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CONTROLLARE ciò che POSSIAMO CONTROLLARE: il miglior antidoto al senso di impotenza (anche sul lavoro)

Sarà capitato anche a voi di entrare in ascensore e non riuscire a resistere alla tentazione di premere compulsivamente il pulsante chiusura porte. Vi siete mai chiesti #perché?

Schiacciando ripetutamente il pulsante si ha (l’errata) sensazione che le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, quanto questo innervosisse gli altri giocatori. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003.

Come era abituato a fare in #azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo, è descritta come un’“illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e #incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere #obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è #pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di #impotenza, alla scarsa #fiducia in noi stessi. L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

(NON) è SOLO una COINCIDENZA

Ci sono coincidenze che possono cambiare la vita. Come quella di pensare a un amico che non si incontra da tempo e ricevere una sua telefonata nello stesso tempo in cui lo si pensa. O quella che porta i giocatori d’azzardo a interpretare come significativa una sequenza di numeri alla roulette. In realtà ogni volta che esce un colore, al giro di ruota successivo la possibilità che la pallina cada sul rosso o sul nero è sempre del 50 per cento.

Allo stesso modo dovremmo imparare a tener conto di tutte le volte che abbiamo pensato a un amico e le volte che quell’amico ci ha telefonato all’istante. Ci accorgeremmo presto che la correlazione è statisticamente irrilevante.

Eppure, la tentazione ad attribuire un significato più grande a un’esperienza è profondamente umana. Perché ci aiuta a riempire di senso un mistero sottile e invisibile che rende più sopportabili le nostre sofferenze e ansie.

Questo spiega il successo delle religioni, o dei guru di passaggio, dei santoni più simili a falsi mercanti. In fondo quando leggiamo un libro o guardiamo un film siamo consci che non è la realtà, ma questo non ci preclude il coinvolgimento.

Non a caso le persone che credono nelle coincidenze, nei complotti e nei fenomeni paranormali sono, a detta della scienza, meno portate al ragionamento probabilistico e alla statistica (Università di Bristol, Goldsmiths, e University of London). Di fatto la maggior parte di noi è impreparata a valutare la probabilità degli eventi, per questo quando l’amico dimenticato chiama tendiamo a dargli un significato sproporzionato.

Prendiamo un altro esempio: il paradosso del compleanno. Quante persone devono entrare in una stanza affinchè statisticamente ce ne siano almeno due nate nello stesso giorno dello stesso mese? Sono statisticamente sufficienti 23 persone per avere una probabilità superiore al 50 per cento di trovarne due. Per una probabilità del 99,9 per cento ne bastano 70.

COSA CI DICE TUTTO QUESTO?

Siamo molto bravi ad attribuire un senso grandissimo a eventi con una probabilità eccezionalmente bassa di verificarsi, ma non così improbabili come pensiamo. O meglio, potrebbero anche esserlo ma in un pianeta di 7 miliardi di persone, anche gli eventi più improbabili si fanno relativamente comuni.

A dimostrarlo la legge dei grandi numeri secondo cui un grande campione statistico alla fine porta sostanzialmente a qualsiasi risultato. Molte sono le persone che sono sopravvissute a una calamità naturale anche più volte, o che hanno vinto alla lotteria più di una volta.

Nonostante la spiegazione matematica non lasci dubbi, in molti non si rassegnano a non credere al caso. Anche perché supportare le coincidenze può fare ricchi molti. Se non occorre la scientificità a dimostrare un evento, una guarigione, un episodio, tutti diventiamo bravi e necessari in qualcosa.

CORRELAZIONE VS CAUSALITA’

Finché però il discorso è legato alle scie chimiche, i danni che ne derivano sono marginali, tutt’altra cosa quando si tenta di associazione l’aumento dei casi di autismo all’aumento dei numeri di vaccini somministrati – spiega David Hand, statistico e professore di matematica all’Imperial college di Londra -. L’autismo spesso di manifesta nello stesso periodo in cui sono effettuate le vaccinazioni, ma confondere la correlazione con la causalità, credere alle coincidenze può portare a prendere decisioni non sulla base di prove concrete ma di mezze teorie pseudoscientifiche”.

