Tag Archivio per: #comunicazione

LE PERSONE NON RESISTONO AL CAMBIAMENTO. RESISTONO A ESSERE CAMBIATE

Uno degli errori più ricorrenti quando si applicano interventi di change management è concentrarsi unicamente sul cambiamento che si vuole ottenere trascurando l’impatto che questo ha sulle persone che lo subiranno.

Se si è troppo concentrati sul piano di azione e poco sulle persone, ci sono buone possibilità che il progetto fallisca.

Uno dei modelli più utili allo scopo è quello di William Bridges.

 

Che cos’è il modello di transizione Bridges?

 Creato dal consulente organizzativo William Bridges, questo modello ha la peculiarità di fare una distinzione tra cambiamento e transizione.

Bridges ha descritto il cambiamento come “un evento esterno che si verifica“. Ad esempio, l’adozione di un nuovo software o il lancio di un nuovo prodotto.

Ciò che le persone attraversano durante questo cambiamento esterno è una “transizione” interna. Il modello di transizione di Bridges si concentra sul processo psicologico che vivono le persone durante il cambiamento e consta di tre fasi.

Se gli step di transizione non vengono affrontati e gestiti, la resistenza al cambiamento può far deragliare il progetto o non produrre il risultato finale desiderato.

Un aspetto chiave è dato dal fatto che l’obiettivo di un progetto di change management di successo non dovrebbe essere il risultato del cambiamento, ma la fine del vecchio processo che le persone devono affrontare all’inizio di quel cambiamento .

Pur essendo simile al modello Lewin, il modello di Bridges è più incentrato sull’individuo e sulle tante emozioni (sia negative sia positive) che possono accompagnare un cambiamento organizzativo.

L’obiettivo è che coloro che facilitano il cambiamento comprendano e affrontino eventuali emozioni negative in modo che possano rimuovere le barriere al cambiamento.

Le fasi della transizione

 

  • Ending: gestire la transizione durante il cambiamento significa capire che inizia con una fine o una perdita. Le persone stanno dicendo addio al modo in cui le cose venivano fatte, il che può comportare sentimenti di rabbia, rifiuto, confusione e frustrazione.
  • Zona neutrale: subentra nel momento in cui le persone, superata la fase di rifiuto, elaborano le nuove informazioni. Questo è un momento di flusso e può includere sentimenti di eccitazione, ansia, resistenza, creatività e innovazione.
  • Nuovi inizi: significa cementare nuovi modi di fare le cose e incorporarli come nuova norma. I sentimenti in questa fase possono comportare sollievo, confusione, incertezza, impegno ed esplorazione.

 

Come si usa il modello di transizione di Bridges per facilitare il cambiamento?

Una volta che sai cosa stanno attraversando le persone, come puoi utilizzare il modello Bridges per facilitare il cambiamento?

COMUNICAZIONE

E’ importante che le persone sappiano quale ruolo svolgono nel cambiamento, in modo che si sentano incluse e apprezzate. Comunicaglielo.

FEEDBACK

Dai alle persone la possibilità di esprimere ciò che sentono riguardo al cambiamento. Entrare in contatto con gli stakeholder, durante il progetto di cambiamento, può aiutarti a essere consapevole in quale fase del modello Bridges si trovano. Ciò ti consentirà di affrontare i sentimenti negativi che potrebbero impedir loro di abbracciare il cambiamento.

MONITORAGGIO

Segui le persone mentre attraversano le tre fasi del modello Bridges in modo da sapere quali piani d’azione potrebbero dover essere messi in atto per gestire la resistenza al cambiamento.

 

E ricorda, le persone non resistono al cambiamento. Resistono a essere cambiate.

DIO ESISTE, MA NON SEI TU

Tutti ne abbiamo incontrato uno. Almeno una volta. Con il complesso di Dio.
All’inizio, ci può anche essere sembrato divertente… all’inizio…
Poi, più il tempo passava e più quel bisogno di erigersi al di sopra di tutto e tutti, ha cominciato a erodere la nostra pazienza.
Ma a quel punto, talvolta, è troppo tardi…

 

FAUST, HITLER E TANTI ALTRI

Faust vendette l’anima al diavolo per appropriarsi dell’onnipotenza, il potere infinito negato agli esseri umani.
E da lì, i posteri, affamati dello stesso male e desiderosi di superare ogni limite terreno, ne hanno modellato il profilo, questo è infatti il processo evolutivo del nazismo e del suo capo Hitler.
Nei tempi moderni si aggiunge anche l’insoddisfazione di chi non è pago di nulla, vittima dei miraggi del suo desiderio.
Un desiderio che ossessiona l’umanità dalle origini e che ha il suo campione iniziale in Lucifero, che sfida Dio e induce ognuno di noi, a fare altrettanto.
Per alcuni elevarsi al di sopra di tutti si fa necessità, spinti dalla convinzione assolutamente schiacciante che la propria soluzione sia infallibilmente esatta.

 

E questi alcuni sono facili da riconoscere: sono coloro che di fronte a un mondo incredibilmente complicato, sono intimamente convinti di capire come funziona. Tutto.

 

IL COMPLESSO DI DIO

Il Complesso di Dio. E’ questo il nome che veste chi non accetta di sbagliare, di essere fallibile. Eppure è la realtà e difficilmente siamo disposti a concedere potere e credibilità a chi dice di non sapere, nonostante da millenni siano prove ed errori ad aver permesso evoluzione e scoperte scientifiche. Edison con il suo filamento per la lampadina ne è l’emblema. Ma lui aveva quella sensibilità paradigmatica che molti hanno perso: l’umiltà.
In ogni sistema complesso i dati hanno preso il sopravvento sulla sensibilità. Ti mostrano grafici che dovrebbero inquadrare meglio un problema, ma ogni grafico è solo un trucco, l’incapacità di schematizzare il tutto.

