanti.

lo facciamo, tutti, molte più volte di quanto ci piace ammettere. Semplicemente perché è difficile cambiare piano. Rimaniamo in relazioni che non vanno da nessuna parte, compriamo la stessa marca di auto di nostro padre ed esitiamo a riorganizzare il nostro portafoglio azionario. E ci rimettiamo acriticamente ad altri che prendono decisioni per noi – politici, che fanno regole e leggi basate sul presupposto che agiremo in modo coerente piuttosto che metterle in discussione.

E poi si è messa di trasverso anche l’euristica dell’accettazione: la forte tendenza a fare scelte che crediamo ci faranno notare – e soprattutto, approvate – dagli altri. Questo a causa del nostro antico bisogno di appartenenza e sicurezza. È un elemento cruciale nella coesione del gruppo, ma spesso lo applichiamo in situazioni sociali in cui è inappropriato – o addirittura dannoso, come è stato in molti degli incidenti che McCammon ha studiato.

La sua analisi ha mostrato un tasso molto più alto di decisioni rischiose in gruppi di sei o più sciatori, dove c’era un “pubblico” più ampio da accontentare.

E SE SI METTE ANCHE LA NEVE

Anche la neve è capace, da sola, di impattare sulle nostre #decisioni. Ogni sciatore vive il desiderio irragionevole di affrontare la neve fresca; momento che non dura a lungo. Tutti lo sanno. Quindi per alcune ore è come l’oro, prezioso per la sua #scarsità.

Abbiamo una reazione viscerale a qualsiasi restrizione delle nostre prerogative come individui, e un modo in cui questo si manifesta è nelle nozioni distorte sulla scarsità e sul valore. Gli esseri umani hanno reso prezioso l’oro perché non ce n’è così tanto, non perché sia un metallo particolarmente utile. Così è con la neve fresca, e con qualsiasi altra cosa che potremmo percepire come rara, dalla terra al tempo libero. La scarsità può persino distorcere le nostre scelte amorose, se non stiamo attenti, ma questa è un’altra storia.

Insomma, bias, noise ed euristiche si possono raccontare in tanti modi. Il migliore, a mio avviso, è quello che insegna a sbagliare meno o meglio.

 Fonti

[1] Mondino L., Brambilla L., 2021. Le trappole della mente, ACS Editori, Milano

[2] Kahneman D., 2012. Pensieri lenti e veloci, Oscar Mondadori, Milano

[3] Kahneman D., Sibony O., Sunstein C.R., 2021. Noise. A flaw in human judgment. Hachette Book Group USA

[4] McCammon I., 2004. Heuristic traps in recreational avalanche accidents. Evidence and implications. Avalanche News, 68;1-10

[5] https://link.springer.com/article/10.1007/BF00057884

[6] Mondino L., Nudge Revolution. La strategia per rendere semplici scelte complesse, Flaccovio Ed., 2019

FALSO MITO N.1: per CAMBIARE ABITUDINI non ci vogliono 21 GIORNI

Il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, o perché siamo mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in un’abitudine o per cambiarne una.

Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento, quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno rimuovere le cattive abitudini. Anche se non sono pochi coloro che ancora tentano di vendere soluzioni facili propinando tecniche di vario tipo.

Chi dispensa tali consigli, semplicemente non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

   •   un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

   •   un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

   •   una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere.

Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

“Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?“

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington: “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare.

Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia.

In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso.

Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione.

E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante dimostrare che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza.

Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento. Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

I NUDGE che AIUTANO gli ANIMALI a non ESTINGUERSI

Tutto è iniziato allo Shedd Aquarium di Chicago. Un addestratore di animali, Ken Ramirez, ha applicato, senza saperlo, la teoria dei Nudge per rendere loro un po’ più facile la vita e in taluni casi permetterne la sopravvivenza.

Ramirez è noto, nel suo campo, per aver addestrato migliaia di farfalle a eseguire un’esibizione coreografica a ritmo di musica, in un giardino botanico. Oggi però il suo obiettivo non è più focalizzato a generare divertimento, bensì a proteggere gli animali selvatici intervenendo sulle loro abitudini e sui loro comportamenti. L’approccio assomiglia molto alle strategie di Nudging messe in campo da governi e organizzazioni per spingere gli esseri umani verso scelte salutari e virtuose[1].

Per addestrare le farfalle, Ramirez ha insegnato loro ad associare uno stimolo (un lampo di luce o una vibrazione), a una ricompensa alimentare. In questo modo ha fatto sì che gruppi di insetti volassero in direzioni diverse, in tempi definiti.

In Sierra Leone, ha aiutato i ranger a proteggere un gruppo di scimpanzé dai bracconieri. Non tutti gli scimpanzé erano soliti urlare all’avvicinarsi dell’uomo, e questo impediva in taluni casi di essere sentiti dai ranger. Se solo l’intero gruppo avesse gridato all’unisono, il rumore sarebbe stato sufficientemente intenso da venir recepito.

Questo ha suggerito a Ramirez una soluzione: installare dei contenitori da cui far cadere frutti e insetti, in prossimità degli alberi dove oziavano le scimmie. Quando qualcuno si avvicinava, le scimmie iniziavano a far rumore e i ranger attivavano, tramite un telecomando a distanza, l’apertura dei contenitori, dispensando così cibo e insetti. Gli scimpanzè hanno imparato velocemente la sequenza “urlo – ottengo cibo” e a strillare alla vista di un essere umano.

In questo modo il bracconaggio è stato ridotto dell’86%.

Qualche esempio di Nudge

Ramirez non è un accademico, ma questo non gli ha impedito di realizzare interventi di nudging ispirandosi a quanto già applicato in altri campi.

Per favorire il collegamento fra habitat diversi sono stati realizzati veri e propri percorsi privilegiati. Spesso, però, gli animali li ignoravano. Per incoraggiarli, è stato sparso sul tragitto dello sterco animale o dell’urina così da far loro credere che altri animali fossero già passati da lì in precedenza, invogliandoli a fare lo stesso[2].

