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Come PROTEGGERSI da un CAPO senza ETICA: il POTERE dei SIMBOLI

Ti sei mai sentito così tanto sotto pressione, al lavoro, da dover compromettere i tuoi principi?Il tuo capo ti ha mai chiesto di mentire per coprire la sua assenza, quando in realtà era a sciare (o chissà dove per l’ennesima volta) o un responsabile, di chiudere un occhio di fronte a un rimborso spese ritoccato?

Se ti è capitato, o ti capita in modo ricorrente, non sei il solo. Un sondaggio condotto dall’Ethics Resource Center, stima intorno al 10% i lavoratori che dichiarano il fenomeno. Questo ci dice che sono molti di più!

Ricordo, al proposito, un progetto di Business Ethics, realizzato una dozzina di anni fa con una società di consulenza Big4 che avrebbe dovuto avere l’obiettivo di aiutare le aziende a riconoscere, mitigare e quindi prevenire i comportamenti non etici. Progetto complesso che, quando lo si presentava, ci veniva risposto “noi non abbiamo questo problema”… un negare oltre l’evidenza anche quando fatti infelici di cronaca portavano tragicamente le stesse organizzazioni sui Media. Ci dissero che eravamo dei visionari, e forse è così. Oggi le cose non vanno molto meglio ma il carewashing aiuta a ritoccare il fenomeno e farlo sembrare meno grave.

A interessarsi ai comportamenti non etici sul lavoro al fine di prevenirli è Maryam Kouchaki docente di management alla Kellogg School. Con i suoi studi ha dimostrato che esporre un simbolo etico, come un’icona religiosa, un poster di una figura spirituale come Gandhi o una citazione eticamente rilevante, può fungere da amuleto contro la corruzione e i comportamenti non etici sul posto di lavoro. Funziona sia perché stimola la consapevolezza etica sia perché crea la percezione che chi lo espone possieda una indiscussa levatura morale.

In pratica, è l’esempio perfetto dell’applicazione dell’effetto priming nel nudging. Come quella di invadere il parco cittadino di immagini di grandi occhi per spingere le persone a raccogliere da terra le deiezioni dei cani…  credetemi, funziona!

L’idea è che essere autenticamente etici, esserne orgogliosi e dimostrarlo può avere ricadute positive“.

EFFETTO PRIMING: COME L’AGLIO CONTRO I VAMPIRI

Applicare immagini di spiccato senso etico può spingere verso comportamenti più corretti, lo stesso, o quanto meno, molto simile, ragionamento utilizzato dagli abitanti dei villaggi medievali che per tenere lontani i vampiri, si adornavano di totem magici.

A testare la correlazione fra le soluzioni nei due contesti, e cercare di quantificare l’efficacia protettiva di crocefissi e acqua santa, con Kouchaki si è unita Sreedhari Desai della Kenan-Flagler Business School dell’UNC. Hanno condotto sei diversi studi, pubblicandone i risultati in un articolo: Moral Symbols: A Necklace of Garlic Against Unethical Requests.

Continuiamo a sentire storie di persone che dicono di aver dovuto fare cose non etiche per mantenere il lavoro, perché è stato chiesto loro di farle e sentivano di non poter dire di no. Volevamo capire se c’era un modo sottile ma efficace per dire di no e per prevenire situazioni così difficili“.

DENARO VS ETICA

Il primo simbolo morale testato da Desai e Kouchaki è stata una semplice citazione accanto alla firma di un’e-mail. Hanno utilizzato il simbolo come parte di una simulazione chiamata Deception Game, progettata per creare un incentivo finanziario a mentire.

Ai partecipanti allo studio è stato detto di essere il leader del loro gruppo. Dovevano quindi chiedere ai loro collaboratori di agire per loro. Quando i ricercatori hanno incluso una citazione etica: “Meglio fallire con onore che avere successo con la frode“, hanno osservato due potenti effetti: la citazione ha effettivamente ridotto la probabilità che il leader scegliesse di mentire. Ma l’effetto più sorprendente si è verificato quando il leader ha deciso di mentire anche dopo aver visto la citazione: a quel punto, le probabilità che il collaboratore scegliesse di mentire, su richiesta del leader, sono scese da 1 su 2 a 1 su 4.

