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COSA ho IMPARATO sulla VITA da chi è SOPRAVVISSUTO al SUICIDIO

C’è un solo problema filosofico veramente serio” – scriveva Camus nel 1942 ne Il mito di Sisifo – “e questo è il suicidio“.

Decisione temuta, maledetta. Non è un caso se anche i giornali, nella maggior parte dei casi, evitino di nominarlo. E non per rispetto.

Sul #suicidio (che piaccia o meno è la conseguenza di una scelta) rifletto da sempre, sia per il suo rigore filosofico (decidere di vivere, dopotutto, è l’ultimo impegno esistenzialista) sia per la ostinata provocazione. A cui si aggiungono un paio fra amici e colleghi che l’hanno optato come scelta ultima e alcune letture e film che hanno lasciato il segno.

Seppur il mio sia solo un ridicolo tentativo di svelare il sottile limite che spinge alcuni a valicarlo e altri a ricredersi, sono consapevole che seppur non siano pochi coloro che lo scelgono, molti di più coloro che lo rifuggono, non sono trascurabili nemmeno coloro nei quali, il tema in questione, provochi il sonno, per non dire la noia.

Come è accaduto con Near Death Experience: Paul (impersonato dallo scrittore francese #Houellebecq), è un impiegato che dice alla moglie che sta andando a fare un giro in bici prima di cena, ma in realtà si perde tra rocce e sterpaglie, intenzionato a suicidarsi.

Smettiamola di giocare” – direbbe Camus – “e diventiamo sinceri su ciò che conta”. Pur non essendoci alcuna indicazione che Camus abbia mai considerato di togliersi la vita; il suo saggio rappresenta un esteso esperimento mentale, che affronta l’enigma di come esistere in modo significativo in un universo assurdo.

Tornando a Paul/Houellebecq nel film è ubriaco, incapace di reggere una sigaretta, la linea della bocca costantemente all’ingiù, perché nella vita del suo personaggio, e forse anche nella sua, non c’è di che essere felici. I tentativi di suicidio sono goffi, improbabili, continuamente fallimentari.

«Paul tu parli troppo e non ti suicidi abbastanza» dice. La rappresentazione della volontà di togliersi la vita è scandalosa di per sé.

Ma in assoluto la battuta, in perfetto stile Houellebecq, che rimane maggiormente impressa è quando, nei molti pensieri di cui Paul ci rende partecipi, sentiamo dire: «Un padre morto è meglio di un padre senza vita».

Brutale gioco di parole che fa subito venire in mente Clancy #Martin e il suo How Not to Kill Yourself: A Portrait of the Suicidal Mind, che inizia con un resoconto schietto del più recente dei numerosi tentativi di suicidio dell’autore.

L’ultima volta che ho cercato di uccidermi” – confessa – “è stato nel mio seminterrato con un guinzaglio per cani“.

Come Camus e Houellebecq, Martin è uno scrittore di narrativa. In How Not to Kill Yourself cerca di comprendere il suicidio sia come filosofia sia come impulso, intrecciando la storia personale, la sua profonda lettura nella letteratura sull’autoannientamento e le preoccupazioni etiche che l’immersione ispira.

Per tutta la vita” – osserva Martin – “ho temuto ed evitato la sofferenza fisica. È una sofferenza mentale che non ho potuto evitare – come del resto nessuno di noi può – ed è stato questo a motivare i miei tentativi di suicidio. Proprio quello che speravo di evitare quando pensavo alla mia morte era un dolore peggiore. Autolesionismo? No grazie. Autoestinguente? Ora hai la mia attenzione”.

Cito questo passaggio perché è intenzionalmente divertente. Martin può essere, come afferma, dipendente dall’ideazione suicidaria, ma è anche consapevole delle incongruenze di questa dipendenza.

UNA QUESTIONE DI SCELTA?

How Not to Kill Yourself riesce pienamente a introdurre la questione della #scelta.

A seguito di un incidente in auto mentre era ubriaco, Martin viene condannato a una breve detenzione in una struttura di minima sicurezza dove, durante il ricovero, gli viene mostrata la porta attraverso la quale potrebbe essere tentato di uscire. La #decisione di restare o andarsene, almeno in senso terapeutico, appartiene a lui. Se fa la seconda scelta, tuttavia, gli viene detto: “’Tieni presente che non appena lo farai – e abbiamo telecamere e allarmi, quindi sapremo quando lo farai – verrà emesso un mandato di arresto. Ma nessuno ti fermerà e nessuno di questa struttura ti inseguirà.”

L’idea del libero arbitrio e le sue implicazioni galvanizzano Martin. Nell’inquadrare il suicidio come una scelta piuttosto che come una costrizione, potremmo trovare un’azione inaspettata, anche se va subito aggiunto che una volta che la genetica o i disturbi psichiatrici entrano in gioco, l’idea di volizione diventa più complicata.

Per Clancy, invece, in How Not to Kill Yourself, la nozione di #scelta è un principio centrale, a cui attribuisce la sua capacità di rimanere in vita: “Per lo stoico, la capacità di suicidarsi è espressione fondamentale e quasi irrevocabile della nostra libertà. Seneca pone la questione in questi termini: Un uomo saggio vivrà quanto deve, non quanto può”.

Eppure, se questa sembra una giustificazione, la morte può essere la scelta più saggia e contiene anche il suo contrario. Come ammette: “Sono sempre stato libero di fare quello che volevo“. Per lui, questo ha significato rimanere in vita.

UN TENTATIVO PER APPREZZARE LA VITA?

Non so voi, ma avendo avuto a che fare con la morte e con il prima e il dopo, un numero troppo alto di volte, non ho potuto non domandarmi:

Cosa si prova a vivere sotto la costante pressione della morte…

Non ci si abitua, se è quello che verrebbe da sperare.

Paul Celan e Primo Levi, sopravvissero all’Olocausto solo per morire suicidi decenni dopo. Levé, Foster Wallace e Nelly Arcan anche loro sono morti per suicidio. Regalandoci resoconti dettagliati e intimi di come si sentissero a continuare a vivere mentre spesso o addirittura costantemente desideravano uccidersi.

Un tentativo per insegnare a chi è in bilico ad apprezzare la vita?

A negarmi tale spiraglio è un’altra scrittrice, Sarah Davys, che in A Time and a Time, ricorda due tentativi di suicidio da cui, si lamenta “non ho riportato nulla“, cioè nessuna informazione utile sulla vita o sulla morte. “È così che mi sembra di aver trascorso gran parte della mia vita avanzando passo dopo passo, costringendomi sempre a guardare l’abisso sotto i miei piedi“.

Saper (con)vivere con l’incertezza non è da tutti. E’ dimostrato che il modo in cui una persona prende decisioni è fra i principali fattori che determinano la vulnerabilità a comportamenti suicidari. Cinicamente, nessuno sa se arriverà alla fine della giornata, che abbia tendenze suicide o meno. La morte arriva quando vuole.

Dove sta quindi la possibilità di scelta?

Bisogna immaginare Sisifo felice“, scrive Camus alla fine del suo saggio, un riconoscimento della futilità della sua esistenza ma anche della grazia o della consolazione che deriva dalla scelta di accettare il proprio destino.

In ogni caso, per imparare a morire, dobbiamo prima imparare a vivere.