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I COLLEGHI PASSIVO AGGRESSIVI che AVVELENANO i LUOGHI di LAVORO

 

Nelle ultime settimane, ho avuto molto a che fare con persone con tendenze passivo-aggressive. È stato naturalmente stancante e poco edificante, anche (solo) da consulente. Insidiosi e manipolatori, spesso vengono identificati e intercettati troppo tardi, a danno fatto o quasi. Conoscere caratteristiche e motivazioni, può fare, talvolta, la differenza!

COSA SI INTENDE PER COMPORTAMENTO PASSIVO-AGGRESSIVO

Il comportamento passivo-aggressivo venne identificato dal colonnello William Menniger nel corso della II guerra mondiale[1]. Egli isolò alcuni particolari comportamenti da parte dei suoi soldati differenti dai soliti ribelli, ma in egual modo aggressivi e disfunzionali. Tali comportamenti si palesavano mediante misure passive come una spiccata caparbietà, temporeggiamento, broncio e sabotaggio passivo dei loro doveri militari.

Se vogliamo darne una definizione:

Il comportamento passivo-aggressivo è un modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di rabbia[2].

Deriva dall’incapacità dell’individuo di esprimere e canalizzare le emozioni verso un’espressione assertiva, quest’ultima “sostituita da un’eccelsa mistificazione delle emozioni mediante l’immagine di una persona carismatica, ironica e da una forte personalità. Questo modus operandi conduce il passivo-aggressivo ad agire mediante una sorta di non azione, motivata da emozioni e motivazioni negative e una forte ostilità”[3].

Ognuno di noi può assumere atteggiamenti di tipo passivo-aggressivi. Il problema nasce nel momento in cui queste modalità diventano le uniche modalità di interazione.

ESEMPI

Manager: “Ho notato che siamo un po’ in ritardo per la presentazione. La scadenza del cliente si avvicina e dobbiamo rimetterci in carreggiata. Tutto bene? Hai bisogno di aiuto o risorse per rispettare la scadenza?

Collaboratore (in modo passivo-aggressivo): “Oh, certo. È semplicemente fantastico che tu abbia notato che la scadenza si avvicina. Sto solo lavorando giorno e notte a questo progetto. Ho poteri sovrumani, giusto? Certo, posso fare tutto da solo. Non c’è bisogno di preoccuparsi“.

Un altro esempio comune sul posto di lavoro è quando si esprime disgusto in modo sottile, con frasi come: “Come da mia ultima e-mail”, “Non sono arrabbiato con te”, “Qualsiasi cosa ti occorra ti aiuto io”, “Stavo semplicemente scherzando”, “Io pensavo che tu fossi a conoscenza di…”, quando, in realtà, il comportamento adottato intende esprimere esattamente il contrario…

Anche quando si chiede a un amico di essere accompagnati da qualche parte e seppur questo risponda: “Sì, mi piacerebbe molto“, poi arriva in ritardo lamentandosi: questa è aggressività passiva.

CARTA DI IDENTITA’ DEL PASSIVO AGGRESSIVO

COMMENTI SARCASTICI. Una persona passivo-aggressiva potrebbe usare commenti sarcastici per sminuire chi le sta intorno o per far sembrare meno gravi le osservazioni taglienti che ha appena condiviso.

La gravità del sarcasmo dipende dal contesto e dal rapporto con l’interlocutore. Quando l’obiettivo è aggiungere umorismo alla conversazione, alcuni potrebbero persino apprezzarlo. Ma è fondamentale non usare l’umorismo per ferire.

CRITICA INDIRETTA. Le critiche costruttive sono utili ma possono essere dolorose e spietate quando vengono fatte per ferire e umiliare. Un collega potrebbe criticare indirettamente con tono condiscendente. Se non credesse nella tua capacità di completare bene un compito, potrebbe dire: “Sei sicuro di poterlo fare?” o “Se è troppo difficile da fare da solo, fammelo sapere“.

In altri casi, la critica potrebbe essere più diretta. Se al collega non piacesse il modo in cui stai portando avanti un progetto, potrebbe dire: “È un modo strano di farlo” o “Sei terribilmente concentrato su [aspetto del progetto]”.

SILENZIO. Il silenzio viene usato per esprimere disapprovazione. In una relazione personale, un esempio potrebbe essere una persona che si rifiuta di parlarti dopo che hai chiesto di “stare da solo”.  Invece di avere una conversazione sul perché potrebbe essersi sentita ferita, si allontana per dispetto[4].

RISENTIMENTO DELLE ISTRUZIONI. Le persone passivo-aggressive potrebbero risentirsi o opporsi alle istruzioni e indicazioni, anche se continuano a fare ciò che viene loro detto. Potrebbero diventare polemiche con la persona che delega o irritabili mentre lavorano.

SABOTARE COMMETTENDO ERRORI. Sabotare le attività è un modo in cui le persone passivo-aggressive possono esprimere infelicità o frustrazione. Possono protestare contro le richieste degli altri, procrastinando o commettendo errori intenzionali per evitare di ricevere un compito simile in futuro. Un collaboratore può ritardare il completamento di un progetto o inviarlo con errori evidenti ma sottili.

FARE COMPLIMENTI INDIRETTI. I complimenti indiretti spesso suonano genuini, ma hanno un sottile tono insultante o suggeriscono un difetto. Una persona passivo-aggressiva potrebbe ricorrervi per evidenziare una qualità che possiedi o sminuire il tuo lavoro su un progetto o un compito.

Un complimento indiretto potrebbe essere: “Mi piace quanto sei accomodante quando prendi decisioni“. In questo caso, la parola “accomodante” potrebbe suggerire che pensa che tu non prenda decisioni in modo efficace da solo. Oppure: “Hai lavorato così tanto per ottenere quell’incarico“, suggerendo che hai provato ma non ci sei riuscito.