 

LA VERA STORIA DI COCHRANE

Prendiamo la storia del medico Archie Cochrane.
Voleva compiere un esperimento:  si chiese se le persone infartuate avessero migliori possibilità di guarigione post infarto, in ospedale o a casa.
Tutti i cardiologi tentano di farlo tacere. Loro sapevano che il posto migliore era l’ospedale, in virtù del complesso di Dio.
Cochrane a conclusione dell’esperimento, convocò i colleghi:
Ho i risultati preliminari che non sono significativi statisticamente. Ma qualcosa abbiamo. Ho scoperto che voi avete ragione e io ho torto. E’ pericoloso per i pazienti riabilitarsi a casa. Dovrebbero rimanere in ospedale”.
I medici cominciarono a lanciare commenti di giubilo.
Te lo avevamo detto che eri immorale, uccidi le persone per fare esperimenti clinici. Ora devi stare zitto”.
Cochrane aspettò che l’ambiente si calmasse e poi:
“E’ molto interessante signori, perchè quando vi ho dato le due tabelle ho invertito i risultati. Ho scoperto che i vostri ospedali stanno uccidendo le persone, e che i pazienti dovrebbero stare a casa. Volete sospendere gli esperimenti adesso o volete aspettare di avere risultati più significativi?”.
Cochrane faceva quel genere di cose. E il motivo per cui faceva quel genere di cose è perché aveva capito che ci si sente molto meglio a dire:
“Qui nel mio piccolo mondo, sono un Dio, capisco tutto. Non voglio che le mie opinioni vengano sfidate. Non voglio che le mie conclusioni siano messe alla prova”.
E’ rassicurante.
Cochrane capì che l’incertezza, la fallibilità, l’essere sfidati, è doloroso. E qualche volta bisognerebbe affrontare la realtà.
Così come è dolorosa la vita di Bucky Cantor in Nemesi di Roth, forte di una idea delirante di onnipotenza. Segnato, per tutta la vita, dalla tragica perdita della madre, morta mettendolo alla luce. Rimarrà per sempre interiormente legato alla convinzione di essere l’autore, insieme a Dio, della malvagità onnipotente e di quella assurda morte.

 

SOCRATE DOCET

Forse andrebbe ricordato a chi vende l’anima al Diavolo per sostituirsi a Dio (e ce ne sono tanti, basta accendere la tv), che il male non ha nulla di sovrannaturale.
Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata, perchè il degrado sembra sempre irreversibile.
Non è neppure questione religiosa. In realtà sono sufficienti umiltà e cultura. Le performance incredibili sono, di fatto, il risultato di tentativi e di errori.
Perché ci sono problemi che non hanno una risposta giusta. Sapere di non sapere… insomma… ma Socrate non sentì il bisogno di vendere l’anima al diavolo…

MENO SI’, PIU’ NO! …PER MASSIMIZZARE IL SUCCESSO

Alcuni, io sono fra questi, hanno la tendenza a dire sempre sì. Consci che benchè sul momento sembri la decisione più facile, non lo sarà, nel tempo.

Il rischio è di essere impegnati ma non produttivi e scambiare l’iperattività per produttività.

Dire no nei momenti giusti, aiuta a concentrare l’attenzione e gli sforzi sulle cose realmente importanti e massimizzare il successo.

Un integralista del no è il consulente di gestione e redattore di HBR Greg McKeown. Nel best seller Essentialism: The Disciplined Pursuit of Less (Dritto al sodo. Come scegliere ciò che conta e vivere felici), espone una metodologia utile allo scopo e che è possibile concentrare in tre punti:

  • Meno è meglio;
  • Poche sono le cose veramente essenziali nella vita;
  • Creare una routine è importante per concentrarsi solo su ciò che è essenziale.

Detta così suona semplice. In parte lo è ma, per far propria questa metodologia, occorre essere aperti al cambiamento. Non a caso è un ottimo esercizio di Change Management.

Per diventare essenziali, secondo Greg, occorre sostituire i falsi presupposti:  “Ho bisogno di farlo”; “Questo è tutto importante” e “Posso fare entrambe le cose”, con:

  1. “Scelgo di fare”;
  2. “Solo poche cose contano davvero”;
  3. “Posso fare qualsiasi cosa, ma non posso fare tutto.”

Alla base del successo di tale filosofia, c’è la necessità di riconoscere di avere una scelta. Se lo dimentichiamo, cadiamo facili prede delle scelte altrui.

Un essenzialista è colui che apprezza il potere di scelta.

Molte persone non riescono a performare poiché credono che tutto sia importante. Quindi è importante investire del tempo per valutare le diverse opzioni. Con questa valutazione, un essenzialista è in grado di separare ciò che è vitale (di solito poche cose) da ciò che è banale. Spesso l’errore deriva dal fatto che confondiamo iperattività con produttività.

Inconsciamente associamo più lavoro a più risultati. Crediamo che più ore impieghiamo, migliore sarà la nostra produzione. Questo atteggiamento è intrinsecamente imperfetto. Cercando di fare il più possibile, non ottimizziamo i nostri sforzi.

Prendiamo l’esempio della lettura.