Nel Parco Nazionale di Banff, in Canada, i biologi, per evitare che i grizzly venissero investiti dai treni, hanno posizionato lungo i binari un sistema di luci e campanelli che si attivava al passaggio dei convogli. Tale nudge ha consentito a orsi, lupi, alci, piccoli mammiferi e uccelli di allontanarsi dalle rotaie in tempo[3].

La percentuale di animali che muoiono investiti da veicoli è stimata intorno al 10%, comprese le specie in via di estinzione come la pantera della Florida e gli elefanti in India[4], perciò questa potrebbe dunque essere una soluzione semplice da attuare.

Per contenere la voracità delle gru, note per razziare i campi dei contadini – un singolo uccello può mangiare anche 400 chicchi di mais al giorno – sono stati posizionati spaventapasseri sonori[5], così da fare da deterrente, insieme a colture esca[6].

In Zambia, per dissuadere gli elefanti dall’attraversare la Repubblica Democratica del Congo durante la loro migrazione annuale e contrastare i bracconieri, Ramirez ha creato con tronchi e alberi alcune deviazioni e ha realizzato pozze d’acqua artificiali capaci di attirare gli animali sul nuovo sentiero. Il progetto è arrivato, con successo, al suo terzo anno di vita.

Un altro intervento è stato realizzato per modificare le cattive abitudini degli orsi bruni canadesi[7]. Nella località turistica di Whistler nella British Columbia, ogni anno, milioni di turisti raggiungono la zona e i ranger sono costretti, regolarmente, a sparare agli orsi, perché troppo pericolosi per l’incolumità delle persone.

Così si è pensato, prima di sparare i proiettili di gomma come si era sempre fatto, di usare un fischietto come avvertimento. Se l’orso scappa, un campanello viene attivato per segnalare lo scampato pericolo e si evita così la sparatoria.

Non tutte le iniziative, purtroppo, vanno a buon fine e non tutti gli animali sono inclini alle spinte gentili, quali sono i Nudge[8]. In Australia, un particolare tipo di marsupiale in via di estinzione ha imparato a evitare di mangiare una specie particolare di rospi, a lui nocivo, dopo che i biologi lo hanno nutrito con salsicce di rospo imbevute di una sostanza chimica che induce la nausea[9]. Tuttavia, aggiungere alle carcasse del bestiame sostanze sgradevoli per cercare di persuadere i coyote che gli animali da fattoria non valgono la pena di essere mangiati non li ha sempre dissuasi dal predare pecore e mucche.

Le obiezioni

Intervenire così attivamente su habitat e abitudini, ha sollevato alcuni dubbi all’interno della comunità scientifica. In realtà molti animali non sarebbero sopravvissuti senza i Nudge.

Prima di rilasciare una rara specie di corvi hawaiani per permettere loro di riprodursi, è stato loro insegnato ad aprire dei baccelli contenenti del cibo. Inizialmente tali baccelli sono stati dati aperti, poi solo parzialmente chiusi e quindi del tutto chiusi. Allo stesso modo di quando si spostano gli animali selvatici da un’area all’altra, occorre in molti casi, insegnare loro nuovi comportamenti e abitudini per far fronte al nuovo habitat[10].

Senza contare quanto influenziamo la fauna selvatica già solo attraverso la nostra semplice presenza. Gli uccelli, nelle città, cantano in modo diverso per attutire il livello di rumore del traffico[11]. Mentre le volpi si fanno più coraggiose[12].

Nudge dunque sono utili, purché li si attuino in combinazione con altre strategie. Se si vuole tenere gli orsi fuori dalle città è importante, per esempio, che le persone chiudano a chiave i cassonetti e mettano in sicurezza gli alberi da frutto, altrimenti difficilmente la spinta gentile, da sola, produrrà i cambiamenti sperati. Se non ne siamo convinti, pensiamo a cosa accade a Roma con i cinghiali che letteralmente si buttano sui cassonetti della spazzatura…

Conclusioni

Gli animali in genere sono molto recettivi e imparano in fretta. La differenza sta nel modo in cui si attua un’azione di persuasione.

Non dimentichiamo che gli oranghi del Borneo hanno imparato come rubare le imbarcazioni degli umani, sciogliendo anche i nodi più complicati: le guidano con le lunghe braccia e sfruttano il sistema di pesca degli uomini per mangiarsi i pesci[13].

Uno stormo di uccelli è stato in grado di evitare una tempesta lontana 900 km, prevedendone lo spostamento e scappando in tempo. La tempesta colpì gli Usa nel 2013, uccidendo 35 persone, e gli uccelli studiati hanno tutti agito in maniera indipendente per sfuggirle. Secondo i ricercatori, che sperano di poter un giorno prevedere catastrofi come questa studiando gli spostamenti degli uccelli, a metterli in guardia è stata la loro capacità di avvertire gli ultrasuoni[14].

In Cina, da anni si sta cercando di capire cosa renda possibile la previsione di un terremoto da parte dei serpenti. Non esiste ancora uno studio scientifico a riguardo, ma i ricercatori monitorano il comportamento di questi animali che – dicono– sono stati in grado di prevedere un terremoto a 120 km di distanza, tentando in tutti i modi di abbandonare i loro rifugi, anche in pieno inverno[15].

Chissà se un Nudge potrebbe anche essere di ausilio per incrementare le doti predittive di uccelli e serpenti. A trarne vantaggio sarebbe sicuramente anche l’uomo.