Desai e Kouchaki hanno trovato risultati simili usando altri simboli etici, come delle t-shirt. Hanno confrontato gli effetti di una maglietta con il testo “YourMorals.com” con un’altra t-shirt con la scritta “YourMoney.com“. Il sottile indizio sull’etica nella prima maglietta ha reso di nuovo i leader non solo meno propensi a imbrogliare, ma anche molto meno propensi a coinvolgere la persona che presentava il simbolo.

I risultati delle simulazioni di ricerca sono promettenti. Ma funzionano nel mondo reale? Per scoprirlo, Desai e Kouchaki hanno raccolto dati in India, dove i simboli di stampo etico sono comuni sul lavoro. Ne hanno osservato un’ampia varietà: icone di Krishna, del Buddha e della Vergine Maria, rosari, citazioni dal Corano e altri. Indipendentemente dal tipo di simbolo, i dipendenti che li mostravano erano considerati più morali e, cosa più importante, segnalavano meno casi di richieste non etiche da parte dei loro supervisori rispetto a coloro che non mostravano alcun tipo di simbolo etico.

QUINDI PERCHÉ I SIMBOLI ETICI FUNZIONANO?

Funzionano perché aumentano la consapevolezza morale. Ognuno di noi è soggetto a pregiudizi e limitazioni che ci portano a ignorare le dimensioni etiche delle nostre decisioni. Ma piccole spinte gentili ci aiutano a ricordare di preoccuparci dell’etica, e non solo degli utili trimestrali.

La seconda ragione per cui i simboli funzionano è che inviano agli altri il messaggio che l’etica è importante per la persona che li mostra, e si può attribuire a questa persona un’alta levatura morale. Questa ipotesi può portare un supervisore a concludere che una persona etica non è propensa a soddisfare una richiesta non allineata ai suoi valori.

La ricerca evidenzia il fatto che il nostro carattere influenza coloro che ci circondano in modi sottili, gentili ma importanti, persino in coloro che hanno più potere e autorità di noi.

I simboli etici hanno anche un altro vantaggio: sottolineano che “la paura di ritorsioni è la ragione principale per cui i dipendenti sono generalmente riluttanti a segnalare atti illeciti sul lavoro… Un ampio corpus di ricerche riconosce quanto sia difficile ‘dire semplicemente di no’ a un capo“. Il potere dei simboli risiede nel fatto che operano senza la nostra consapevolezza cosciente. E non ci rendono solo più facile dire di no a un capo; spesso fanno in modo che non dobbiamo farlo.

SOLUZIONI

Il lavoro di Desai e Kouchaki suggerisce che può essere utile mettere in evidenza un simbolo etico: perchè aumenta la consapevolezza etica del capo e può anche ridurre la probabilità che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico.

Ecco come farlo:

Autentico, visibile, rispettoso. Il tuo simbolo perché venga percepito come etico, deve essere autentico, quindi assicurati che rappresenti in modo significativo i tuoi valori. Deve essere coerente con le tue azioni. Se mostri un simbolo in modo non autentico, trasmetterai il messaggio sbagliato. Infine, scegli un simbolo che sia rispettoso degli altri. Non sottovalutare l’importanza di scegliere attentamente il tuo simbolo e di conoscere il tuo pubblico. Sebbene il tuo simbolo riguardi te, dovrebbe comunque mostrare rispetto per gli altri.

I simboli etici possono aiutare, ma bisogna comunque essere preparati. Tieni presente che nessun simbolo etico può eliminare del tutto le richieste non etiche. Nella migliore delle ipotesi, i simboli riducono il rischio che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico. In quanto tali, non sono un sostituto della preparazione a fare la cosa giusta attraverso la formazione e le prove per un’azione etica. È meglio usarli come complemento, non come sostituto, di metodi più tradizionali.

