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OMAN del Sud: l’EREMITA del Medio Oriente

Sono poche le occasioni in cui il sultanato dell’Oman fa parlare di sé: discrezione è la parola che forse meglio caratterizza questo paese all’estremo angolo orientale della penisola arabica. L’ho capito ancora prima di partire, quando in chi mi chiedeva dove stavo andando, leggevo un certo smarrimento. Una sfida per chi si occupa di #cross culture e #comportamenti.

La posizione geografica, l’affacciarsi sullo stretto di Hormuz, un tratto di mare appartenente all’Iran e passaggio fondamentale dal golfo Persico, lo Yemen da una parte e l’Arabia Saudita sopra, fa dell’Oman un tassello essenziale nella strategia del golfo. Ed è forse per questo che, un altro termine per descriverlo, è neutralità.

Costellato di forti, castelli e torri, nessuno (o quasi) cartellone pubblicitario, il panorama sobrio, da paese socialista degli anni sessanta, lontano dalle immagini dei lussuosi paesi del golfo, l’Oman è il volto dell’#ibadismo, la corrente musulmana nata agli albori dell’Islam che ha fatto dell’integrità morale, della cultura e del senso di identità le sue basi, dando vita a un islam austero ma non intollerante.

Le diversità religiose e culturali sono ben accette: nella preghiera del venerdì degli ibaditi non si chiede la maledizione dei nemici; possono pregare nella stessa moschea con sunniti e sciiti; nell’incontro con l’altro nell’ibadita deve prevalere il giudizio sincero e ponderato della fede dell’interlocutore, una sorta di azione di discernimento. Si preferisce ricercare fili teologici che uniscono le religioni, piuttosto che quelli che li dividono. Tanto che cristiani, induisti, buddisti e anche mormoni hanno diritto di culto, ma non di proselitismo.

La sobrietà permea il paese. La veste tradizionale – gli uomini con la jellabiya bianca e il copricapo tradizionale e le donne con l’abaya nera, velate – è un’uniforme che livella e nasconde le differenze sociali, facendo individuare turisti e immigrati.

CULTURA AZIENDALE

La cultura aziendale è conservatrice e la formalità ha la sua importanza. Meglio, al primo approccio, essere presentati da qualcuno che conoscono, con cui hanno un rapporto personale. Quasi la #fiducia necessitasse di un intermediario (noto) per ridurre i rischi, verso cui gli omaniti sono profondamente avversi. Una delle tante contraddizioni, insomma…

Tendono a farsi vicini, durante la conversazione, tanto da violare lo spazio personale. Ma per questo non meno ospitali, anche verso gli stranieri. Per loro è sufficiente che si comprendano le regole del Paese e le si rispetti, come vestirsi in modo appropriato e rispettare il tempo dedicato alla preghiera.

Qualcuno l’ha definita leadership gentile, erroneamente. Perchè anche se il capo tende a non rimproverare pubblicamente dipendenti e collaboratori, per una questione di rispetto e dignità, difficilmente viene messo in discussione. Molto più simile a una sudditanza, in virtù del fatto che nessuno si azzarda a prendere qualsiasi forma di iniziativa: chi non decide, chi non comanda, si limita a fare ciò che gli viene detto. Un’ottima palestra per imparare la delega. In un termine: frustrante all’inverosimile.

CAMBIAMENTO

La propensione al rischio è scarsa. Ogni nuovo progetto viene analizzato attentamente per garantire che qualsiasi rischio rappresenti sia pienamente compreso e affrontato.

Per fare il modo che il #cambiamentoabbia effetto, l’idea deve essere accettata dal gruppo. La sensibilità culturale è importante, poiché l’atteggiamento dell’Oman nei confronti del rischio è fortemente influenzato dalle conseguenze negative del fallimento sia sul singolo individuo che sul gruppo.

Meglio saperlo o si rischia il burn out!