TRATTI DISTINITIVI

Sono egoisti. Una persona passivo-aggressiva è alla continua ricerca di approvazione. Quando completa le attività, non pensa tanto al risultato o all’organizzazione quanto a come viene percepita.  Nel tempo, infatti può essere considerata altamente competitiva e orientata ai risultati. Ma uno sguardo più attento rivela che il fine ultimo è il proprio interesse personale, non il bene comune.

Vogliono la fedeltà degli altri. Essere un collaboratore o parte della squadra non è di interesse per un passivo-aggressivo, soprattutto se non gli è utile.  Piuttosto che mostrare fedeltà, vuole ottenerla dagli altri.

Si preoccupano di cose che non li riguardano. Poiché è così concentrato su ciò che fanno gli altri e su come ciò influisce sulle dinamiche di potere in ufficio, spesso non si concentra sul suo lavoro.

Il passivo-aggressivo è molto preoccupato per le cose che sono al di fuori della sua portata, poiché si ritiene che queste cose possano potenzialmente influenzarlo in modo negativo in futuro. Anche se sembrano impegnati, spesso non lavorano a compiti che possano far progredire un progetto o un’iniziativa.

Non amano il loro lavoro. Il passivo-aggressivo non ama il suo lavoro. Potrebbe fantasticare di lasciare o addirittura sminuire il lavoro dell’azienda presso cui lavora. Ironicamente, la sua insicurezza spesso gli impedisce di cercare altre opportunità. Il paradosso del Passivo-Aggressivo è che quando viene avvicinato da un competitor, la risposta sarà molto probabilmente ‘no’. Il motivo è che il passivo-aggressivo spesso agisce secondo l’idea: ‘So cosa ho, non so cosa otterrò e le probabilità che possa essere peggio sono alte’.

Cercano altri odiatori. Il luogo comune “misery love company” è particolarmente applicabile ai passivo-aggressivi. Sono costantemente alla ricerca di altri colleghi che condividano le loro lamentele, ma non sono disposti a trovare soluzioniche possano porre rimedio a ciò che percepiscono come ingiustizia o inefficacia.

Invece di unire le forze per migliorare l’esperienza lavorativa, il passivo-aggressivo recluta seguaci nella sua battaglia contro la comunità lavorativa.

Inoltre mostra una piccata propensione al vittimismo e a dare la colpa alle persone che gli ruotano intorno e che non sono utili ai suoi interessi.

Non amano le nuove idee. Poiché è insicuro, le nuove idee e conoscenze lo fanno sentire minacciato.  Quando si trova di fronte a iniziative progressiste da parte di altri, cerca di capire come tali iniziative danneggerebbero il suo potere personale. L’argomentazione avanzata contro queste iniziative: “Ci abbiamo già provato prima, e non funziona’, oppure “Sembra a posto, anche se non è rilevante per me’”.

Questo tende a renderli poco propensi ad aiutare gli altri.

DOVE NASCE IL COMPORTAMENTO PASSIVO-AGGRESSIVO

Uno studio sulla rivista Behavioral Sciences sostiene che un individuo si comporta in modo passivo-aggressivo perché spesso non è socialmente accettabile usare un linguaggio apertamente aggressivo. Così sente di doversi esprimere indirettamente per non ferire gli altri. Lo stesso studio afferma che alcune persone sperimentano l’aggressività passiva in quanto parte della loro personalità.

Nella prima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , l’aggressività passiva grave era in realtà categorizzata come un disturbo mentale: personalità passivo-dipendente. Ma nella comprensione moderna, ora è solo uno in un elenco di sintomi patologici di disturbi mentali.

Sebbene comprendere la potenziale causa non sia così facile, può aiutare a prendere le distanze dalla situazione negativa con tutte le conseguenze e la frustrazione che ne può derivare.

COME GESTIRE I COLLEGHI PASSIVO-AGGRESSIVI

CHIEDI CONTO DI AZIONI E PAROLE. Il modo migliore per gestire un collega passivo-aggressivo è chiedergli conto delle azioni e delle parole.

Spesso fanno deragliare i progetti di squadra a proprio vantaggio o informano il responsabile di aver completato attività che in realtà non hanno fatto. Se hanno detto di aver accettato di fare qualcosa ma così non è stato, richiamali all’ordine immediatamente. Se hanno detto una cosa a te e un’altra a qualcun altro, chiedi loro conto di questo.

ADOTTA UNA COMUNICAZIONE CHIARA. Ognuno ha il proprio stile comunicativo preferenziale ma a volte potrebbe non essere consapevole di come il suo comportamento fa sentire gli altri. Forse il sarcasmo è una parte importante del suo senso dell’umorismo, o ha imparato che affrontare i problemi personali in modo indiretto è il (suo) modo migliore per superarli.

Se qualcuno mostra un comportamento passivo-aggressivo, usare una comunicazione assertiva, chiara e diretta può aiutare ad affrontare la situazione. Sebbene la franchezza non sia il punto di forza di tutti, esprimere i sentimenti in modo assertivo potrebbe fermare il comportamento sul nascere. Se ti trovi in un contesto professionale, prova a gestire le comunicazioni per iscritto o a coinvolgere un testimone terzo imparziale. Questo può aiutare a documentare il comportamento del passivo-aggressivo nel caso in cui si ripresenti.

CREA UN AMBIENTE SICURO. A volte, si comunica in modo passivo-aggressivo per insicurezza o perché si va sulla difensiva. Per esempio, potrebbe essere capitato, in passato, di rispondere in modo irruento, e ora questa persona potrebbe non sentirsi sicura di poterti dire determinate cose in modo diretto. Ecco perché creare uno spazio sicuro, può migliorare la comprensione e creare fiducia.

