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QUANDO il CAPO ha un PREFERITO… e NON sei TU

Antonella è la classica donna mediterranea, rossetto rosso acceso, occhi e capelli neri. Quando la incontri la prima volta, ti accoglie con gentilezza ed entusiasmo, facendo sembrare tutto semplice, tanto che ti viene da pensare “questo nuovo incarico sarà stupendo. Il team è solare, affiatato, collaborativo”. E in effetti lo è. Per un po’.

Intanto, Antonella, pur non abbandonando il sorriso rosso accesso, inizia a lavorare ai fianchi, in modo quasi impercettibile. Non ci fai caso, anche perché i #valori decantati dell’azienda sono, fra gli altri, #meritocrazia e #inclusione, così, quando lo fai, è troppo tardi.

Mentre con i colleghi risolvevi problemi e trovavi soluzioni lei, Antonella, lavorava assiduamente per ritagliarsi su misura il ruolo di #preferita. Dell’ufficio, del capo.

La storia, vera, finisce male. Io me ne vado, una collega finisce in burnout e un’altra, per aver cercato di fermarla, deve difendersi in commissione disciplinare.

Ciò che ho imparato, da quella situazione, è sia riconoscere i #preferiti, evitarli, laddove serve, sia accettare il fatto che parte della #responsabilità non è (solo) dei manipolatori seriali, quelli ci saranno sempre, ma del management, del board, chi decide e crea la cultura di un’azienda. Troppo spesso inconsapevoli o non abbastanza strutturati per trattare tutti in modo equo.

OVUNQUE VAI C’E’ SEMPRE QUALCHE PREFERITO

Piaccia o meno, in ogni organizzazione c’è sempre qualche preferito. La cosa non sarebbe così tragica se si limitasse a questo, anzi è quasi normale. Il malinteso nasce se all’eleggere il preferito si unisce anche il mancato #riconoscimento di tutti gli altri, o di una parte.

Seppur paradossale, si dimentica che è riconoscendo le persone per chi sono e cosa fanno che le si coinvolge, trattiene e rende felici e quindi performanti; molto più della sola busta paga.

Gallup e Workhuman hanno studiato le esperienze di riconoscimento di oltre 7.500 dipendenti statunitensi. L’analisi ha rivelato che solo il 26% è d’accordo sul fatto di ricevere quantità di riconoscimento simili a quelle degli altri membri del team con livelli di prestazioni simili.

Le conseguenze di un mancato riconoscimento sono di vasta portata: se il riconoscimento sembra iniquo, crea un problema di inclusione, mina l’esperienza dei dipendenti e invia messaggi contrastanti su come appare l’eccellenza.

CHI SI SENTE ESCLUSO

Sebbene l’analisi sia stata fatta oltre oceano, da noi la situazione non è meno triste. In generale, la maggior parte dei dipendenti non è certa che il riconoscimento che riceve sia equo o puramente guidato dal #merito. E quando le organizzazioni non riescono a fornirlo equamente, stanno minando i sentimenti di appartenenza e inclusione sul lavoro. Non si può sfruttare il potere della diversità senza inclusione.

La nuova generazione. Quattro dipendenti su 10 della generazione Z, preferirebbero essere riconosciuti dal loro responsabile almeno un paio di volte alla settimana, ma solo un quarto sta effettivamente ottenendo il riconoscimento con quella frequenza. I più giovani hanno maggiori esigenze di riconoscimento rispetto ai più esperti e ai senior.

Il riconoscimento non è da intendersi come una lamentela. Piuttosto come un elemento indispensabile per far crescere e consolidare la fiducia, lo spirito di gruppo, la collaborazione e la cooperazione fra le persone.

Il riconoscimento crea #talento: il modo in cui i più giovani vengono riconosciuti ora, determinerà le loro prestazioni e il loro potenziale futuri, per non parlare del loro impegno. Le organizzazioni possono far crescere collaboratori forti e fiduciosi rafforzando positivamente l’eccellenza fin dall’inizio.

I manager. Concordano sul fatto di essere fra i ruoli che meno ricevono un riconoscimento equo. Sebbene tutti riferiscano di dare più riconoscimento di quello che ricevono, i manager sono quelli più svantaggiati: dicono di dare riconoscimento tre volte di più di quanto lo ricevono dai propri responsabili, supervisori o leader e 2,5 volte di più di quanto lo ricevono dai colleghi.