Non saper dire esattamente perché certi eventi accadono, non vuol dire che abbiano un significato. Sta a noi riempire il vuoto che i misteri della vita ci lasciano.

Se mentre mio fratello muore annegato a migliaia di chilometri di distanza, nello stesso istante anch’io mi sono sentito soffocare posso sapere che fra le due cose non c’è collegamento. Ma se lascio vagare il pensiero, magari scoprirò un nuovo modo di piangere la sua morte.

La nostra debolezza è quella di voler cercare a tutti costi un significato per ogni accadimento. Per trovare un punto di incontro fra mente e spirito. Un amico che ci chiama nell’istate stesso che lo pensiamo è solo un telefono che squilla, finché non decido che è qualcos’altro.

Ps. Non è un caso se di coincidenze ne vengano segnalate a migliaia e se volete sbizzarrirvi vi invito a visitare Cambridge Coincidences Collection, pagina creata da David Speigelharter (università di Cambridge).

IL COSTO DEI SEGRETI (nelle organizzazioni)

Abbiamo tutti dei segreti.

Potrebbe essere quello di sapere che la promozione promessa a un collaboratore sarà disattesa; il trasferimento in un altro dipartimento non sarà bloccato, il tempo determinato non sarà rinnovato, e via dicendo.

Qualunque sia la decisione, prima di poterla comunicare talvolta occorre tenerla segreta, autocensurarsi, far buon viso a cattivo gioco, adattarsi… E non tutti riescono ad accettarlo.

D’altra parte però, decenni di studi scientifici, dimostrano che spesso preferiamo non smascherarli i segreti, perché incrinerebbero (finchè durano) il nostro bisogno di falso controllo. Fintanto che fingo di non vedere, il problema non esiste, l’effetto struzzo nel pieno delle sue potenzialità.

L’IMPATTO SU BENESSERE E PRESTAZIONI

Celare la verità ha dei costi su prestazioni e benessere.

Il 97% delle persone coinvolte in uno studio, ha in media 13 segreti che riguardano il posto di lavoro, come licenziamenti o promozioni in sospeso, vita personale e famiglia[1].

Due sono i principali danni a cui si può andare incontro:

∑         Danneggia il benessere. L’energia per resistere, autocensurarsi, pensieri ossessivi e ansia nell’anticipare cosa sarebbe successo quando il segreto sarebbe stato rivelato non fanno bene alla salute.

∑         Danneggia la concentrazione e il processo decisionale: quando si è distratti da un segreto non si è completamente presenti, con la conseguenza che l’irrazionalità avrà vita più facile.

 

COSA SUCCEDE NEL CERVELLO DI CHI DEVE MANTENERE UN SEGRETO

∑         L’amigdala è super irritabile, pronta a mettersi in azione, con tutto ciò che ne consegue

∑         L’ippocampo, a causa dello stress da eccesso di cortisolo, è compromesso con una ripercussione su apprendimento, memoria e sistema immunitario,

∑         La corteccia prefrontale è offline a causa dell’iperattività della amigdala, quindi la capacità di comunicare, collaborare, innovare saranno limitate.

 

I DATI

Per molti, avere dei segreti, è utile. Una necessità che sovrasta ampiamente la difficoltà di dover mentire.

Una ricerca di Glassdoor, condotta nel Regno Unito, ha rivelato che il 44% degli intervistati dice di mentire per evitare di mettersi nei guai e il 34% per nascondere gli errori commessi[2].

Il 40% del campione, lo fa perché è “più facile essere d’accordo con la maggioranza” e il 24% perché al manager o ai colleghi non piace sentire opinioni diverse dalle loro.

Il 17% ha affermato di aver mentito perché si sentiva a disagio nel dare un feedback onesto ai colleghi.