Sei libri contengono più conoscenza di uno. Di conseguenza, un approccio iperattivo sarebbe quello di leggerli tutti e sei il più rapidamente possibile. In questo modo, saremo sicuri di assorbire tutta la saggezza e ottenere più valore dalla nostra attività di lettura. Tuttavia, cercando di leggere i sei libri in un breve periodo, non abbiamo l’attenzione alla lettura necessaria per digerire le lezioni dei libri. Leggere uno dei sei è la soluzione essenzialista. Prendendo il tempo necessario per leggere correttamente quel libro, consentiremo al nostro cervello di metabolizzare ciò che serve e usarlo al meglio. Nel tempo, trarremo maggiori benefici da aver letto correttamente un unico libro che aver sfogliato tanti libri: una perfetta manifestazione della regola di Pareto

Trade-off

Parliamo di compromesso quando dobbiamo operare una scelta tra due cose che desideriamo. Di solito, il nostro desiderio è fare entrambe le cose, tenere entrambe le opzioni. Raramente è una buona decisione. In questa situazione, un essenzialista non si chiede come fare entrambe le cose, ma decide quale può coltivare di più. E meglio. Con questa riflessione, è in grado di giudicare ciò che gli darà la maggiore opportunità e concentrarsi su quello, cioè concentrarsi solo sull’essenziale.

Regola del 90%

Il funzionamento è semplice:  va valutata ogni opzione con un punteggio fra 0 e 100. Quelle sotto 90, sono da eliminare. In questo modo, si evita di rimanere bloccati con le opzioni medie.

  1. Annota su un foglio quale opportunità ti viene offerta (ad esempio, tenere un discorso a un evento);
  2. Di seguito, decidi 3 criteri in base ai quali deve essere approvata l’opportunità per iniziare a prenderla in considerazione (Es .: pubblico di oltre mille persone; spese di trasporto pagate, possibilità di vendere il proprio libro);
  3. Infine, scrivi i criteri ideali per l’opportunità di essere approvato. (Es. 5000 persone parteciperanno alla conferenza e riceverai un bonus).

Ottimale è accettare solo un’opportunità, quella che soddisfatta tutti i criteri iniziali e almeno due ideali. In questo modo, puoi separare quali sono le opportunità che porteranno grandi benefici e sono essenziali, da tutte le altre.

“Applicare criteri più severi alle grandi decisioni consente di attingere meglio al sofisticato motore di ricerca del nostro cervello. Pensala come la differenza tra la ricerca su Google di “buon ristorante a New York City” e “la migliore fetta di pizza nel centro di Brooklyn”, spiega l’autore.

Anche in questo caso per prendere la corretta decisione, occorre porsi e porre domande pertinenti.

Modello di proprietà e budget a base zero 

L’approccio essenzialista di McKeown funziona bene nel contesto del minimalismo grazie al suo modello di proprietà e budget a base zero.

Il concetto è semplice.

  • Se non possedessi già un oggetto, lo compreresti comunque?
  • Se non avessi già investito denaro ed energie in un progetto, continueresti comunque?
  • Se non avessi già trascorso del tempo in una relazione, riavvieresti la stessa relazione oggi?
  • Questo modello a base zero ci consente di fare un passo indietro e analizzare con chiarezza le sfide della vita.
  • Se vuoi spendere in modo più razionale, chiediti se ti libereresti di un articolo se non lo avessi già pagato.

Applicando criteri di consumo a base zero, impari a stabilire regole di acquisto.

Stabilisci confini chiari nella tua vita 

L’essenzialismo va di pari passo con confini ben definiti. Un essenzialista non è un egoista o un individualista, ma i suoi confini sono chiari.  Che sia al lavoro, nella vita sociale o nel tempo libero, dire di no non è una debolezza. È una parte cruciale per liberarti dalle cose che non ti interessano. C’è sempre quel collega che mette tutto sulla tua scrivania e si aspetta che tu sia disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Se non fissi mai dei limiti e dici sempre , agirai secondo le priorità di qualcun altro, non le tue. E credendo (erroneamente) che questo verrà a tuo vantaggio, che accumuli crediti e via dicendo. Purtroppo le persone non faranno altro che approfittarne e arrabbiarsi per quell’unica volta che non hai potuto far altro che dire no.

L’approccio di McKeown consiste nello stabilire in anticipo dei confini chiari per eliminare la necessità di un no diretto, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Predefinendo le priorità e i limiti sul lavoro e nella vita personale, il tuo approccio essenzialista sarà evidente ed eviterai i conflitti quando i tuoi confini cambiano nel tempo.

Fai meno cose meglio

Prendi come esempio la tua vita professionale.

  • A quanti progetti stai lavorando in questo momento?
  •  Quante persone dipendono da te? 
  • Quanto ti impegni in ogni parte del tuo lavoro? 

Tutti possiamo trovare modi per fare meno cose meglio. Fare meno cose permette di comunicare meglio e potenziare se stessi e gli altri.

Se sei il leader, avrai più tempo per comunicare correttamente la tua strategia e questo, a sua volta, consentirà ad altre persone di assumersi maggiori responsabilità. Questa migliore comunicazione porterà anche a una maggiore responsabilità per il leader e i suoi collaboratori.

Infine, fare meno cose nella vita ti aiuterà a ottenere risultati migliori.  Poiché un approccio essenzialista garantisce uno sforzo unitario verso un obiettivo ben definito, i risultati saranno più soddisfacenti.

Trasliamo il tutto in un esempio sportivo.

Se stai cercando di allenarti per una maratona e un’esperienza di arrampicata allo stesso tempo, è probabile che non otterrai né l’una né l’altra. Farai progressi in entrambe le direzioni, ma mai abbastanza per raggiungere l’obiettivo finale. Almeno questo è ciò che succede alla maggior parte delle persone.

SIAMO SICURI che l’IA SEMPLIFICHI la VITA? Le mie BATTAGLIE PERSE con ALEXA

Adoro la tecnologia che mi semplifica la vita.