Non è un segreto che le organizzazioni si affidano pesantemente sui manager. I leader si fidano di loro per svolgere operazioni quotidiane, avviare nuove iniziative e priorità strategiche. I dipendenti dipendono da loro per risolvere problemi e sostenere il loro sviluppo. I manager sopportano il peso dall’alto e dal basso, e questo finisce per essere scontato anziché riconosciuto in qualche modo.

Non sorprende che il burnout dei manager stia aumentando a un ritmo più elevato rispetto agli altri ruoli. Escluderli dal riconoscimento può essere una cattiva scelta nel medio-lungo termine. Riconoscerli ne aumenta il coinvolgimento e il morale e, a loro volta, quello dei team che coordinano.

COME FAR SENTIRE LE PERSONE RICONOSCIUTE

Ci sono alcuni passaggi che permettono di meglio riconoscere e valorizzare le persone.

Predisporre audit. Le organizzazioni non devono tirare a indovinare per scoprire dove si nascondono le disuguaglianze e le preferenze. Incentivare i momenti di feedback, le riunioni in team e gli incontri one to one a tutti i livelli, unitamente a dare la possibilità di fornire pareri in forma anonima, consente di creare un contesto dove più facilmente le persone si sentiranno incentivate e sicure a parlare. Coinvolte. Difficilmente le persone distruggono ciò hanno costruito.

Formare i manager in modo da essere consapevoli del riconoscimento. Dai dati, quasi tre quarti delle organizzazioni non formano i manager sulle migliori pratiche di riconoscimento. Per quanto possa apparire strano non sempre i manager (e non solo loro) sono consapevoli di avere dei #preferiti e di come tendano a favorirli. Esserne consapevoli permette, non sono solo di individuare i manipolatori seriali per non caderne vittime, ma anche di attuare i giusti comportamenti affinchè tutti vengano trattati e premiati nel giusto modo.

Difficilmente chi ha un preferito lo ammetterà. Non solo agli altri ma addirittura a sé stesso.

Creare pari opportunità di riconoscimento. Offrire un riconoscimento sul posto di lavoro significa ringraziare ed elogiare i dipendenti per il loro contributo, se meritato ovviamente. Il riconoscimento può assumere varie forme: da un semplice grazie detto di persona o pubblicato sulla piattaforma social media dell’azienda a benefit professionali o permessi retribuiti. Anche se il riconoscimento può essere di natura finanziaria, è molto utile offrire feedback pubblici positivi.

Le organizzazioni hanno molte opportunità per offrire ai dipendenti un riconoscimento per il loro impegno e per i risultati raggiunti:

·      Fissare uno standard di lavoro: il riconoscimento pubblico può aiutare i responsabili a stabilire un benchmark che i team dovrebbero raggiungere.

·      Raggiungimento di un obiettivo importante: utile è non limitarsi ad annunciare e celebrare solo le promozioni. Sottolineare ricorrenze come gli anniversari di lavoro contribuisce a creare un senso di appartenenza. Le persone apprezzano riconoscimenti più ampi, e percepiscono l’azienda che celebra gli eventi della vita privata dei dipendenti (il matrimonio o la nascita di un figlio), come un luogo di lavoro migliore.

·      Ringraziamento dei neoassunti nei primi mesi dall’assunzione. Nei primi sei mesi di un nuovo lavoro, il turn over è elevato ed è quindi fondamentale offrire feedback positivi sin dall’inizio. Diversamente da altri incentivi, il riconoscimento non deve necessariamente attendere il raggiungimento di un obiettivo. Esprimere il proprio apprezzamento risulta particolarmente efficace con i più giovani.

No all’approccio universale. Per far sentire riconosciute le persone l’approccio universale non è efficace. La motivazione dipende da fattori diversi e, per alcuni, i piccoli gesti sono significativi quanto un premio importante. Anche l’origine degli apprezzamenti ha la sua importanza. Spesso le persone collegano il riconoscimento a figure quali manager e leader, ma anche l’apprezzamento dei colleghi (ovvero il riconoscimento sociale) può essere fondamentale.

Premi flessibili. È finita l’epoca in cui della ricompensa prestabilita e non negoziabile. Dare la possibilità alle persone di scegliere fra più opzioni le farà sentire apprezzate e ascoltate, e sentiranno i loro #valori rispettati. Per alcuni può essere particolarmente utile l’abbonamento alla palestra, per altri orari flessibili per accompagnare i figli a calcio e via dicendo.