TEMPO E PRIORITA’

Gli omaniti non sono soliti forzare il rispetto di una scadenza. Questo fa sì che, in genere, le cose richiedano più tempo del previsto, perché le riunioni vengono spesso interrotte e potrebbero essere necessari diversi meeting per fare ciò che potrebbe essere gestito con una telefonata a casa. È consigliabile sottolineare l’importanza della scadenza concordata. La pazienza è fondamentale.

COMUNICAZIONE E NEGOZIAZIONE

Lo stile comunicativo è indiretto e ad alto contesto. Salvare la faccia, agire in modo appropriato e proteggere le relazioni sociali sono importanti fattori trainanti.

Affrettare le cose, potrebbe mettere a repentaglio i rapporti d’affari. A guidare gli omaniti sono gli eventi e non il tempo. L’incontro in sé è più importante della tempestività o dell’esito. Gli omaniti sono abili negoziatori: vedono la contrattazione come un intrattenimento e la negoziazione segue generalmente un atteggiamento vinci/perdi. Preparatevi a scendere sia nei prezzi che nelle condizioni. Meglio non fissare un prezzo iniziale così alto da far apparire evidente, dal prezzo finale, che non ti aspettavi di saldare l’ordine a quel prezzo. C’è la tendenza a evitare di dare cattive notizie e a dare accettazioni fiorite, che possono significare solo forse.

COSTUMI SOCIALI

L’Oman è una società tribale, sebbene l’influenza tribale stia gradualmente diminuendo. Le usanze sociali sono meno rigide di quelle della vicina Arabia Saudita: il consumo di bevande alcoliche, ad esempio, è illegale per i cittadini omaniti, ma è consentito ai visitatori nei ristoranti autorizzati.

La maggior parte degli uomini indossa una tradizionale tunica di cotone intrecciato, e il copricapo consiste in un leggero turbante di cotone o lana. Molti uomini continuano a portare con sé un pugnale corto, largo, curvo e spesso molto decorato, infilato nella cintura anteriore.

Il momento del pasto è il centro degli incontri sociali. Il pasto tipico è composto da riso, agnello o pesce speziato, datteri e caffè o tè. A fine pasto viene bruciato l’incenso.

LE DONNE

In Oman le donne possono lavorare, guidare, votare, possedere proprietà e gestire un’attività. Grazie ai proventi del petrolio e alla mentalità progressista, il paese è catapultato nell’era moderna. Relegate un tempo nelle case ed escluse dalla vita pubblica, molte sono, oggi, in grado di intraprendere una vera carriera. Nel 2002 è stato istituito il suffragio universale per tutti i cittadini sopra i 21 anni. Nel 2008 un decreto reale ha stabilito uguali diritti ereditari e la presenza femminile nelle scuole è in costante ascesa.

Il Sultano, precedente, così come quello attuale, ha sempre enfatizzato l’importanza delle donne nel processo di crescita del paese, con numerosi ambasciatori e ministri di sesso femminile. Hanno l’opportunità di accedere ai più alti livelli di istruzione e possono usufruire di permessi per le gravidanze e l’allattamento.

Sfortunatamente esistono ancora molti pregiudizi e numerose attività, in campi come l’agricoltura e l’ingegneria, sono state giudicate “inappropriate”. Il maggior ostacolo è rappresentato dalla mentalità conservatrice degli uomini arabi che sono convinti della propria superiorità e ritengono che il sostentamento della famiglia sia responsabilità esclusivamente maschile. Molto diffuso, l’effetto “soffitto di vetro” che blocca le carriere e impedisce l’accesso alle posizioni di potere.

Nelle realtà rurali, dove è ancora forte il modello patriarcale, i cambiamenti sono pochi e i matrimoni combinati. Le unioni d’amore sono rarissime anche negli strati più alti della società. Nonostante la legge omanita sancisca la libertà, prevale la tradizione: è il padre a essere responsabile della felicità della propria figlia. La verginità è un requisito imprescindibile e il mancato superamento della verifica getterà onta su tutto il clan.