Il 72% del campione ha detto che l’autenticità sul lavoro permette di creare una cultura solida e il 77% che questa favorisce le relazioni tra colleghi e clienti, ma solo il 51% crede che i loro CEO e manager siano autentici.

 

I COSTI ECONOMICI DEL MENTIRE

Scandagliando i dati scientifici, l’unica verità sembra essere che tutti mentano e celino segreti. Qualcuno ci riesce meglio di altri. D’altronde  viviamo in un tempo in cui la bugia e l’inganno sono sempre più tollerate e non rappresentano un’eccezione, anche se questo costa molti soldi.

Secondo i dati dell’Association of Certified Fraud Examiners, in media ogni società perde il 5% dei guadagni annuali a causa di frodi, per un totale di circa 3.5 trilioni di dollari ogni anno. Le ricerche hanno determinato che ogni giorno, ogni individuo può ricevere dalle 10 alle 200 informazioni false. Un americano su quattro ritiene ammissibile mentire a un assicuratore, un terzo dei curriculum sono “aggiustati”. Un lavoratore su cinque dice di essere a conoscenza di frodi nel suo ambiente professionale ma non le riporta ai superiori.

 

A QUALI BUGIE PIACE CREDERE

Secondo Marcus Buckingham[3] e Ashley Goodall[4], NOVE sono le bugie a cui tutti, indistintamente, piace credere[5]:

∑         Alle persone importa per quale azienda lavorano

∑         A vincere è la migliore pianificazione

∑         Le migliori aziende lavorano su obiettivi

∑         I migliori talenti hanno un profilo completo

∑         Le persone hanno bisogno di feedback

∑         Le persone possono valutare altre persone in modo affidabile

∑         Le persone hanno un potenziale

∑         La cosa più importante è il work-life balance

∑         La leadership ha caratteristiche precise

 

L’esperienza di una persona in un’azienda è influenzata soprattutto dalle relazioni individuali. Per questo, è più importante il comportamento del proprio referente rispetto a un’astratta cultura aziendale che non si può verificare sulla propria pelle. La cultura aziendale è, secondo gli autori, un’utile convinzione condivisa che serve a orientare il comportamento di tutti.

Riguardo al talento, la convinzione è che chi ce l’ha sia concentrato su uno o due punti di forza. Il miglior nuotatore, il miglior calciatore o il miglior manager, sono coloro che hanno alcuni talenti precisi limitati a un’area specifica. Prendiamo Messi, che fa tutto con il piede sinistro. Chissà, forse con il destro sarebbe solo uno dei tanti.

Per capire i punti di forza di una persona? Non affidatevi alle review tra colleghi perché le persone semplicemente non sanno giudicare altre persone: troppi pregiudizi, troppi punti di vista parziali e poca chiarezza su cosa c’è da valutare. Per non parlare dei feedback: evitateli perché fanno cascare nell’errore di cercare di cambiare le persone invece di cambiare le situazioni e i contesti che portano problemi.

Lapidari i due ricercatori, mi piace credere che gli esseri umani siano meglio di così. Che sia, il mio, un bisogno di celare a me stessa la verità?

 

LE (NON) SOLUZIONI

∑    Comunicare che nella propria sfera di influenze non c’è spazio per la menzogna è un buon modo, un nudge che diventa un impegno, se fatto nel modo giusto. A cui si aggiunge dare il buon esempio.

∑    Non confondere il segreto con la bugia. Il costo dei segreti ha un prezzo emozionale e psicologico, tutti paghiamo per gli inganni, direttamente o indirettamente.

∑    Ricordarsi che ci si può proteggere tenendo a mente che una bugia non ha potere. Ne acquista nel momento in cui qualcuno decide di crederci. E se fossi tu a volerci credere a tutti i costi, quale bisogno credi così di soddisfare (e problema procrastinare)?

 

Queste ti sembrano soluzioni a basso impatto e magari anche banali? Forse, ma essere consapevoli di cosa spinge a mentire o a tenere un segreto è qualcosa che non trascurerei.