Fonti

[1] https://www.newscientist.com/article/mg25033400-900-can-we-use-nudge-theory-to-help-endangered-animals-save-themselves/

[2] Greggor A.L., Berger O., Blumstein D.T.,  The Rules of Attraction: The Necessary Role of Animal Cognition in Explaining Conservation Failures and Successes, Annual Review of Ecology, Evolution, and Systematics, 2020, 51:1, pp. 483-503

[3] Backs J.A., Nychka J.A., St. Clair C.C., Warning systems triggered by trains increase flight-initiation times of wildlife, Transport and Environment, Vol. 87, 2020

[4] Blackwell B.F., DeVault T.L., Fernández-Juricic E., Gese E.M., Gilbert-Norton L., Breck S.W., No single solution: application of behavioural principles in mitigating human–wildlife conflict, Animal Behaviour, Vol. 120, 2016, pp. 245-254

[5] https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1007&context=nwrcwdmts

[6] https://www.savingcranes.org/wp-content/uploads/2018/10/cranes_and_agriculture_web_2018.pdf

[7] Homstol L., Applications of learning theory to human-bear conflict: the efficacy of aversive conditioning and conditioned taste aversion, A thesis submitted to the Faculty of Graduate Studies and Research for the degree of Master of Science in Ecology, Department of Biological Sciences, Edmonton Alberta, 2011

[8] https://wildlife.onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jwmg.21449

[9] https://www.newscientist.com/article/mg23931871-000-how-dodgy-sausages-are-saving-a-cute-marsupial-from-toxic-toads/

[10] Berger-Tal O., Blumstein D.T., Swaisgood R.R., Conservation translocations: a review of common difficulties and promising directions, Animal Conservation, Vol. 23, Issue 2, April 2020, pp. 121-131

[11] Slabbekoorn H., Peet M., Birds sing at a higher pitch in urban noiseNature 424, 267 (2003).

[12] Gil-Fernández M., Harcourt R., Newsome T., Towerton A., Carthey A., Adaptations of the red fox (Vulpes vulpes) to urban environments in SydneyAustraliaJournal of Urban Ecology, Vol. 6, Issue 1, 2020

[13] https://www.newyorker.com/tech/annals-of-technology/orangutan-learns-fish

[14] Streby H.M., Kramer G.R., et all, Tornadic storm avoidance behavior in breeding songbirds, Current Biology, Vol. 25, issue 1, pp. 98-102, 2005

[15] http://news.bbc.co.uk/2/hi/asia-pacific/6215991.stm

PERCHE’ il mio CAPO è INCOMPETENTE? La risposta è nel Principio di Peter

Perché il mio capo è un incompetente? Perché le cose in questa azienda non funzionano come dovrebbero?

Chi non si è fatto queste domande, senza poi trovare una risposta soddisfacente, almeno una volta nella vita?

A porsi gli stessi quesiti, nel 1969, è stato il sociologo canadese Laurence Peter.

Ancora oggi, cinquant’anni più tardi, le sue osservazioni meritano una attenta lettura, non solo da chi si occupa di comportamenti organizzativi, ma da tutti coloro che vogliono capire meglio i problemi che affliggono i luoghi di lavoro e da chi, in generale, è interessato ad approfondire il tema della stupidità umana.

Come con gli studi di Parkinson, anche quelli di Peter sono utili e piacevoli da leggere e non mancano di ironia.

IN COSA CONSISTE

La tesi di fondo del Principio di Peter afferma che in una organizzazione meritocratica ognuno viene promosso fino al suo livello di incompetenza. In altri termini “ogni membro di un’organizzazione scala la gerarchia fino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza”.

Quasi a dire che se una persona sa fare bene una certa cosa la si sposta a farne un’altra. Il processo continua fino a quando si arriva al livello di ciò che non sa fare e lì rimane.

La tesi si basa sull’assunto che le abilità di una persona a svolgere le mansioni assegnatole la porterà al conseguimento di un avanzamento di livello fino a quando giungerà a un livello tale che non potrà fare altro che manifestare la propria incompetenza.

Una persona, che non è stupida, quando ha un compito che è capace di svolgere, viene spostata in un contesto in cui diventa stupida in rapporto ai risultati delle sue azioni. Così facendo nell’organizzazione aumenta di continuo il livello di incompetenza. E le persone competenti si trovano via via alle dipendenze di incompetenti che le ostacolano nello svolgimento del lavoro.

Sebbene il Principio di Peter possa sembrare paradossale, l’autore intendeva puntare i riflettori su una serie di problemi che affliggono le aziende. Nulla assicura che le abilità sviluppate nella precedente mansione siano sufficienti a garantire un efficace svolgimento dei nuovi task assegnati.

Promuovere i dipendenti in virtù dei buoni risultati raggiunti è un grave errore se non si valutano bene competenze, abilità ed esperienze necessarie per ricoprire adeguatamente il nuovo incarico.

Non necessariamente un valido assistente sarà un buon professore, un assessore un buon presidente della Regione e così via. Questo si verifica poiché buoni gregari non diventano di default buoni leader, in quanto l’esser bravo a eseguire non necessariamente coincide con l’essere bravo a guidare.

Quello di Peter non è un principio da ignorare, complesso da mitigare e prevenire poiché le persone al vertice (delle organizzazioni) non amano sentirsi dire che hanno promosso i loro dipendenti in modo sbagliato o, che sono proprio loro ad aver raggiunto il fatale livello di incompetenza.

Al principio di Peter si aggiungono una serie di varianti:

–       Dilbert Principle di Scott Adams: «I più inefficienti sono sistematicamente promossi alla posizione in cui fanno meno danno: il management».

–       Natreb Principle«Le persone gravitano verso le professioni dove più si manifesta la loro incompetenza» ovvero «Ogni professione attrae le persone meno adatte».

NON È PASSATO DI MODA

Sebbene gli studi di Peter siano lontani nel tempo, i risultati a cui è arrivato non sono né obsoleti né superati, come hanno dimostrato Benson dell’Università del Minnesota, Li del MIT e Shue di Yale, analizzando le prestazioni di 53.035 addetti alle vendite in 214 aziende americane dal 2005 al 2011. In quel periodo, 1.531 di questi addetti sono stati promossi a responsabili delle vendite. I dati hanno mostrato che i migliori venditori avevano maggiori probabilità di:

a) essere promossi

b) avere scarsi risultati come manager

Il Principio di Peter è reale.

Il lavoratore più produttivo non è sempre il miglior candidato per ricoprire il ruolo di manager, eppure è più probabile che le aziende promuovano i migliori addetti alle vendite in posizioni manageriali. Di conseguenza, le prestazioni dei subordinati di un nuovo manager diminuiscono maggiormente dopo che la posizione manageriale è stata occupata da qualcuno che era un forte venditore prima della promozione[1].