Nei nuclei familiari poligami, la prima moglie è solitamente una cugina e la seconda una parente alla lontana. Benché l’Islam consenta di avere sino a 4 mogli, gli uomini preferiscono divorziare e risposarsi, lasciando così la prima moglie senza reddito né supporto. Nelle case vivono normalmente tre generazioni anche se cominciano a vedersi coppie indipendenti che, tuttavia, mantengono stretti legami con il resto della famiglia.

L’uomo più anziano detiene la massima autorità mentre la donna più anziana è responsabile dell’organizzazione domestica. La legge ereditaria è governata dalla Sharìa e nelle società beduine le donne spesso cedono la loro eredità a figli o fratelli in cambio della promessa di assistenza nella vecchiaia.

Benché le donne siano, almeno formalmente, libere di interagire con l’altro sesso, preferiscono essere accompagnate agli eventi pubblici da un parente maschio. Fuori casa si avvolgono nell’abaya nera, il volto coperto dal velo che lascia liberi solo gli occhi, pesantemente truccati. Le donne beduine, invece, indossano coloratissimi abiti tradizionali che prevedono l’uso del burqa, sormontata da una cresta che le fa assomigliare ad uccelli rapaci. Un tempo usate per proteggersi da sole e sabbia, oggi queste maschere più che un obbligo sono un vezzo. Sotto l’abaya si celano abiti colorati, eleganti e sensuali, destinati a essere sfoggiati solo in famiglia.

Nonostante la modernizzazione, è ancora in uso, soprattutto nel Dhofar, dove ho passato diversi giorni di questo mio ultimo soggiorno, la pratica della circoncisione femminile: negli ospedali omaniti, in accordo con le direttive delle Nazioni Unite, la mutilazione genitale femminile è bandita ma nelle corsie delle maternità si aggirano ancora le donne con l’incensiere, chiamate dalle stesse madri per perpetrare questa usanza ancestrale. L’argomento è tabù. Non viene discusso nemmeno in privato e, spesso, gli uomini sono tenuti all’oscuro.

Mentre nel nord si tratta ormai soltanto di una cerimonia dal valore simbolico, nel sudè brutale e prevede l’asportazione del clitoride e talvolta anche delle piccole labbra. Retaggio della tradizione e non di un obbligo religioso. Le credenze popolari vogliono che il taglio di parte dei genitali esterni delle donne ne stemperi l’ardore e il desiderio sessuale con buona pace delle famiglie. Il cammino verso la conquista della libertà è arduo e faticoso ma, almeno in Oman, il primo seme è stato gettato.

CONCLUDENDO…

Nelle contraddizioni di un paese costellato di culture così eterogenee ho imparato molto, ho fatto a botte con la pazienza e il tempo, l’incapacità di avere risposte a domande neanche troppo complesse, camminato su spiagge incontaminate per chilometri, respirato sabbia e nuotato in un oceano arrabbiatissimo popolato di pesci dai colori brillanti. E se al Nord le cose sono quasi semplici, al sud, specie al confine con lo Yemen, non c’è posto per il turista distratto, poco avvezzo ai viaggi. Ogni passo si fa pesante, conflittuale. Non si respira aria di guerra ma di tradizioni. E quelle, si sa, sono dure a morire. E sentirsi soli e diversi è un attimo!

 

QUANTO è INCLUSIVO essere INCLUSIVI?

L’inclusività è utile fin quando non esclude. Mi ritrovo a spiegare a chi mi chiede percorsi di formazione aziendali su empowerment e leadership femminile. Non dovrebbe esistere una leadership di genere. Percorsi formativi in tal senso servono più a potenziare l’idea per cui le donne non sono sufficientemente preparate e quindi devono essere formate per raggiungere il livello degli uomini. Una contraddizione in termini. E non lo penso in quanto donna. Rispondo allo stesso modo anche quando mi vengono chiesti percorsi per formare gli uomini a sviluppare empatia.