CONCLUDENDO…

  • I simboli etici che mostriamo possono ridurre i comportamenti non etici nelle persone che ci circondano, compresi i nostri supervisori, capi, ecc.
  • I supervisori che chiedono ai subordinati di fare qualcosa di non etico hanno meno probabilità di scegliere un subordinato che esibisce un simbolo etico.
  • I simboli funzionano perché accrescono la consapevolezza etica e inviano segnali sul carattere morale delle persone che li ostentano.

ABILI a MENTIRE e poi a DIMENTICARE

La disonestà è un profumo nuovo appena acquistato. Le prime volte che lo applichi avverti per intero l’intensità della sua essenza. Man mano che i mesi passano lo percepisci sempre meno e per sentirlo sei costretto ad aumentare la dose che metti addosso, con il rischio di eccedere in modo sproporzionato.

Con la disonestà avviene lo stesso, come ci dicono le Neuroscienze.

In un esperimento condotto da Dan Ariely e pubblicato su Nature Neuroscience, a 80 persone è stata data l’opportunità di mentire ancora e ancora su un compito finanziario al fine di guadagnare denaro a spese di un’altra persona. Si è così scoperto che le persone iniziavano con piccole bugie, ma lentamente, nel corso dell’esperimento, mentivano sempre di più.

Al di fuori del laboratorio, ci sono molte ragioni per cui la disonestà può intensificarsi – gli incentivi potrebbero aumentare o potrebbe essere necessario nascondere bugie pregresse. Esaminare l’attività cerebrale delle persone mentre commettono atti disonesti ha rivelato un processo biologico chiamato adattamento emotivo.

COSA HANNO A CHE FARE LE EMOZIONI CON LA DISONESTA’?

La brutta sensazione che proviamo quando pensiamo di barare, spesso ci impedisce di mettere in atto l’intenzione. In sua assenza, si hanno maggiori probabilità di mentire. In uno studio, a un gruppo di studenti sono state somministrate delle sostanze beta-bloccanti in pillole che hanno ridotto l’eccitazione emotiva poco prima di sostenere un esame. Questi studenti avevano il doppio delle probabilità di copiare all’esame rispetto coloro i quali avevano ricevuto un placebo.

L’esperimento ha mostrato che la rete emotiva del cervello risponde sempre meno a ogni ulteriore menzogna. Maggiore è il calo della sensibilità del cervello alla disonestà, più persone mentiranno la prossima volta che ne avranno la possibilità. In altre parole, le persone che si sono adattate alla propria disonestà si tratterranno meno dal dire bugie più grandi appena ce ne sarà l’occasione.

L’attività cerebrale non è semplicemente diminuita nel tempo. La riduzione della sensibilità era proporzionale alla menzogna.

Un modo semplice di pensare a questo processo è di confrontarlo con un profumo. Immagina di aver acquistato un nuovo profumo. Appena lo indossi, puoi rilevarne l’essenza, l’intensità, ma passati alcuni mesi difficilmente riesci a percepirlo come invece avveniva i primi tempi. Quindi inizi ad applicarlo in modo più libero, sconcertato dal fatto che nessuno siederà accanto a te sul treno o in metro… Questo accade perché i neuroni nel bulbo olfattivo si desensibilizzano al profumo.

La disonestà ripetuta è un po’ come un profumo che applichi ripetutamente. Inizialmente la risposta ai tuoi atti di disonestà è forte, ma con il tempo diminuisce. Come gli studenti che assumono i beta-bloccanti, la tua capacità di essere disonesto aumenta.

Questo può sembrare desolante. Tuttavia, i dati hanno anche rivelato un lato positivo della natura umana. I partecipanti avrebbero potuto imbrogliare molto di più, ma non lo hanno fatto. Anche quando imbrogliando avrebbero avvantaggiato loro stessi.

La disonestà e il comportamento non etico sono molto diffusi, lo sappiamo bene. La stima della disonestà solo negli Usa vale 1 trilione di dollari in tangenti, 270 miliardi persi a causa di entrate non dichiarate e $ 42 miliardi in taccheggio e furti da parte di dipendenti. 

Un bel po’ di soldi se pensiamo che invece uno dei desideri che più esplicitano gli esseri umani è farsi percepire morali dagli altri.