Un’azienda che fa troppo affidamento sulle vendite come criterio di promozione paga due volte l’errore. La rimozione di un performante addetto alle vendite sconvolge potenzialmente i rapporti con i clienti, mette a rischio le entrate e la squadra sotto la sua direzione ha un rischio maggiore di conseguire prestazioni inferiori. “Tali risultati sottolineano la possibilità che la promozione basata sui soli indicatori di vendita anzichè sulle competenze manageriali possa essere estremamente costosa“.

La severità dei risultati ha colto di sorpresa i tre ricercatori: “Ci aspettavamo che i migliori venditori sarebbero diventati dei buoni manager, ma constatare che i migliori venditori stavano diventando i peggiori responsabili delle vendite è stato sorprendente[2].

Difficile dire con quale frequenza le aziende inciampano nel Principio di Peter e non si può generalizzare, ma è palese che spesso le organizzazioni sono disposte ad abbassare gli standard per premiare i migliori venditori ma non sempre le loro capacità manageriali sono nei loro numeri di vendita.

PSEUDO SOLUZIONI

Fra le soluzioni più creative, per mitigare il principio di Peter, c’è il promoveatur ut amoveatur: le persone incompetenti ai vertici dell’impresa vengono collocate in ruoli di sola apparenza, così che i compiti operativi possano essere svolti da persone competenti che non sono ancora state promosse al di sopra delle loro capacità. Anche se questo non spiega la promozione a livelli più alti di chi era già incompetente nel ruolo in cui si trovava.

Insomma, il Principio di Peter continua a fare danni, in modo tanto più grave quanto più si mescola con altre disfunzioni.

COME PREVENIRE IL PRINCIPIO DI PETER

Retrocessione

Fra le soluzioni proposte da Peter c’è la retrocessione. Supponiamo che una persona sia stata promossa a un ruolo che non è abbastanza qualificata per ricoprire, in tal caso, la si può riportare nella sua posizione iniziale senza stigmatizzazione ovviamente. Tuttavia, colui che ha preso la decisione sbagliata proponendo una promozione, deve ammettere di aver commesso un errore.

Paga più alta, nessuna promozione

Un’altra soluzione consiste nell’offrire al lavoratore una retribuzione più elevata senza necessariamente promuoverlo. La maggior parte delle persone è entusiasta all’idea di una promozione non tanto per il potere o il prestigio, ma per i benefici salariali collegati. Per prevenire il verificarsi del principio di Peter, si potrebbero aumentare gli stipendi dei collaboratori migliori per l’eccellente lavoro svolto nei rispettivi ruoli. In tal modo, la persona può guadagnare abbastanza denaro mentre è ancora in una posizione in cui è competente.

Arabesco laterale

Peter consiglia ai manager di sbarazzarsi dei dipendenti incompetenti senza licenziarli. In altre parole, si può riassegnare il lavoratore incompetente a un’altra posizione, che ha un titolo più lungo/pomposo ma meno responsabilità. Tale pratica è stata definita arabesco laterale: il lavoratore promosso non saprà di essere stato privato del ruolo a cui era stato promosso.

Collaboratori attenti

Il modo più efficace per evitare il principio di Peter è avere persone attente. Ciò significa lavorare con team che conoscono la portata delle loro capacità e competenze. Anche se l’offerta di ricevere una promozione è allettante, la risorsa dovrebbe prima considerare tutti i compiti aggiuntivi che derivano dal nuovo ruolo. Se non si sentisse in grado di gestire i nuovi compiti, dovrebbe semplicemente rifiutare l’offerta.

 Supera in astuzia il datore di lavoro

Se un dipendente è ben consapevole dei propri limiti, farà tutto il possibile per evitare la promozione per una posizione in cui sarebbe incompetente. Peter ha descritto tale modalità come incompetenza creativa: ossia la persona cercherà di far capire ai superiori che non è la persona giusta per quella posizione.

Peter, con le sue provocazioni vuole semplicemente ricordarci che non tutti sono adatti a ricoprire posizioni apicali, a prescindere da quanto siano abili e bravi nell’operatività. Che ci piaccia o meno, elevare qualcuno incompetente significa condannare l’intera azienda al fallimento o quanto meno a danni economici e di reputazione seri.

Fonti

[1] Lazear E.P., The Peter Principle: A Theory of Decline (April 2003) https://ssrn.com/abstract=403880

[2] Benson A., Li D., Shue K., 2019. “Promotions and the Peter Principle*,” The Quarterly Journal of Economics, 134(4): 2085-2134

LEGGE di PARKINSON ed EFFICIENZA e perché un’attività di 2 minuti può richiedere un giorno intero

Apple è stata costretta a rimandare il  lancio dell’HomePod  poichè aveva bisogno di più tempo per perfezionarlo.

Windows ha ritardato l’installazione di una funzionalità per Windows 10 per poi eliminarla del tutto.

La costruzione della Sydney Opera House, che avrebbe dovuto richiedere quattro anni, alla fine ne ha necessitati 14.

L’autostrada Asti-Cuneo, i cui lavori sono iniziati nel 1998 al momento non sono ancora terminati, per fare un esempio più vicino a me/noi e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Perché, talvolta, il tempo si dilata così tanto? Perché quando un progetto la cui scadenza è lontana, tendiamo a procrastinarlo o a complicarlo?  La spiegazione è nella legge di Parkinson, secondo cui:

Il lavoro si espande in modo da riempire il tempo a disposizione per il suo completamento.

Questo significa che se si ha a disposizione una settimana per portare a termine un’attività, questa richiederà una sola settimana per essere completata. Ma se per la stessa attività si hanno a disposizione due mesi, si potrebbero impiegare sessanta giorni per portarla a termine.

La pressione della scadenza spinge a completare un compito nel tempo dato. Se non ci sono tempistiche definite che vincolano lo svolgimento di un progetto, quel lavoro potrebbe richiedere un tempo molto più lungo.

