Tag Archivio per: #decisionmaking

NON mi PIACE più questo LAVORO, ma LASCIARLO SAREBBE un FALLIMENTO. 5 MITI da SFATARE

 

“Sono infelice. Il lavoro ha smesso di entusiasmarmi e non trovo più il perché nella maggior parte delle attività che svolgo. Voglio andarmene ma ogni volta che ne parlo in famiglia, ottengo le stesse reazioni: sei sicuro che sia la cosa giusta da fare? Tanti invidiano la tua posizione, o guadagnano meno di te. Non puoi essere così sprovveduto”.

Talvolta, quando opero progetti di change management incontro manager che in quello specifico contesto lavorativo non stanno bene, ma hanno paura a guardarsi intorno: “dopo la fatica che ho fatto per ottenere quest’incarico, tutti questi anni nella stessa azienda, andarmene sarebbe fallimento”.

Lasciare un posto solido e ben retribuito ma che non motiva più, non è una decisione facile da prendere. Ci sono molte variabili che occorre analizzare e ponderare.  Spesso però a rendere la scelta più complessa, non sono tanto le incertezze legate al cambiamento, ma alcuni pregiudizi che ci incollano allo status quo.

Ecco 5 miti da cui guardarsi.

 

Mito N. 5. Lasciare = fallire

  • “Non mollare.”
  • “Non piace a nessuno chi si arrende”.
  • “I vincenti non mollano mai e chi molla è un perdente.”

Alcune di queste frasi ti suonano familiari? Come alcuni bias insegnano, una volta che hai iniziato qualcosa non dovresti mai smettere fino a che non lo hai concluso, e se lo fai è un chiaro segno di fallimento. Ma se quella cosa non potesse mai dirsi conclusa… magari fino alla pensione?

A volte cambiare è esattamente la cosa giusta da fare.

Da bambina Tina Kiberg era una violinista di belle speranze che passava il tempo libero a esercitarsi. Un giorno, partecipando a un concorso, si rese conto che non sarebbe mai stata più che una violista mediocre. Però le piaceva cantare. Così abbandonò il violino e iniziò a cantare. E’ diventata una cantante d’opera internazionale di altissimo livello.

Prova a indovinare cosa hanno in comune Larry Page, Sergey Brin, Tiger Woods, Reese Witherspoon, John McEnroe e John Steinbeck? Hanno tutte lasciato Stanford.

 

Mito n. 4. È l’opzione più facile

  • Hai lasciato il lavoro? 
  • Immagino che tu non abbia ciò che serve per avere successo. 
  • Peccato, hai scelto l’opzione più facile.

Alcune persone vedono il cambiamento come un segno di debolezza.

Cambiare richiede coraggio. Lasciare un posto di lavoro tossico o allontanarsi da un capo incompetente o da un’attività che non regala soddisfazioni, può essere una scelta dolorosa e con strascichi emotivi non indifferenti. Sicuramente è tutt’altro che facile e comodo.

 

Mito n. 3. È un comportamento egoista

  • Come puoi essere così egoista da lasciare il lavoro? 
  • Stai deludendo clienti, colleghi, amici e tutti coloro che credono in te. Inoltre, pensa alla tua famiglia: come se la caveranno se te ne andrai?
  • Cosa penseranno i tuoi figli…

Se non ti piace il lavoro, non stai facendo un favore a nessuno rimanendo. Quando si è infelici, si tende a contagiare tutti coloro che stanno intorno. Per quanto riguarda la famiglia, forse sarebbero più contenti se non tornassi a casa ogni giorno stanco e frustrato.

Se vai al lavoro giorno dopo giorno, anno dopo anno, e odi davvero il tuo lavoro e torni a casa arrabbiato, cosa stai insegnando ai tuoi figli?

 

Mito n. 2. È rischioso per la carriera

  • Se lasci il tuo lavoro, il tuo CV ne risentirà e la tua carriera subirà un duro colpo.

Mentre rimanere per anni in un luogo di lavoro che odi e che ti sta lentamente logorando sarà FANTASTICO per la tua carriera! Più a lungo rimani, più perdi energia, motivazione e fiducia in te stesso di cui hai bisogno per avanzare nella carriera.

 

Mito n. 1. È l’ultima risorsa

  • Certo, puoi considerare di smettere, ma dovresti prima esaurire tutte le altre opzioni. 
  • Ti fermi solo quando non ce la fai più.

Per le persone che credono a questo mito, smettere è l’ultima opzione. È quello che fai una volta che sei distrutto ed esausto per continuare a svolgere il tuo lavoro attuale. Ciò lo rende il più pericoloso dei miti qui elencati, perché significa che le persone rimangono in lavori scadenti fino a (o oltre) i loro punti di rottura. Talvolta però è troppo tardi.

