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“RENDERE il FAMILIARE STRANO e lo STRANO FAMILIARE” per facilitare il CAMBIAMENTO (in azienda)

C’è una costante che ritrovo nelle #organizzazioni che vogliono abbracciare il #cambiamento: cercare il nuovo (pretendere che le cose cambino), senza modificare il come (continuando a fare le stesse cose nello stesso modo).

Un #paradosso. Comodo, tranquillizzante e fallimentare, quello di reiterare vecchi schemi, #abitudini e #strategie, con la convinzione che si otterranno risultati diversi.

Non dico sia semplice, riuscire a riconoscere le routine consolidate, così come non lo è adattarle al nuovo a cui aspiriamo.

Fra le #strategie che possono venire in aiuto, una è rendere il familiare strano e lo strano familiare.

RENDERE IL FAMILIARE STRANO E LO STRANO FAMILIARE

Si tratta, a grosso modo, di vestire i panni dell’antropologo: mettere in discussione e capovolgere le cose, interessarsi a come la #cultura si esprime, diventare curiosi delle routine quotidiane (come viene svolto il lavoro) per poi modificarle, anziché lanciare grandi e faticosi programmi di cambiamento.

Come ha fatto quell’AD, il cui primo intervento trasformativo è stato togliere, durante la convention annuale, il ruolo/titolo gerarchico sotto il nome dei partner senior sul badge dell’evento. Il primo passo di un piano che ha visto poi trasformare i processi di produzione affinchè fossero più in linea con il cambiamento sociale e i progressi tecnologici.

Per raggiungere questo #obiettivo, e per realizzarlo rapidamente, sapeva di dover rimuovere la power-distance culturale che esisteva tra i livelli organizzativi e che, fra le altre cose, non consentiva ai più giovani di contribuire a un nuovo modo di pensare.

Rendere ciò che è sempre stato familiare (sapere chi è chi in linea gerarchica), strano (perché dovremmo farlo?!) può generare ansia e attivare le routine difensive che l’accompagnano – al fine di continuare a fare ciò che si è sempre fatto. 

Fare ciò che sembra strano (le persone non si offenderanno se il loro titolo non è evidente?!) ossia la cosa più ovvia (ho solo bisogno di presentarmi), può provocare disturbo, fastidio e resistenza.

La #familiarità ha uno scopo: regalarci serenità e sicurezza. Le #abitudini ci permettono di agire senza pensare, peccato che ci impediscono di vedere le cose da nuove prospettive.

Troppo presi dalla nostra storia di come è il mondo e come dovrebbe funzionare, finiamo per non considerare scenari diversi da quelli noti.

APOLLO 8

Un po’ come è successo agli astronauti della missione Apollo 8, e brillantemente narrato in Overview Effect: gli astronauti pensavano che sarebbero andati sulla luna per saperne di più (della luna). In realtà, la cosa più importante che il viaggio sulla luna ha insegnato loro è stato vedere il nostro familiare pianeta terra in modo diverso.

Mentre si libravano sopra la terra, non potevano smettere di fissarne il mistero, vedendolo di nuovo in tutta la sua interconnessa bellezza, unità e fragilità, per la prima volta. Questa sorprendente rivelazione ha fornito loro utili #intuizioni per apprezzare, e fare diversamente le cose, una volta tornati a casa.

Non c’è chiaramente bisogno di andare sulla luna per riscoprire la terra, per fortuna. Possiamo, in qualsiasi momento, fermarci per osservare le nostre routine, le nostre risposte emotive e mentali predefinite a ciò che sperimentiamo, e sottoporle a un’ispezione compassionevole ma feroce.

A cosa servono? In che modo ci forniscono risorse e in che modo (specialmente nei tempi che cambiano) potrebbero essere disfunzionali?

LE ABILITA’ PER GUIDARE IL CAMBIAMENTO

Due sono le abilità essenziali correlate al successo nel guidare il cambiamento:

–       una interiore (dell’essere): la capacità di entrare in sintonia con il sistema e percepire una causalità più profonda dietro ciò che vediamo in superficie. Portare la percezione sistemica a ciò che normalmente sperimentiamo può essere intellettualmente impegnativo, ma può portare a una sorprendente reinterpretazione del modo familiare di vedere le cose.

–       una esteriore (del fare): la pratica of edge and tension leadership, in cui i leader possono parlare in modo chiaro e inequivocabile della realtà e, in particolare, sfidare le convenzioni e le routine comportamentali comuni. Rendere ciò che è familiare, strano.

L’AD che ha deciso di modificare i badge, ha usato entrambe le abilità, insieme. Non ha criticato i partner presenti alla conferenza quando hanno ripetutamente riscritto ruolo e titoli sui badge (è così facile personalizzare l’esperienza e vederla come un problema attitudinale o di abilità). No. Ha piuttosto interpretato questa routine familiare come un segnale sistemico della cultura che richiedeva ancora un cambiamento. Questo gli ha permesso di dispiegare poi visibilmente edge and tension con grande sensibilità.

L’AD ha aperto la conferenza con la storia del badge, evidenziando ciò che ancora richiedeva un cambiamento nella cultura – e ha chiesto a ogni leader presente di guardarsi dentro e riconoscere il disagio che viveva conseguentemente al rovesciamento della gerarchia: “il modo in cui funziona il badge, è rappresentativo del modo in cui si esplicita la vostra leadership quotidiana?’

Un approccio semplice ma di impatto, che ha permesso di rendere strano ciò che fino a quel momento era familiare.

TO DO

Per rendere strano ciò che è familiare occorre:

  • Formare e coinvolgere osservatori interni. Troppo spesso inseriamo il pilota automatico, senza mai fermarci a osservare gli schemi nei quali siamo coinvolti. Tali osservatori distaccati e imparziali possono essere potenti specchi della cultura, capaci di premere il pulsante pausa di volta in volta in una riunione e condividere le loro osservazioni su ciò che stanno notando e ipotizzando. Tale approccio è utilissimo per cambiare le routine del momento.
  • Portare le persone dalle familiari realtà lavorative in #contesti in cui il futuro sta già emergendo. Contesti diversi, stimolanti e che possono aiutare a guardare la cultura aziendale sotto una nuova luce, meno stereotipata e difensiva. Questo è un ottimo modo per incentivare l’innovazione.
  • Raccogliere le intuizioni e le idee dei nuovi arrivati. Qualcuno ha detto che “la cultura aziendale è ciò che smetti di notare dopo tre mesi che la respiri e vivi tutti i giorni“. Dopo quel tempo, quello che sembrava strano all’inizio si è fatto routine, tra l’altro senza nemmeno essertene accorto. Incoraggio sempre i senior a confrontarsi con i nuovi arrivati per capire cosa sembra bizzarro della cultura aziendale.