 

In un sondaggio  sul World News and World Report, di qualche anno fa, è stata posta la seguente domanda: “Chi pensi sia più probabile che arrivi in paradiso?” Secondo gli intervistati, l’allora presidente Bill Clinton aveva una probabilità del 52%; la star del basket Michael Jordan il 65%; e Madre Teresa il 79%.

Chi ha ottenuto il punteggio più alto? Chi ha votato se stesso: la maggior parte degli intervistati pensava di essere migliore di Madre Teresa per quanto riguarda la probabilità di salire in paradiso.

La ricerca sulla moralità mostra che abbiamo una visione eccessivamente ottimistica della nostra capacità di aderire agli standard etici. Crediamo di essere intrinsecamente più morali degli altri, che in futuro ci comporteremo in modo più etico degli altri e che le trasgressioni commesse da altri sono moralmente peggiori delle nostre.

PERCHE’ CI COMPORTIAMO IN MODO DISONESTO?

Un risultato della  ricerca è che le persone si impegnano in comportamenti non etici ripetutamente nel tempo perché la memoria delle loro azioni disoneste viene offuscata nel tempo. Le persone hanno maggiori probabilità di dimenticare i dettagli dei propri atti non etici rispetto ad altri incidenti, inclusi eventi neutri, negativi o positivi, nonché le azioni non etiche degli altri.

Chiamiamo questa tendenza amnesia non etica: una menomazione che si verifica nel tempo nella nostra memoria per i dettagli del nostro comportamento non etico passato. Cioè, impegnarsi in comportamenti non etici produce veri e propri cambiamenti nel ricordo di un’esperienza nel tempo.

Il nostro desiderio di comportarci eticamente e di considerarci morali ci dà una forte motivazione a dimenticare i nostri misfatti. Sperimentando un’amnesia non etica, possiamo far fronte al disagio psicologico e al disagio che proviamo dopo esserci comportati in modo non etico.

UNA AMNESIA DA NON DIMENTICARE

Quando sperimentiamo un’amnesia non etica, le ricerche dimostrano che diventiamo più propensi a imbrogliare di nuovo.

In ulteriori studi è stato offerto a oltre 600 partecipanti l’opportunità di imbrogliare e dichiarare erroneamente le loro prestazioni per denaro extra. Pochi giorni dopo, è stata dato loro un’altra possibilità per farlo. Il tradimento iniziale ha provocato un’amnesia non etica, che ha guidato un comportamento disonesto aggiuntivo sul compito che i partecipanti hanno completato pochi giorni dopo.

Poiché spesso ci sentiamo in colpa e pieni di rimorso per il nostro comportamento non etico, potremmo aspettarci che queste emozioni negative ci impediscano di continuare ad agire in modo non etico. Non è così. La disonestà è un fenomeno diffuso e comune .

Che ci piaccia o no, siamo disonesti più di quanto ricordiamo e se non mettiamo consapevolezza e una giusta dose di autocritica l’unico risultato che otterremo è diventare via via più disonesti, dimenticandocene. Proprio come avviene con il nostro profumo preferito.

COSA fai QUANDO TROVI un PORTAFOGLIO?

Ho una buona notizia: siamo altruisti più di quanto pensiamo.

Mi spiego meglio: se perdete il portafoglio avete, in Italia, il 50 per cento di possibilità che vi venga restituito. Soprattutto se è pieno di soldi.

In pratica, più il portafoglio è ricco, più i cittadini di molti Paesi del mondo si sentono in dovere di restituirlo al legittimo proprietario. La percentuale è variabile e cresce in funzione della quantità di denaro presente all’interno. A dirlo una ricerca pubblicata su Science: condotta dalle Università di Zurigo, Michigan e Utah, che ha preso in esame 355 città di 40 nazioni in tutto il mondo, Italia compresa.

Camuffati da anonimi passanti, i ricercatori sono entrati in banche, teatri, musei, uffici postali, hotel e stazioni di polizia, per consegnare un portafoglio, dicendo di averlo trovato casualmente per strada e chiedendo di restituirlo al proprietario di cui erano presenti alcuni documenti personali, una lista della spesa e a volte dei contanti di valore variabile.