 

La tua opinione

Ci sono altri miti che ti vengono in mente? Hai incontrato qualcuno di questi nella tua vita lavorativa? Come reagisci quando qualcuno vicino a te valuta la possibilità di cambiare lavoro?

QUAL E’ LA MIGLIORE CULTURA ORGANIZZATIVA PER LA TUA AZIENDA? Per (eventualmente) cambiarla…

 

Quello della cultura organizzativa è un argomento affascinante. Approfondirlo ti permette di avere informazioni preziose per compiere con sicurezza i prossimi passi verso i tuoi obiettivi. Tuttavia, il termine in sé, può sembrare non così intuitivo.

COSA INTENDIAMO PER “CULTURA ORGANIZZATIVA”?

La cultura si apprende dall’ambiente ed è sempre un fenomeno condiviso e collettivo. Ed è composta da vari strati[1].

Sullo strato esterno, ci sono i simboli: cibo, loghi, colori o monumenti.

Il livello successivo è costituito dagli eroi: personaggi pubblici della vita reale, statisti, atleti o personaggi della cultura popolare, ecc

Sul terzo strato, più vicino al nucleo, i rituali: eventi ricorrenti che modellano la nostra mente inconscia. Esistono sia nella società (es. celebrazione di ricorrenze, mance nei ristoranti) sia nelle organizzazioni (es. riunioni, lunch meeting, ecc).

Al centro, ci sono i valori: trasmessi dall’ambiente in cui cresciamo, come il comportamento dei genitori o degli insegnanti che ci mostrano cosa è accettabile e cosa no.

I problemi con la cultura di solito non emergono quando tutto va bene: è quando ci sentiamo minacciati o a disagio che abbiamo la tendenza a tornare alle origini.

Poiché la cultura è un fenomeno di gruppo, la usiamo per analizzare il comportamento dei gruppi e fare una  valutazione  della probabilità che gruppi di persone agiscano in un certo modo. Una persona non rappresenta l’intera cultura, ma in un gruppo di persone di una cultura, è probabile che le persone agiscano in un modo appropriato per quella cultura.

Da un punto di vista aziendale questo fa della cultura un importante strumento di gestione , nei confronti di gruppi di persone. Anche se non puoi cambiare i valori delle persone, puoi apportare modifiche appropriate nelle pratiche della tua organizzazione per assicurarti di lavorare con quei valori culturali, piuttosto che contro di loro.

Per meglio comprendere quale cultura abita la nostra organizzazione si può ricorrere a due modelli:

  • Teoria delle dimensioni culturali di Hofstede
  • Modello di Schein

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede[2]:

Il modello di Geert Hofstede (professore di antropologia delle organizzazioni all’università di Maastricht), destruttura la cultura in sei dimensioni:

  • Indice di distanza dal potere. E’ il grado in cui le persone accettano e si aspettano che il potere sia distribuito inegualmente. Orwell lo spiegherebbe in questo modo: tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri. Questa dimensione riguarda il fatto che tutti gli individui nelle diverse società non sono uguali. La dimensione esprime l’atteggiamento della cultura verso queste disuguaglianze. Il valore di questa dimensione è tanto più alta quanto più gli individui con meno potere di un’organizzazione accettano che questo sia distribuito in maniera diseguale.
  • Collettivismo vs individualismo. Questa dimensione cerca di determinare quanto si è focalizzati su se stessi o sugli altri, è il grado di interdipendenza che una società mantiene tra i suoi membri.
  • Evitare l’incertezza. Misura la tolleranza per l’ambiguità e l’incertezza. Hofstede si chiede: Dovremmo provare a controllare il futuro o semplicemente lasciare che accada? Questa dimensione rappresenta “quanto” una società riconosca il “limite” che il futuro non può essere conosciuto. Il modo in cui si affronta ambiguità e incertezza è legato alla cultura di origine e può generare più o meno ansia. Un punteggio alto vuol dire che la società tende a evitare situazioni di incertezza e ambiguità.
  • Femminilità contro mascolinità. Un punteggio più alto (maschile) di questa dimensione indica che la società avrà come driver principale la competizione e l’orientamento al successo. Un punteggio basso (femminile) significa che i valori dominanti sono la cura del prossimo e la qualità della vita. Una società femminile è quella in cui la qualità della vita viene prima della ricerca del successo.
  • Breve termine vs lungo termine. Come le società affrontano le sfide del presente mantenendo il loro legame con le tradizioni e il passato. Società con punteggio basso su questa dimensione tendono a mantenere le tradizioni.
  • Restrizione vs indulgenza. Misura quanto le persone cercano di controllare i loro desideri e impulsi. È legato al tipo di educazione ricevuta. E’ indulgente una società con un controllo più blando, restrittiva laddove abbiamo un forte controllo.

La teoria delle dimensioni culturali di Hofstede può essere estremamente utile anche per comprendere i diversi stili di comunicazione, culture, comportamenti e atteggiamenti.