Quindi, più tempo ti dai per finire un lavoro, più quel lavoro richiederà tempo per essere finito. Allo stesso tempo se aspetti fino all’ultimo minuto per fare qualcosa, probabilmente è perché ci vuole solo un minuto per farla questa cosa.

LE ORIGINI

Il termine è stato coniato da Cyril Northcote Parkinson, storico navale britannico, in un saggio per The Economist nel 1955. Narra la storia di una donna il cui unico compito, in un giorno, è inviare una cartolina. Attività che richiederebbe non più di cinque minuti. Ma la donna passa un’ora a selezionare la cartolina, un’altra mezz’ora a cercare gli occhiali, 90 minuti a scriverla, 20 minuti a decidere se portare o meno l’ombrello nel tragitto verso la cassetta della posta… e così via fino a quando la giornata giunge al termine.

Calata in contesto aziendale: con il team hai due settimane per completare una relazione che richiede appena un paio d’ore di lavoro. Sapendo di avere così tanto tempo a disposizione, la portata del progetto aumenta. Mentre ultimate la bozza, decidete di modificare alcune parti di quanto già scritto, l’ordine di alcuni paragrafi e così vita. Anche se alla fine queste modifiche possono rivelarsi utili, ti hanno allontanato dall’obiettivo e un’attività di qualche ora appena si è trasformata in un’attività di due settimane. Ecco la legge di Parkinson in azione.

Cyril, osservando la burocrazia governativa dell’epoca, aveva notato che più gli apparati burocratici si espandono, più tendono a diventare inefficienti. Applicando tale osservazione a un’ampia varietà di contesti, realizzò che quando le dimensioni di qualcosa aumentano, la sua efficienza diminuisce.

Scoprì inoltre come anche compiti molto semplici possono acquistare complessità nel caso il tempo a disposizione per il loro svolgimento viene prolungato. Quindi concluse che quando il tempo assegnato a un compito si riduce, quel compito diventa più semplice e più facile da risolvere.

SE CI SI METTE ANCHE LA PROCRASTINAZIONE

Ad alimentare la legge di Parkinson ci si mette anche la procrastinazione.

Sapere di avere molto più tempo di quello che è necessario per completare un’attività, spinge a procrastinare, ad aspettare l’ultimo minuto per farla ed è così che il tempo si espande inesorabilmente.

Come mai? Un’ipotesi è che le scadenze incombenti siano motivanti. La legge Yerkes-Dodson spiega che esiste un livello ottimale di eccitazione che migliora le prestazioni. Quindi, il termine di consegna che si avvicina rapidamente dà una spinta a concentrarci e fare bene.

COM SFRUTTARE la LEGGE di Parkinson in modo vantaggioso

Crea urgenza

La creazione di un falso senso di urgenza aiuta a combattere le distrazioni. Ad esempio, potresti lavorare al tuo portatile, senza alimentatore, e impegnarti a finire tutto quello che devi fare in un determinato lasso di tempo prima che la batteria si scarichi.

Pianifica la giornata in modo creativo

Aggiungi pressione al punto 1, programmando la tua giornata in modo da creare naturalmente una certa pressione temporale. Dai un limite temporale a compiti come rispondere alle email, riducendolo, per esempio, a un’ora al giorno. Invece di agonizzante su ogni singola email man mano che arriva, stabilisci 30 minuti a inizio e fine giornata tutti dedicati alla risposta delle email ricevute. Scoprirai così che i compiti più piccoli richiedono molto meno tempo.

Imposta la cronologia

A un costruttore solitamente non dici: “Voglio una casa con le caratteristiche x, y e la voglio entro questa data“. Con il costruttore ti concentri invece su aspettative, materiali, capitolato e tenendo conto di una serie di informazioni negoziate le tempistiche di avanzamento lavori e una data approssimativa di completamento.

Questo serve a rendere il progetto gestibile e infonde un maggiore senso di urgenza: anche se la data di fine dell’intero progetto (la casa) non è immediata, la scadenza di un primo step, lo è sicuramente. Inoltre, questo consente di toccare con mano i passi avanti fatti ed è altamente motivante (principio di avanzamento ).

Mentre delinei la sequenza temporale, identifica le diverse scadenze. Meglio se anziché in anni, mesi o settimane, imposti scadenze in giorni, laddove possibile. Uno studio ha dimostrato che è un piccolo cambiamento mentale che può amplificare in modo non trascurabile il fattore di urgenza.

Crea dei forti incentivi per finire presto i compiti

Bilancia la tua maggiore produttività con una maggiore disponibilità di tempo libero, così potrai fare anche quelle attività che ti appassionano e ti divertono per rilassarti e ricaricarti.

Identifica i tuoi compromessi

Nonostante le migliori intenzioni, gli imprevisti accadono. Ecco perché è importante aver chiari quali sono i tuoi compromessi, laddove sia utile allargare lo spazio di manovra e dove non lo è.

Se in una data stabilita devi presentare un nuovo prodotto (un’applicazione, per esempio), la tempistica sarà la metrica più importante e quindi non è negoziabile. Ciò che invece è negoziabile e ragione di compromesso, potrebbero essere alcune funzioni, o altri aspetti che in quel momento non pregiudicano il valore del prodotto.

Non è facile delineare i compromessi, soprattutto a inizio progetto, ma è utile per quando i momenti critici, in cui è necessario prendere decisioni, si presenteranno.

È l’esatto opposto della legge di Parkinson: piuttosto che lavorare in espansione per adattarsi al tempo assegnato, potresti dover ridurre il lavoro o altre aspettative per adattarti alla finestra temporale.

Non lavorare fino a tardi

Sei abituato a lavorare fino a tardi tutti giorni o quasi? Sei convinto che così facendo mostrerai la tua dedizione, o semplicemente vuoi portare a termine più incarichi e l’unico modo che conosci e non staccare mai?

Lavorare di più non significa necessariamente fare di più, ma di certo significa che sei stato sotto stress più a lungo del necessario. Il pensiero divergente effettivamente funziona. Creare restrizioni artificiali sul lavoro portano ad avere più libertà.