Oltre a mettere in discussione le routine culturali quotidiane e sottoporle a ispezione imparziale, rendendo strano ciò che è familiare, gli antropologi sono addestrati a rendere normale ciò che potrebbe sembrare bizzarro di una cultura. Tutti i pensieri e le azioni possono avere perfettamente senso se visti attraverso gli occhi della cultura che li ha creati.

Come possono i leader del cambiamento introdurre nuovi modi di pensare e agire senza che la cultura “nativa” respinga questo sforzo?

Occorre conoscere da dove parte il sistema, e capire qual è il punto di disagio accettabile a cui si può spingere la cultura di quella specifica realtà (cosa che il mio osteopata fa magnificamente quando ho mal di schiena, sapendo quanta manipolazione è necessaria per portarmi beneficio ma senza causare danni).

IN CHE MODO?

C’è un altro video che può venire in soccorso: First Follower: Leadership Lessons from Dancing Guy. A un festival musicale si vede una persona uscire dalla folla e iniziare, da sola, a ballare in modo strano. Dopo un po’, un tizio lo raggiunge e appena inizia anche lui a ballare, il primo ballerino non appare più così strano, e presto l’intera folla si unisce ai due. Ciò che inizialmente era strano è diventato il nuovo familiare.

Il segreto è quindi quello di trovare e coltivare persone che non hanno paura di sperimentare, conoscere per ingaggiare tutti gli altri. In questo modo, qualsiasi novità che inizialmente sembra strana diventa, per riprova sociale e imitazione, ok.

Di fatto per incentivare il cambiamento occorre essere in grado di dare un #posto e uno #scopo alle diverse esperienze, in particolare a quelle che sembrano difficili, strane e bizzarre. Normalizzando poi in modo #acritico e non reattivo ciò che è scomodo (d’altronde, quale cambiamento avviene senza alcun disagio?), così da consentire alle persone di abituarsi a ciò che non è familiare. Nonché la capacità di rimanere curiosi e non ansiosi, anche in situazioni difficili e spigolose. Se il leader non si sente al sicuro con lo strano, allora nessun altro lo sarà.

SPUNTI PRATICI

Altri spunti pratici per “rendere familiare lo strano” e quindi aumentare le possibilità che un’organizzazione accetti e non rifiuti il cambiamento:

  • Presenta il nuovo come naturale evoluzione del vecchio. Quando Edison lanciò l’elettricità negli Stati Uniti, progettò il suo nuovo sistema di illuminazione sulla falsariga dei precedenti sistemi di illuminazione a gas, in particolare le lampade a vista, in modo che le persone non rifiutassero ciò che era nuovo e possibilmente pericoloso.
  • Inizia in piccolo e poi dai slancio al nuovo con interventi che si ripetono e creano la strada verso nuovi atteggiamenti e routine.
  • Vai a caccia dei positive deviance: in ogni comunità ci sono persone dai comportamenti e dalle strategie insolite ma vincenti che consentono di trovare soluzioni migliori a una sfida di cambiamento rispetto ai loro coetanei, pur trovandosi nello stesso #contesto e con le stesse #risorse. Lo strano può sembrare più familiare quando ci si rende conto che sta già funzionando con buoni risultati nel proprio sistema.

Nel guidare il cambiamento occorre guardare alle differenze con rispetto. La differenza porta valore, non lo sottrae. E rendere il familiare strano e lo strano

La CULTURA AZIENDALE è un SALVAGENTE …che avrebbe reso il TITANIC INAFFONDABILE (se lo si fosse indossato)…

Ho rivisto da poco il film Titanic ma più cercavo di concentrarmi sulla storia più ritrovavo gli errori classici delle culture aziendali claudicanti, evitabilissimi, ma non per questo meno dannosi.

Come finisce la storia, al tempo, del più grande e lussuoso transatlantico del mondo, è noto. Sulla vicenda sono stati versati fiumi di inchiostro. Il mito del Titanic iniziò persino prima di affondare: all’epoca era ritenuta la nave più sicura del mondo, i giornali ne parlavano in maniera eccellente, ma subito dopo l’affondamento coloro che avevano prenotato il viaggio cambiando, poi, idea, spiegarono questo, come una premonizione che la nave fosse stregata.

Oggi la dinamica dell’affondamento è chiara: la nave più sicura del mondo, in realtà, non aveva né sufficienti scialuppe di salvataggio, né adeguati compartimenti stagni e il personale non era addestrato per gestire l’emergenza. Il Titanic era dotato infatti di molti salvagenti individuali (3560) ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti a fronte dei 2.223 passeggeri imbarcati, insufficienti quindi per passeggeri ed equipaggio. Mancava un sistema di altoparlanti interni e segnalazioni d’allarme per avvisare i passeggeri in caso di pericolo. All’epoca, era sufficiente che una nave avesse scialuppe di salvataggio solo per un terzo dei passeggeri.

Nel Titanic, molte scialuppe non furono inserite perché “avrebbero rovinato l’aspetto” della nave, visto che i costruttori e gli armatori erano convinti che non sarebbero mai servite.

TITANIC E CULTURA AZIENDALE

Il Titanic non era inaffondabile, o meglio non è stato un iceberg a far affondare la nave, quanto piuttosto una cultura di eccessiva fiducia, ristrettezza mentale e mancanza di equilibrio tra innovazione e rischio dell’azienda e dei suoi leader, che non ne hanno riconosciuto i difetti intrinseci nel progetto della nave.

Ciò che accade a molte aziende.

Pur essendo impossibile sapere esattamente dove si sta dirigendo un settore e quali iceberg si stagliano all’orizzonte, è solo creando una cultura forte che le aziende possono prepararsi ad affrontare e prevedere una varietà di sfide.