Per esempio Cisco,  dispone di un programma di riconoscimento che permette a qualsiasi dipendente di nominare un collega per l’assegnazione di un premio monetario. I dipendenti possono inoltre scegliere un premio in occasione del primo e del quinto anniversario di lavoro nella azienda.

McDonalds premia con coupon i dipendenti con la maggiore anzianità di servizio. Offre loro anche sconti presso vari rivenditori e opportunità di formazione e sviluppo.

General Motors (GM) ha un programma di riconoscimento attivo in 26 Paesi. I dipendenti possono inviare e ricevere riconoscimenti basati su punti, da utilizzare per riscattare premi a loro scelta.

COME CREARE UN PROGRAMMA PER IL RICONOSCIMENTO DEI DIPENDENTI

Definisci obiettivi e traguardi: stabilisci quali obiettivi vuoi raggiungere, quando e decidi come valutare i progressi compiuti.

Allineamento con la cultura aziendale: per quali comportamenti vuoi assegnare un riconoscimento? Cosa li mette in relazione con i valori dell’azienda?

Comunica il programma: posiziona il programma come campagna e accertati che tutti ne siano informati

Assegnazione frequente e regolare dei riconoscimenti: eccedere nei riconoscimenti ne riduce l’efficacia, ma è importante mostrare apprezzamento almeno a intervalli di qualche mese. Inoltre, se qualcuno si distingue per la qualità del lavoro svolto, riconosci subito il contributo apportato.

·       Personalizzazione dei premi: se possibile, offri ai dipendenti una scelta

·       Richiesta di feedback per misurare l’efficacia: l’efficacia dei programmi è relativamente facile da misurare. Usa i sondaggi per scoprire se i dipendenti si sentono apprezzati e perché.

Il cambiamento non sarà immediato, ma nel tempo sarà facile capire come e quanto il programma influisce positivamente su: turn over dei dipendenti, assenteismo, vendite e ricavi, oltre a rendere l’organizzazione più connessa e trasformarla in un posto di lavoro più piacevole.

Il turn over ha un costo elevato: sostituire una persona costa da metà al doppio della retribuzione di un dipendente. E questo è solo il costo monetario, senza considerare le implicazioni in termini di perdita di competenze e di impatto negativo sul morale causato dall’alto tasso di turn over. Tuttavia, difficilmente le persone che si sentono apprezzate lasciano un’azienda.

Il 63% delle persone che ricevono riconoscimenti professionali ritiene altamente improbabile l’ipotesi di cercare un nuovo lavoro, contrariamente all’11% delle persone il cui lavoro viene apprezzato di rado o mai. Inoltre, i dipendenti apprezzati e considerati sono più propensi a impegnarsi maggiormente, con un conseguente aumento della produttività.

La soddisfazione sul lavoro non solo incrementa la produttività del 31% e le vendite del 37%, ma influisce anche sul modo di lavorare delle persone, con un aumento del 19% del livello di accuratezza con cui svolgono le attività.

A te la scelta…

VOGLIO e NON VOGLIO. L’INDECISIONE può farsi VIRTU’

Amore e odio. Felicità e tristezza. Paura e desiderio. Attrazione e repulsione. Rabbia e dolcezza.

Quante volte li viviamo entrambi, nello stesso tempo… Si chiama #ambivalenza questo altalenare di sentimenti, parte della vita, dai tempi di Cicerone, quando scriveva “Ama come se più tardi dovessi odiare”, e chissà quanti altri ancora, prima di lui.

Ci si sente “tirati” da due parti contrapposte, non a caso è insito nell’etimo (ambi = entrambi e valentia = forza), e non accade solo in amore: possiamo provare contemporaneamente paura e desiderio di buttarci con il paracadute, o attrazione e avversione (specie se siamo a dieta) nei confronti di una sacher torte.

Possiamo sentirci allettati e respinti da un’offerta di lavoro, da sembrare interessante quanto faticosa e piena di insidia. E possiamo nutrire sentimenti ambivalenti per un partito politico, un personaggio famoso, una squadra sportiva. O verso l’idea di iscriverci in piscina o in palestra (mi farebbe bene! Nuotare è noiosissimo!).