Consapevole di camminare su un terreno minato, anticipo che questo scritto non vuol essere provocatorio, tutt’altro. Vorrei, piuttosto, che mi aiutaste a soddisfare la domanda “Quanto è inclusivo essere inclusivi?”, affinchè non si trasformi, il quesito, in dilemma.

Ecco il tema controverso, della newsletter di questa settimana.

COSA SUCCEDE INTORNO A NOI

Una fetta di mercato preferisce rinunciare a perseguire le politiche DEI (Diversity, Equality, Integration) anche con il rischio di alienare le simpatie dei consumatori più conservatori.

Jack Daniel’s, produttrice del celebre Tennessee whiskey, l’Old No 7, la cui caratteristica è di essere filtrato al carbone attivo di acero e poi invecchiato in botti fatte a mano, un’icona anche per chi non beve, ha annunciato la cancellazione dei programmi DEI a causa delle pressioni da parte di giornalisti e politici conservatori. Temendo di perdere, alla lunga, i clienti conservatori – come accadde l’anno scorso alla birra Bud Light, boicottata negli Usa dopo una promozione con l’attrice e tiktoker transgender Dylan Mulvaney – l’azienda del Kentucky ha scritto ai dipendenti annunciando di cambiare rotta: non più premi e incentivi legati al raggiungimento degli obiettivi sull’inclusione (vi era destinato il 10% del budget) ma, come accadeva un tempo, correlati alle performance aziendali.

Stessa cosa anche per gli obiettivi sulla diversità nella forza lavoro e sui rapporti preferenziali con aziende partner che praticano la valorizzazione della diversità. Stop alla partecipazione al Corporate Equality Index, strumento della Human Rights Campaign Foundation che redige le pagelle alle aziende in base al trattamento di dipendenti e consumatori LGBT.

Jack Daniel’s vuole essere apprezzata soltanto per il pregio dei suoi whiskey.

Stessa scelta operata da Harley-Davidson: cancellati i programmi di inclusione, le quote di assunzione riservate a donne e a minoranze, gli obiettivi di spesa per fornitori che appartengono a minoranze e disconosciuta l’Human Rights Campaign. Il tutto per «non spaccare la comunità» di harleysti.

Tra le altre aziende, la John Deere che fa macchine agricole e tagliaerba, la Polaris che produce motoslitte e moto d’acqua e la catena Tractor Supply che vende prodotti per l’agricoltura, la casa e il barbecue.

Errato non cercare di capire cosa non ha funzionato.

INCLUSIONE: tutta questione di sfumature?

La ricerca scientifica, per tornare alla domanda inziale, “Quanto è inclusivo essere inclusivi”, si è data una risposta:

un contesto è inclusivo quando è sufficientemente stabile da tenere la sua forma e, allo stesso tempo sufficientemente malleabile da favorire il cambiamento in funzione di chi arriva.

Un po’ astratto il concetto, vista la complessità. Vero è che gli esseri umani hanno bisogno di regole, strutture, logiche e identità precise. Non c’è spazio per le sfumature, mentre dribbliamo fra le mine dell’inclusività a tutti i costi.

Bernardo Ferdman, dottorato a Yale e Cattedra in Psicologia delle organizzazioni, ha aggiunto altre domande, le stesse probabilmente che si è posto ognuno di noi, quando è riuscito a superare, indenne, il campo minato:

  • Per essere inclusivi dobbiamo trattare tutti allo stesso modo?
  • Dobbiamo allinearci allo stesso modo di pensare oppure promuovere completa libertà?
  • Dobbiamo raggruppare le persone per identità oppure mixarle?

Ecco che le sfumature di inclusione sono diventate tre paradossi più qualche soluzione.

TRE PARADOSSI

SENTIRCI SIMILI O DIVERSI? Come promuovere appartenenza così da garantire inclusione in un gruppo di persone diverse? Come assicurarsi che queste differenze possano coesistere e dare valore al gruppo?