Anelo all’auto elettrica, annoiandomi alla guida e avendo un senso dell’orientamento deficitario anche con il navigatore in funzione… al robot che fa la spesa, pulisce casa e se possibile cucina… e poi c’è Alexa, che da qualche settimana è refrattaria alle mie richieste. Si rifiuta di accendere alcune stazioni radio italiane (RDS per citarne una) a vantaggio della BBC che, seppure sento spesso per allenare il mio inglese, non dovrebbe avere il monopolio. Alexa è stata acquistata per aiutarmi laddove glielo permetto. Anche se la sua fissazione o testardaggine a farmi sentire ciò che piace a lei è tutt’altro che persuasiva.

Qual è dunque la vera utilità degli assistenti vocali?

I ricercatori dell’Università di Sidney hanno scoperto che i messaggi che arrivano da dispositivi di Intelligenza Artificiale (IA) sono più persuasivi quando evidenziano come dovrebbe essere eseguita un’azione, piuttosto che perché[1].

Ad esempio, siamo più disposti a mettere la protezione solare quando un dispositivo di IA spiega come applicare la crema, piuttosto che perché. Tendenzialmente non crediamo che una macchina possa comprendere le necessità e soddisfare i nostri desideri.

La ricerca suggerisce che le persone trovano i consigli dell’IA più persuasivi in situazioni in cui questa mostra semplici passaggi su come preparare una spremuta o scegliere la racchetta da tennis giusta, piuttosto che il perché tale scelta sia importante o necessaria.

L’intelligenza artificiale ha il libero arbitrio?

La maggior parte di noi crede di avere il libero arbitrio. Ci complimentiamo con chi aiuta gli altri perché pensiamo che lo faccia liberamente e penalizziamo coloro che danneggiano o ignorano gli altri. Siamo disposti a ridurre la pena se il reo è stato privato del libero arbitrio, ad esempio se in preda a un delirio schizofrenico.

Ma cosa pensiamo del libero arbitrio rispetto l’‘IA?

In un esperimento sono stati dati a una persona $ 100 a cui si è chiesto di regalarne una parte, a piacimento, a un’altra persona. L’unica condizione è che il ricevente accetti quanto gli viene donato o entrambi otterranno niente.

Quando la prima persona tiene per sè 80$ e ne regala 20, il ricevente tende a rifiutare l’offerta. Benchè razionalmente $ 20 sia meglio di niente, le ricerche suggeriscono che è probabile che l’offerta di $ 20 venga rifiutata perché percepita come ingiusta. Ci si aspetta di ricevere almeno la metà, ossia 50 dollari. O ci sentiamo svalutati[2].

Cosa succede se il proponente anziché un essere umano è un’IA?

Il rifiuto si riduce in modo significativo: è più probabile che le persone accettino l’offerta “sleale” di soli 20 dollari.

Questo perché non pensiamo che l’IA abbia l’intento dannoso di sfruttarci o svalutarci: è solo un algoritmo, non ha il libero arbitrio, quindi possiamo accettare soli 20 dollari.

Il fatto che le persone possano accettare offerte sleali dall’AI preoccupa perché significa che questo fenomeno potrebbe essere usato in modo dannoso e manipolativo. Ad esempio, un’azienda potrebbe manipolare i lavoratori affinché accettino salari ingiusti dicendo che è stata una decisione presa da un computer. Per proteggere i consumatori, occorre capire quando, dove e quanto le persone sono vulnerabili alla manipolazione da parte dell’IA.

Siamo sorprendentemente disposti a divulgare informazioni all’AI

In alcuni lavori in via di pubblicazione, i ricercatori hanno scoperto che le persone tendono a divulgare informazioni personali ed esperienze imbarazzanti più volentieri all’intelligenza artificiale che a un essere umano.

E’ stato detto ai partecipanti di immaginare di essere dal medico per un’infezione del tratto urinario. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi, quindi metà ha parlato con un medico in carne ed ossa e metà con un medico di IA. I partecipanti sono stati informati che il dottore avrebbe fatto alcune domande per trovare il miglior trattamento e più si rispondeva più questo avrebbe aiutato il medico.

I partecipanti hanno rivelato più informazioni personali all’AI, riguardo a domande potenzialmente imbarazzanti sull’uso di giocattoli sessuali, preservativi o altre attività sessuali. Questo perché siamo portati a pensare che l’IA non giudichi, mentre gli umani sì.

Parlare con un sistema di intelligenza artificiale ci fa sentire più al sicuro e meno giudicati, nonostante molte persone temano per la loro privacy.

Se l’intelligenza artificiale avesse il libero arbitrio?

Dare all’IA caratteristiche umane o un nome umano, induce a credere che l’IA abbia il libero arbitrio[3]. Con tutte le implicazioni del caso:

  • L’’IA si fa così più persuasiva non solo quando dice come fare le cose, ma anche quando spiega il perché, poiché vedendola a noi simile, pensiamo sia in grado di comprendere obiettivi e motivazioni umane
  • Offerte e condizioni sleali (per esempio i 20 dollari dell’esperimento sopra citato) hanno meno probabilità di essere accettate se l’IA ha un aspetto umano che la accomuna all’uomo
  • Iniziamo a sentirci giudicati dall’intelligenza artificiale e in imbarazzo e tendiamo a rivelare meno informazioni personali
  • Ci sentiamo in colpa quando danneggiamo un’IA dall’aspetto umano, e quindi tendiamo ad agire in modo più benigno nei suoi confronti

In futuro con il progredire dell’IA, quando diverranno utili in cucina, a servire, a vendere, a prendersi cura dei pazienti in ospedale e persino a sedersi a un tavolo da pranzo come un partner normale, sarà importante capire come influenza le nostre decisioni per proteggerci là dove e quando serva[4].

Intanto Alexa ha deciso di farmi sentire una stazione radio irlandese…

 

Fonti

[1] Kim TW, Duhachek A.,  Artificial Intelligence and Persuasion: A Construal-Level Account. Psychological Science. 2020;31(4):363-380.