 

Edgar Schein e la cultura organizzativa

Edgard Schein, ex professore alla MIT Sloan School of Management, ha ipotizzato un modello suddiviso in 3 parti.

  • Artefatti. E’ il primo livello, quello fisico. L’organizzazione si esprime anche attraverso l’arredo, la tecnologia, l’utilizzo degli spazi. Un open space e un ufficio organizzato in cubicoli o ancora un ufficio organizzato in stanze con porte chiuse, un ambiente completamente spoglio e uno curato e ricco di verde… Sono ben evidenti gli stili di approccio dell’organizzazione. Stessa cosa si ribalta sul ruolo dei singoli e dell’interazione tra funzioni.
  • Valori espliciti. Non c’è niente di più immediato, quando si valuta un’organizzazione, della pagina “Chi siamo” sul sito internet.
  • Assunti o presupposti – Secondo Schein esiste un livello più profondo di conoscenza della cultura organizzativa, che passa attraverso il non detto: le leggi che non hanno bisogno di essere espresse per influenzare l’organizzazione. Gli assunti di base sono le norme che regolano l’azione dei membri dell’organizzazione e di cui gli stessi membri sono spesso inconsapevoli, tanto sono radicate. Un livello che appare agli occhi dei soli analisti più esperti, ma che è in grado di rivelare la vera anima del modello organizzativo.

 

COME SI CREA UNA BUONA CULTURA DI SQUADRA?

  • Diventa consapevole della cultura

Inizia a notare le sue caratteristiche. Presta attenzione ai valori condivisi, al modo in cui le persone si esprimono e alle storie che raccontano sui loro successi e fallimenti.

  • Valuta la tua cultura attuale

Inizia creando tre elenchi:

  1. Cosa dovrebbe rimanere? Annota gli aspetti della cultura della tua organizzazione che ti piacciono e che vuoi preservare
  2. Cosa dovrebbe andare? Annota gli aspetti della tua cultura che devono essere modificati se vuoi andare avanti.
  3. Che cosa manca? Annota gli aspetti della cultura che sembrano mancare o deboli.
  • Immagina una nuova cultura

Questa è la parte divertente. Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere. Come sarebbe la cultura ideale? Scrivilo nel modo più dettagliato possibile.

Piuttosto che limitarti a lamentarti di ciò che è, inizia a immaginare cosa potrebbe essere.

  • Condividi la visione con tutti

La cultura non cambierà a meno che tu non proponga una visione per qualcosa di nuovo. Devi articolare in un modo che sia avvincente e specifico. E non puoi farlo solo una volta. Inizialmente, l’unica visione dell’esistenza è nelle tue parole. Devi continuare a parlarlo finché non mette radici e comincia a crescere.

  • Ottieni l’allineamento dal tuo team di leadership

Sto parlando di più di un accordo. Hai bisogno di allineamento. Questo è qualcosa di completamente diverso. Vuoi una squadra che acquisti la visione, capisca cosa è in gioco e sia disposta a prendere una posizione per realizzarla. Consideralo un complotto. Non in senso negativo, ma in senso positivo. Tu e il tuo team state cospirando insieme per apportare un cambiamento positivo che trasformerà la tua organizzazione.

E infine…

  • Agisci sulle persone

Intuitivamente, sembra l’approccio più naturale: se la cultura è associata al modo di pensare delle persone, per cambiarla è necessario agire direttamente sulle persone. Eppure cambiare direttamente il modo di pensare delle persone è una missione impossibile. Ciò che va cambiato è il modo di agire delle persone

Le persone non oppongono resistenza al cambiamento, ma a essere cambiate. Pertanto guardano con sospetto a ogni tentativo di cambiare il loro modo di pensare, in particolare quando il cambiamento sembra assumere un carattere manipolativo o viene interpretato come una minaccia alla propria persona o all’organizzazione.

  • Agisci sul contesto

La logica in base alla quale per ottenere un cambiamento della cultura è preferibile agire sul contesto parte dall’assunto che le persone sono positive e gli eventuali comportamenti negativi sono determinati da pressioni del contesto stesso o da assunti errati, della cui correttezza però le persone sono convinte. Pertanto, di fronte a un comportamento negativo, è necessario separare nettamente il giudizio sul comportamento, dal giudizio sulla persona che lo ha adottato.

Tale approccio fa leva su due strumenti chiave del change management: i nudge e i feedback. Anziché agire direttamente sulla cultura al fine di produrre un cambiamento nel contesto, risulta più efficace agire sul contesto, introducendo nuove regole, procedure e meccanismi operativi, in grado di favorire un progressivo cambiamento nel modo di pensare e di agire delle persone. Questo richiede che i leader progettino sistemi nei quali appaia facile e conveniente per le persone assumere decisioni corrette, delle quali possono beneficiare sia loro che l’organizzazione.

