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È facile (al LAVORO) PERDERE il SENSO di CHI SEI e diventare CHI PENSI che dovresti ESSERE

Il lavoro mi richiede di confrontarmi con persone di diversi settori e culture, ma c’è un comune denominatore che unisce molti di loro: la pressione a #conformarsi.

Per fare #carriera (spesso anche solo per sopravvivere), molti fanno del loro meglio per uniformarsi ai #valori dominanti all’interno dell’organizzazione nella quale operano, anche se li condividono poco o niente. Che sia un lavoro estremamente competitivo o di squadra, il successo, in parte, dipende dalla capacità a conformarsi. Dall’abbigliamento, agli hobbies, ai luoghi di vacanza, al quartiere, dove acquistare o affittare casa e così via…

Quando è arrivato il nuovo ad, grande amante della vela, non sono pochi coloro che, all’improvviso, si sono messi a praticarla”.

Il nuovo responsabile è un fan sfegatato del Milan. Molti, pur di non inimicarselo, hanno cambiato casacca”…

Esempi tristemente veri.

E quando punti sul vivo: “Non posso fare diversamente. O sarei l’unico del team a essere diverso e verrei escluso”.

Poco importa se per adattare valori e idee, dovranno gestire una dose di stress non indifferente. In certi casi “è il sacrificio che occorre fare per arrivare al successo”.

Ma se non fosse così?

TUTTO IL MONDO E’ PAESE

Questo (non so se ha senso dire per fortuna) non è un fenomeno solo italiano. Da una ricerca[1], un terzo dei dipendenti in Nord America sente la pressione di sopprimere i propri valori personali e fingere di assecondare quelli dell’organizzazione.

L’idea di fondo a cui ci si aggrappa fortemente è che è più sicuro mettere a tacere le idee quando divergono, piuttosto che renderle esplicite, fare buon viso a cattivo gioco, sorridere quando viene richiesto un sorriso, e dire sì quando c’è bisogno di acconsentire.

Anche se ben consapevoli di quanto tale #scelta non faccia bene alla salute. Ma nemmeno – aggiungo io – a motivazione, performance e in ultimo all’azienda[2]..

COSA CI SPINGE A CONFORMARCI?

–      Scarso potere decisionale

–      Impossibilità a esprimere il proprio pensiero

–      Valori personali disallineati a quelli aziendali

–      Leader dai forti valori etici

–      Status di minoranza

–      I consigli di chi apprezziamo e fidiamo

Nelle realtà in cui le persone non hanno né potere decisionale né la possibilità di esprimersi, tendono a sentirsi più sotto pressione e a indossare la maschera della conformità[3].

L’autenticità richiede sicurezza psicologica: un ambiente dove le persone possono liberamente correre rischi condividendo preoccupazioni, rilevando errori e dire: “Qui abbiamo fatto un errore, risolviamolo“.

A uniformarsi maggiormente sono poi coloro i quali hanno #valori personali non completamente allineati con quelli aziendali, ma considerano il loro responsabile integro, etico[4]. Le persone stimano così tanto questi leader, al punto da essere disposti a sopprimere i loro punti di vista come un modo per ricambiare i benefici di una buona #leadership.

A spingerci alla conformità ci si mette anche lo status di minoranza. Più sono le aree in cui ci identifichiamo come minoranza, più è probabile che ci sentiamo sotto pressione per creare una facciata di conformità. Nelle culture più orientate al collettivismo, che danno valore all’armonia di gruppo, la pressione a conformarsi è ancora maggiore.

Senza contare tutti i consigli che riceviamo da persone di cui ci fidiamo e che ci incoraggiano a conformarci. Chi non si è sentito dire: “Stai attento, tieni la testa bassa. Non tutti devono sapere cosa sta succedendo nella tua vita“. Poiché spesso, anche se non è lecito, veniamo valutati anche su questioni che vanno oltre le prestazioni lavorative. Specie se sei donna o appartieni a una minoranza di qualche tipo.

Consigli che possono anche rivelarsi utili, in certi contesti, ma che portano alla seguente domanda: cosa significa essere autentici.

CHE ASPETTO HA L’AUTENTICITA’?

Quando eravamo bambini, ci veniva detto di essere semplicemente noi stessi. Ma nessuno ci ha mai detto come farlo, perché chi ce lo diceva non lo sapeva.

In realtà accade anche da adulti.