Il Titanic era una nave eccellente, capace di spingersi oltre a ciò che era possibile in quel momento. Ma per ogni passo avanti in termini di ingegneria, la cultura aziendale che abbracciava i progressi tecnologici creava e propagava rischi inutili. Questo accade ancora oggi in molte aziende con la continua introduzione di soluzioni digitali, mentre la cultura rimane stazionaria, portando a risultati simili se non peggiori.

Le culture aziendali predeterminano e rafforzano i comportamenti e le decisioni che leader e dipendenti prendono, ognuna delle quali ha conseguenze. In un’epoca dove l’innovazione è il nuovo mantra, l’attenzione alla cultura è fondamentale per tenere il passo con il ritmo del cambiamento.

La cultura non è così immateriale come si pensava un tempo, e infatti può essere misurata. Tutti i comportamenti che i dipendenti esibiscono e tutto ciò che sperimentano nell’organizzazione, dal processo decisionale, alla struttura, alle ricompense, alla gestione delle prestazioni e così via, influenzano la cultura.

Quanto è facile per un dipendente a qualsiasi livello dell’organizzazione portare avanti una nuova idea?

Per molte aziende è un processo lungo e articolato: un manager deve approvare l’invio della domanda ai superiori, quindi aspettare il loro sì/no. Quindi la proposta deve passare dall’Ufficio Legale; un comitato deve redigere un piano di finanziamento; il CFO firmare il finanziamento, e così via. È facile che abbia dimenticato qualche passaggio… o sbaglio?

Se l’iter è questo, è abbastanza normale che nessuno si preoccupi di portare avanti una nuova idea. Troppa burocrazia disincentiva le persone impedendo il cambiamento. Per favorire una cultura dell’innovazione, le aziende devono rimuovere quanti più ostacoli possibili, incoraggiando un ambiente di sperimentazione e apprendimento.

Da dove provengono la maggior parte delle nuove idee all’interno dell’azienda?

La risposta ideale è ovunque. Per molte aziende, tuttavia, la fonte dell’innovazione è limitata alla dirigenza senior, e questo è un brutto segno. L’innovazione dovrebbe avvenire a tutti i livelli dell’organizzazione.

Ecco perché le aziende dovrebbero mettere in atto procedure per consentire alle idee di generarsi in qualsiasi contesto e in fare in modo che le persone di tutti i livelli si sentano incoraggiati a parlare e vedere le loro idee messe in atto.

Che ruolo ha il cliente nell’azienda?

Se clienti e fornitori non sono coinvolti nell’evoluzione della strategia aziendale, è probabile che la strategia sia sbagliata. Mettere il cliente al primo posto inizia con la creazione di una cultura che enfatizza prima le persone. Dare l’esempio ascoltando e affrontando il feedback dei dipendenti, consente loro di adottare lo stesso approccio con i clienti. Organizzare sessioni salta-livello, in cui il personale junior incontra i senior, è un altro ottimo modo per i dirigenti di entrare in contatto con la prima linea.

La cultura è un salvagente!

Per far evolvere e allineare la cultura alla strategia aziendale è importante:

1.    Promuovere l’innovazione in tutti i contesti dell’azienda

2.    Incentivare i comportamenti che sono nel migliore interesse dei dipendenti e dell’azienda

3.    Mantenere affamate e curiose anche le aziende più affermate

4.    Attirare e trattenere i migliori talenti

5.    Soddisfare le richieste degli investitori istituzionali, che hanno dichiarato un impegno alla cultura e sono allineati al valore aziendale

CONCLUDENDO…

La cultura ha il potere di spingere e mantenere un’azienda al vertice, così come di affondarla.

Concentrarsi sul fattore umano permette di rendere così forte l’organizzazione da poter affrontare qualsiasi iceberg si stagli all’orizzonte e fare progressi invece di fallire.

L’innovazione, da sola, non è una garanzia per evitare le minacce di un iceberg. La cultura può consentire alle persone di lavorare con te piuttosto che per te. La cultura fa la differenza tra l’esperienza di un inevitabile fallimento del 20° secolo e la celebrazione del successo del 21° secolo.

Non voglio convincere nessuno, ma prova a immaginare quante vite si sarebbero potute salvare sul Titanic se fossero state protette da una cultura di inclusione, attenzione e apertura all’altro.

O, più semplicemente, i benefici che trarrebbe la tua organizzazione, se solo adottasse una cultura a misura delle persone che ci lavorano…

PERCHE’​ PREOCCUPARSI DI UNA CULTURA DEL LAVORO TOSSICA…

Ci sono elementi che se trascurati o non considerati possono fare molto male a un’azienda e alle persone che in quell’azienda lavorano. Indipendentemente che si tratti di una multinazionale o una piccola – media realtà.

Non a caso, tali elementi vengono definiti tossici.

Una cultura del lavoro tossica è il motivo principale per cui le persone lasciano l’azienda, ed è 10 volte più importante della retribuzione, secondo una ricerca pubblicata su MIT Sloan Management Review.

CHE ASPETTO HA UN LUOGO DI LAVORO TOSSICO?

I ricercatori hanno analizzato 1,4 milioni di recensioni su Glassdoor provenienti da 600 importanti aziende statunitensi, scoprendo che i dipendenti descrivono i luoghi di lavoro tossici in cinque modi: non inclusivi, abusivi, irrispettosi, non etici e spietati.

Ciò che è emerso è che questi elementi non sono semplici malcontenti, ma il motivo per cui le persone abbandonano un certo tipo di azienda. Con tutti i costi, in termini di salute per chi ci lavora ed economici per l’organizzazione, stimati intorno ai 44 miliardi di dollari all’anno, secondo la Society of Human Resources Management.

Dipendenti scontenti e demotivati significano minore produttività, senza contare che sostituire una risorsa può costare fino al doppio dello stipendio annuo del dipendente, secondo Gallup.

Ecco perché creare una cultura sana e inclusiva è una necessità irrinunciabile per rimanere competitivi ed attrattivi.

TOXIC FIVE

AMBIENTE DI LAVORO NON INCLUSIVO e ABUSIVO

L’opposto di una cultura inclusiva è la cultura di cricca: un ambiente in cui le persone non si sentono a proprio agio nell’essere se stesse. Dove battute e commenti inappropriati su razza, religione, peso, età, origine, genere, non solo sono tollerati ma addirittura ben visti.