 

Fonti

[1] https://hi.hofstede-insights.com/organisational-culture

[2] Hofstede G., Hosfede G.J., Minkov M., Culture e organizzazioni, Franco Angeli, 2014

Schein, E.H. (1999), “Empowerment, coercive persuasion and organizational learning: do they connect?”, The Learning Organization, Vol. 6 No. 4, pp. 163-172.

Schein E.H., (2018), Cultura d’azienda e leadership, Raffaello Cortina ed.

https://citeseerx.ist.psu.edu/viewdoc/download?doi=10.1.1.475.3285&rep=rep1&type=pdf

COME ESSERE CERTI DI AVER PRESO UNA BUONA DECISIONE?

Come possiamo essere certi di aver preso una buona decisione?

Non necessariamente soddisfare l’obiettivo prefissato è sintomo di buona decisione.

Supponiamo di essere il direttore commerciale di un’azienda e di annoverare fra i collaboratori un commerciale di indubbia qualità e bravura, riconosciuto da tutti e a cui le società concorrenti fanno il filo da tempo.

Un giorno il commerciale arriva in ritardo a un meeting importante, si siede al suo posto come niente fosse e non chiede scusa e nemmeno imputa a qualche evento straordinario o grave la mancata puntualità.

Come vi comportereste nei panni del direttore? E come potete essere certi che la decisione presa sia buona?

Potreste riprendere il commerciale seduta stante o far finta di niente. In ogni caso, il rischio di incorrere in una decisione sbagliata potrebbe avere conseguenze pesanti: il commerciale potrebbe risentirsi e andarsene altrove oppure, se non agite, perdere credibilità e rispetto degli altri collaboratori.

Spesso la decisione che si prende è inficiata da convinzioni, valori e strategie adattive che in altri contesti e nel tempo si sono dimostrate efficaci. Non necessariamente però anche in questo caso, può funzionare. Mi spiego meglio.

Se per noi la puntualità è un valore importante e distintivo, difficilmente riusciremmo a tacere e saremo tentati di trattare il commerciale come tutti gli altri venditori della squadra e quindi a non considerarlo come il migliore dell’organizzazione. Di fatto, lo puniremmo appena entra in sala riunioni.

Se invece per noi è il valore della bravura a guidarci, saremo tentati di trattare i collaboratori proporzionalmente al loro merito e ai loro risultati. Di fatto, ignoreremo il ritardo certi dei vantaggi che il commerciale saprà portare all’azienda.

Quale decisione vi sembra corretta?

Nessuna delle due. Sia rimproverare sia ignorare il commerciale non sono decisioni corrette, poiché guidate dalla nostra storia, da pregiudizi e credenze e non dall’analisi del contesto, della situazione e di una visione a medio/lungo termine.

Riprendendo il commerciale, si potrebbero aprire due scenari. Il commerciale, accortosi dell’errore, potrebbe essere spinto a fare di più sul lavoro, aumentando ulteriormente il fatturato. E facilmente penseremmo che intervenire sui comportamenti sbagliati sia la miglior soluzione in frangenti di questo tipo, anche verso i collaboratori più efficaci e bravi.

Oppure il commerciale potrebbe prendere contatto con altre aziende del settore e imputarvi (imputare al direttore commerciale) la responsabilità della decisione, con il rischio che il CEO insoddisfatto di come è stata gestita la situazione, vi licenzi o perda fiducia in voi.

Quindi? Cosa è giusto fare?

Entrambe le scelte possono funzionare, purchè l’indicatore da considerare non sia semplicemente il risultato finale ma il processo che sottende a quella decisione.

Sapere quanto e quali valori, convinzioni e pregiudizi ci spingono verso strategie adattive e standardizzate è importante. Questo impedisce loro di portarci all’azione senza aver verificato le variabili e lo specifico contesto, rischi e opportunità di ciascuna opzione. Conoscere i rischi e gli effetti sia in negativo sia in positivo, ci guida verso la scelta corretta. In quel momento, in quel contesto.

Ogni decisione complessa non può essere presa senza un’analisi e un’attenzione al contesto.

Come è possibile prendere la giusta decisione?

Facendoci le giuste domande. Più domande ci facciamo più riusciremo a prevedere incertezza, eventi e rischi.

… to be continued

E se ci FOSSE un MODO per RISOLVERE GRANDI PROBLEMI, senza CREARE altri PROBLEMI…

A fine anni ’50, Mao lanciò una campagna per sbarazzarsi dei passeri, da lui ritenuti responsabili di danneggiare il raccolto.

Per raggiungere l’obiettivo, i funzionari cinesi organizzarono sfidanti competizioni, distribuendo premi a coloro che uccidevano più uccelli. Le persone iniziarono così a sparare ai passeri all’impazzata e a distruggerne i nidi in modo indiscriminato. Di pari passo però, le risaie cinesi iniziarono a produrre meno raccolti.