A questo punto, se ti guardi indietro, riesci a identificare qualche esempio in cui sei stato vittima della legge di Parkinson?

dr. Cini (Dikton) Intervista Laura Mondino a proposito di Recruiting e Nudge

Recruiting e Nudge: come le Neuroscienze possono supportare l’incontro tra Organizzazioni e Persone

 

Da alcune conversazioni con l’amica Laura Mondino – Consulente, Accademica ed autrice di “Nudge Revolution” – nasce questa “intervista”, che altro non è che una somma di spunti e riflessioni su uno dei temi più complessi – oggi – per la maggior parte delle aziende, ovverosia la capacità di comunicare al meglio con il mercato dei Candidati e, come conseguenza, attrarre e valorizzare i propri talenti e Persone, sin dal momento in cui “ci si sceglie” ed inizia una collaborazione professionale.

Ecco cosa è emerso da mie tre domande (e grazie nuovamente, Laura, per il tempo e l’attenzione delle tue risposte).

Per riferimenti e fonti, tutte le note complete in fondo al testo, augurandovi una buona lettura e di trarne spunti molto concreti ed utili per le vostre aziende e/o organizzazioni.

Alessio“I colloqui di selezione e la teoria di nudge: ci sono dei punti di connessione o delle buone pratiche che – se applicate – dal tuo punto di vista, possono rendere più efficace un iter, o anche solo un colloquio di selezione?”

Laura: “Assolutamente sì. Le evidenze scientifiche a sostegno sono molte questo perché i Nudge e più in generale le Neuroscienze (di cui i Nudge rappresentano uno strumento), partono dal fatto che pur credendoci decisori razionali, pecchiamo sistematicamente di soggettività. Le Neuroscienze aiutano a mitigare gli effetti della irrazionalità rendendo, in questo caso, il processo di selezione più analitico e anti-bias.

Entrando nel merito, basti pensare a come siano ancora molti coloro che tengono solo scarsamente in considerazione la mancata oggettività e tutti gli errori che ne conseguono. Quando nel processo di selezione si privilegia la velocità a discapito della qualità: ci si concentra sull’identificazione dei candidati con un buon potenziale, a prescindere dalla posizione ricercata, adattandola al candidato o creandone una ad hoc. Questo approccio riporta alla modalità blitzkrieg, il percorso fulmineo per costruire aziende di valore: la strategia della guerra lampo attuata dal generale nazista Heinz Guderian dove venne data priorità alla velocità rispetto all’efficienza, nonostante il rischio di una sconfitta potenzialmente disastrosa per massimizzare la velocità. Il blitzscaling, più che una ricetta per il successo è vista come il pregiudizio della sopravvivenza mascherato da strategia, benché per i Tech Giants sia stato proprio il blitzscaling a portarli dove sono oggi.

In termini di recruitment, anteporre la rapidità al valore significa assumersi il rischio di individuare velocemente delle risorse che però, nel tempo, potrebbero rivelarsi poco adatte in quel ruolo e in quel contesto.

In fatto di buone pratiche le Neuroscienze aiutano è far meglio percepire a coloro che sono coinvolti nel processo di selezione, a non sottostimare il potere che ha l’irrazionalità su scelte e decisioni. Uno dei suggerimenti più semplici è invitarli ad auto-porsi quesiti che comprendano la particella “se”: “Se il candidato fosse meno aggressivo, porrei più domande complesse?”; – “Se la risorsa non fosse stata presentata come esperta, avrei sollevato più dubbi sui suoi errori in un determinato contesto?”; – “Se il candidato non si fosse laureato nella mia stessa università, avrei ancora pensato che fosse parimenti preparato?”.

Le Neuroscienze si sono dimostrate efficaci anche nel portare l’attenzione sulle parole usate nella job description. Le evidenze scientifiche hanno evidenziato come il 44% delle donne sono dissuase dal candidarsi quando nella descrizione sono utilizzate parole tradizionalmente considerate “maschili” , e una donna su quattro sarebbe scoraggiata dal lavorare in un posto in cui compare la parola “esigente”, meglio utilizzare “diligente” in un contesto “frenetico” .

Stesso principio vale per le candidature interne alle aziende, ai fini di un avanzamento di carriera. Quando nella descrizione viene chiesto “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale”, la ricerca ha scoperto che donne e uomini interpretano la domanda in modo diverso. Le donne sono meno propense a candidarsi in quanto pensano che venga chiesto loro di intraprendere, fin da subito, frequenti viaggi all’estero; gli uomini sono invece più focalizzati sulla visione di insieme del ruolo che sono interessati a ottenere.

Riformulando la domanda da “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale” a “Prenderesti in considerazione un incarico internazionale in futuro”, le candidature inviate dalle donne sono aumentate del 25%.

Per sostenere l’imparzialità dei selezionatori un intervento di Nudging consiglia di rimuovere i fattori di identità demografica quali sesso, età, nome, indirizzo e foto dal CV. Suggerimento già noto, ma ancora poco utilizzato. Oltre a superare il gender bias, si è dimostrato utile a mitigare i bias di selezione, somiglianza e l’effetto alone. Molte persone hanno la tendenza inconsapevole ad assumere candidati che ricordino loro sé stessi: questo può favorire i candidati con caratteristiche in comune con chi li seleziona. L’effetto alone porta a generalizzare una singola caratteristica di una risorsa pensando sia valida anche per altre aree. Il bias di somiglianza porta a preferire candidati dello stesso sesso del recruiter, della sua stessa etnia e della stessa fascia d’età. Oscurare l’età, l’etnia e il genere potrebbe aiutare il recruiter ad aggirare tali pregiudizi.

