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NON tutto è SCIENTIFICO. ATTENTI a ciò che LEGGETE!

Ci sono riviste scientifiche che millantano standard accademici, ma che dietro compenso, pubblicano qualsiasi articolo. Dati alla mano sono 2,5, in Italia, i milioni di euro spesi per vedere pubblicate ricerche che probabilmente, se non si fosse messo mano al portafoglio, non sarebbero mai state nemmeno prese in considerazione.

Pubblicazioni farlocche comprate solo per far carriera o per vedere il proprio nome in bella mostra.

Questo tipo di riviste prende il nome di predatory journals, riviste predatorie ossia tutte quelle pubblicazioni che si presentano come scientifiche, ma dove in realtà i loro editori non fanno alcuna verifica dei contenuti. Per vedere un articolo pubblicato è sufficiente che l’autore paghi una quota.

A fare la scoperta, uno studio condotto da tre ricercatori (Mauro Sylos Labini, dipartimento di Scienze politiche Università di Pisa, Manuel Bagues Università di Warwick e Natalia Zinovyeva Università di Aalto), che hanno passato al setaccio i curriculum di 46mila tra ricercatori e professori che comparivano nelle candidature della I edizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale dell’anno 2012-13.

Per chi fosse interessato: http://www.lem.sssup.it/WPLem/2017-01.html

Cosa emerge dalla ricerca? Circa il 5% dei partecipanti all’abilitazione scientifica nazionale ha utilizzato le riviste predatorie almeno una volta. Vale a dire oltre 2000 ricercatori universitari.

Tra i 2mila docenti ci sono anche ricercatori che non sapevano di incappare in una scorciatoia poco professionale. I settori scientifici maggiormente interessati da questo escamotage sono Economia aziendale, Organizzazione e Finanza aziendale. Sono questi infatti i campi in cui sono state riscontrate maggiormente le pubblicazioni a pagamento.

Tenendo invece presente il tariffario delle riviste predatorie, lo spreco di risorse sembra essere maggiore per le pubblicazioni nel campo della Medicina dove una pubblicazione può arrivare a costare anche 2.500 dollari. Più pubblicazioni si hanno, maggiore è la possibilità di veder aumentare il proprio h–index, il punteggio con cui si giudica l’attività di un ricercatore.

Il fenomeno delle pubblicazioni a pagamento è ben noto all’estero tanto che esistono vere e proprie liste nere con i nomi delle riviste. Una delle più famose è quella messa a punto da un bibliotecario dell’Università del Colorado, Jeffrey Beall. Un esempio celebre è la pubblicazione della trama della puntata di Star Trek “Vojager”: un ricercatore dal nome fittizio Zimmerman, volendo svelare l’inganno, riuscì a farsi pubblicare la ricerca, passandola per buona, dall’American Research Journal of Biosciences che gli chiese 749 euro. Alla fine ne bastarono 50.

La facilità con cui è possibile realizzare studi fake è sorprendente. Nel 2005 alcuni studenti del Mit di Boston si sono divertiti a creare un generatore di articoli scientifici fake, fra cui la storia virale dei gattini in bottiglia, una delle bufale scientifiche più riuscite di sempre.

Le riviste predatorie possono fare danni non trascurabili, rafforzando tesi pseudoscientifiche per chi non è in grado di discriminare fra scienza e pseudoscienza. Come succede quando si parla di Novax, Terrapiattisti e tanto altro.

Come contrastare questo fenomeno e mettersi al riparo da notizie false? Leggere gli studi e accertarsi del metodo di ricerca utilizzato e su dove è stato pubblicato. Ci si può inoltre informare sugli autori della ricerca, sui loro possibili conflitti di interesse. Insomma, non basta sostenere che esiste uno studio, occorre anche vedere su cosa si basa e dove questo è stato pubblicato.

PERCHE’ ci AFFIDIAMO alle FAKE NEWS?

Immancabilmente come i tormentoni musicali da spiaggia, allo stesso modo anche le fake news sono diventate la compagnia fissa delle nostre giornate. Impossibile non accendere radio e tv o sfogliare un giornale senza incapparci, nonostante tutte le tattiche che mettiamo in atto per seminarle (e non diventarne vittime inconsapevoli).

Eppure la disinformazione è sempre esistita, la differenza è che oggi ha la strada spianata, grazie a internet che si sta rivelando una piattaforma ideale per la diffusione, la moltiplicazione e l’acritico consumo di fatti infondati.

Una cosa che va tenuta a mente, quando si tratta di abbattere la diffusione delle fake news, è che i fatti non ci fanno cambiare idea, nemmeno se suffragati da dati e documenti. Neanche se sono veri e corretti. A dirlo numerosi studi, fra cui quello del 2010 di Nyhan e Reifler: “chi è disinformato non solo rimane ancorato alle proprie opinioni, anche se confutate, ma tende a radicalizzarle fino all’estremizzazione, entrando di fatto in una sorta di stato di difesa dei propri pregiudizi”.

Questo comportamento detto in gergo backfire effect (ritorno di fiamma) porta a rifiutare a priori e a reagire aggressivamente di fronte a tutto ciò che mette in crisi le nostre opinioni: in pratica, combattere la disinformazione con i fatti è come cercare di spegnere con l’acqua un fuoco originato da olio: può sembrare efficace, invece peggiora le cose.