UTILIZZA IL LINGUAGGIO CON ATTENZIONE. Una parola sbagliata può far peggiorare rapidamente una situazione. Per evitare conflitti, usa le parole con attenzione. Evita di accusare l’altra persona di essere passivo-aggressiva in modo diretto. Invece di dare la colpa a chi hai davanti, sii onesto su come le sue azioni o parole ti hanno fatto sentire.

Se vuoi comunicare i tuoi sentimenti a una persona passivo-aggressiva, cerca di evitare affermazioni come “Tu” che incolpano l’altro per quello che è successo. Prediligi la prima persona: “Ho sentito” o “Non capisco“.

Ricorda, lo scopo della discussione non è ferire i sentimenti o peggiorare la situazione. È arrivare a una comprensione reciproca e migliorare il modo in cui entrambi comunicate.

STABILISCI DEI LIMITI. Sebbene stabilire dei limiti sia una parte importante di una relazione sana, può essere difficile quando entrano in gioco dinamiche di potere. Se hai a che fare con un collega passivo-aggressivo, tieni conto che potrebbe trascurare sistematicamente di considerare i tuoi sentimenti. Definire degli standard di comunicazione può aiutarti a creare condizioni di parità ed evitare conflitti.

I limiti sani possono consistere nel dire all’altra persona di trattarti con più gentilezza o nel limitare il tempo che trascorri con lei.

MANTIENI LA CALMA. È facile cadere in una spirale quando il comportamento passivo-aggressivo influenza le tue emozioni. Ricevere commenti negativi e trattamenti ingiusti è frustrante e doloroso, soprattutto quando accade spesso o proviene da qualcuno a cui tieni[5].

Sfortunatamente, non sarai sempre in grado di cambiare il modo in cui gli altri ti trattano o di influenzare il loro comportamento. Dovrai fare un respiro profondo e concentrarti su come rispondi a un commento o a un’azione passivo-aggressiva senza peggiorarla.

Conclusioni

Avere a che fare con una persona dai tratti passivo-aggressivo, sul lavoro, può essere logorante. Ma identificarla ti fornisce un vantaggio utile a gestirla in modo sano e consapevole, evitando così che ti trascini in un gioco, il suo, di cui non condividi e riconosci le regole. Inevitabilmente a perdere!


BIBLIOGRAFIA

[1] https://military.id.me/news/passive-aggression-military/

[2] Long N., Whitson S. (2018). The Angry Smile: The New Psychological Study of Passive Aggressive Behavior at Home, in School, in Relationships, in the Workplace & Online. Hagerstown, MD: The LSCI Institute. Passive-Aggression in the Workplace | Psychology Today

[3] Timms, M. (2022). Blame Culture is Toxic. Here’s How to Stop It. Harvard Business Review. Blame Culture Is Toxic. Here’s How to Stop It. (hbr.org)

[4] Ni, P. (2020). 7 Signs of Gaslighting at the Workplace. Psychology Today. 7 Signs of Gaslighting at the Workplace | Psychology Today

[5] Brown, D. (2021). The Professional Way To Handle Apologies And Forgiveness. Forbes. The Professional Way To Handle Apologies And Forgiveness (forbes.com)

 

SLASH WORKERS: perche’ dicono NO al modello SINGOLA PROFESSIONE, SINGOLO DATORE di LAVORO

Ho sempre avuto la propensione a lavorare su più fronti, immergermi in contesti apparentemente antitetici e distanti, un po’ per sconfiggere la noia, un po’ per soddisfare sia la mia parte razionale sia la creativa.

Mi sono divisa, nel corso degli anni, fra un lavoro in un reparto ospedaliero ad alta complessità e quello di giornalista; ho insegnato neuroscienze in università e al contempo scrivevo racconti; ancor oggi saltello fra consulenza, ricerca, divulgazione e one to one. Mix eclettico che mi realizza e mi tiene sul pezzo.

Mentirei se negassi che più di qualcuno, nel tempo, mi ha richiamato all’ordine. A 50 anni suonati, è facile pensare che io non abbia ancora capito cosa voglio fare da grande. In realtà lo so benissimo, ma vai a spiegare che il mio modo di vivere non è un trend, una questione umorale, ma il risultato di analisi, prove ed errori che hanno portato a una scelta consapevole.

SLASH WORKER: E’ SOLO UN TREND?

Ed è su questo che voglio spendere qualche parola: sui trend, sulle mode del momento. La propensione che hanno i fenomeni di modificarsi, mantenendo la propria crescita o decrescita costante nel tempo. Nello specifico, ho recentemente scoperto di essere sempre stata una slash worker: persone che volontariamente ignorano il modello “singola professione, singolo datore di lavoro”. Quando questo termine ancora non esisteva e neanche sui trend si perdevano troppe parole.

Difficile pensare che questo fenomeno sia etichettabile come un banale trend. Perché, piaccia o meno, il lavoro ha molto a che fare con la felicità. E se cambiare marcia, provare professioni diverse e applicare e apprendere un set di competenze più ampio permette di stare bene, stare meglio, con sé stessi e con gli altri, non dovrebbe limitarsi a una moda passeggera.

Anche perché, facendo un confronto con il lavoratore tradizionale, se un lavoro si interrompe, questo si ritrova dall’oggi al domani senza lavoro, lo slash worker ha più opzioni su cui contare e probabilmente avrà un rischio minore di disoccupazione.