Succede all’ultimo arrivato in ufficio, ai papà in mezzo a un gruppo di mamme, a un musulmano in mezzo ai cattolici, a una donna in un contesto maschile…

L’appartenenza accade quando ci aspettiamo riconoscenza da chi è in minoranza, per il solo fatto che abbiamo concesso loro il privilegio di accedere al nostro gruppo. O quando evitiamo di esporre un’idea perché poco conforme all’opinione pubblica. L’unicità avviene quando non vogliamo conformarci alle regole del sistema.

Il dilemma si muove così: mi dicono che siamo tutti uguali oppure mi dicono che siamo tutti diversi. Come possiamo essere simili e diversi allo stesso tempo?

Andando oltre il paradosso. Essere insieme simili e diversi. Accettare che appartenenza e distintività portano con sé una connessione profonda. Se pensiamo agli ambienti in cui ci sentiamo davvero inclusi, succede che ci sentiamo a casa perché siamo liberi di essere chi siamo. Ma anche evitando gli stereotipi e la generalizzazione.

NORME RIGIDE O FLESSIBILI? Cosa definisce chi siamo? Quante sono flessibili o rigide le norme?

“Da oggi in poi basta con il maschile sovra-esteso” è un esempio di norma che genera conflitto.

L’inclusione delle norme rigide risponde: “finalmente una regola ferrea in grado di valorizzazione la rappresentazione delle donne”. L’inclusione dei confini aperti commenta “non è inclusivo obbligarmi a parlare in un certo modo”.

La verità sta, come nella maggior parte delle volte, nel mezzo, anche se può non piacere, poiché va a discapito del privilegio.

Come definire il nostro perimetro di inclusione senza perdere i vantaggi dell’espansione e della sfida, adattando le norme alle nuove persone che entrano nel gruppo? Andando oltre il paradosso. Dandosi delle regole precise e saperle ridiscutere.

Immaginiamo un nuovo arrivato in un team formatosi da una decina d’anni. È importante che le regole siano chiare per chi arriva ma che ci sia spazio per una ridefinizione. Inclusione, non significa assenza di regole o la messa in discussione di qualsiasi norma. I contesti inclusivi hanno modalità strutturate e chiare per definire dei limiti, ma lasciano lo spazio per espandere ciò che c’è e incorporare nuove idee. Non sono caotici o anarchici.

Nei contesti inclusivi sono tutti responsabili del mantenimento e dell’adozione delle regole. Ci sono anche delle regole per infrangere le regole. La regola principe è dissentire, saper stare nel conflitto. C’è un sistema di valori condiviso, ma è richiesta la divergenza. C’è continuità ma si dà spazio ai nuovi e al nuovo per aggiungere a quelle regole un pezzo delle proprie.

AL SICURO O A DISAGIO? Come si gestisce la tensione tra discomfort della differenza e la creazione di un ambiente inclusivo?

“Inclusione è sentirsi tutti a proprio agio” dice l’inclusione al sicuro.

“Inclusione è quando sono fuori dalla mia zona di comfort perché mi metto in discussione tutti i giorni” commenta l’inclusione nel disagio.

La diversità ci obbliga a farci domande e metterci in discussione. Ma è anche vero che ci sentiamo inclusi quando siamo a nostro agio. Come possiamo essere a nostro agio nel discomfort?

Andando oltre il paradosso. Utilizzando la forza dirompente del disaccordo. Il comfort è importante ma ha dei limiti. Anche quando parliamo di inclusione. Il problema è che il discomfort nell’inclusione avviene nel disaccordo. E non siamo allenati né al disaccordo né al conflitto. Perché proprio coloro che non ci capiscono e che noi non capiamo, sono importanti per la crescita personale e collettiva. Il cambiamento è possibile quando siamo in grado di ascoltare chi la pensa diversamente da noi. E’ lì che dimostriamo una fiducia umana nella saggezza degli altri.

SE L’INCLUSIONE (NON) E’ UN  TREND, QUANTO DURERA?

Per cercare di capire se l’inclusione durerà, ho analizzando i tre report più completi sulla D&I:

“Diversity, Equity and Inclusion Lighthouses 2024” del World Economic Forum, che presenta ogni anno visioni puntuali sulle direttrici strategiche lato diversità, equità e inclusione.