Si scoprì così che i passeri non mangiavano solo grano. Mangiavano anche insetti che mangiavano grano. Mentre i passeri si avvicinavano all’estinzione, gli insetti mangiatori di cereali diventarono una vera e propria piaga, divorando più grano di quanto facessero i passeri. La Cina cadde in una carestia che uccise più di 20 milioni di persone.

La storia è piena di storie come questa, dove soluzioni apparentemente logiche, anziché risolvere un problema, generano conseguenze non intenzionali, ma dannose, in gergo “second-order effects”.

Un effetto di primo ordine è ciò che accade quando, per esempio, si chiede alle persone di uccidere gli uccelli. Un effetto di secondo ordine è ciò che accade quando invece si chiede di uccidere gli uccelli, ma poi gli insetti mangiano tutto il raccolto perché gli uccelli non sono più grado o in numero tale da mangiare gli insetti.

Nel business questo accade spesso. E diventiamo colpevoli, quanto Mao, di non pensare ai potenziali effetti di secondo ordine delle nostre decisioni.

Ciò accade poichè tendiamo a innamorarci delle nostre idee, senza contare che ognuno di noi è fortemente incentivato a essere colui che ha l’idea vincente. Facciamo tutto il possibile per far funzionare le nostre idee, piuttosto che pensare se un’idea funzionerà prima di attuarla.

È del tutto umano. Ma è un errore grossolano che può avere conseguenze negative importanti.

RISOLVERE PROBLEMI SENZA CREARE ALTRI PROBLEMI

La vera sfida è infatti più sottile: imparare a risolvere i problemi senza creare altri problemi. Quindi a prendere decisioni calcolando rischi e conseguenze nel modo corretto.

In uno scenario aziendale comune, invece di chiedere: “Come possiamo aumentare le vendite?“, sarebbe più utile chiedersi: “Come possiamo aumentare le vendite … senza danneggiare la nostra reputazione o la fidelizzazione dei clienti a lungo termine?” – o qualunque siano i relativi effetti di secondo ordine più importanti.

Le risposte che soddisfano quest’ultima domanda non saranno solo più interessanti, ma anche più innovative.

Quando Mao chiese: “Come possiamo uccidere i passeri?“, avrebbe potuto aggiungere “… senza avere un effetto negativo sui nostri raccolti?” Questo, in effetti, sarebbe stato utile, perché avrebbe chiarito che “uccidere i passeri” non era il giusto obiettivo. Prendere in considerazione gli effetti di secondo ordine avrebbe potuto portare a una domanda differente: “Come possiamo aumentare i nostri raccolti senza causare effetti negativi sulla salute o sull’ecosistema agricolo?

Dopotutto, l’obiettivo non era quello di sbarazzarsi dei passeri: era nutrire più persone.

 

Il CLIENTE è SODDISFATTO, MA la RECENSIONE è NEGATIVA: il ruolo del Bottom Dollar Effect

Il denaro non regala la felicità, ma il modo in cui scegliamo di spenderlo sì. Mi spiego meglio: quando acquistiamo qualcosa, la soddisfazione che ne trarremo, sarà minore se avremo dovuto dare fondo ai nostri risparmi. Cioè sarà più facile rimanere insoddisfatti o lasciare una recensione negativa se, per accaparrarsi quel bene, avremo dovuto sforare il budget a nostra disposizione.

Se mi già mi segui, sai che mi occupo di processi decisionali, cioè del modo in cui il cervello si comporta e degli errori di cui cade vittima durante l’analisi delle diverse alternative a disposizione. E considerato che ogni giorno prendiamo fra le 20 mila e le 30 mila decisioni… è facile quantificare i possibili sbagli a cui possiamo andare incontro.

E in questo caso l’errore, noto come Bottom Dollar Effect, torna particolarmente utile per coloro i quali si occupano di vendita al dettaglio.

Indipendentemente dal prezzo, ognuno di noi prova emozioni negative quando deve separarsi dai propri soldi, soprattutto se si va in rosso o si svuota il conto corrente. Questo fa sì che poi sia più facile trasferire questi sentimenti negativi anche sul bene acquistato, ed essere più negativi di quanto saremmo normalmente nel giudizio, se invece avessimo risparmiato qualcosa.

Questo significa che chi vende deve essere consapevole del budget a disposizione del cliente o almeno di quanto pesa emozionalmente su di lui quell’acquisto.

LA DIMOSTRAZIONE SCIENTIFICA

A dimostrare la pericolosità di questo effetto, sei esperimenti pubblicati sul Journal of Consumer research, dove i ricercatori hanno misurato il legame tra spesa e felicità.