DAL CV AL PORTFOGLIO

Il CV rappresenta chi siamo: una visione lineare di lavori e responsabilità e un elenco di aziende per cui si è lavorato o il ruolo che si è ricoperto. L’attenzione è rivolta alla creazione di un caso per la durata e la qualità dell’esperienza professionale.

Il curriculum dello slash worker è il portfoglio: una visione olistica dei risultati. L’obiettivo è raccontare una storia avvincente e coerente sulle capacità professionali, non periodi, utilizzando aneddoti, dati, referral, lavoro prodotto e risultati raggiunti. Ciò che era un dato di fatto circoscritto nei campi creativi, si sta ampliando a tutte le professioni. Il KPI si sta spostando da “per chi hai lavorato” a “cosa hai fatto“.

MODELLO: DALLE 8 ALLE 5

Se il modello tradizionale prevede di timbrare entrata e uscita, le prestazioni sono strettamente legate al tempo trascorso sul posto di lavoro e si baratta la libertà personale per una retribuzione prevedibile, nell’economia Slash Worker, i contratti si concentrano sui risultati, non sul tempo trascorso. Le persone si impegnano a produrre una specifica quantità di lavoro in un periodo di tempo concordato di comune accordo, con una maggiore gestione della libertà professionale a fronte del potenziale di un lavoro futuro meno prevedibile. Anche se, è giusto sottolinearlo, dribblare fra più attività, può limitare e non di poco il tempo libero. La cosa importante è negoziare bene con sé stessi cosa è prioritario: lavoro, soldi, carriera, successo, tempo libero, famiglia…

SPIRITO IMPRENDITORIALE

Un’altra differenza è che il lavoratore dipendente è parte dell’organizzazione e, nella maggior parte dei ruoli, non gli è richiesto di essere anche un imprenditore, perché è l’azienda ad occuparsene. Oltre al fatto che molte attività sono delegabili, per esempio il back office, segreteria, logistica, ecc.

Per lo Slash Worker, la carriera è di per sé un’azienda, che ha il suo marchio, posizionamento, fasi, struttura legale e clienti. E dividendosi fra molte realtà organizzative, non solo una, il lavoro amministrativo si accumula, così tutte quelle incombenze non sempre economicamente delegabili. Senza contare che ogni cliente vuole essere trattato come unico, non vuole aspettare e saperti diviso fra molti altri. E qui entra il gioco la capacità negoziale e di consapevolezza dei propri limiti e spazi.

UN LAVORO PER LA PASSIONE E UNO PER LA PAGNOTTA

Guardando a posteriori, ciò che più di ogni altra cosa mi ha spinto a optare per più lavori, è stato il bisogno di alimentare la mia passione per la scrittura e la divulgazione. Ai tempi, non mi avrebbe consentito di guadagnare in modo sufficiente. Così dividersi fra più attività mi ha concesso tempo, analisi, sgravandomi dal peso dell’urgenza. E la passione non si è appassita dietro incombenze non necessarie.

C’è chi, infatti, per seguire la propria passione, un esempio fra tanti, per la musica, conscio che “la musica non ti fa guadagnare soldi” (quindi suonare in una band è considerata una perdita di tempo), pur di perseguire ciò che ama è disposto a pagare per questo. Dividendosi fra un lavoro più tradizionale e sicuro fino a quando non raggiunge la giusta maturità per fare il salto o dedicarsi alla passione in altro modo, come insegnare in una scuola.

Forse, almeno i più tradizionalisti, storceranno il naso di fronte alla mania dello slash life ma, la società sta diventando sempre più diversificata e proiettata verso l’autorealizzazione. E affidarsi al lavoro e al denaro per acquisire un maggior senso di autostima, funziona poco o per breve tempo. Meglio è, almeno in taluni casi, praticare una filosofia carpe diem e creare le proprie identità.

Cosa ne pensate? Qual è il vostro sogno infranto e se poteste tornare indietro cambiereste le vostre scelte?

Il PRANZO è per CHI non ha NIENTE da FARE. Siamo sicuri che sia proprio così?

Molti di noi sono cresciuti con l’idea che lavorare fino a tardi, essere sempre super incasinati, avere orari folli, sia cool. Ci renda agli occhi degli altri, persone di valore, importanti. Degni di ammirazione.

Studi recenti lo confermano: sono considerati “moralmente ammirevoli” coloro che si impegnano molto indipendentemente dai risultati. Con la differenza, rispetto il passato, che “è il lavoro, non il tempo libero, il significante dello status sociale dominante”.

Benchè, l’essere indaffarati non è esattamene sinonimo di risultati, e nemmeno un indicatore affidabile per identificare i talenti, sono ancora molte le organizzazioni che premiano e promuovono chi fa l’alba alla scrivania. Nonostante i dati dimostrino che “quando si sovraccaricano i dipendenti, facendo dipendere gli incentivi dalla quantità di tempo lavorato, la produttività e l’efficienza diminuiscono”.

La busyness, la povertà di tempo, ha un impatto negativo molto forte sulle persone, in quanto incide sul coinvolgimento e aumenta l’assenteismo.

IL POTERE DELLA BUSYNESS

Ci sono tre ragioni dietro la nostra incessante ricerca di cose da fare:

1) Giustificazione allo sforzo. Più siamo impegnati a raggiungere un obiettivo, più lo apprezziamo. Anche per compiti privi di significato. Questo perché più un’attività è impegnativa, più ci sentiamo coinvolti. E questo finisce per spingerci a giustificare la fatica che facciamo, senza accorgersi che il burnout è dietro l’angolo.

Purtroppo, una volta che la cultura della busyness si è insediata in un contesto, tende a persistervi. Eradicarla diventa un’impresa titanica.