Dove chi non opera con la stessa mentalità dei membri della cricca viene escluso, fatto sentire invisibile e preso di mira. Le cricche minano il team e impediscono connessione, unità e collaborazione.

L’esclusione da una cerchia ristretta invisibile è una forma comune di tossicità nei gruppi. È possibile che un membro del team venga intenzionalmente escluso da e-mail, progetti o riunioni o non venga chiesta la sua opinione. Può essere ovvio o molto sottile, ma può anche essere una forma di capro espiatorio: sacrificare il benessere di una persona per placare l’ego degli altri. Questa esclusione può essere psicologicamente dannosa per le persone.

Non a caso, i comportamenti ostili più frequentemente menzionati sono il bullismo, le urla contro i dipendenti, lo sminuire o umiliare i subordinati, abusare verbalmente dei collaboratori.

Un altro tipo di cricca è la brother culture, in cui i dipendenti maschi bianchi sono considerati superiori. In quanto tali, agli uomini e alle donne non bianche viene impedito di essere coinvolti nel processo decisionale. Ciò porta le donne a lottare per sentirsi apprezzate e accettate, a dover sopportare commenti svalutanti, sessisti e misogini, comportamenti discriminatori e inappropriati, disparità di retribuzione e ostracismo.

AMBIENTE SPIETATO

La collaborazione è un aspetto molto importante per le persone.

Il turnover più elevato è laddove i dipendenti descrivono il loro ambiente di lavoro come “darwiniano”, “cane non mangia cane”, i colleghi “si pugnalano alle spalle”, “si gettano a vicenda sotto il treno”. Non credo serva aggiungere altro…

Sugli ambienti non etici e irrispettosi si è già detto molto.

I COSTI DI UNA CULTURA TOSSICA

Un ampio corpus di ricerche mostra che lavorare in un ambiente tossico è associato a livelli elevati di stress, burnout e problemi di salute mentale e fisica. Quando i dipendenti subiscono ingiustizie sul posto di lavoro, le loro probabilità di soffrire di una grave malattia (tra cui patologie coronariche, asma, diabete e artrite) aumentano dal 35% al 55%.

Una cultura tossica impone anche costi che confluiscono direttamente nei profitti dell’organizzazione.

Secondo uno studio della Society of Human Resource Management, 1 dipendente su 5 ha lasciato il lavoro a causa della cultura tossica. Ecco perché la cultura tossica è considerato il miglior predittore di logoramento di un’azienda e ciò che induce a dimettersi.

Gallup stima che il costo della sostituzione di un dipendente che si licenzia può ammontare fino a due volte il suo stipendio annuale quando vengono contabilizzate tutte le spese dirette e indirette.

Le aziende con una cultura tossica non solo perdono dipendenti, ma lottano anche per sostituire i lavoratori che se ne vanno poiché perdono in attrattività. Tre quarti delle persone in cerca di lavoro prima di fare domanda analizza la cultura dell’azienda.  Nell’era delle recensioni online, le aziende non possono mantenere a lungo segreti i propri problemi culturali e una cultura tossica.

A questo, si aggiunga che i dipendenti scontenti sono il 20% meno produttivi. La metà di coloro che si è sentito mancato di rispetto ha ammesso di aver ridotto lo sforzo e il tempo trascorso al lavoro.

Poi c’è il rischio reputazionale. Tra i CEO e CFO intervistati, l’85% concorda sul fatto che una cultura aziendale malsana potrebbe portare a comportamenti non etici o illegali, come il caso Wells Fargo dimostra: la banca ha pagato miliardi di dollari in multe e azioni legali e ha visto la sua reputazione aziendale subire il più grande calo in un solo anno nella storia di Harris Poll.

PERCHE’ I LEADER SI DEVONO PREOCCUPARE DELLA CULTURA TOSSICA

Potresti pensare che la cultura tossica sia un problema che non ti riguardi, limitato a una manciata di aziende di alto profilo come Wells Fargo o The Weinstein Company.

Sfortunatamente, la tossicità culturale è diffusa. In media, il 10% dei dipendenti ha menzionato uno o più elementi di una cultura tossica nelle sue recensioni su Glassdoor.

Anche nelle aziende con le valutazioni Glassdoor più alte, centinaia o migliaia di dipendenti potrebbero percepire la cultura come tossica. Le donne, le minoranze sottorappresentate o i dipendenti più anziani, ad esempio, potrebbero avere una visione meno rosea della cultura rispetto ad altri colleghi.

Nella maggior parte delle organizzazioni, microculture coesistono all’interno della stessa azienda, spesso attraverso unità aziendali, funzioni o aree geografiche.

I leader creano loro stessi sottoculture all’interno del loro team. Qualunque sia la loro origine, le microculture possono discostarsi dalla più ampia cultura aziendale, il che significa che anche le migliori culture possono contenere sacche di tossicità culturale.

In un prossimo articolo, tratterò degli step concreti che si possono intraprendere per creare una cultura aziendale sana. Il primo passo, tuttavia, è riconoscere che esistono sacche di tossicità anche nelle culture aziendali considerate sane. Occorre cercare in profondità e valutare la cultura a livello di singoli team, solo così si previene la possibilità che micro culture tossiche possano infettare anche i gruppi e gli elementi più virtuosi.

QUANDO è più FACILE LASCIARE (l’azienda) che RIMANERE. 5 campanelli d’allarme e altrettante soluzioni…

Un collaboratore scontento che lascia l’azienda, per cercare condizioni più favorevoli altrove, ha un costo. Un costo che diventa un problema quando a seguirne l’esempio è più di uno solo.

Secondo l’ US Bureau of Labor Statistics, a settembre, 4,4 milioni dipendenti statunitensi (il 3% della forza lavoro) hanno lasciato il posto di lavoro. Ad agosto, il 65% dei dipendenti statunitensi era alla ricerca di un nuovo posto, il doppio rispetto a maggio. Con le dimissioni in aumento in Europa e in Asia, il fenomeno riguarda tutti. E non pensiate che sia tutta colpa della pandemia.

I problemi sono più complicati di così e sono iniziati molto prima dell’arrivo del Covid-19.

PERDITE INEVITABILI?