[2] Henrich J., Boyd R, Bowles S., Camerer C.F., Foundations of humans sociality: economic experiments and ethnographic evidence from fifteen small-scale societies, 2006, Oxford University Press

[3] http://abotdatabase.info/

[4] Danaher J., McArthur N., Robot sex: social and ethical implications, The Mit Press, 2017

Un ladro gentiluomo, un rasoio e il bias dell’ovvietà

Ci sono storie che diventano bias e per questo non si possono ignorare. Come quella di un rapinatore sofisticato e coltissimo, più romantico di Bonnie e Clyde e con tratti di Houdini, Picasso e Rasputin.

Per comprendere il contesto, occorre tornare nella New York di inizio secolo scorso, quando un uomo elegante, armato di una Colt calibro 9, era solito entrare nelle banche che avrebbe svaligiato, chiedendo a tutti in modo garbato, gentile e sorridendo, di alzare le mani.

Acuto e curioso (leggeva Dante, Shakespeare, Proust e Platone), riuscì ad accumulare in quarant’anni di rapine, tutte in pieno giorno e senza mai sparare un colpo, due milioni di dollari. Non pochi per quei tempi.

La storia di William Francis Sutton, Willie per gli amici, non è però una storia a lieto fine, condannato all’ergastolo, verrà alla fine liberato per buona condotta e per un cancro ai polmoni che un decennio dopo se lo porterà via. Colpa di quelle sigarette fatte in casa che fumava continuamente. L’unico suo vizio insieme a quello di rapinare banche.

La Legge di Sutton

L’intera vita di Willie, per arrivare al punto, si può riassumere parafrasandolo: «Se mi avessero chiesto perché rapinavo banche, avrei risposto semplicemente “perché mi piaceva” e “perché è lì che ci sono i soldi».

Questa citazione “perché è lì che ci sono i soldi”, si è evoluta fino a diventare la legge di Sutton (Sutton’s slips bias): il limite, la fallacia, per fare un esempio in campo medico, di enfatizzare l’ovvio, ossia la diagnosi più probabile, scartando a priori ogni altra alternativa (sintomo, dato, fattore). In altri termini è il bias che porta a non voler prendere in considerare elementi e dati al di fuori dello standard, nel timore di sprecare inutilmente tempo, denaro e risorse più efficaci se collocate altrove.

Ci sono storie che diventano bias e per questo non si possono ignorare. Come quella di un rapinatore sofisticato e coltissimo, più romantico di Bonnie e Clyde e con tratti di Houdini, Picasso e Rasputin.

Il rasoio di Occam

La contrapposizione con il rasoio di Occam, a questo punto, è obbligata: «Se senti gli zoccoli pensi al cavallo, non alla zebra. A meno che non vivi in Africa». Non sempre, di fronte a un problema, cerchiamo la spiegazione più semplice, eppure nella stragrande maggioranza è quella giusta. In altre parole: a parità di elementi la soluzione di un problema è quella più ragionevole.

Se la legge di Sutton – che giustifica il fatto di rapinare banche perché è lì che si trova il denaro – incoraggia il medico, l’analista, il ricercatore (per fare qualche esempio) a concentrarsi sui dati che possono fornire i massimi risultati, e non a stimare le probabilità in base alla rapidità o la facilità con cui può ricordare esempi analoghi, il rasoio di Occam induce invece a non perdersi in voli pindarici alla ricerca di chissà quali evidenze, se non ci sono le condizioni che li giustifichino.

Aver trattato di recente una data patologia può talora indurre a ritenerla più comune di quanto non sia in realtà. Aver curato un paziente colpito da un raro effetto collaterale di un farmaco, può spingere il medico a evitare quel farmaco, e farsi quindi vittima di un altro insidioso effetto, il bias dell’ancoraggio.

Complicare le cose semplici

Ciò che suggerisce la ragione, è trovare l’equilibrio, destreggiandosi fra Sutton e Occam, ricordandosi che è inutile complicare una teoria o aggiungere elementi a una discussione se non serve per arrivare alla soluzione o per rendere edificante qualcosa. Ma nemmeno trascurare elementi che appaiono del tutto incongruenti e che non possono spiegare secondo logici criteri, un dato contesto.

Per traslare il concetto in tutt’altro campo, non è ancora del tutto chiaro come gli antichi Egizi riuscirono a costruire le Piramidi: è possibile ipotizzare che lo abbiano fatto grazie a tecnologie avanzate fornite loro da civiltà aliene, ma seguendo quanto detto finora è preferibile supporre che ci siano riusciti da soli sfruttando in modo ingegnoso le conoscenze dell’epoca.

In questo modo non siamo obbligati a ipotizzare una serie di condizioni particolari – che gli alieni esistano, che siano riusciti ad arrivare sulla Terra, a comunicare con gli Egizi e poi a scomparire senza lasciare tracce – e possiamo spiegare lo stesso fenomeno, le Piramidi, facendo ricorso a meno ipotesi più concrete.

Ciò che non ci piace non è necessariamente sbagliato

L’importanza dei due effetti sta nel costringerci a distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, nel vietarci di andare oltre la più semplice descrizione possibile e contemporaneamente di arrenderci all’ovvio, così da aiutarci a stare alla larga dalle conoscenze presunte e capire dove le nostre teorie sono incomplete e hanno bisogno di essere migliorate.

Questo però non vuol dire che possiamo usare tali effetti come armi improprie (che qualcuno chiama ironicamente “la motosega di Ockham”) per fare a pezzi le teorie che non apprezziamo, magari perché non rispondono a una definizione arbitraria di semplicità o non condividono i nostri presupposti.