Pensateci: se fin dai primi giorni in una nuova realtà, ci viene mostrato che non c’è un preciso orario di inizio e fine, tenderemo a uniformarci agli altri per essere accettati, fino a che diventeremo parte integrante di quel sistema. Raramente lo metteremo in discussione. Vuoi perché aspiriamo a una promozione, un aumento di carriera o responsabilità o anche solo non vogliamo perdere il ruolo acquisito. Come in un circolo vizioso, a nostra volta imporremo ai nuovi arrivati, la medesima dedizione, dandola per normale.

2) Avversione all’ozio: preferiamo fare qualcosa che ci tenga occupati piuttosto che aspettare 15 minuti senza fare nulla, a patto di riuscire a trovare una giustificazione per agire in questo modo.

E’ la stessa cosa che avviene in aeroporto. Molte volte occorre seguire un percorso piuttosto lungo prima di arrivare alla zona di recupero bagagli: questo ha il solo scopo di tenerci occupati, far guadagnare tempo agli addetti allo scarico delle valigie e farci tollerare meglio il tempo di attesa della nostra borsa.

3) I clienti si comportano allo stesso modo. Tendiamo a credere che il valore di un prodotto sia direttamente proporzionale all’impegno profuso. Uno studio ha dimostrato che i partecipanti apprezzavano di più oggetti (un dipinto, una poesia, ecc) e li valutavano meglio in termini di qualità e valore quando pensavano fossero stati prodotti con uno sforzo maggiore. Una ricerca ha inoltre scoperto che i clienti di un bar apprezzavano di più il servizio quando un panino veniva preparto davanti a loro, quando cioè potevano osservare il lavoro che stava dietro il prodotto, rispetto a quando il panino veniva solo consegnato.

COME FERMARE LA BUSYNESS

–        Premiate i risultati

Pagare le persone per lo sforzo e non per i risultati, le spinge a incrementare lo sforzo ma non la produttività. Una ricerca ha dimostrato che quando le persone impegnate in un’attività collaborativa si differenziano solo per le abilità naturali e vengono pagate sulla base del tempo profuso, finiscono per lavorare più a lungo ma meno intensamente, ottenendo meno risultati. In parte perché percepiscono una sorta di ingiustizia in un incentivo economico uguale per tutti.

Risultati simili si sono avuti con uno studio condotto nelle professioni legali. La tendenza degli studi legali a promuovere gli associati che hanno il maggior numero di ore fatturabili porta a una mentalità improntata alla competizione sfrenata e fa sì che gli avvocati lavorini troppe ore e siano inefficienti.

Per incentivare la produttività, una retribuzione più legata ai risultati può essere utile purchè non sia il solo indicatore preso in considerazione. Inseguire le ricompense può portare a superlavoro e burnout parimenti a considerare solo lo sforzo profuso slegato dai risultati.

Un mix fra i due è utile sia per incoraggiare l’innovazione e l’assunzione di rischi, sia per massimizzare la produttività. Così da trasmettere il messaggio che non si dà valore solo alla busyness.

–        Qualità del lavoro

Spesso ciò di cui vengono sovraccaricati i dipendenti sono attività che poco li coinvolgono, cosi da costringerli al multitasking, pur sapendo che il multitasking riduce la produttività fino al 40%.

Utile potrebbe essere chiedere alle persone di valutare le attività che svolgono su una scala da 1 a 5, indicando quanto la ritengono impegnativa dal punto di vista cognitivo. Così da poter eliminare le attività superficiali o demandarle.

  • Spingete le persone a prendersi una pausa

C’è la paura, in molti manager, che se ai dipendenti fossero date ferie illimitate questi ne approfitterebbero. Eppure, sono molti coloro che non esauriscono i giorni di vacanza retribuita annualmente e altrettanti lavorano anche quando sono in ferie.

Gli studi mostrano come la maggior parte dei dipendenti controlla la posta aziendale quando non è in ufficio, tant’è che questo ha spinto governi come Francia, Spagna e Portogallo ad approvare leggi che impongono alle organizzazioni di consentire ai lavoratori di disconnettersi fuori dall’orario di lavoro.

Nel 2014 la casa automobilistica tedesca Daimler (ora Mercedes Benz) ha consentito di utilizzare, quando erano fuori ufficio, un programma di posta elettronica che cancellava automaticamente le email in entrata e informava i mittenti che le loro mail erano state cancellate e che in caso di emergenza chi si poteva contattare.

  • Manager, date l’esempio!

Per incentivare il benessere a scapito del busyness dare il giusto esempio è sicuramente una delle strategie più efficaci. Se arriva dal vertice!

  • Allentare il tiro

Sebbene assumere più risorse è, a ragione, una scelta poco vantaggiosa sull’immediato, è in realtà una buona strategia soprattutto quando si tratta di gestire una crisi e si cerca di mantenere gestibile il carico di lavoro quotidiano nel tempo. Banale, ma come tutte le cose all’apparenza banali, sottovalutate. Accrescere le risorse è un costo ma non lo è meno perdere talenti.

In conclusione, attenzione a non confondere l’attività con i risultati. Non necessariamente chi è molto occupato è anche parimenti produttivo. Premiare chi si ferma fino a tardi, più di chi in un minor numero di ore porta maggiori risultati, accresce il rischio di creare un ambiente tossico dove non tutti vogliono lavorare o rimanere. In parte, le nuove generazioni ce lo stanno già dicendo, magari non nel modo che ci piace sentire e forse un po’ estremizzato. Ma rivedere collaudate abitudini, potrebbe prevenire impatti che oggi neanche riusciamo a immaginare. O forse sì, ma ci rifiutiamo di farlo.

MEGLIO un’AZIENDA con o senza CAPO?