Oscurare i dati demografici ha però condotto all’effetto opposto nel pubblico impiego. Nel tentativo di eliminare il sessismo, è stato chiesto ai dipendenti pubblici di scegliere candidati ai quali erano stati tolti dal CV genere ed etnia. Il presupposto alla base del processo era che il management avrebbe assunto più donne se avesse considerato solo i meriti professionali dei candidati. Il professore di Harvard Michael Hiscox, supervisore del processo, sorpreso dei risultati, ha esortato alla cautela: “Avevamo previsto che ciò avrebbe avuto un impatto positivo sulla diversità, rendendo più probabile la selezione di candidate donne e di minoranze etniche. Abbiamo scoperto l’opposto, che l’anonimizzazione dei CV riduceva la probabilità che le donne venissero selezionate per il colloquio” . Si è così scoperto che assegnare un nome maschile a un candidato ha ridotto del 3,2% le probabilità di ottenere un colloquio di lavoro; vice versa l’aggiunta di un nome di donna a un CV aumentava le probabilità del 2,9%. I dati non permettono però di considerarla una sperimentazione rigorosa, in quanto oscurare i dati demografici ha portato all’effetto opposto solo nelle assunzioni nel pubblico impiego.

Una ricerca che ha portato a risultati promettenti è quella svolta dall’Institute for Gender Research della Stanford University. Dall’analisi di seimila interviste alla cieca condotte sulle piattaforme di diverse aziende è emerso che, quando i CV erano valutati con metodi tradizionali, solo il 17% delle donne candidate e il 28% delle minoranze venivano invitate a presentarsi ai colloqui formali; con le valutazioni alla cieca questi numeri sono saliti rispettivamente al 59 e al 67%. Nelle stesse aziende, le donne ricevono ora il 43% delle offerte di lavoro rispetto a solo il 26% con i metodi tradizionali. Le minoranze ora ricevono il 39% delle offerte di lavoro rispetto al precedente 19%.

Come ulteriore vantaggio, queste aziende hanno anche ridotto il tempo totale di reclutamento del 26% . In ogni caso, i candidati devono comunque affrontare i colloqui di selezione, in cui risulta complesso oscurare sesso, etnia o età, benché per specifiche posizioni, è possibile organizzare “colloqui alla cieca”. È ciò che avvenne negli anni ’70, quando le giurie delle orchestre statunitensi cambiarono il formato delle loro audizioni, in modo da non potere vedere chi si stesse esibendo: tutti i musicisti facevano l’audizione dietro uno schermo. A quel tempo, le donne costituivano solo il 5% dei musicisti nelle orchestre statunitensi: una volta istituite le audizioni alla cieca il numero iniziò a salire, fino a raggiungere il 46% .

Evidenze scientifiche sono disponibili anche per quanto riguarda le stress interview. L’obiettivo, in questi casi, è valutare come e quanto il candidato sia in grado di gestire la tensione. Il presupposto è che se la risorsa riesce a gestire lo stress durante il colloquio, sarà in automatico capace di gestire lo stress anche in azienda. Ma quello che abbiamo imparato sul cervello e su come risponde a situazioni stressanti è ben diverso: non è così che accade nella vita reale.

Se davvero si vuol capire quali sono le reali capacità di una persona, è meglio metterla in una condizione in cui il suo cervello funzioni al meglio, non al peggio! Stressare arbitrariamente gli intervistati solo per valutare come si comportano, potrebbe non rivelare ciò che quelle persone sono e sanno fare, ottenendo informazioni inaffidabili. Molto più utile è inserirli nel contesto in cui sono richiesti e vedere come reagiscono alle sollecitazioni e alla pressione che quella realtà richiede loro”.

 

Alessio: “Molti processi di selezione, a tutti i livelli di seniority dei candidati, si stanno spostando sul digitale – abbandonando sempre di più il tempo dedicato da specialisti in carne ed ossa soprattutto nelle prime fasi dei processi di recruiting. È un trend efficiente? Le neuroscienze potrebbero aiutare in questo senso? Se sì, come?”

Laura: “La pandemia ha accelerato i processi di digitalizzazione aziendale e questo ha avuto un impatto anche sui processi di selezione. Ricordiamo che già nel 2017 Boston Consulting Group utilizzava un videogioco nel processo di selezione per giovani ad alto potenziale. Il gioco metteva alla prova capacità di problem solving, leadership, intelligenza emotiva, learning agility e team playing, unitamente all’analisi del curriculum e i colloqui.

Il gioco faceva parte della suite Knack Analytics ideata a Yale e Harvard e testata su Royal Dutch Shell ed era capace di restituire profili allineati alle valutazioni dei selezionatori, ma basati su Data Analytics. Oggi, il tool è sostituito da Arctic Shores, un gioco che segue gli standard della British Psychological Society. Tutti sistemi, questi, che uniscono logiche di Gamification e teoria dei Nudge, il cui scopo è tenere alta l’attenzione e l’engagement creando un circolo virtuoso.

Esperienza simile è quella fatta da Unilever che utilizza sistemi digitali di Gamification e Nudging utili a intercettare alcune soft skill meglio dei tradizionali test psicoattitudinali, come la propensione al rischio, l’attitudine a sperimentare e a sviluppare idee in situazioni di discomfort e darebbero dei feedback costanti lungo le fasi del gioco, basate su criteri oggettivi.

UBI Banca non è da meno, gaming App in collaborazione con Open Knowledge, scaricabile gratuitamente, è risultata un buon mezzo per attirare potenziali candidati da sottoporre a una preselezione con un videogioco divertente ambientato nello spazio galattico. Lasciando da parte la gamification che richiede competenze specifiche e un discorso a sè, Linkedin ha implementato la possibilità di allegare un video-curriculum , per far fronte alle necessità legate alla pandemia.

L’apice del processo di digitalizzazione è rappresentato dall’implementazione dell’intelligenza artificiale al percorso di selezione del personale, tema anticipato nel 2018 da Peter Cappelli della Wharton School, in cui evidenziava gli elementi che avrebbero permesso a questo algoritmo, un giorno, di funzionare e l’enorme beneficio che ne sarebbe derivato. “Il tempo medio per l’assunzione di un candidato può essere ridotto da quattro mesi a quattro settimane” .

In Italia, la start up Speechannel ha di recente lanciato il suo algoritmo per analizzare i video-curricula. Non sono però immuni dai bias, nemmeno gli algoritmi: Amazon, nel 2018, ha ammesso di non poter implementare il proprio algoritmo di analisi automatizzata dei curricula, in quanto sessista. L’AI di Amazon era stata basata su un set di dati che erano essi stessi “biased”, cioè parziali, influenzati da anni di cultura tech di stampo maschilista.