Ai partecipanti è stato chiesto di acquistare 3 film online usando dei crediti a loro assegnati: ogni film costava 10 crediti. Al primo gruppo sono stati assegnati 30 crediti, al secondo 50. In sostanza, coloro i quali avevano a disposizione un budget di 30 crediti, lo avrebbero esaurito con i tre acquisti; coloro i quali disponevano di 50 crediti, avrebbero potuto ancora contare sui 20 rimanenti.

Cosa è accaduto?

Dopo  aver acquistato e visto ogni film, a entrambi i gruppi è stata chiesta una recensione. E’ emerso che le persone che avevano esaurito il budget (primo gruppo) erano meno soddisfatte rispetto a quelle del secondo gruppo. In un follow-up successivo si è poi scoperto che questo effetto era ancora più pronunciato tra le persone che avevano difficoltà finanziarie: in loro l’effetto aumentava ulteriormente.

Acquistare qualcosa quando i fondi a nostra disposizione sono relativamente scarsi è più doloroso di quando si dispone di un gruzzolo più sostanzioso, ovviamente. Come dimostra l’effetto Bottom Dollar, questo elemento può influenzare notevolmente la soddisfazione e la valutazione degli acquisti da parte dei consumatori e quindi avere ricadute di reputazione ed economiche su commercianti e venditori.

BOTTOM DOLLAR EFFECT IN PRATICA

Come si traduce tutto questo in un comportamento? Quando decidiamo di destinare, ad esempio, 100 euro/mese al divertimento, se ne spendiamo 90 per assistere a una partita di calcio all’inizio del mese e 10 euro per un biglietto per il cinema due settimane dopo, sentiremo maggiori emozioni negative quando ci separiamo dagli ultimi  10  euro rispetto ai primi 90 e quindi avremo meno probabilità di goderci il film di quanto sarebbe stato se lo avessimo acquistato per primo.

5 PRATICI SUGGERIMENTI

Quindi come possono aiutarti queste informazioni e la consulenza di chi si occupa di questi temi? Ecco 5 pratici suggerimenti:

  1. La tempistica è fondamentale. La commercializzazione di un prodotto può essere più efficace se temporizzata in un periodo in cui i budget dei consumatori hanno meno probabilità di essere esauriti.
  2. Le offerte promozionali e gli sconti sono invece più efficaci quando è probabile che i clienti stiano esaurendo il budget a disposizione (Soster, Gershoff & Bearden, 2014).
  3. Cerca di capire i comportamenti dei tuoi clienti abituali. La chiave è identificare il tuo cliente target e fare una stima dell’andamento del suo budget.
  4. Fai attenzione a chiedere un feedback. Se un cliente ha speso fino all’ultimo euro nel tuo negozio, attendi a chiedere una recensione fino a quando sai o supponi sia rientrato economicamente della spesa, in questo modo eviti che rigetti attraverso il feedback/recensione il possibile rammarico per la spesa folle sostenuta e di cui ancora non è rientrato.
  5. Siamo tutti consumatori. Sapere come prendi una decisione, ti può essere di aiuto anche quando sei tu ad acquistare (e non solo vendere) qualcosa. E di conseguenza come una spesa eccessiva può influenzare la valutazione e renderti meno soddisfatto dei tuoi acquisti. Quindi come meglio distribuire i tuoi acquisti nel tempo e goderne nel modo migliore, senza rimpianti.

 

 

NON C’E’ DUE SENZA TRE… SCOMMETTIAMO?

Tiro. Canestro
Tiro. Canestro
Tiro. Canestro

Ha la mano calda il cestista oggi: 3 su 3

Tiro….
Chi scommette sul quarto?

Prima che tu perda la scommessa, mi tocca dirti che le probabilità che il cestista continui a centrare il canestro non sono condizionate dai precedenti tiri. Questo vale anche per calciatori, meteore del mondo dello sport e campioni dagli incomprensibili momenti bui.

L’espressione mano calda è molto usata anche nel mondo delle banche da quando gli studiosi di finanza comportamentale l’hanno presa a prestito dal gergo sportivo per definire l’abitudine diffusa di presupporre che una sequenza particolare di eventi possa condizionare l’evento successivo, cioè che si formino in maniera non casuale sequenze fortunate e sfortunate di speculazioni.

Per accorgersene è sufficiente considerare le statistiche dei giocatori su più stagioni, piuttosto che su una singola partita e diventa lapalissiano che la spiegazione della prestazione di un giocatore non dipende dalla temperatura della sua mano (o del suo piede), quanto dalle sue percentuali al tiro rilevate in molte partite. E per lo stesso motivo non ha molto senso estrapolare una tendenza su come si comporterà un titolo o l’intero mercato nei prossimi mesi riferendosi all’andamento degli ultimi 5 o 6. Eppure siamo tutti tentati di farlo.