Qualche volta, specialmente in temi complessi come la politica o l’economia, si assiste a usi spericolati del rasoio di Occam e del Sutton Effect che fanno accapponare la pelle, ma in questi casi si tratta di propaganda e non di buona pratica scientifica.

Il magazine NEUROWEBCOPYWRITING – Intervista Laura Mondino su “Come APPLICARE i NUDGES alle MICROCOPY

Cosa succede se le microcopy, i testi stringati ma strategici, che ci convincono a compiere un’azione e che precedono o sostituiscono i comandi e le call to action, incontrano i nudges, o spinte gentili, il nuovo approccio (premiato con il Nobel) elaborato dalla neuroeconomia per ridurre l’impatto di bias ed euristiche e facilitare il decision making?

La risposta nell’intervista-chiacchierata che mi ha fatto Marco La Rosa, web content writer & copywriter, pubblicata sul suo magazine Neurowebcopywriting

Ecco un estratto:

In due parole, cos’è un nudge e come si può applicare alle microcopy?

I nudge sono strategie che aiutano le persone a fare scelte funzionali al loro benessere, alla salute, al portafoglio e alla loro felicità. Senza scendere in eccessivi tecnicismi possiamo pensare ai Nudge come alle strategie che Sun Tzu ha raccolto nell’Arte della guerra. I cui principi insegnano a vincere il nemico senza combattere, usandone a proprio vantaggio la forza. I nudge utilizzano la umana irrazionalità (bias ed euristiche), per costruire opzioni di scelta vantaggiose per il comportamento che vogliamo incentivare.

Un esempio di nudge applicato alle microcopy è quello del sistema opt-in nella donazione degli organi. In alcuni Paesi, fra cui l’Italia, esiste un sistema opt-in, per cui un cittadino deve esprimere attivamente il consenso alla donazione. Senza il consenso esplicito, non è possibile prelevare i suoi organi dopo la morte. In altri Paesi vige invece un sistema di opt-out, per cui tutti i cittadini, sin dalla loro nascita, sono “di default” donatori di organi. Solo se esprimono esplicitamente il loro dissenso diventano non donatori.

Nei Paesi opt- out, il tasso di donazione degli organi è superiore al 90%, in quelli opt-in è del 15%. La libertà di scelta è la medesima, non sono stati imposti divieti né obblighi: il cittadino è libero di scegliere, ma nel caso del sistema opt-out è stato “spinto” verso una scelta che è un beneficio per l’intera comunità.

Ora, se l’opzione di default funziona quando si tratta di donare gli organi, a maggior ragione può funzionare su decisioni di gran lunga meno importanti, come quelle che facciamo ogni giorno quando acquistiamo qualcosa online.

Un esempio su tutti? Il rinnovo automatico di un abbonamento a un servizio. Nella maggior parte dei casi, questa opzione è quella di default, per cui l’utente deve attivarsi (anche semplicemente deselezionando una casella) per disattivare questa funzione. Usando il rinnovo automatico come opzione di default, le aziende traggono molti benefici dall’inerzia e dalla pigrizia dei loro utenti.

L’intervista completa: https://www.neurowebcopywriting.com/nudges-microcopy-intervista-laura-mondino/

QUAL E’ IL GENITORE IDEALE?

Qual è il genitore ideale?

Posto che ci sia un unico modello funzionale, è difficile non tormentarsi nel confronto, leggendo Massimo Recalcati.

Un tempo c’era il padre padrone, quello dall’io imperante, impossibile da assoggettare. Oggi c’è quello empatico, l’amico per antonomasia. Forse più disastroso ancora, se ci si confronta con la realtà.

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: Non fate malagrazie!”.

Difficile non ripensare a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, con la figura del padre, in primo piano, che giganteggia, strepita, burbero e amorevole, le sfuriate improvvise poiché “non sapeva controllare il timbro della voce”, nei corridoi del laboratorio dove lavorava, e per le strade, mentre esprimeva il suo pensiero.

Dal genitore che faceva timore, si è passati al genitore amico, dove “il figlio assomiglia sempre più a un principe al quale la famiglia offre i suoi innumerevoli servizi (…), con il rischio che i figli rivendichino la stessa dignità simbolica dei loro genitori”, scrive lo psicanalista Recalcati.

Molto spesso empatizzare con i figli significa convincerli, imporre loro la propria visione del mondo: “il dono più alto della genitorialità sta nel riconoscere la differenza del figlio, la sua incomprensibilità, il suo segreto”. Per fare questo bisogna avere fiducia nel desiderio del figlio, lasciare che questo si rafforzi. I legami che durano nel tempo si fondano sulla incomprensibilità: io amo mio figlio, non perché mi assomiglia, ma perché lo vedo diverso da me.

L’educazione non è imporre al figlio il rispetto esteriore delle regole. Incamminarsi su una strada imposta dai genitori provoca infelicità nei figli. La parola del padre un tempo chiudeva i discorsi, ora ha perso potere. Prima i figli avevano il dubbio se i genitori li amassero abbastanza, ora il paradigma si è rovesciato: sono i genitori a non sapere se i figli li amano abbastanza. È il figlio a dettare legge alla famiglia con i suoi drammi.

Per dirla alla Recalcati “ciascun genitore è chiamato a educare i figli, solo a partire dalla propria insufficienza, esponendosi al rischio dell’errore e del fallimento. Per questo i migliori non sono quelli che si offrono ai loro figli come esemplari, ma come consapevoli del carattere impossibile del loro mestiere”.

Da mediatore famigliare, mi scontro con le realtà più diverse, impossibile non aprire un dibattimento fra il prima e l’adesso. Per questo è difficile non essere in sintonia con Camus quando diceva che “l’assurdo nasce dal confronto tra la domanda dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo”.