Contro ogni previsione, è emerso che le persone interpellate provavano a rintracciare il proprietario del borsellino soprattutto se conteneva denaro: la probabilità era tanto più alta quanto maggiore era il valore economico in esso contenuto. In media, su scala globale, è stato restituito il 40% dei portafogli vuoti, il 51% di quelli che contenevano pochi spiccioli e il 72% di quelli più gonfi di denaro.

Un risultato assolutamente controintuitivo, perché l’etica in questo caso va a confliggere con l’interesse economico personale. Secondo ulteriori indagini, la maggior parte delle persone si comporta onestamente, soprattutto davanti a grandi cifre, non per altruismo, ma perché teme di essere considerata al pari di un ladro, distruggendo l’immagine auto percepita di sé come di una persona onesta.

Lo studio è illuminante insomma, perché mostra che sebbene la violazione di una regola comporti un vantaggio economico, come il guadagno di una somma di denaro, d’altra parte determina anche un costo personale che non tutti e non sempre siamo disposti a pagare: la distruzione dell’immagine che abbiamo di noi stessi come di persone oneste.

Il nostro comportamento è tanto più etico quanto più è integerrima l’immagine che ci siamo costruiti e questo dipende dal posto e dal modo in cui siamo cresciuti e dagli insegnamenti che abbiamo ricevuto. E’ un fatto culturale.

Dallo studio emerge poi una vera e propria classifica dei Paesi più onesti: in Svizzera è stato restituito l’80% dei portafogli con soldi; in Cina poco più del 20%, l’Italia è a metà strada, intorno al 50%, insieme a Grecia e Cile.

WHISTLEBLOWER – Il DISOBBEDIENTE ETICO che (non) c’è in NOI

Disobbediente è il titolo di un libro.

Un libro che parla di un uomo che paga migliaia di multe al figlio con la carta aziendale. Ed è anche la storia di tanti altri uomini preoccupati che quel senso di etica che con tanta solerzia hanno trasmesso ai figli, possa tradursi in un biglietto di sola andata verso marginalità e ostracismo.

Il disobbediente, colui che rivela e denuncia comportamenti scorretti messi in atto dall’azienda in cui lavora e che rappresentano un pericolo o un danno per la comunità, è detto in gergo whistleblower (letteralmente soffiatore di fischietto): una persona in carne ed ossa che si trova a fronteggiare un’autorità superiore, che decide consapevolmente di sfidare, rischiando probabili ritorsioni e la perdita del lavoro stesso. Una mosca bianca.

Quanti sono i disubbidienti in ogni realtà lavorativa e istituzionale che preferiscono tacere, conformarsi piuttosto che esporsi in un’ottica etica e non morale? Direi pochi. Talvolta è più facile non vedere e assecondare i comportamenti del “capo”, del “guru” di turno, per non rischiare di venir banditi, rifiutati e persino esclusi… dal gruppo. Sì, perchè il nostro bisogno di appartenenza (per un atavico senso di sopravvivenza) è quanto mai vivo e reclama attenzione in ogni momento. Per diventare realmente dei disubbidienti occorre l’indipendenza morale, un valore che va oltre le convenzioni e una forza in se stessi non così comune.

I DATI ITALIANI

In tema di Business Ethics l’Italia risulta allineata ai Paesi dell’Europa continentale, anche se il divario con il Regno Unito resta accentuato: sono il 47% dei lavoratori italiani ad avere la percezione che la propria organizzazione adotti un Codice Etico contro l’86% nel Regno unito.

Negli ultimi anni è notevolmente diminuita (-21%) la consapevolezza dell’esistenza di programmi formali di etica aziendale. In calo inoltre la percentuale dei dipendenti convinti dell’onestà praticata nella loro organizzazione (73% nel 2015 contro l’86% del 2012). In aumento i dipendenti consapevoli dell’esistenza di condotte improprie (attualmente il 32% contro il 27% del 2012). Sono 4 su 10 i lavoratori italiani che si preoccupano delle conseguenze prodotte dalle condotte improprie praticate.