Se neppure l’intelligenza artificiale è immune dai pregiudizi, le possibilità di essere vittime dei bias durante i colloqui di selezione digitali è un elemento che sarebbe davvero pericoloso sottovalutare. Se da un lato le videochiamate hanno il vantaggio di celare o mettere solo scarsamente in evidenza attributi fisici, come peso e altezza, che possono rappresentare loro stessi un pregiudizio, l’ambiente virtuale potrebbe fare da bilanciamento per le persone con disabilità fisiche.

Un altro aspetto che viene mitigato nelle videochiamate è la gestualità. Se nelle culture occidentali, una stretta di mano debole può generare una cattiva prima impressione, per quanto banale possa sembrare, può fare la differenza in molti contesti. L’impossibilità di stringere la mano durante i colloqui virtuali elimina i pregiudizi e le contraddizioni che potrebbero nascere da tale semplice gesto.

Il colloquio online ha lo svantaggio di svolgersi in luoghi virtuali differenti (e dunque parziali) che potrebbero influenzare il giudizio del recruiter, difficile non rimanere condizionati dal contesto, soprattutto se rumoroso o disordinato. E la scelta del candidato potrebbe ricadere su colui che vanta uno sfondo più allettante, ma non necessariamente è la persona più preparata. Il rischio che il contesto influenzi l’impressione generale sul candidato.

Senza contare che i colloqui virtuali non favoriscono chi non ha dimestichezza con la tecnologia, anche quando non è una skill richiesta: si hanno maggiori probabilità di giudicare negativamente una persona semplicemente a causa di un problema tecnologico riscontrato durante una videochiamata.  Il mondo digitale è sicuramente di ausilio purchè sia chiaro l’obiettivo e si tenga conto del contesto, perché come abbiamo visto non esula da errori umani, proprio perché progettato dall’uomo”.

 

Alessio: “Per molti non è ancora chiaro se le neuroscienze possano o meno dare un aiuto – concreto ed in tempi ragionevoli – all’ottimizzazione dei processi aziendali: hai qualche considerazione da condividere al riguardo?”

Laura: “Le Neuroscienze si sono dimostrate utili nell’aiutare le organizzazioni in tema di decision making, change management, leadership e risk management. Prendere decisioni o intervenire nei processi aziendali guidati da prove scientifiche fa una grande differenza poiché permette di attuare soluzioni già collaudate in realtà similari e di cui sono note le possibilità di successo e di insuccesso. Utilizzare soluzioni a matrice può quindi abbassare i costi, ridurre i tempi e prevenire gli errori.

I leader trascorrono molto tempo analizzando i dati, pro e contro di diverse alternative e via dicendo, per trarre le giuste conclusioni sulla direzione corretta da seguire. Quindi riuniscono collaboratori e dipendenti per informarli sul da farsi, senza lasciare loro il tempo di capire il perché della decisione. Lamentandosi, spesso di riflesso, che i dipendenti resistono al cambiamento.

È normale resistere a ciò che ci viene imposto dall’alto e senza una spiegazione che faciliti la comprensione della strategia messa in atto. Non dimentichiamo che le persone non distruggono quello che hanno costruito. È più facile che distruggano ciò che non capiscono e pensano possa danneggiarli. Non dimentichiamo che non siamo econi, esseri prettamente razionali, ma persone irrazionali e facili prede dell’emotività.

Le Neuroscienze ci insegnano che le persone non resistono al cambiamento, ma resistono a essere cambiate. Ecco perché tutto ciò che ci viene imposto viene visto con sospetto. Se si conosce come funziona il cervello in fatto di novità e cambiamenti, sarà più facile far accettare nuove idee, progetti e processi.

Il cambiamento è percepito dal cervello come una minaccia. E poco importa che non viviamo più nella giungla e non ci sia alcuna tigre dai denti a sciabola da cui proteggersi. L’incertezza e la novità che derivano da un processo di change management, dall’arrivo di un capo difficile, da scadenze e stress sono interpretate dal cervello come minacce al pari della tigre che tanto faceva paura ai nostri antenati. Le minacce si presentano in modi diversi, ma il modo in cui il cervello risponde è più o meno lo stesso di sempre.

Le Neuroscienze, in tal senso, ci danno il perché di quello che sta succedendo: se capisco il perchè, è più probabile che agisca in modo più informato e razionale e utile al contesto in cui la novità viene attuata.

Conoscere il cervello ci aiuta ad essere più empatici verso gli altri e noi stessi.

Le Neuroscienze, senza perdersi in innumerevoli esempi, permettono di trasformare studi ed evidenze in soluzioni utili e pratiche e fruibili da tutti. E non è poco di questi tempi incerti”

Note:

[1] Nielsen T.C., Kepinski L., (2020). Inclusion Nudges for talent selection, Action Guide, pp. 94-100

[2] https://business.linkedin.com/content/dam/me/business/en-us/talent-solutions-lodestone/body/pdf/Linkedin-Language-Matters-Report-FINAL-02.08-1.pdf

[3] h t t p s : / / p m c . g o v . a u / n e w s – c e n t r e / d o m e s t i c – p o l i c y / b e t a -report-going-blind-see-more-clearly

[4] https://gender.stanford.edu/news-publications/gender-news/ leveling-playing-field

[5] Goldin C., Rouse C., (2000). Orchestrating Impartiality: The Impact of Blind Auditions on Female Musicians “Blind” orchestra auditions reduce sex-biased hiring and increase the number of female musicians, Harvard Kennedy School, Women and public policy program

[6] https://youmark.it/ym-interactive/linkedin-sta-testando-la-nuova-funzione-video-presentazione-per-aiutare-i-recruiter-nella-scelta-dei-candidati/

[7] Cappelli P., Tambe P., Yakubovich V., (2018). Artificial Intelligence in Human Resources Management: Challenges and a Path Forward, SSRN Electronic Journal

[8] https://codetiburon.com/machine-learning-changing-hr-industry/

[9] https://www.speechannel.com/index.php