Per confutare la disinformazione, la soluzione si chiama debunking, ma il processo è tutt’altro che automatico in quanto i giudizi errati continuano a condizionare il pensiero, anche una volta corretti.

Fra i maggiori studiosi dei meccanismi di diffusione di disinformazione su internet, Walter Quattrociocchi dell’IMT di Lucca che ha analizzato migliaia di post e interazioni fra utenti su FB, dividendoli in due categorie: quelli a contenuto scientifico e quelli cospirazionisti.

I risultati mostrano l’esistenza di “echo chambers”, comunità polarizzate di utenti che selezionano e condividono contenuti relativi ad un tema specifico, ignorando il resto. La conclusione a cui è arrivato è che i confirmation bias riforniscono queste echo chambre (community) che a loro volta promuovono la diffusione dei contenuti sul social. Ma se le notizie scientifiche tendono a diffondersi all’inizio della loro vita, le dicerie cospirazioniste hanno durata estesa su FB.

Quattrociocchi ha poi esplorato l’apprendimento di notizie analizzando 920 nuovi canali di informazione e 376 milioni di utenti: le persone che prendono informazioni da FB limitano la propria ricerca a pochi siti, nonostante il grande numero di nuove fonti disponibili.

Se alla segregazione nelle community, a cui gli utenti rimangono morbosamente fedeli (a causa di una pseudo sindrome che associa l’herd – gregge -, l’ingroup e il band wagon effect quest’ultimo ci porta a fare nostra un’opinione quando è condivisa da tante persone) si associa l’estrema semplificazione dei contenuti volta a massimizzare il numero di like, ecco che i social diventano il luogo ideale nel quale la disinformazione si può diffondere. Su questo l’università di Harvard mette in guardia perché è ciò che può seriamente danneggiare la deliberazione democratica.

D’ora in avanti quando vi incaponite a difendere una notizia o uno studio scientifico che non avete elaborato o condotto voi, chiedevi la ragione di tanto fervore perchè è probabile che qualche effetto dal nome improbabile si sia attaccato al vostro ragionamento come una fake news ai titoli dei giornali…

TRE BUFALE da SFATARE sul CERVELLO

 

Non è vero che la parte destra del cervello è creativa e la sinistra razionale.
Non è vero che usiamo solo il 10% delle potenzialità del nostro cervello.
Non è vero che il cervello umano è il più grande in natura.

NON E’ VERO CHE l’emisfero destro è creativo e il sinistro razionale. Il pensiero creativo non è collegato a nessuna area specifica del cervello, l’unica certezza è che la corteccia prefrontale (lobo frontale) si attiva quando si svolgono attività creative. E’ vero però che i due emisferi cooperano costantemente e si scambiano informazioni attraverso una struttura che si chiama corpo calloso. Talvolta sui libri viene fatta questa schematizzazione ma solo a fini didattici. Diverso è confonderla con la realtà.

Ciò che rende una persona particolarmente creativa, hanno dimostrato i ricercatori della Università di Padova e della Duke University (Bayesian Inference and Testing of Group Differences in Brain Networks è il titolo della ricerca), non è l’attività dell’emisfero destro ma l’attività fra i due emisferi.

Diffidate quindi di coloro che promettono di sviluppare le capacità creative del vostro emisfero destro. Se veramente volete esaltare la vostra creatività, leggete, ascoltate musica, viaggiate, visitate mostre e musei. Tutte cose che fanno bene non solo alla creatività ma all’intero cervello.

NON E’ VERO CHE usiamo solo il 10% delle potenzialità del nostro cervello, anche se questo è ciò che erroneamente crede il 50% delle persone, insegnanti compresi. L’idea suggestiva che fa pensare a ognuno di noi di avere un “tesoro” imponente di capacità inespresse, è sensata forse perché ognuno di noi, ogni giorno, si sente troppe volte stanco, apatico, deconcentrato, e facendo il confronto con i momenti più brillanti, sogna di poterne fare la norma. Purtroppo non è così.

Nonostante sia stata smentita più volte dalla ricerca, da ultimo anche dall’università di Cambridge, e risalga probabilmente a un testo tutt’altro che scientifico degli anni ’30, un celeberrimo manuale di Self Help, quest’idea con il suo innegabile potere evocativo continua a circolare nell’immaginario collettivo. Una tentazione ghiottissima anche per il cinema, sempre alla ricerca di spunti suggestivi e di storie che trascendano la quotidianità, come è accaduto con Lucy di Luc Besson.
Il cervello proprio perchè plastico può modificarsi e più lo usiamo più lo aiutiamo a funzionare meglio. Per migliorare le proprie prestazioni occorre esercizio indispensabile per consolidare i percorsi neurali e accrescere le facoltà cognitive

NON E’ VERO CHE il cervello umano è il più grande in natura. Il primato lo detiene il capodoglio con una massa di 7800 grammi. L’essere umano arriva a 1360. Quello che conta in realtà è l’organizzazione al suo interno, quali le aree sviluppate maggiormente rispetto ad altre. A meno che le dimensioni non siano talmente ridotte da impedire un’organizzazione sufficientemente complessa.

I miti spesso nascono per dare un significato ad eventi che non si possono spiegare. Aristotele lo ha spiegato bene: “Quando c’è qualcosa che ti stupisce, è naturale che tu ti chieda perché. Se non trovi una spiegazione soddisfacente, devi cercare ancora, tentando di individuare le cause di ciò che accade”. Forse, c’è sempre e solo stato bisogno di più scienziati