Paola, manager di grande capacità e dal roseo futuro, dopo che il suo responsabile viene promosso ad altro ruolo, si ritrova un nuovo capo che sebbene voglia (all’apparenza) supportarla allo stesso modo del predecessore, non ha però la stessa autorevolezza e capacità. Paola si ritrova così oberata di lavoro, con scarse proiezioni di carriera e una comunicazione via via più vacua e inconsistente, fatta di menzogne, cose non dette e una inutile perdita di tempo.

L’epilogo è segnato: stanca e insoddisfatta, Paola decide di guardarsi intorno e rapidamente riceve da un concorrente un’ottima proposta con tanto di promozione e un notevole aumento di stipendio.

Era una perdita che l’azienda poteva evitare?

La risposta è scontata. Nonostante ciò, errori di questo tipo si ripetono di continuo nelle organizzazioni. Spesso incapaci di comprendere i motivi per cui le persone se ne vanno. O più semplicemente poco interessate a sondarli e dimentiche di quanto sia costoso sostituire i talenti.

Secondo il Work Institute’s  2017 Retention Report si stimano costi fino al 33% dello stipendio annuale di un lavoratore, un terzo dello stipendio annuo. Senza contare il rischio reputazionale.

Sicuramente è molto più economico e lungimirante monitorare le esperienze dei collaboratori e investire in soluzioni.

Ecco cinque campanelli d’allarme a cui prestare attenzione e cinque soluzioni.

5 CAMPANELLI DI ALLARME

Perdita di fiducia.

Più volte ho visto i migliori talenti perdere fiducia nel management a causa di opportunità non concretizzate e a cui sono seguiti i silenzi più imbarazzanti. Indipendentemente dalle ragioni, la persona inizia a chiedersi quanto sia utile fidarsi. Ancor più quando  non c’è una persona di riferimento a cui rivolgersi per capire cosa non ha funzionato e negoziare eventuali azioni correttive, senza parlare delle prospettive relative al futuro. Senza mentori e riferimenti fidati, un dipendente deluso può trovare più facile rivolgersi ad aziende esterne che stanno esprimendo interesse piuttosto che restare e sperare in tempi migliori.

Comprendere i motivi per cui le persone se ne vanno è il primo passo per impedire agli altri di seguirli. Sostituire il talento è costoso se si considerano i costi di reclutamento, formazione e la perdita di produttività.

 

Percorsi di carriera poco chiari. 

L’incertezza genera domande.

Quando le persone non riescono a vedere cosa verrà dopo è inevitabile che inizino a dubitare delle scelte fatte. Non sapere quale tipo di esperienze sono necessarie, cosa serve per avanzare, o come colmare il gap (a parte chiedere al proprio capo), i collaboratori fanno fatica a costruire un piano a lungo termine. E iniziano a chiedersi se sono nel posto giusto. Il richiamo di un’altra azienda o cultura diventa più difficile da ignorare.

 

Squilibrio tra lavoro e vita privata. 

Quando i dipendenti sentono che le loro ambizioni personali sono troppo difficili da raggiungere, iniziano a pensare di andarsene. “Non mi dispiace fare sacrifici, ma i compromessi stanno producendo i benefici che mi aspettavo?” Quando questa domanda emerge, spesso le persone sono già con un piede sulla porta.

 

Mancanza di cura manageriale. 

Il management spesso mostra grande attenzione per le prestazioni e poca per le persone che forniscono i risultati. Sentirsi trascurati è mortale per la motivazione e distruttivo per le prestazioni a lungo termine.  Raramente i responsabili si interessano alla vita personale dei team. Troppi pochi manager mostrano genuina comprensione e apprezzamento per ciò che è servito per ottenere risultati importanti. Il risultato? Le persone sentono che tutto ciò che conta è la loro performance.

 

Comportamenti autolesionistici. 

Ognuno di noi ha abitudini e preferenze nel modo in cui lavora e coopera con gli altri. Alcune di queste sono funzionali, altre possono creare muri e barriere e finiscono con l’etichettarci, senza contare che sono difficili da correggere.

Il feedback è essenziale per creare un team di lavoro produttivo e sano. Ad esempio, i dipendenti più giovani hanno spesso bisogno di trovare colleghi che li aiutino su progetti complessi. E poiché tutti sono sempre piuttosto occupati, la modalità predefinita è quella di spingere gli junior ad arrangiarsi da soli e sviluppare comportamenti competitivi, talvolta fino all’eccesso. Se questi atteggiamenti non vengono corretti, e il leader non interviene, è più facile per chi non si ritrova in quello stile, andarsene che cercare di adattarsi. E al tempo stesso quel leader tenderà ad attrarre solo un certo tipo di collaboratori poco inclini alla collaborazione e allo spirito di gruppo. Con tutte le conseguenze che conosciamo.

 

5 SOLUZIONI

Monitora i comportamenti. 

Organizza riunioni periodiche per valutare come si sentono le persone. Incoraggia i manager a condividere di più aspetti della loro vita personale con il team e a mostrare interesse per la vita degli altri. E presta particolare attenzione quando ti riorganizzi o quando arriva un nuovo responsabile.

 

Parla di opzioni di carriera. 

Crea momenti in cui le persone possano discutere della loro carriera, dei loro fallimenti e dei loro successi e possano scambiarsi esperienze. È utile condividere lo stato dell’arte di progetti, programmi di formazione, empowerment, ecc. Infine, rendi le promozioni e i passaggi di carriera più trasparenti, compresi i processi, i criteri e le tempistiche.

 

Insisti sui piani di sviluppo per ogni membro del team. 

Aiuta le persone a fornire feedback utili, a creare piani di sviluppo misurabili e che facciano la differenza. Incoraggia tutti a parlare di ciò su cui stanno lavorando in modo che lo sviluppo continuo diventi una norma. Oltre ai percorsi di promozione, investi sullo sviluppo e sulla crescita.

 

Parla di esempi reali di resilienza. 

Poiché il benessere è nella mente dei dipendenti, è fondamentale che i manager controllino come stanno andando i team e agiscano in modo appropriato. Istruisci le persone su come dire no in modi che non danneggeranno la loro reputazione. Prendi, ad esempio, in considerazione la possibilità di vietare le e-mail al di fuori dell’orario di lavoro, come è stato adottato in Portogallo, o quanto meno di stabilire delle priorità. Se hai iniziato a limitare le ore per l’invio di e-mail o a impostare orari in cui non è possibile tenere riunioni, assicurati che i tuoi manager e i loro collaboratori seguano tali direttive.