Per molti può essere pacificante pensare di lavorare in un’azienda dove non solo non ci sono capi e subalterni, ma dove a regnare è una sorta di autogestione in cui ognuno è manager di sé stesso. O meglio tutti sono employeneurs, crasi fra employee e entrepreneur, un mix fra un dipendente e un imprenditore autonomo nelle decisioni.

Sembrerebbe, vista così, la soluzione perfetta per porre fine a soprusi, soprattutto umorali del capo, a battaglie infinite per fare carriera, a prevaricazioni e favoritismi. Peccato che la realtà si discosti dall’idea che ci facciamo delle cose, soprattutto di quelle che più desideriamo, più di quanto ci piace credere.

Non a caso, i risultati che la logica della self governance aveva promesso, iniziano a venir disattesi, come i ricercatori e docenti di strategia della Copenhagen Business School, della Hankamer School of Business e della Baylor University, hanno dimostrato (dopo aver esaminato le organizzazioni senza manager che sono state proposte – e occasionalmente adottate – negli ultimi 50 anni).

SELF GOVERNANCE PUNTI DI FORZA

L’adozione dell’approccio “senza capo” si può sintetizzare in 5 punti:

  1. Gestione personale del tempo. Si lavora per risultati, ognuno con specifiche responsabilità, pertanto nessuno controllerà quanto si sta dietro una scrivania, quindi il tempo si può gestire a proprio piacimento, purché si portino risultati.
  2. Trasparenza e fiducia. In un’azienda che segue il principio della self governance, i dipendenti hanno accesso a tutte le informazioni della compagnia, compresi conti e bilancio. L’azienda è quindi trasparente. Il che dovrebbe comportare un grande clima di fiducia tra i lavoratori, che condividono anche valori e obiettivi.
  3. Collaborazione tra colleghi. L’organizzazione in team autonomi e paritari, senza capi su cui fare affidamento e sui quali scaricare colpe e responsabilità di qualsiasi malfunzionamento, favorisce la responsabilità personale e la collaborazione.
  4. Confronto. Nella maggior parte delle aziende gestite tradizionalmente esiste spesso una grande distanza tra ceo e dipendenti. Nelle aziende senza capo, invece, c’è un dialogo continuo e una condivisione di idee e punti di vista, che aiutano il buon funzionamento aziendale. Anche dal punto di vista finanziario.
  5. Migliori performance. Secondo “The How Report” di LRN (Learning Resource Network), nelle aziende senza capo il clima favorevole sul posto di lavoro aumenta la produttività, garantendo migliori performance. I casi di cattiva condotta nelle aziende basate sulla self governance sono rarissimi. E questo genera anche maggiore soddisfazione da parte dei clienti, con migliori performance di mercato.

Insomma, la self governance sembra che faccia bene non solo ai lavoratori, ma anche al bilancio.

LE NUOVE EVIDENZE

I ricercatori hanno raggruppato le teorie di Gary Hamel, Michele Zanini e Frederic Laloux e gli approcci alla gestione decentralizzata, come l’olocrazia e l’agile, sotto il termine di “bossless company narrative”, narrativa aziendale senza capo, sostenendo cheLe aziende quasi senza boss – e non ce ne sono molte – non sono generalmente o in modo dimostrabile migliori di quelle tradizionalmente organizzate. I capi contano, non solo come prestanome, ma come designer, organizzatori, incoraggiatori ed esecutori“.

Foss e Klein, questi i nomi dei due ricercatori, hanno dettagliato con grande precisione le loro conclusioni contro la narrativa aziendale senza boss, pur sapendo quanto sia di difficile da contestare, specialmente nell’ambito delle grandi imprese.

Schemi come l’olocrazia, in cui le decisioni sono prese dai team, possono funzionare per piccole aziende con proprietà distribuita, ma non nelle grandi come, ad esempio, Zappos, che hanno molti più dipendenti e richiedono forte coordinamento. Anche l’agilità tende a funzionare più nell’esecuzione di progetti che nella gestione di intere organizzazioni.

Pur evidenziano le promesse disattese della self governance, gli autori, riconoscono le sfide e le opportunità create da questo approccio. “Siamo d’accordo sul fatto che ci sia la necessità di una ridefinizione del ruolo di gestione tradizionale“. Su una cosa però sono fermamente convinti “Ogni azienda deve ridefinire la propria struttura di gestione  e i propri ruoli, per se stessa. (…) Quando si tratta di struttura organizzativa, non ci sono soluzioni valide per tutti“. Ecco perché non ci si deve buttare a capofitto su soluzioni alla moda, e studiare cosa è più utile per il contesto specifico in cui si opera.

LA MIGLIORE GERARCHIA

Qual è, dunque, la dimensione e la forma gerarchica che meglio si adatta alla propria azienda?

La chiave è trovare il giusto mix di due forze, spesso opposte. “La prima è il desiderio, comune a tutti noi, di empowerment e autonomia, che aiuta le aziende a stimolare la creatività dei dipendenti e sfruttare le loro conoscenze e capacità uniche. La seconda è il fatto che gli ambienti caratterizzati da rapidi cambiamenti spesso richiedono che ci sia una gerarchia chiara e definita, in particolare quando le attività sono interdipendenti e le persone da sole non possono apportare gli adeguamenti richiesti“.

Trovare il giusto mix richiede di pensare a come ripartire l’autorità. “L’autorità ha molte facce. Autorità può significare il diritto di assumere e licenziare, istruire, supervisionare, intervenire e sanzionare. Ma l’esercizio dell’autorità manageriale è associato anche ad altri comportamenti: guidare, creare strutture e processi, forgiare il consenso, allineare il comportamento attorno a obiettivi condivisi e promuovere il cambiamento“.