Quando ci troviamo di fronte a qualcosa che ci attrae e ci respinge, di solito esitiamo, i nostri comportamenti diventano più contraddittori e meno prevedibili. Per districarci ci tocca cimentarci in un salto di ragionamento. Un pensare al modo in cui stiamo pensando, arrivando a scrivere, su una scala da 1 a 10, quanto vale la nostra attrazione e quanto la nostra repulsione.

In pratica quando siamo lontani, le componenti attraenti sembrano più forti, e dunque ci avviciniamo. Ma più siamo vicini, più le componenti respingenti diventano visibili e tornano a prevalere. Così ci allontaniamo di nuovo. Questo scomodo andirivieni può ripetersi molte volte.

L’ambivalenza genera ansia e incertezza. Proprio per questo, quando ci troviamo ad affrontare un grande tema controverso tendiamo a non prendere in considerazione le argomentazioni di chi non la pensa come noi: interpretiamo male i fatti, ragioniamo in maniera sbrigativa e in base a pregiudizi la cui fondatezza evitiamo di verificare. Oppure rimuoviamo del tutto la questione.

L’ambivalenza ha uno scopo, dimostra una ricerca dell’Università di Stanford: coltivare deliberatamente l’ambivalenza nei confronti di un obiettivo che non siamo certi di raggiungere ci aiuta a consolarci più in fretta di un eventuale fallimento. Ma in caso di successo sminuisce il valore del risultato ottenuto. In parole semplici anche l’ambivalenza può avere conseguenze ambivalenti.

In tutta franchezza, le situazioni ambivalenti ci obbligano a sviluppare una più profonda comprensione della realtà, delle alternative possibili e di noi stessi.

Per uscirne la strategia è dare ascolto al proprio corpo. Immedesimarsi il più profondamente possibile nelle alternative e vedere come si sta. Poi, decidere di conseguenza.

OVUNQUE VAI è SEMPRE e SOLO NATALE… Le mie CONTRADDIZIONI nel GIORNO più BUONO dell’ANNO

Del Natale amo i colori. Il freddo che si posa sulla neve regalando arcobaleni di fantasia impossibili da descrivere a parole.

Del Natale non amo il conformismo. I regali obbligati, gli auguri forzati. La falsa retorica che ci vuole tutti più buoni… la competizione a strafare. La manipolazione per convincere.

Amo del Natale i colori. Non molto di più. Eppure non posso esimermi. Ovunque vai è sempre e solo Natale.

Così nel tempo ho imparato a conviverci. E fra il pauperista e il lussuoso, scelgo, incoerentemente, il secondo. Quello dell’overdose di traffico e auguri. Forse poco morale, ma assolutamente ipocritamente sincero. In fondo, non faccio altro che seguire i precetti di San Francesco che esortava ogni cristiano a essere in questa occasione «largo e munifico». Anche i Re Magi portarono in dono al Bambin Gesù oro, incenso e mirra, non strofinacci equo-solidali, false speranze, o miti illusioni…

Il Natale pauperista lo lascio agli emuli di Giuda: è proprio l’apostolo traditore a mettersi a tuonare contro gli sprechi (per chi non è avvezzo al Vangelo ecco il riferimento: Giovanni 12,4). E a tutti coloro che in economia zoppicano perché ignorano come il lusso sia un formidabile volano occupazionale: il superfluo è indispensabile a tanti lavoratori, smettere di regalare cravatte, guanti, orecchini e libri significherebbe far crollare comparti produttivi a forte impiego di manodopera specializzata.

E poi di cosa vivrebbero? Di prediche moralistiche?

Dunque, non riuscendo a fuggire, scelgo il Natale consumista, ma potendo non scegliere rinuncerei anche a questi aggettivi che, in effetti, deve ammetterlo perfino una collezionista di libri come me, un certo oscuramento del messaggio originale lo segnala: gli uomini sono fatti così, il benessere li distrae da Dio a cui invece ritornano nel momento del bisogno. Non per nulla il neuromarketing si fa mito. Un Natale senza aggettivi (perché Natale è di per sé un aggettivo) è possibile, mi chiedo?

Vorrei un Natale capace di far tacere ideologie e polemiche. Un Natale di quando si era bambini: il momento dello stupore e della sincerità. Con se stessi. E con tutti gli altri. Buon Natale, ognuno a proprio modo.