 

Tieni d’occhio i talenti chiave. 

Non aspettare che qualcosa vada storto per avviare gruppi di confronto, perché a quel punto sarà troppo tardi, qualcuno se ne sarà già andato o la fiducia che nutre per te o l’azienda sarà già stata messa in discussione.

Se il management di Paola avesse eseguito solo alcuni di questi passaggi, molto probabilmente lei sarebbe ancora in azienda. Un po’ più di apprezzamento per il lavoro che stava facendo e i risultati che stava producendo, maggior confronto e feedback avrebbero fatto un’enorme differenza per lei.

Nel migliore dei casi, trattenere le persone è una sfida. Oggi è fondamentale che le aziende facciano il possibile per rimanere attraenti per le persone che hanno già reclutato e formato. È essenziale concentrarsi su come i manager si relazionano con i team e su come l’organizzazione crea piani di carriera e pratiche di sviluppo. Anche se, alla fine, fondamentale è considerare le persone come individui complessi. Aiutare le persone a gestire gli inevitabili alti e bassi della carriera e a destreggiarsi tra le loro vite e le ambizioni personali con obiettivi chiari, misurabili e condivisi di lavoro li incoraggerà a rimanere. O almeno, non andarsene, alla prima occasione.

QUAL E’ LA MIGLIORE CULTURA ORGANIZZATIVA PER LA TUA AZIENDA? Per (eventualmente) cambiarla…

 

Quello della cultura organizzativa è un argomento affascinante. Approfondirlo ti permette di avere informazioni preziose per compiere con sicurezza i prossimi passi verso i tuoi obiettivi. Tuttavia, il termine in sé, può sembrare non così intuitivo.

COSA INTENDIAMO PER “CULTURA ORGANIZZATIVA”?

La cultura si apprende dall’ambiente ed è sempre un fenomeno condiviso e collettivo. Ed è composta da vari strati[1].

Sullo strato esterno, ci sono i simboli: cibo, loghi, colori o monumenti.

Il livello successivo è costituito dagli eroi: personaggi pubblici della vita reale, statisti, atleti o personaggi della cultura popolare, ecc

Sul terzo strato, più vicino al nucleo, i rituali: eventi ricorrenti che modellano la nostra mente inconscia. Esistono sia nella società (es. celebrazione di ricorrenze, mance nei ristoranti) sia nelle organizzazioni (es. riunioni, lunch meeting, ecc).

Al centro, ci sono i valori: trasmessi dall’ambiente in cui cresciamo, come il comportamento dei genitori o degli insegnanti che ci mostrano cosa è accettabile e cosa no.

I problemi con la cultura di solito non emergono quando tutto va bene: è quando ci sentiamo minacciati o a disagio che abbiamo la tendenza a tornare alle origini.

Poiché la cultura è un fenomeno di gruppo, la usiamo per analizzare il comportamento dei gruppi e fare una  valutazione  della probabilità che gruppi di persone agiscano in un certo modo. Una persona non rappresenta l’intera cultura, ma in un gruppo di persone di una cultura, è probabile che le persone agiscano in un modo appropriato per quella cultura.

Da un punto di vista aziendale questo fa della cultura un importante strumento di gestione , nei confronti di gruppi di persone. Anche se non puoi cambiare i valori delle persone, puoi apportare modifiche appropriate nelle pratiche della tua organizzazione per assicurarti di lavorare con quei valori culturali, piuttosto che contro di loro.

Per meglio comprendere quale cultura abita la nostra organizzazione si può ricorrere a due modelli:

  • Teoria delle dimensioni culturali di Hofstede
  • Modello di Schein

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede[2]:

Il modello di Geert Hofstede (professore di antropologia delle organizzazioni all’università di Maastricht), destruttura la cultura in sei dimensioni:

  • Indice di distanza dal potere. E’ il grado in cui le persone accettano e si aspettano che il potere sia distribuito inegualmente. Orwell lo spiegherebbe in questo modo: tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Questa dimensione riguarda il fatto che tutti gli individui nelle diverse società non sono uguali. La dimensione esprime l’atteggiamento della cultura verso queste disuguaglianze. Il valore di questa dimensione è tanto più alta quanto più gli individui con meno potere di un’organizzazione accettano che questo sia distribuito in maniera diseguale.
  • Collettivismo vs individualismo. Questa dimensione cerca di determinare quanto si è focalizzati su se stessi o sugli altri, è il grado di interdipendenza che una società mantiene tra i suoi membri.
  • Evitare l’incertezza. Misura la tolleranza per l’ambiguità e l’incertezza. Hofstede si chiede: Dovremmo provare a controllare il futuro o semplicemente lasciare che accada? Questa dimensione rappresenta “quanto” una società riconosca il “limite” che il futuro non può essere conosciuto. Il modo in cui si affronta ambiguità e incertezza è legato alla cultura di origine e può generare più o meno ansia. Un punteggio alto vuol dire che la società tende a evitare situazioni di incertezza e ambiguità.
  • Femminilità contro mascolinità. Un punteggio più alto (maschile) di questa dimensione indica che la società avrà come driver principale la competizione e l’orientamento al successo. Un punteggio basso (femminile) significa che i valori dominanti sono la cura del prossimo e la qualità della vita. Una società femminile è quella in cui la qualità della vita viene prima della ricerca del successo.
  • Breve termine vs lungo termine. Come le società affrontano le sfide del presente mantenendo il loro legame con le tradizioni e il passato. Società con punteggio basso su questa dimensione tendono a mantenere le tradizioni.
  • Restrizione vs indulgenza. Misura quanto le persone cercano di controllare i loro desideri e impulsi. È legato al tipo di educazione ricevuta. E’ indulgente una società con un controllo più blando, restrittiva laddove abbiamo un forte controllo.

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede può essere estremamente utile anche per comprendere i diversi stili di comunicazione, culture, comportamenti e atteggiamenti.

 

Edgar Schein e la cultura organizzativa

Edgard Schein, ex professore alla MIT Sloan School of Management, ha ipotizzato un modello suddiviso in 3 parti.