Gli autori etichettano il primo insieme di comportamenti come autorità “Mark I” e il secondo come autorità “Mark II”. I manager dovrebbero essere autorizzati e preparati a esercitare entrambi, ma c’è di più. “Esercitare l’autorità in modo intelligente significa capire quali decisioni delegare, chi mettere in posizioni chiave e quando intervenire, oltre a decidere se il sistema deve essere rivisto in risposta alle mutevoli condizioni“.

Il modo in cui un’azienda risponde a queste domande definisce la sua gerarchia. “Per rispondere correttamente è necessario considerare diversi fattori, tra cui la velocità del processo decisionale, la conoscenza dei dipendenti, la giustizia procedurale, ecc”. Ad esempio: “Se il tempo è essenziale, se c’è un alto grado di urgenza decisionale, allora l’alternativa migliore è spesso avere top manager che prendono decisioni senza cercare e aspettare il consenso“.

In definitiva, il messaggio è che la narrativa aziendale senza capo è altrettanto imperfetta della versione di comando e controllo della gestione di Frederick Taylor. I manager contano e continueranno a contare, ma i loro ruoli cambieranno nel tempo. “Quello che vogliamo“, dichiarano Foss e Klein, “è una gerarchia ben funzionante“.

Insomma, prima di abbracciare un movimento, per quanto allettante e stimolante sia, mettiamolo in discussione quel tanto che basta per capire se fa al caso nostro e se ne abbiamo davvero bisogno. In quel momento.

È facile (al LAVORO) PERDERE il SENSO di CHI SEI e diventare CHI PENSI che dovresti ESSERE

Il lavoro mi richiede di confrontarmi con persone di diversi settori e culture, ma c’è un comune denominatore che unisce molti di loro: la pressione a #conformarsi.

Per fare #carriera (spesso anche solo per sopravvivere), molti fanno del loro meglio per uniformarsi ai #valori dominanti all’interno dell’organizzazione nella quale operano, anche se li condividono poco o niente. Che sia un lavoro estremamente competitivo o di squadra, il successo, in parte, dipende dalla capacità a conformarsi. Dall’abbigliamento, agli hobbies, ai luoghi di vacanza, al quartiere, dove acquistare o affittare casa e così via…

Quando è arrivato il nuovo ad, grande amante della vela, non sono pochi coloro che, all’improvviso, si sono messi a praticarla”.

Il nuovo responsabile è un fan sfegatato del Milan. Molti, pur di non inimicarselo, hanno cambiato casacca”…

Esempi tristemente veri.

E quando punti sul vivo: “Non posso fare diversamente. O sarei l’unico del team a essere diverso e verrei escluso”.

Poco importa se per adattare valori e idee, dovranno gestire una dose di stress non indifferente. In certi casi “è il sacrificio che occorre fare per arrivare al successo”.

Ma se non fosse così?

TUTTO IL MONDO E’ PAESE

Questo (non so se ha senso dire per fortuna) non è un fenomeno solo italiano. Da una ricerca[1], un terzo dei dipendenti in Nord America sente la pressione di sopprimere i propri valori personali e fingere di assecondare quelli dell’organizzazione.

L’idea di fondo a cui ci si aggrappa fortemente è che è più sicuro mettere a tacere le idee quando divergono, piuttosto che renderle esplicite, fare buon viso a cattivo gioco, sorridere quando viene richiesto un sorriso, e dire sì quando c’è bisogno di acconsentire.

Anche se ben consapevoli di quanto tale #scelta non faccia bene alla salute. Ma nemmeno – aggiungo io – a motivazione, performance e in ultimo all’azienda[2]..

COSA CI SPINGE A CONFORMARCI?

–      Scarso potere decisionale

–      Impossibilità a esprimere il proprio pensiero

–      Valori personali disallineati a quelli aziendali

–      Leader dai forti valori etici

–      Status di minoranza

–      I consigli di chi apprezziamo e fidiamo

Nelle realtà in cui le persone non hanno né potere decisionale né la possibilità di esprimersi, tendono a sentirsi più sotto pressione e a indossare la maschera della conformità[3].

L’autenticità richiede sicurezza psicologica: un ambiente dove le persone possono liberamente correre rischi condividendo preoccupazioni, rilevando errori e dire: “Qui abbiamo fatto un errore, risolviamolo“.

A uniformarsi maggiormente sono poi coloro i quali hanno #valori personali non completamente allineati con quelli aziendali, ma considerano il loro responsabile integro, etico[4]. Le persone stimano così tanto questi leader, al punto da essere disposti a sopprimere i loro punti di vista come un modo per ricambiare i benefici di una buona #leadership.

A spingerci alla conformità ci si mette anche lo status di minoranza. Più sono le aree in cui ci identifichiamo come minoranza, più è probabile che ci sentiamo sotto pressione per creare una facciata di conformità. Nelle culture più orientate al collettivismo, che danno valore all’armonia di gruppo, la pressione a conformarsi è ancora maggiore.

Senza contare tutti i consigli che riceviamo da persone di cui ci fidiamo e che ci incoraggiano a conformarci. Chi non si è sentito dire: “Stai attento, tieni la testa bassa. Non tutti devono sapere cosa sta succedendo nella tua vita“. Poiché spesso, anche se non è lecito, veniamo valutati anche su questioni che vanno oltre le prestazioni lavorative. Specie se sei donna o appartieni a una minoranza di qualche tipo.

Consigli che possono anche rivelarsi utili, in certi contesti, ma che portano alla seguente domanda: cosa significa essere autentici.

CHE ASPETTO HA L’AUTENTICITA’?

Quando eravamo bambini, ci veniva detto di essere semplicemente noi stessi. Ma nessuno ci ha mai detto come farlo, perché chi ce lo diceva non lo sapeva.