–        Il report di McKinsey: “Diversity Matters Even More”.

–        il “World Employment Social Outlook, Trends 2024” dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

La risposta non è semplice: lo dimostra anche il fatto che i responsabili D&I non ne possono più: tra il 2018 e il 2021 il 60% dei responsabili D&I delle 500 aziende inserite nell’indice Standard&Poor’s ha lasciato la sua posizione. Ed è così che la D&I è passata da essere un must a una leva di business che richiede competenze specifiche. E per questo le aziende hanno iniziato ad assumere per questo ruolo non più persone appassionate, ma persone competenti. Oltre al fatto che sempre meno dipendenti e consumatori (soprattutto donne e giovani) si lasciano abbindolare da una campagna di comunicazione.

Ho eluso, fin qui, la domanda. Quindi quanto durerà?

Non solo la D&I non è alla fine del suo viaggio, ma secondo i report, è all’inizio di una nuova era: l’inclusione è diventata una questione di impatto sul lungo periodo. Riguarda il lavoro dignitoso, la partecipazione attiva al mondo del lavoro, il Pil, i Paesi ad alto e a basso reddito. Riguarda chi lavora in nero, chi non ha tutele, chi non ne ha abbastanza. Guerre e pandemie. Ma riguarda soprattutto l’ambizione profonda che racconta del mondo che vorremmo abitare. Un po’ come per la sostenibilità ambientale. Rigenerare oggi, per lasciare a chi verrà un posto migliore di quello che abbiamo trovato.

Chiedersi quanto durerà però potrebbe portare a pensare che c’è tempo. Che è possibile continuare a vivere così ancora a lungo. Che è un problema da rimandare, perché ci sono cose più importanti di cui occuparsi.

La risposta non ce l’ho. Anche dopo aver spulciato ricerche e analizzato le scelte di aziende importanti. Forse, un po’ come in tutte le cose, ci vuole equilibrio. Non fanatismo.

Forse, più semplicemente, non avremo più bisogno di parlarne e dibatterne quando i dati sulla D&I saranno così incoraggianti da non essere considerati più interessanti. Anche se parlarne, un po’ come si fa con l’emergenza climatica, ci fa credere di essere parte attiva, di fare qualcosa, di essere solutori efficaci. Peccato che, solo parlare non basta, o forse sì, almeno per la nostra coscienza. Quando, in fondo, basterebbe non cercare le differenze ma ciò che si ha in comune. A prescindere se sul posto di lavoro o fuori. Anche in assenza di regole di inclusione, anche senza bollini e certificazioni, quasi fosse quello a fare la (vera) differenza…

Voi, cosa ne pensate?

In ARABIA SAUDITA, ogni GIORNO accade qualcosa di NUOVO. La resistenza al cambiamento si può raccontare in molti modi

Ad accogliermi a Jeddah, la più evoluta e libertaria fra le città dell’Arabia Saudita è Al-Anoud, 35 anni, profondi occhi scuri, folti capelli neri e pelle color caramello. Ingegnere, con la passione per la storia. Sarà la mia guida.

Al-Anoud indossa l’abaya e il niqab, che le avvolgono corpo e viso, ma ci tiene a specificare che è “una scelta conservativa” resa possibile da quando, nel 2018, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, potentissimo deus ex machina dell’apparato politico ed economico saudita, stabilì che gli abiti neri femminili della tradizione islamica potevano non essere indossati, purché le donne scegliessero altri “abiti pudichi e rispettosi”.

Quando non fa la guida (un mese all’anno) è una dirigente di una fabbrica di componenti elettrici, dove supervisiona un centinaio di lavoratrici in un’ala sperimentale che fa parte di una campagna nazionale per attirare le donne saudite in lavori retribuiti.

Le donne che supervisiona lavorano in un’area interdetta agli uomini, ma gli uffici dirigenziali sono misti: uomini e donne, non legati da legami di sangue o matrimonio, vicini tutti i giorni.