  • Artefatti. E’ il primo livello, quello fisico. L’organizzazione si esprime anche attraverso l’arredo, la tecnologia, l’utilizzo degli spazi. Un open space e un ufficio organizzato in cubicoli o ancora un ufficio organizzato in stanze con porte chiuse, un ambiente completamente spoglio e uno curato e ricco di verde… Sono ben evidenti gli stili di approccio dell’organizzazione. Stessa cosa si ribalta sul ruolo dei singoli e dell’interazione tra funzioni.
  • Valori espliciti. Non c’è niente di più immediato, quando si valuta un’organizzazione, della pagina “Chi siamo” sul sito internet.
  • Assunti o presupposti – Secondo Schein esiste un livello più profondo di conoscenza della cultura organizzativa, che passa attraverso il non detto: le leggi che non hanno bisogno di essere espresse per influenzare l’organizzazione. Gli assunti di base sono le norme che regolano l’azione dei membri dell’organizzazione e di cui gli stessi membri sono spesso inconsapevoli, tanto sono radicate. Un livello che appare agli occhi dei soli analisti più esperti, ma che è in grado di rivelare la vera anima del modello organizzativo.

 

COME SI CREA UNA BUONA CULTURA DI SQUADRA?

  • Diventa consapevole della cultura

Inizia a notare le sue caratteristiche. Presta attenzione ai valori condivisi, al modo in cui le persone si esprimono e alle storie che raccontano sui loro successi e fallimenti.

  • Valuta la tua cultura attuale

Inizia creando tre elenchi:

  1. Cosa dovrebbe rimanere? Annota gli aspetti della cultura della tua organizzazione che ti piacciono e che vuoi preservare
  2. Cosa dovrebbe andare? Annota gli aspetti della tua cultura che devono essere modificati se vuoi andare avanti.
  3. Che cosa manca? Annota gli aspetti della cultura che sembrano mancare o deboli.
  • Immagina una nuova cultura

Questa è la parte divertente. Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere. Come sarebbe la cultura ideale? Scrivilo nel modo più dettagliato possibile.

Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere.

  • Condividi la visione con tutti

La cultura non cambierà a meno che tu non proponga una visione per qualcosa di nuovo. Devi articolare in un modo che sia avvincente e specifico. E non puoi farlo solo una volta. Inizialmente, l’unica visione dell’esistenza è nelle tue parole. Devi continuare a parlarlo finché non mette radici e comincia a crescere.

  • Ottieni l’allineamento dal tuo team di leadership

Sto parlando di più di un accordo. Hai bisogno di allineamento. Questo è qualcosa di completamente diverso. Vuoi una squadra che acquisti la visione, capisca cosa è in gioco e sia disposta a prendere una posizione per realizzarla. Consideralo un complotto. Non in senso negativo, ma in senso positivo. Tu e il tuo team state cospirando insieme per apportare un cambiamento positivo che trasformerà la tua organizzazione.

E infine…

  • Agisci sulle persone

Intuitivamente, sembra l’approccio più naturale: se la cultura è associata al modo di pensare delle persone, per cambiarla è necessario agire direttamente sulle persone. Eppure cambiare direttamente il modo di pensare delle persone è una missione impossibile. Ciò che va cambiato è il modo di agire delle persone

Le persone non oppongono resistenza al cambiamento, ma a essere cambiate. Pertanto guardano con sospetto a ogni tentativo di cambiare il loro modo di pensare, in particolare quando il cambiamento sembra assumere un carattere manipolativo o viene interpretato come una minaccia alla propria persona o all’organizzazione.

  • Agisci sul contesto

La logica in base alla quale per ottenere un cambiamento della cultura è preferibile agire sul contesto parte dall’assunto che le persone sono positive e gli eventuali comportamenti negativi sono determinati da pressioni del contesto stesso o da assunti errati, della cui correttezza però le persone sono convinte. Pertanto, di fronte a un comportamento negativo, è necessario separare nettamente il giudizio sul comportamento, dal giudizio sulla persona che lo ha adottato.

Tale approccio fa leva su due strumenti chiave del change management: i nudge e i feedback. Anziché agire direttamente sulla cultura al fine di produrre un cambiamento nel contesto, risulta più efficace agire sul contesto, introducendo nuove regole, procedure e meccanismi operativi, in grado di favorire un progressivo cambiamento nel modo di pensare e di agire delle persone. Questo richiede che i leader progettino sistemi nei quali appaia facile e conveniente per le persone assumere decisioni corrette, delle quali possono beneficiare sia loro che l’organizzazione.

 

Fonti

[1] https://hi.hofstede-insights.com/organisational-culture

[2] Hofstede G., Hosfede G.J., Minkov M., Culture e organizzazioni, Franco Angeli, 2014

Schein, E.H. (1999), “Empowerment, coercive persuasion and organizational learning: do they connect?”, The Learning Organization, Vol. 6 No. 4, pp. 163-172.

Schein E.H., (2018), Cultura d’azienda e leadership, Raffaello Cortina ed.

https://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.475.3285&rep=rep1&type=pdf

L’INDIA in AFRICA, GIOTTO e la GIOCONDA e il TEOREMA di PETRARCA. Maturità: i capolavori di studenti e professori…

Immaginate un mondo dove D’Annunzio è un estetista ma anche un water, i lupini sono i cuccioli del lupo, Berlino è la capitale dell’Inghilterra, l’India in Africa e Kant diventa il filosofo dell’aperitivo categorico…

Non è l’inizio di una commedia dell’assurdo, più semplicemente sono alcune delle creative risposte date da studenti e professori all’esame di maturità in corso in queste settimane.

I CAPOLAVORI DEGLI STUDENTI

D’Annunzio e il suo salone di bellezza

“Gabriele D’Annunzio è un estetista”. C’è una sorta di avversione alla parola esteta… Sempre meglio di chi trasforma il vate in water… sì, è accaduto anche questo…

Romeo e Lucia o Renzo e Giulietta?

La letteratura è piena di storie d’amore dal finale tragico. Ma, almeno ne I Promessi Sposi, il lieto fine è garantito. Peccato che per un maturando anche il romanzo di Alessandro Manzoni si concluda con la morte di uno tra Renzo e Lucia (chi, non è dato saperlo). Non è che si è confuso con Romeo e Giulietta?