In realtà accade anche da adulti.

Hai un incontro di lavoro importante e quali consigli ti senti dare: “sii te stesso e tutto andrà bene”. Peccato che spesso chi te lo dice, il tuo te stesso non lo conosce affatto…

L’autenticità è relazionale. Viviamo in un mondo di relazioni. Trasudiamo la nostra autenticità, e poi è testimoniata da altri. Per questo motivo, l’autenticità deve essere combinata con l’intelligenza emotiva e il rispetto, l’ascolto e la comprensione. L’autenticità richiede l’assunzione di una prospettiva, non solo da noi stessi ma anche degli altri. Come uno studente che ho incontrato e ha detto in modo toccante: “Se vuoi essere autentico, ciò richiede che tu accetti l’autenticità degli altri”.

Ciò non significa che la nostra autenticità debba essere modellata in modo da essere universalmente apprezzati. Potremmo anche non piacere. Ma se la nostra autenticità ha lo scopo di ferire o mancare di rispetto a qualcuno, le nostre motivazioni sono discutibili.

L’autenticità è un viaggio personalizzato. Per alcuni di noi, i nostri valori si allineano con i valori del nostro ambiente. Ma in molti casi, la scelta di essere autentici è rischiosa. L’autenticità potrebbe essere un percorso senza indicazioni da fare da soli. Ma si può sempre cercare altri da cui imparare. Purchè sia sempre alle nostre condizioni.

Il modo in cui scegli di essere autentico può essere molto diverso da come il tuo collega, tua sorella o il tuo amico scelgono di farlo. Potresti scoprire che il tuo abbigliamento è fondamentale per riflettere la tua autenticità, mentre qualcun altro potrebbe voler integrare la vita familiare come estensione del lavoro (ad esempio, occasionalmente portando i figli in ufficio). Altri possono scegliere di onorare la loro cultura con oggetti da posizionare sulla scrivania e via dicendo.

L’autenticità si basa su valori fondamentali. L’autenticità non riguarda il fatto che dovremmo posizionare la caffetteria al secondo o al terzo piano. Riguarda aspetti fondamentali di noi stessi: la nostra identità, le nostre convinzioni e le nostre prospettive su ciò che è giusto e non lo è.

Mentre alcuni valori possono cambiare nel tempo, altri no. Se li compromettiamo, non ci sentiremo bene.

COME ESSERE (PIU’) AUTENTICI

La prima domanda da porsi sui valori è: sono funzionali?

Compromettono le relazioni?

Se sono disfunzionali, allora è il momento di rivalutarli e svilupparne di nuovi.

Mentre valuti i tuoi valori fondamentali, puoi porre queste domande: Quali sono quelli negoziabili e quelli non negoziabili? Cosa renderebbe il mio ambiente di lavoro più coinvolgente per me? Cosa mi farebbe sentire più autentico? Quando non sono in grado di essere me stesso e vivere i miei valori, come mi sento?

Il principio è che quando comprometti i tuoi valori, stai compromettendo il tuo benessere.

Mentre consideri queste domande, aiuta a pensare alla tua soglia. La tua soglia di autenticità è il livello di impegno autentico che porta benefici al tuo benessere, quel livello di soddisfazione che ti fa sentire fedele a te stesso.

Pensa a quelle volte in cui eri pienamente impegnato e hai pensato: “Questo è il mio momento. Mi sento autentico”. Con chi eri? Cosa stavi facendo? Come puoi replicarlo di più?”

Inoltre non tutti i valori devono avere a che fare con il lavoro. Forse ci sono altri contesti in cui puoi esprimere i tuoi valori. Si tratta di identificare ciò che è importante per te e determinare quanto puoi integrare quei valori nella tua vita lavorativa o in altre aree, in modo da poter sperimentare la soddisfazione della vita, sentirti coinvolto e dare un contributo positivo al lavoro e alla società.

La sfida delle organizzazioni oggi è come gestire un luogo di lavoro che incoraggi l’autenticità. Come leader, cosa fai quando tutti portano prospettive diverse? Devi gestire queste prospettive in un modo che consenta all’organizzazione di essere efficiente e prosperare. Più che mai, richiederà coraggio.

Leader che non hanno paura delle conversazioni difficili. Leader che sono disposti ad affrontare i loro pregiudizi e gestire quelli delle persone che lavorano con loro.

Conclusione

Se proprio non sapete da dove iniziare, per capire come si esprime la vostra autenticità, Psychology Today propone un esercizio bizzarro: scrivi il tuo necrologio. 

Chissà che non sia la via più veloce per dare un volto a chi siamo. Io non l’ho ancora fatto, e voi?

A ad ogni modo a me piace pensare che l’autenticità sia un viaggio in cui nessuno può dirci dove dovrebbe portarci. Per alcuni, essere autentici potrebbe essere la cosa più coraggiosa che abbiano mai fatto. O la più banale. L’importante è avere voglia di scoprirlo!

Fonti

[1] Morgan Roberts L., Dutton J.E., (2009) Exploring Positive Identities and Organizations, Psychology Press

[2] Boyraz G., Waits J.B., Felix V.A., (2014) Authenticity, life satisfaction, and distress: A longitudinal analysis. Journal of Counseling Psychology, 61(3), 498–505.

[3] Hewlin P.F., (2009) Wearing the cloak: Antecedents and consequences of creating facades of conformity.Journal of Applied Psychology, Vol 94(3), 727-741

[4] Hewlin P.F., Dumas T.L., Burnett M.F., To Thine Own Self Be True? Facades of Conformity, Values Incongruence, and the Moderating Impact of Leader IntegrityAcademy of Management Journal Vol. 60, No. 1