Le FATE NON esistono SE i BAMBINI NON battono le MANI

Era il 1999, avevo 18 anni, e quando mio nonno mi chiese quale regalo volessi per il compleanno risposi I versetti satanici di Salman Rushdie. Pur essendo un fervente e onnivoro lettore, mi guardò stranito. Per i miei “primi” 18 anni sicuramente si era aspettato qualcosa di più impegnativo, almeno economicamente.

E’ stata un’intervista di Antonio Monda su La Stampa allo scrittore indiano, a farmi tornare alla mente quell’episodio.

Irriverente, ma coraggioso, mi stimolava l’idea di leggere un libro censurato e di un autore che oltre alla condanna a morte decretata da Khomeyni, anche diversi traduttori avessero rischiato la vita (il traduttore italiano e quello svedese vennero feriti e il traduttore giapponese venne ucciso l’11 luglio 1991) per aver avuto a che fare con questa storia.

“Un uomo che decide di inventare se stesso, si assume il ruolo del Creatore, almeno secondo un certo modo di vedere le cose: è uno snaturato, un bestemmiatore, un abominio tra gli abomini. Da un altro punto di vista, potreste vedere pathos nella sua persona, eroismo nella sua lotta, nella sua disponibilità a rischiare: non tutti i mutanti sopravvivono. […] Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta”.

Ricordo lo smarrimento dopo aver divorato le 500 pagine del libro e la magia sognante di una storia di cui non si capisce il senso fino a quando una voce non ti illumina all’improvviso dall’alto e ti dice: Per rinascere si deve prima morire.

Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta. Di recitare ancora la parte di Dio, potreste dire. Ma potreste anche scendere qualche gradino e pensare a Tinker Bell: le fate non esistono se i bambini non battono le mani. O potreste semplicemente dire: significa proprio questo essere un uomo. Non è solo il bisogno di esser creduti, ma quello di credere in un altro.

Rushdie mi aveva conquistata. Una storia dove uomini comuni precipitano da 6000 metri senza conseguenza alcuna, dove uomini comuni acquistano come per magia un’aureola luminosa o due corna da capra, dove uomini comuni scelgono di vivere una vita lontano dalla loro patria e si fanno sedurre dalle luci dell’Occidente, dove uomini comuni cercano un’integrazione in una cultura diversa dalla loro. Quello che mi ha insegnato Rushdie, è che ogni persona può sbagliare e avere debolezze, che la lotta tra il Bene e il Male è e sarà sempre parte importante della nostra vita, che l’Amore (per se stessi, per gli altri), è l’unico segreto da conoscere.

Mentre scorro l’articolo, le parole di Rushie, continuano a farmi riflettere: “Cos’è la libertà di espressione? Senza la libertà di offendere cessa di esistere”.

PERCHE’ PROVIAMO VERGOGNA?

“A volte è una sequenza, altre un’immagine, un fotogramma qualsiasi, un movimento spezzato, una smorfia (debolezza, forse vergogna), un gesto piccolissimo che non possiamo raccontare a nessuno (e non perché non vogliamo ma perché non sapremmo neanche come cominciare, e se pure ne fossimo capaci preferiremmo non farlo)”.

Rubo a Diego De Silva, l’incipit di Mancarsi, perché sebbene tutti la conoscano fin nelle viscere, fanno fatica a parlarne. A descriverla. Vogliono, vogliamo tutti solo che si dissolva presto ai ricordi. Sto parlando della vergogna: la nemica di tutti, l’amica di pochi, quei pochi che sanno scaltramente maneggiarla, sebbene sia un gioco a perdere. E’ solo questione di consapevolezza.

Mentre litigo con il tempo sul volo che da Madrid mi riporta a casa, non posso non interrogarmi sul perché è dell’uomo la prerogativa di provare vergogna… Un’onta? Una spina nel fianco? O semplicemente una perversa forma di protezione?

LA VERGOGNA: PROBLEMA OD OPPORTUNITA’?

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Montreal e del Santa Barbara’s Center for Evolutionary Psychology (CEP) ha provato a dare una risposta ponendo il problema in chiave antropologica: per quale motivo la natura ha dotato l’uomo di una sensazione così maldestra?

Per svelare l’arcano sono stati costretti ad andare alle origini, ai tempi in cui l’uomo iniziava ad organizzarsi in comunità. Quando non c’erano organi istituzionali o addetti a controllare l’operato dei membri di un gruppo. Ecco che si può così intuire il significato della vergogna: limitare le azioni che potrebbero avere ripercussioni negative sulla socialità. L’uomo antico non rubava il cibo agli altri membri della sua stessa comunità.

E il cervello è in grado di prevedere le possibili conseguenze di un’azione negli altri. Quando capisce che il vantaggio che potrebbe derivare dalla riuscita delle intenzioni non vale quanto le ripercussioni che avrebbe un loro eventuale fallimento ecco che la volontà di agire viene inibita dal senso di vergogna.

L’uomo è attento a ciò che gli altri pensano di lui. La vergogna, come il dolore e la paura, avrebbe perciò una funzione protettiva. La vergogna è in grado di farci evitare i comportamenti che potrebbero ledere la nostra reputazione, tant’è che tali condotte sono quasi sempre mal viste dalla società. Difficilmente si ha vergogna di qualcosa che si sa essere comunemente accettato.

“La teoria che stiamo valutando è che l’intensità del sentimento di vergogna che si prova quando si considera se compiere una determinata azione non è solo una sensazione o una motivazione; comporta anche informazioni fondamentali che ti portano a compiere scelte valutando non solo costi e benefici personali dell’azione stessa ma anche costi e benefici sociali”, hanno spiegato gli antropologi coinvolti nello studio (per saperne di più https://www.news.ucsb.edu/2018/019174/universality-shame).