La mano calda è una variante della credenza nella Legge dei piccoli numeri: la convinzione istintiva di poter trarre conclusioni a partire da poche osservazioni. Appartiene alla stessa categoria della gambler fallacy, l’illusione del giocatore di roulette, convinto che dopo 6 neri ci sia maggiore possibilità di un rosso al tiro successivo.

Mentre la fallacia del giocatore pretende che una sequenza casuale di numeri esibisca una persistenza negativa (dopo 6 neri un rosso), nella mano calda la persistenza è positiva (dopo 3 canestri, un quarto). Vale a dire che il nostro cervello, in modo curioso, si aspetterebbe una tendenza alla alternanza e al disordine in caso di eventi naturali, alla ripetizione e all’ordine nel caso di eventi umani.

Le estrazioni del lotto o la roulette non si ricordano però dei numeri o dei colori appena usciti. Le previsioni sul futuro dicono poco sul futuro, ma tanto di chi le fa, sostiene Warren Buffet. Il significato o la previsione non risiedono infatti nelle poche informazioni a disposizione, ma nella nostra mente portata a generalizzare, anche quando il campione statistico non lo consentirebbe. Se lo dice lui…..

AL CIBO NON SI COMANDA… Ma con i Nudge seguire una dieta non è mai stato così facile!

E’ fra le parole più cercate sul web. La (in)seguiamo di continuo, spesso senza grandi risultati. Eppure non ci arrendiamo, come dimostrano i ciclici tentativi che mettiamo in atto per mitigare il nostro senso di colpa. Soprattutto dopo aver esagerato con le calorie ingerite, dopo i falsi buoni propositi di andare in palestra, le taglie dei vestiti che si fanno sempre più strette e l’impietoso giudizio dello specchio.

Insomma al cibo non si comanda. Non a caso, tutto sembra metterci i bastoni fra le ruote quando vogliamo… vorremmo ridurre di qualche centimetro il nostro giro vita. Andiamo al ristorante e nonostante il nostro convincimento a ordinare insalata e riso integrale, alla fine divoriamo più di quanto facciamo quando non siamo sotto regime dietetico.

A venirci in aiuto, per fortuna, anche questa volta ci sono i Nudge, le spinge gentili. La strategia che ci insegna come prendere decisioni funzionali al nostro benessere senza sforzo e con il minimo sforzo.

ATTENTI ALLA TAGLIA DEI VOSTRI OSPITI

Lo sapevi che siamo influenzati sia dalla taglia degli altri commensali, sia da quella del cameriere, quando ci troviamo seduti allo stesso tavolo, menù alla mano? A seconda della corporatura del cameriere cambia il tipo e il numero di portate ordinate. Anche se può sembrare bizzarro, è provato scientificamente da uno studio congiunto condotto dai ricercatori dell’università tedesca di Jena e di Ithaca (Stato di New York) e pubblicato sulla rivista scientifica Environment & Behaviour: al variare dell’indice di massa corporea (IMC) del cameriere, cambia anche il quantitativo di cibo mangiato e di liquidi bevuti a tavola. E, in particolare, più il valore dell’IMC (che si ottiene dividendo il proprio peso corporeo in chilogrammi per il quadrato della propria altezza in metri) è alto, più chi siede al tavolo tende a ordinare cibi ipercalorici e dolce, vino, liquori e caffè zuccherato a fine pasto.

Detto in altri termini: la rotondità del cameriere induce a esagerare in fatto di calorie, a non sentirci in colpa se mangiamo oltremisura e a non sentirci giudicati.

Il 18% dei clienti serviti da camerieri sovrappeso consuma più alcolici, mentre la scelta di ordinare il dessert è quattro volte più frequente, sempre se l’indice di massa corporea dell’inserviente è superiore a 25 (il valore oltre il quale si parla di sovrappeso per l’uomo).

Altri studi hanno dimostrato come ci lasciamo condizionare dalle scelte dichiarate dei nostri commensali quando ordiniamo al ristorante. E tendiamo a omologarci, ordinando le stesse cose dei nostri amici. Ma a farci cambiare idea su cosa mangiare può contribuire anche la musica: il New York Times già nel 2012 dimostrò come i locali usavano l’artificio della musica alta per convincere i clienti a… bere di più.

Sapere queste cose non ci farà perdere peso, ma credetemi, la consapevolezza è il primo passo verso abitudini più salutari o più allineate ad obiettivi che talvolta si fanno ostici. Detto in altri termini, ci sono molti modi per scalare una vetta!

TAKE AWAY

A mettere a rischio il nostro giro vita è (anche) il cibo da asporto. Sempre più in voga e soprattutto comodo. Pensiamo a quante nuove società fanno servizio a domicilio… Fino a qualche anno fa, ti sentivi fortunato se la pizzeria di fiducia ti portava a casa la margherita, nei giorni di pioggia battente.