DONNE E LAVORO

L’Arabia Saudita è una nazione profondamente segregata per genere, e tra i cambiamenti difficili, fragili e straordinari in corso nella vita quotidiana delle donne del regno, generazioni multiple, spinte dalle nuove politiche del lavoro e dagli incoraggiamenti del defunto re Abdullah bin Abdulaziz, stanno ora discutendo cosa significhi essere sia moderni sia sauditi.

Ci sono donne che non prenderebbero nemmeno in considerazione un lavoro che lo richieda.

Ci sono donne che potrebbero prendere in considerazione un lavoro in simili condizioni ma sono annullate da genitori, mariti, parenti.

Ci sono anche donne abbastanza a loro agio con i colleghi maschi: nell’ultimo decennio, i programmi di borse di studio del governo hanno inviato decine di migliaia di donne saudite a studiare all’estero, e stanno tornando a casa, impazienti di avviare il cambiamento.

In questo contesto complicato, improvvisando per soddisfare le proprie idee sulla dignità, Al-Anoud ha stabilito i suoi requisiti personali all’interno dell’azienda: nessun contatto fisico con gli uomini. “Non è una questione di igiene, ma di religione. Non posso toccare un uomo che non sia mio padre, mio zio, mio fratello.'”

Al-Anoud sorride serena mentre racconta il suo quotidiano, ed è forse questo uno dei motivi per cui è stato possibile farle tante domande. È ironica, determinata. Prende in giro le persone invadenti o maleducate. Uno dei suoi cellulari squilla al ritmo della musica di Grey’s Anatomy. A vent’anni ha rifiutato corteggiatori alternativi preferiti dalla sua famiglia perché era determinata a sposare l’uomo che amava. Dice di aver visto tantissimi film americani quando era adolescente; le sale cinematografiche sono vietate in Arabia Saudita, ma i DVD popolari sono facili da trovare.

DIETRO LE QUINTE

Fra le foto custodite nel cellulare (l’ultimo modello di iPhone), mi mostra quella dell’armadio della camera da letto pieno di abiti neri uno in fila all’altro. Le abaya a colori stanno iniziando a proliferare a Jeddah, la città portuale meno conservatrice dell’ovest, ma a #Riyadh un’abaya non nero indossato in pubblico attira ancora lo sguardo accigliato degli estranei e possibili rimproveri da parte della polizia religiosa che pattuglia le strade.

L’abaya che indossa Al-Alnoud ha finiture eleganti e variegate, tasche capienti di cui una, portacellulare, cucita sulla manica sinistra. Lo indossa sopra pantaloni e camicetta, come si indossa un trench. E poi c’è il niqab, il velo che copre il capo e il volto, lasciando una striscia libera per gli occhi. Perfettamente truccati, rigorosamente di nero.

Nel mio peregrinare in Arabia Saudita, difficile non notare come tutti i ristoranti che servono sia uomini che donne hanno aree di ristorazione divise, una per “uomini”, e una per “famiglie”.

All’interno dei food court dei centri commerciali, dove i marchi del Medio Oriente competono con McDonald’s e KFC, Starbuck e Dunkin ‘Donuts, le divisioni di genere raddoppiano mentre i cartelli dei menu dividono il bancone degli ordini di ogni bancarella.

Difficile comprendere come stia bene alle donne saudite l’abaya e a tutte coloro che l’ho chiesto, si sono trincerate dietro la medesima risposta: “se sei con altre donne lo puoi togliere”.

Non sono i maschi gli unici esecutori di tali standard. Ci sono le madri, le sorelle, le vicine di casa, le colleghe, le amiche che si sentono libere di rimproverare donne che non conoscono e non si allineano.

Tutto il mondo è paese.

È Al-Alnoud ad articolare la spiegazione velata più concisa e credibile: “Non è qualcosa di strano per noi“. La società saudita è ancora tribale; le donne e gli uomini allo stesso modo sentono che chi li circonda osserva, fa supposizioni sui loro standard familiari, esprime giudizi.