Hai un incontro di lavoro importante e quali consigli ti senti dare: “sii te stesso e tutto andrà bene”. Peccato che spesso chi te lo dice, il tuo te stesso non lo conosce affatto…

L’autenticità è relazionale. Viviamo in un mondo di relazioni. Trasudiamo la nostra autenticità, e poi è testimoniata da altri. Per questo motivo, l’autenticità deve essere combinata con l’intelligenza emotiva e il rispetto, l’ascolto e la comprensione. L’autenticità richiede l’assunzione di una prospettiva, non solo da noi stessi ma anche degli altri. Come uno studente che ho incontrato e ha detto in modo toccante: “Se vuoi essere autentico, ciò richiede che tu accetti l’autenticità degli altri”.

Ciò non significa che la nostra autenticità debba essere modellata in modo da essere universalmente apprezzati. Potremmo anche non piacere. Ma se la nostra autenticità ha lo scopo di ferire o mancare di rispetto a qualcuno, le nostre motivazioni sono discutibili.

L’autenticità è un viaggio personalizzato. Per alcuni di noi, i nostri valori si allineano con i valori del nostro ambiente. Ma in molti casi, la scelta di essere autentici è rischiosa. L’autenticità potrebbe essere un percorso senza indicazioni da fare da soli. Ma si può sempre cercare altri da cui imparare. Purchè sia sempre alle nostre condizioni.

Il modo in cui scegli di essere autentico può essere molto diverso da come il tuo collega, tua sorella o il tuo amico scelgono di farlo. Potresti scoprire che il tuo abbigliamento è fondamentale per riflettere la tua autenticità, mentre qualcun altro potrebbe voler integrare la vita familiare come estensione del lavoro (ad esempio, occasionalmente portando i figli in ufficio). Altri possono scegliere di onorare la loro cultura con oggetti da posizionare sulla scrivania e via dicendo.

L’autenticità si basa su valori fondamentali. L’autenticità non riguarda il fatto che dovremmo posizionare la caffetteria al secondo o al terzo piano. Riguarda aspetti fondamentali di noi stessi: la nostra identità, le nostre convinzioni e le nostre prospettive su ciò che è giusto e non lo è.

Mentre alcuni valori possono cambiare nel tempo, altri no. Se li compromettiamo, non ci sentiremo bene.

COME ESSERE (PIU’) AUTENTICI

La prima domanda da porsi sui valori è: sono funzionali?

Compromettono le relazioni?

Se sono disfunzionali, allora è il momento di rivalutarli e svilupparne di nuovi.

Mentre valuti i tuoi valori fondamentali, puoi porre queste domande: Quali sono quelli negoziabili e quelli non negoziabili? Cosa renderebbe il mio ambiente di lavoro più coinvolgente per me? Cosa mi farebbe sentire più autentico? Quando non sono in grado di essere me stesso e vivere i miei valori, come mi sento?

Il principio è che quando comprometti i tuoi valori, stai compromettendo il tuo benessere.

Mentre consideri queste domande, aiuta a pensare alla tua soglia. La tua soglia di autenticità è il livello di impegno autentico che porta benefici al tuo benessere, quel livello di soddisfazione che ti fa sentire fedele a te stesso.

Pensa a quelle volte in cui eri pienamente impegnato e hai pensato: “Questo è il mio momento. Mi sento autentico”. Con chi eri? Cosa stavi facendo? Come puoi replicarlo di più?”

Inoltre non tutti i valori devono avere a che fare con il lavoro. Forse ci sono altri contesti in cui puoi esprimere i tuoi valori. Si tratta di identificare ciò che è importante per te e determinare quanto puoi integrare quei valori nella tua vita lavorativa o in altre aree, in modo da poter sperimentare la soddisfazione della vita, sentirti coinvolto e dare un contributo positivo al lavoro e alla società.

La sfida delle organizzazioni oggi è come gestire un luogo di lavoro che incoraggi l’autenticità. Come leader, cosa fai quando tutti portano prospettive diverse? Devi gestire queste prospettive in un modo che consenta all’organizzazione di essere efficiente e prosperare. Più che mai, richiederà coraggio.

Leader che non hanno paura delle conversazioni difficili. Leader che sono disposti ad affrontare i loro pregiudizi e gestire quelli delle persone che lavorano con loro.

Conclusione

Se proprio non sapete da dove iniziare, per capire come si esprime la vostra autenticità, Psychology Today propone un esercizio bizzarro: scrivi il tuo necrologio. 

Chissà che non sia la via più veloce per dare un volto a chi siamo. Io non l’ho ancora fatto, e voi?

A ad ogni modo a me piace pensare che l’autenticità sia un viaggio in cui nessuno può dirci dove dovrebbe portarci. Per alcuni, essere autentici potrebbe essere la cosa più coraggiosa che abbiano mai fatto. O la più banale. L’importante è avere voglia di scoprirlo!