Quali (s)vantaggi ha sulla mia serenità e benessere, sul mio lavoro e sulla mia carriera? Cosa penso di ottenere o di evitare?  Cosa rispondi?

 

Tutto ha un prezzo. Spetta a ognuno di noi dargli un valore e tenerlo a mente quando saremo di fronte a una scelta.

 

FONTI

[1] Slepian ML, Chun JS, Mason MF. The experience of secrecy. J Pers Soc Psychol. 2017 Jul;113(1):1-33.

[2] http://hrnews.co.uk/half-of-employees-have-lied-at-work/

[3] https://www.marcusbuckingham.com

[4] https://www.ashleygoodall.com

[5] https://www.amazon.it/Nine-Lies-about-Work-Freethinking-ebook/dp/B07C3ZT28C

Le ABITUDINI si POSSONO MODIFICARE ma… NON nel MODO in cui PENSI. Dai retta, per una volta, alle Neuroscienze

Da tempo pseudo guru, formatori improvvisati e coach della domenica ci tormentano, cercando di farci credere sostanzialmente due cose: 1) la formazione è la panacea di tutti i mali 2) se si vuol avere successo bisogna uscire dalla propria zona di confort.

Mi dispiace, soluzione sbagliata.

A dirlo ovviamente non sono io, ma la scienza, le Neuroscienze. Vi spiego in cosa, guru, formatori e coach improvvisati sbagliano. Possiamo seguire i migliori corsi di formazione sul mercato, modellare i leader che riteniamo di riferimento alla nostra crescita, ma rimanere con le stesse abitudini di sempre.

PERCHE’ ACCADE QUESTO?

Il cervello è neofobico, non ama le novità. Non a caso le attività cerebrali rispondono a due necessità basilari: assicurare la sopravvivenza e contenere il dolore. E per farlo si avvalgono di due strategie: ripetizione e velocità. La velocità si ottiene con la spontaneità e l’automatizzazione nel percepire ciò che ci accade secondo dopo secondo, senza metterlo in discussione. La ripetizione si ottiene con l’avversione (emotiva e cognitiva) verso ciò che è sconosciuto e nuovo.

Questo è possibile perché il 95% delle strutture neurali operano in modo automatico, in assenza di valutazione e calibrazione di ciò che vediamo, ascoltiamo, sentiamo e pensiamo. Altrimenti sarebbe impossibile decodificare ogni informazione con cui entriamo in relazione e processare le circa 15 mila decisioni a cui quotidianamente siamo chiamati.

Inoltre il cervello non è disponibile a cambiare in modo incondizionato. Accetta sì abbastanza di buon grado quei cambiamenti che sono allineati alle esperienze e alle credenze a cui già è abituato, e impara nuovi modi di pensare e di agire solo quando questi non richiedono di andare contro le abitudini cognitive ed emotive già strutturate.

Quando gli si chiede o impone di cambiare comportamenti per andare verso altre abitudini di cui non ha esperienza, il cervello erge muri difensivi belli spessi, chiudendosi, per usare una metafora, in una sorta di castello super fortificato e quasi inespugnabile.

In parole semplici: tutta la motivazione del mondo nel modificare un comportamento avrà presa come neve al sole se va in conflitto con le abitudini consolidate e cristallizzate nei circuiti sinaptici.

DUBBIO E AUTOCONTROLLO

Una soluzione per fortuna c’è. Grazie alla presenza nella corteccia pre-frontale di un circuito che mette a disposizione due risorse: il dubbio e l’autocontrollo.

Il dubbio ci permette di dare vita a nuove idee e a percepire la realtà in modo diverso da come l’abbiamo sempre vista. Da solo però, non è sufficiente per contrastare i circuiti sinaptici cristallizzati. Occorre anche l’autocontrollo, la forza di volontà, importante nel rallentare le abitudini.

L’autocontrollo è indispensabile per frenare il pilota automatico della spontaneità. Per cambiare abitudini deve però essere pervasivo, costante nel tempo e ben radicato. Così da modificare i circuiti sinaptici esistenti, sostituendoli con quelli nuovi.