Non da meno è il pessimismo comico di Leopardi, mentre Il fu Mattia Pascal viene attribuito al poeta Pittarello.

La ola però si raggiunge quando l’ideale dell’ostrica di Verga diventa la storia della cozza. E che dire di Dante nato a Milano…

Neanche la letteratura straniera è immune da tanto sfacelo: qualcuno ha sostenuto che Gente di Dublino è ambientato a Londra (c’è anche chi dice non l’abbia scritto Joyce, bensì Orwell).

Non c’è Germania senza Hitler

Alla domanda di cosa parla la Germania di Tacito? è stato risposto: di Hitler. C’è un problema: ciò vorrebbe dire che sia lo storico romano del I secolo sia il dittatore del XX secolo sono riusciti a campare per quasi duemila anni. Affascinante…

E ancora il libro scritto da Hitler è diventato il Mein Kraft (anziché il Mein Kampf), come la marca dei formaggini.

Hiroshima…o Fukushima?

A Hiroshima nel 1945 ci fu un grande terremoto che provocò il crollo di un’importante centrale nucleare, con conseguenti rischi per le persone e l’ambiente. Ma non era successo a Fukushima? Peraltro nel 2011? Hiroshima non era una delle due città colpite dal lancio della bomba atomica alla fine della II guerra mondiale? Dettagli.

Torino? È il capoluogo della Toscana. L’Umbria? È una città vicina ad Assisi (sì ma, a questo punto, è lecito chiedersi: “in che regione si trova?”).

Orrori storici

La Francia è stata invasa dalla Germania nel 1940, nonostante le due nazioni fossero alleate. Sotto il governo Giolitti c’è stata la conquista dell’Etiopia (e non della Libia). Tra i protagonisti della II guerra mondiale c’è stato anche Napoleone. Il Rinascimento è esploso con cinque secoli di ritardo (non nel XV secolo ma nel dopoguerra).

L’arte… di sbagliare risposta

Uno studente attribuisce a Van Gogh L’urlo di Munch. Per un altro Magritte è uno scrittore…

Errori scientifici

“I muscoli sotto sforzo producono latte” (e non acido lattico). Il Vello d’oro non è il mitologico manto di Crisomallo ma un muscolo del nostro corpo. Nell’elenco non poteva mancare la geografia: se non avesse fatto l’esame, un ragazzo sarebbe ancor convinto che la capitale dell’Inghilterra fosse Berlino.

«Cos’è la tassa sul macinato”: carne tritata». Ricordi indelebili.

Ma che storia è?

Uno studente fa sterminare a Hitler non gli ebrei, ma la razza ariana, aggiungendo che con quella inizia nel 1945 la II Guerra Mondiale.

Poco prima del proprio turno, uno studente chiede a un altro…  “Sai dirmi chi ha scritto il diario di Anna Frank?” (che avesse un ghostwriter rimasto nell’ombra fino a oggi?).

La Gioconda è stata dipinta da Giotto” (e non da Leonardo Da Vinci).

Alla domanda “Come si chiama la pratica con cui ci si autoinfliggono delle ferite?”. La risposta? Semplice: “Autoerotismo”.

L’attuale Presidente della Repubblica è il fantomatico Matteozzi. Mentre la Guerra Fredda: fu combattuta in Siberia, la III Guerra Mondiale è scoppiata in India; il quadro Guernica: dipinto da Pablo Escobar (noto narco-trafficante e protagonista di una fortunata serie tv), anche se è opera di Pablo Picasso

Per qualcuno Will Smith è il protagonista del famoso romanzo 1984 di George Orwell (il vero nome del personaggio è  Winston Smith), Dante è diventato un celebre italiano ebreo (per altri invece ha scritto la poesia X Agosto, che è tra le più famose di  Pascoli). Neanche Giovanni Verga sembra passarsela bene: il suo capolavoro I Malavoglia è attribuito a Italo Svevo (che invece ha scritto La coscienza di Zeno). Se la passa meglio il grande storico latino Tito Livio. Scambiato per un imperatore romano…

Uno  studente ha stabilito che “la rivoluzione francese è scoppiata in Germania”. Un giovane cultore della contaminazione tra letteratura e musica disse che “il più noto romanzo di Pirandello è Il fu Mattia Bazar”.

I CAPOLAVORI DEI PROFESSORI

Non sono da meno i professori… Parlando di matematica, un commissario, forse appassionato di letteratura italiana, ha chiesto a un alunno di spiegare il famoso “Teorema di Petrarca”. Povero Pitagora, è stato rimpiazzato da Petrarca.

Che dire del campione di ciclismo Gino Bartali? Per un commissario si trattava di uno sportivo degli anni ’80. Peccato che la stessa traccia d’esame facesse riferimento proprio all’impegno di Bartali durante il nazismo nella difesa degli ebrei.

Un caso particolare riguarda il poeta Giuseppe Ungaretti: un professore di Scienze ha insistito per attribuirgli Ossi di seppia di Eugenio Montale, mentre una professoressa di italiano ha voluto accreditargli la stesura del Mastro Don Gesualdo di Verga. A far sobbalzare tutti sulla sedia, però, è stata una docente che gli ha attribuito addirittura l’Infinito. Peccato che sia una delle opere più celebri, se non la più celebre, di Leopardi…

Per Storia e Geografia le cose non sono andate meglio: L’America si trova a est del mondo ha spiegato un professore, mentre un altro ha assicurato che Il Venezuela è uno degli Stati dell’Asia. Per una docente la sconfitta di Caporetto è avvenuta durante la II Guerra Mondiale che, a sua volta, sarebbe scoppiata perché Hitler ha invaso Pearl Harbor.

Brutte prestazioni anche per Fisica con una docente secondo cui la forza di gravità è uguale a 10, mentre un professore di Matematica, dopo aver dato un esercizio da svolgere a un candidato, si sarebbe rivolto vero il collega di Scienze ammettendo con candore: «Controlla tu, io con i numeri mi confondo».

Un tempo c’erano Gino e Michele, con le loro formiche a farci ridere… oggi la realtà. Peccato che in alcuni casi, più che ridere ci sia da piangere!

 

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…