Due sembrano essere gli elementi che maggiormente costituiscono le maggiori variabili in gioco: la crisi, perché l’insistenza sulle politiche di austerity ha ridotto l’attenzione delle aziende verso l’etica e il problema del sistema giuridico di riferimento.

COSA SPINGE IL DISOBBEDIENTE A PARLARE?

Cosa spinge il disubbidiente a non prediligere il silenzio?

Lo psicologo Stanley Milgram ha dimostrato che vi sono fattori di natura situazionale che favoriscono massicciamente comportamenti acquiescenti verso un’autorità riconosciuta, anche di fronte a richieste lesive dell’integrità altrui. Bocchiaro e Zimbardo, in due recenti lavori, allargando il focus degli studi sull’obbedienza all’autorità, si sono concentrati sulla figura del disobbediente (ossia colui che rifiuta di eseguire le consegne dello sperimentatore) e del vero e proprio whistleblower.

Nel primo studio ai soggetti veniva richiesto di criticare il proprio compagno di prove (in realtà complice dello sperimentatore) in modo progressivo e sempre più oltraggioso, per ogni errore commesso, con una penalità fittizia nel caso di abbandono, in modo da rendere più difficile e sconveniente la disobbedienza; il compagno avrebbe reagito agli insulti con una serie programmata di lamenti e segnali di disagio.

Le misure di personalità, in questo caso, non giustificherebbero gli alti livelli di disobbedienza riscontrati (70% dei partecipanti), che sarebbero invece riconducibili tanto a fattori situazionali, quali la vicinanza tra i partecipanti e la distanza fisica tra questi e l’autorità, quanto ad elementi di carattere valoriale: in altre parole, considerando prioritaria la tutela dell’integrità del compagno, i disobbedienti tendevano a percepire come necessaria una propria azione diretta ed immediata, attribuendo priorità a segnali di minaccia, pericolo o immoralità.

Risultati analoghi sono emersi nel secondo studio, nel quale la consegna era scrivere, dietro ricompensa, commenti favorevoli circa la necessità di un esperimento sulla deprivazione sensoriale, potenzialmente pericoloso per l’incolumità psicofisica dei partecipanti, in modo che il Comitato Etico dell’Università approvasse il progetto. In una stanza separata era posizionato un computer da cui scrivere e una cassetta della posta dove eventualmente segnalare al Comitato la potenziale pericolosità dell’esperimento in forma anonima. Tale accorgimento era finalizzato a fornire la possibilità di disobbedire attivamente all’autorità, oltre che il mero evitamento del compito. Anche in questo caso chi sceglieva di denunciare mostrava un orientamento preferenziale verso valori morali internalizzati (E’ anti-etico, va contro i miei principi) piuttosto che verso istruzioni esterne. Sarebbe dunque tale orientamento ad influire sul senso di responsabilità individuale di fronte a situazioni non ordinarie e conflittuali, e sulla conseguente probabilità di comportamenti di disobbedienza attiva, a prescindere dalla presenza di premi o punizioni materiali.

Anche studi di natura cross-culturale (Morselli, 2009) evidenziano il ruolo dell’atteggiamento valoriale del singolo nei confronti dell’autorità. In questi veniva distinta un’obbedienza acritica – caratterizzata cioè da un’aderenza incondizionata alle regole imposte dall’alto – e un’obbedienza responsabile, basata invece su un senso interno di responsabilità personale (Bierhoff e Auhagen, 2001): mentre nella prima condizione le misurazioni correlavano positivamente con dimensioni di autoritarismo, nel secondo caso gli individui sembravano mostrare un orientamento più favorevole verso l’autonomia personale, la prosocialità, l’inclusività sociale e un maggiore coinvolgimento personale in azioni di protesta e disobbedienza attive, quali petizioni, boicottaggi, occupazioni di edifici…

Obbedienza e disobbedienza non sembrerebbero dunque costrutti completamente antitetici ma andrebbero inquadrati come elementi complementari, mediati, tra gli altri fattori, dall’orientamento valoriale del singolo: per dirla con Bocchiaro e Zimbardo, il punto non è disobbedire o meno all’autorità, ma a quale tipo di autorità scegliere di obbedire.