Tutto questo cosa ci dice? Che per avviare il cambiamento nelle persone, che sia a livello personale sia aziendale, occorre guardare in direzioni diverse da quelle dei normali corsi di formazione. Diventati abitudine non solo nel modo in cui vengono espletati, ma per i nostri stessi circuiti cerebrali. Automatici, e incapaci di stuzzicare il dubbio e far attivare la consapevolezza.

Dobbiamo ricordare una lezione importante che viene dalle Neuroscienze. Dire o pretendere che una persona, un collega, un dipendente, un cliente, un paziente cambi, equivale a far entrare la mente di quella stessa persona in conflitto con se stessa.

Ecco la contraddizione in termini.

Cambiare non è un conflitto che si fa nascere verso colleghi, dipendenti, clienti, pazienti, non è uno sforzo che va in direzione contraria alla realtà esterna. Cambiare è uno scontro fra due strategie neurali presenti all’interno del nostro cervello.

Ben diverso cioè da come ci è sempre stato insegnato, detto, proclamato a gran voce da chi di Neuroscienze e cervello sa quello che può aver imparato spulciando quale nozione qua e là, o seguendo qualche corso tenuto da formatori improvvisati (almeno su questi temi).

Se veramente si vuole spingere verso il cambiamento qualcuno, e solo se ce lo chiede, ecco 5 domande che potrebbero essere utili e non invasive (per il cervello).

– I comportamenti che voglio attivare, vanno contro le abitudini di quella persona?

– Se sì, quanto?

-La resistenza che quella persona deve fare valgono lo sforzo? O fa solo bene a me, promotore del cambiamento a tutti i costi?

– In che modo posso innescare il dubbio, affinchè la persona veda quell’abitudine come obsoleta o poco funzionale? E sia quindi spinta a modificarla?

– Come posso nel tempo sostenere la nuova abitudine? Come posso far sì che la perseveranza non venga meno di fronte all’estenuante resistenza che i vecchi circuiti opporranno verso il nuovo?

Come vedete, il cambiamento è qualcosa di molto più personale di quello che si crede. Le abitudini ci regalano sicurezza e lasciarle è un po’ come abbandonare qualcosa di caro.. provate, a togliere la coperta a Linus e vedrete come reagisce. Cambiare per cambiare non serve. Ogni cambiamento, soprattutto a livello aziendale, deve essere frutto di una analisi profonda e ben motivata. Solo allora si potrà chiedere a chi, per quella azienda lavora, uno sforzo. E lo faranno se lo credono efficace e funzionale. Ma se il cambiamento che richiedete è schizofrenico, dettato dalle mode del momento e poco sostenuto da ragioni anche e soprattutto razionali, lasciate stare. Questa volta, accettate il consiglio.

Quei PULSANTI PROGETTATI per NON FUNZIONARE…

Entri in ascensore e qualcosa dentro di te ti spinge a premere compulsivamente il bottone chiusura porte. Sai perché accade questo?

La percezione è che schiacciando il pulsante, le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi, il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, che gli altri giocatori si erano innervositi molto. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo, che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003, come era abituato a fare in azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la sua malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo, può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo è descritta come una “illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso anche fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di impotenza, alla scarsa fiducia in noi stessi.  L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

Per FORTUNA OGGI sembra andare TUTTO STORTO…

Ci sono giorni in cui tutto inizia in modo sbagliato. Non trovi nulla da indossare, nonostante la cabina armadio straripi di vestiti, l’unico che vorresti mettere è in tintoria. La corrente elettrica ti abbandona e ti tocca aprire a mano il garage per far uscire l’auto, e la conferma di avvio di un progetto latita. Oggi è una di quelle giornate.

Poi inizio a lavorare e il mio cliente prima ancora di sedersi mi chiede “Perché a volte sembra che tutto vada storto?”.

E già solo ascoltare la domanda, mi rasserena. Mentre penso alla relatività delle cose e al bisogno umano di avere il controllo sugli accadimenti. Quando il controllo lo abbiamo piuttosto raramente.