Dayooth significa un uomo che non è sufficientemente vigile nei confronti della moglie e di altre parenti di cui dovrebbe proteggere l’onore. È un’etichetta che ha il suo peso e non si può ignorare.

Poi mi fa indossare l’abaya e mi accorgo che in realtà si può vedere tutto. La stoffa è trasparente, tessuta con questo scopo, fuori dai finestrini dell’auto le cose appaiono più scure e grigie, ma visibili.

Come fanno i mariti a capire qual è la loro moglie in un gruppo di donne vestite tutte uguali, mi chiedo, senza aver coraggio di domandare…

CONTRASTI E TRADIZIONE

A volte ti pare essere nel 21° secolo e in alte nel 19°, una sorta di Medioevo europeo, con la Chiesa cattolica.

A condividere il potere, in una misura difficilmente comprensibile per chi proviene da paesi più laici, sono i leader religiosi dogmatici e la dinastia reale. Gli insulti all’Islam o le minacce alla sicurezza nazionale – categorie che comprendono blog, social media e difesa aperta del già accusato – sono tra i crimini punibili con la reclusione, la fustigazione o la morte. Le esecuzioni sono eseguite mediante decapitazione pubblica.

La convinzione qui è che la virtù e il vizio possano essere gestiti tenendo separati uomini e donne – per natura gli uomini sono lussuriosi e le donne seducenti, così che essere un buon musulmano richiede un’attenzione costante ai pericoli di uno stretto contatto – è così radicata nella vita quotidiana che il visitatore non può che rimanerne disorientato.

Non è un caso se le piscine degli hotel non ammettono donne o riservano un’ora solo per loro. O se la maggior parte dei negozi di abbigliamento sauditi non ha camerini: le donne non si spogliano con gli impiegati maschi dall’altra parte della porta.

O che l’Arabia Saudita ha un solo cinema, un nuovo museo della scienza IMAZ: il governo ha chiuso tutti i cinema durante l’ondata conservatrice negli anni ’80.

E ancora, che i padri, in un divorzio, ottengono la custodia dei figli, tranne se molto piccoli; ottenere la cittadinanza è semplice per le donne straniere che sposano uomini sauditi, ma quasi impossibile per gli uomini stranieri che sposano donne saudite. E che per la donna sia consigliato vivere sotto la tutela di un maschio designato.

Al-Alnoud questo non lo dice.

Come non dice che in Arabia Saudita la legge ufficiale spesso cede alla tradizione, alle interpretazioni individuali degli obblighi religiosi o al timore di ripercussioni da parte della famiglia. Alcuni datori di lavoro non assumono una donna, senza l’approvazione del suo tutore.

E ci sono uomini che usano il potere della tutela per punire, controllare, manipolare.

Sono sfide brutali ma discrete da affrontare una per una e che richiedono manovre delicate in un luogo in cui fede religiosa, onore familiare e potere statale rimangono così strettamente intrecciati.

Qualsiasi persona che vuole esortare a togliersi il niqab, a guidare, ad abbattere i muri di separazione, deve prima capire la cultura di questo popolo. “Molte famiglie saudite non permettono alle loro figlie di lavorare come commesse perché i muri non sono abbastanza alti“.

Guardando Al-Alnoud, mentre ci salutiamo, capisco che aveva ancora bisogno di convincere la straniera sul sedile posteriore della Toyota che mettere il proprio piede sull’acceleratore non era la cosa che desiderava di più da questa vita.

Ci congediamo condividendo l’un l’altra il profilo Instagram e qui mi accorgo che in tutte le foto il suo volto è sfocato, in altre è stato cancellato con il pennarello digitale dell’iPhone, in altre ancora la testa è tagliata all’altezza del collo.

I cambiamenti richiedono tempo. E solo il tempo dirà quanto Bin Salman ha intenzione di modernizzare il regno e dove all’interesse economico verrà consentito di prevalere sulle credenze religiose islamiche.