Dati alla mano, ad usufruire maggiormente dei take away sono le persone socialmente svantaggiate, quelle meno istruite o con redditi più bassi. Questo può essere spiegato dal fatto che queste persone tendono ad avere meno tempo per cucinare, meno conoscenze su un’alimentazione sana e meno soldi per alimenti sani. I livelli di consumo di cibo da asporto sono, differentemente da quanto si potrebbe pensare, maggiori nei gruppi svantaggiati e dove, fra i cibi più richiesti ci sono appunto quelli che raddoppiano le probabilità di obesità: le patatine fritte.

A condizionare le nostre abitudini alimentari sono poi i cibi che più facilmente troviamo nell’ambiente in cui viviamo e lavoriamo. Per chi vive o lavora in aree dove le opzioni di cibo sano e fresco latitano, le scelte non salutari sono probabilmente l’opzione più semplice, se non l’unica.

A boicottare le nostre buone intenzioni è anche come il cibo ci viene servito. Il team di iNudgeYou, per esempio, ha condotto alcuni studi proprio in questo senso. A una conferenza, durante la pausa, gli ospiti potevano scegliere tra una mela intera e pezzetti di torta. Quando le mele sono presentate intere, soltanto il 32,9% delle persone le ha mangiate, invece quando sono state presentate tagliate, a sceglierle è stato l’85,3%.

SALE E SALIERE

Abbondare con il sale, se da un lato rende più saporite le pietanze, dall’altro ha ricadute pesanti sulla salute. In Inghilterra, alcune indagini hanno rivelato che venivano consumate ingenti quantità di sale nei locali di fish and chips: in un solo pasto era contenuto quasi la metà dell’apporto quotidiano consigliato. Per ridurne la quantità, sono state realizzate delle saliere con soli cinque fori (quelle tradizionali ne contengono diciassette): l’obiettivo era correggere il gesto automatico di ogni consumatore.

Prima di decidere quale fosse la quantità ideale di fori, gli architetti delle scelte (coloro che progettano i nudge) hanno esaminato campioni di fish and chips dei vari ristoranti della zona, per determinare come il design delle saliere potesse risolvere il problema. Con questo nuovo tipo di contenitori si poteva diminuire l’apporto del 60% senza sacrificare le esigenze del consumatore.

SE FOSSE LA FORMA DEL BICCHIERE A FARCI UBRIACARE?

Un altro piccolo trucco è porre attenzione alla forma del bicchiere. I ricercatori dell’Università di Bristol ritengono che beviamo più velocemente da bicchieri dalla forma ricurva rispetto a quelli dritti. Nel corso di un esperimento, infatti, i soggetti impiegavano sette minuti a bere mezza pinta di birra contenuta in un bicchiere ricurvo, contro gli undici impiegati quando la stessa quantità era servita in bicchieri dritti.

Un’altra spintarella è non servire vino in cartone e prediligere le bottiglie. Perché le bottiglie, essendo in vetro, sono trasparenti e permettono di vedere la quantità consumata, e di fissare degli indicatori, cosa non possibile con i contenitori in cartone.

OGNI GIORNO PRENDIAMO 200 DECISIONI SUL CIBO

Se sei stato assalito dallo sconforto, devo comunicarti che in media ogni giorno prendiamo duecento decisioni che hanno a che fare con il cibo, la maggioranza delle quali inconsce.

Ecco perché gestirle tutte è impresa ardua, però possiamo guidarle.

Per esempio possiamo iniziare a usare piatti più piccoli, che contengono una porzione di cibo più piccola di quella usata di solito. Tanto non sentirai la fame. A dimostrarlo, un esperimento in cui i partecipanti, divisi in due gruppi, venivano invitati a consumare una zuppa.

Un gruppo mangiava da una scodella che impercettibilmente e a loro insaputa, continuava a riempirsi di minestra da un foro nascosto sul fondo. L’altro gruppo invece consumava il cibo da una tazza normale. Chi mangiava dalla tazza truccata ha consumato il 73% di zuppa in più senza saperlo. Ma soprattutto non si sentiva più sazio di chi aveva invece mangiato una dose normale di zuppa. Il calcolo calorico non era stato fatto dalla pancia ma dagli occhi.

Ci sono molti modi per vivere una dieta. L’importante è scegliere un modo semplice e che nel possibile ci faccia anche divertire, giocando con le diverse opzioni che i Nudge ci mettono a disposizione. Se vuoi saperne di più ho racchiuso tanti altri consigli nel libro Nudge Revolution. La strategia che permette di rendere semplici scelte complesse.

Se accetti la spinta, potresti accorgerti che tante scelte possono essere davvero molto facili… anche seguire una dieta.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista DF Magazine: https://magazine.darioflaccovio.it/2020/02/06/come-fare-la-dieta-nudge-avere-forma-smagliante/