Abbiamo la presunzione di averlo, una beata illusione. Forse abbiamo il controllo del volume della suoneria dello smartphone e dell’aria condizionata, ma non a molte più cose. E’ evidente che ognuno di noi si illude di avere il controllo sulla propria vita, quando in realtà quasi nulla è in nostro potere.

A volte accadono cose per cui non siamo pronti. Tanto che la vita ci coglie impreparati. La maggior parte delle volte, ad essere sinceri. Ci siamo preparati per anni alle delusioni, ai fallimenti, agli abbandoni, ai pericoli, alle brutte notizie. Ma sostanzialmente non siamo pronti. Siamo (stati) preparati, ma non pronti. Siamo pugili con la guardia alta, ma ci dimentichiamo che l’unico modo sicuro per non prendere neanche un pugno in pieno viso è stare giù dal ring.

Tenere la guardia alta, è faticoso. Vuol dire decodificare ogni possibile movimento dell’avversario, capire da questo le sue intenzioni e anticiparle per non andare a tappeto. Tre cose, quindi siamo costretti a fare continuamente: monitorare (l’avversario), controllo (di sé) e anticipazione (delle azioni e dei movimenti).

Scendiamo dal ring. Cosa ci insegnano fin da piccoli? Che se vuoi, puoi. Che se ti impegni abbastanza le cose belle succedono, e le cose brutte succedono se non ti impegni abbastanza: se non stai abbastanza attento, se non prevedi qualcosa che a pensarci un attimo meglio saresti riuscito a prevedere, se non anticipi possibili catastrofi, se non cogli i segnali. E noi, giustamente, a queste cose crediamo.

Crescendo, riceviamo un sacco di rinforzi per la nostra capacità di prevedere, per il nostro monitoraggio, per il nostro livello di controllo su di noi e sull’ambiente. Ho tenuto d’occhio le priorità del capo, mi sono focalizzato e speso su quelle e ho ottenuto una promozione. Ho capito cosa piace alla ragazza che mi piace, le ho attaccato bottone parlando di quello e ci sono uscito assieme. Rinforzi su rinforzi, e la strategia si mantiene.

Cosa vogliamo a tutti i costi evitare attuando questa strategia? Qual è la sensazione che non vogliamo provare? Non vogliamo sentirci vulnerabili. Ognuno di noi ha un particolare tipo di pugno che non vuole ricevere: per qualcuno ha a che fare con il rifiuto, per altri con il mancato riconoscimento del proprio valore, per altri con la percezione di essere colpevole. Ed ecco l’avversario.

Teniamo alta la nostra guardia fatta di anticipazione e controllo per non permettere a noi stessi di percepire questo stato intollerabile per noi, anche alla luce della pochissima esperienza che ne abbiamo fatto (grazie alla nostra strategia, appunto, e qui la storia si ripete).

A volte, però, succede qualcosa. Sei sul ring e un forte rumore ti distrae, qualcuno sbatte la porta, una luce attira la tua attenzione, giri gli occhi e ti ritrovi al tappeto. Tutto il castello di carte costruito fino a quel momento, tutta la strategia, tutta l’onnipotenza che portava in sé pensare di avere una strategia che ti avrebbe sempre difeso, tutto crolla. Come un castello di carte al soffio del vento. Sei per terra. Non ci sei mai stato. Allora succedono cose nuove. Spesso è solo allora che accadono cose buone.

Il mio cliente è qui a richiedermi una consulenza proprio per evitare che quel pugno arrivi, affinchè possa diventare ancor più bravo a prevenire, anticipare e controllare. Quasi una missione impossibile. Non è quella la soluzione vincente.

Mentre le parole vagano nella stanza, fra coaching e consulenza, gli interrogativi si dipanano. Le domande scrostano certezze ataviche, quelle di entrambi.
E mentre saluto il cliente, sorridendo ripenso alla mia giornata. Per fortuna è stato un giorno in cui tutto è andato storto…