Fonti

[1] Morgan Roberts L., Dutton J.E., (2009) Exploring Positive Identities and Organizations, Psychology Press

[2] Boyraz G., Waits J.B., Felix V.A., (2014) Authenticity, life satisfaction, and distress: A longitudinal analysis. Journal of Counseling Psychology, 61(3), 498–505.

[3] Hewlin P.F., (2009) Wearing the cloak: Antecedents and consequences of creating facades of conformity.Journal of Applied Psychology, Vol 94(3), 727-741

[4] Hewlin P.F., Dumas T.L., Burnett M.F., To Thine Own Self Be True? Facades of Conformity, Values Incongruence, and the Moderating Impact of Leader IntegrityAcademy of Management Journal Vol. 60, No. 1

Sai ROMPERE LE RIGHE e USCIRE dai RANGHI?

“13 luglio 1942. Nelle prime ore del mattino i riservisti di polizia del Battaglione 101 (ndr: il battaglione dei riservisti della polizia tedesca che parteciparono allo sterminio degli ebrei in Polonia nel 1941) furono svegliati dalle loro cuccette nella città polacca di Bilgoraj. Erano padri di famiglia di mezza età del ceto medio e medio-basso, provenienti da Amburgo. Considerati troppo vecchi per essere utilizzati nell’esercito tedesco, erano stati arruolati nella polizia.

Cominciava a fare chiaro quando il convoglio si fermò alle porte di Józefów, un tipico villaggio polacco. Tra i suoi abitanti si contavano 1800 ebrei. Gli uomini del Battaglione 101 saltarono giù dai camion e si radunarono intorno al loro comandante, il maggiore Wilhelm Trapp, un poliziotto di carriera di 53 anni. Era giunto il momento di spiegare l’incarico affidato al battaglione. Trapp appariva pallido e nervoso, parlava con voce soffocata e le lacrime agli occhi, e lottava palesemente con se stesso per dominarsi.

Il battaglione aveva ricevuto l’ordine di rastrellare gli ebrei. I maschi abili al lavoro dovevano essere separati dagli altri e portati in un campo apposito. Gli ebrei restanti – donne, bambini e vecchi – dovevano essere fucilati sul posto. Dopo aver spiegato che cosa li aspettava, Trapp fece agli uomini un’insolita proposta: se qualcuno fra i poliziotti più anziani non si sentiva all’altezza del compito affidatogli, poteva fare un passo avanti”.

Su 500 persone che componevano il battaglione solo una dozzina fece un passo avanti, deponendo i fucili e mettendosi a disposizione per un altro incarico. Come mai solo 12 persone su 500 fecero un passo avanti?

La particolarità del caso del Battaglione 101 (vale a dire la possibilità di scegliere) ha stimolato molte riflessioni da parte di studiosi e ricercatori.

L’ipotesi più accreditata è quella dello storico americano Browning (autore di: Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia; suo lo stralcio in incipit): “Uscire dai ranghi e fare un passo avanti, cioè adottare apertamente un comportamento non conformista, era al di là della portata di molti uomini. Per loro era più facile uccidere. Perchè? Fare un passo avanti significava lasciare il «lavoro sporco» ai compagni”.

La maggior parte degli esseri umani non riesce a sottrarsi al conformismo del gruppo cui appartiene, anche se questo lo porta a commettere degli atti mostruosi. Quando il singolo individuo percepisce una certa opinione nella maggioranza del gruppo al quale in quel momento appartiene, si conforma ad essa rinunciando alla propria responsabilità. Questa conclusione naturalmente è valida anche per circostanze meno drammatiche: molti tendono ad accettare, senza effettuare verifiche, informazioni di nessun valore o addirittura palesemente contraddittorie, se percepiscono che la maggioranza le condivide.

Nella comunicazione di massa, l’oscuramento delle opinioni minoritarie è stato evidenziato dalla psicologa Noelle-Neumann con la teoria della spirale del silenzio: le persone hanno sempre un’opinione su quale sia la tendenza della maggioranza in merito a uno specifico tema e, dato che subiscono la paura dell’isolamento, nel caso in cui si trovino ad avere un’opinione difforme da quella della maggioranza preferiscono tacere la propria opinione. Poche persone sono abbastanza forti e libere da sostenere il peso psicologico di percepirsi isolati nel loro contesto sociale.

Il sociologo Gigerenzer riassume l’euristica del conformismo sociale, nella formula “non rompere le righe”.

A prescindere alla definizione che viene data, la prossima volta che vi trovate a decidere, esprimetevi liberamente e ricordate il detto: “meglio soli che male accompagnati”!