La vergogna non è, secondo i ricercatori, un sentimento indipendente dalla cultura e dalle credenze di un popolo, ma intrinseco dell’essere umano. Per dimostrarlo sono state indagate 15 differenti comunità di quattro continenti, appartenenti a differenti religioni e culture. La ricerca ha dimostrato che qualsiasi sia il modo di vivere, in tutti gli uomini è radicata la capacità di provare vergogna.

Non c’è dunque una motivazione culturale ma il perché proviamo vergogna va ricercato nell’evoluzione del cervello umano come proprio di un animale sociale. Quando pensiamo che un’azione (giusta o sbagliata che sia) verrà vista dagli altri come negativa, allora ecco che si innesca il meccanismo di vergogna.

A questo punto, la prossima volta che proviamo vergogna, sappiamo il perchè!

PORTATILE e DITA VELOCI: NON è COSI’ che si SCRIVE uno SPEECH

“Laura, ho bisogno che mi scrivi un altro di quei tuoi bellissimi discorsi. E’ un’occasione importante per l’azienda che rappresento, come ben sai”. Detto così sembra semplice. In fondo cosa ci vuole per scrivere uno speech: carta, penna, anzi portatile, dita veloci e qualche idea bene infiocchettata…

Se questa è la tua convinzione… non è l’articolo giusto per te!

Mentre mi informo sui contenuti che dovrò inserire nel discorso, leggo, analizzo la concorrenza, studio, mi confronto e cerco di lasciare il meno possibile al caso. Perché se è vero che occorre emozionare per attrarre il pubblico, per mettere dei contenuti di valore è essenziale conoscere ciò di cui si scrive. Il back di ogni scrittura è un lavoro enorme, spesso neanche minimante considerato. Da chi non sa di cosa si sta parlando…

I grandi oratori sono capaci di connettersi con il pubblico e rimuovere qualsiasi distrazione che ostacoli la comunicazione e il raggiungimento del loro obiettivo. Gli altri meno grandi, invece, sono focalizzati su ciò che vogliono dire e dimenticano di avere davanti un pubblico che ha delle specifiche esigenze. Un buon discorso deve tenere conto di quello che il pubblico si aspetta di sentire e capire quali parole sia meglio usare. E ipotizzare quali ostacoli potrebbero interferire sulla buona riuscita dello speech.

PREVIENI GLI OSTACOLI. Se chi scrive uno speech non si concentra abbastanza sul destinatario della comunicazione e sui desideri, bisogni e stile di vita che lo caratterizzano, potrebbe prendere involontariamente le distanze dalla platea. Bisogna trovare un linguaggio comune e rapportarsi in maniera spontanea e diretta. Un modo per evitare che il pubblico perda interesse o faccia resistenza è pensare alla natura delle possibili resistenze. Sforzarsi di pensare a diversi punti di vista, anche quelli apparentemente assurdi. Ogni punto di vista, per quanto possa sembrare ridicolo, potrebbe essere proprio quello di uno degli spettatori che è venuto apposta a sentirti parlare. Potresti non condividere affatto tale punto di vista ma è importante che l’ascoltatore sappia che tu l’hai considerato. Dimostra che hai approfondito il tuo lavoro fino in fondo.

LA STORIA NELLA STORIA. Dopo anni passati a studiare letteratura e discorsi celebri ho scoperto una struttura che i grandi comunicatori usano da secoli: la storia nella storia. La ragione per cui amiamo così tanto queste storie è dovuta all’alternarsi di tensione e rilascio, conflitto e risoluzione. Si può ottenere la medesima tensione giocando a muovere avanti e indietro il filo del discorso, alternandolo tra ciò che è la realtà adesso e ciò che potrebbe diventare. Attraverso il contrasto continuo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il pubblico comincia a vedere una realtà molto più interessante di quella in cui si trova attualmente. Riuscire a modificare l’atteggiamento, e di conseguenza l’azione, del pubblico è difficile. Usare il contrasto è il modo migliore per aiutarlo a vedere la tua idea più chiaramente.

PAROLE E CAMBIAMENTO. Un grande discorso produce un cambiamento nel pubblico. Lo fa sentire migliore, gli conferisce nuove conoscenze e nuovi strumenti e lo spinge all’azione. Le migliori presentazioni producono esattamente questo cambiamento, spingono il pubblico a migliorarsi.
E’ noto che quando ascoltiamo una bella storia il nostro corpo reagisce involontariamente. Le pupille si dilatano, sentiamo i brividi lungo la schiena, ci protendiamo in avanti per ascoltare meglio il racconto. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato delle sensazioni durante un discorso? Per questa ragione i presentatori spesso sono reticenti ad allegare materiale durante i loro discorsi, così da avere la possibilità di stupire il pubblico. La cosa migliore che si può sperare di ottenere dal pubblico è un riscontro di tipo emozionale.

QUANDO DEVE DURARE UNO SPEECH? Uno speech deve essere breve. Se hai un’ora a disposizione usa 40 minuti; una maggiore sintesi risulta difficile a chi non è allenato. La forza dei Ted ad esempio sta nella durata degli “speech”: fra i 15 e i 20 minuti, dietro i quali si nasconde un poderoso sforzo comunicativo volto a esprimere un punto di vista in poco tempo. Oggi viviamo nella società dell’impazienza, del tutto subito. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: ‘speriamo che la presentazione sia lunga!’. Quindi tagliare, accorciare e rileggere per rendere il tutto più asciutto possibile.

E INFINE…
Un ultimo consiglio: i discorsi non suonano credibili se le promesse che contengono non si realizzano. Questo vale per tutti!