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Una REGINA ROSSA (Attraverso lo specchio) per rimanere COMPETITIVI

“Qui, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto”,

dice la Regina Rossa ad Alice, in Attraverso lo specchio, il romanzo di Lewis Carroll.

Scrittore, Carroll, capace di far diventare i suoi racconti dei classici senza tempo ma anche di influenzare Leigh Van Valen, biologo statunitense, che da quella frase estrasse una vera e propria ipotesi #evolutival’ipotesi della regina rossa.

Nelle sue ricerche, Van Valen aveva notato che in nessuna situazione una specie poteva considerarsi protetta dall’estinzione. L’evoluzione è un processo continuo e tutti gli esseri viventi devono continuamente rispondere alle pressioni del proprio ambiente se non vogliono scomparire.

In sostanza, nessuna specie può permettersi il lusso di smettere di adattarsi senza correre il rischio di compromettere il proprio posizionamento competitivo e la propria sopravvivenza. Ogni essere vivente infatti, è costantemente alla ricerca di opportunità per acquisire un vantaggio e quindi l’adattamento è guidato anche dalla necessità di reagire ai cambiamenti di coloro con cui si condivide l’ambiente.

CORRERE PER RIMANERE NELLO STESSO POSTO

Nel campo della #biologia, gli organismi non decidono consapevolmente di adattarsi: un leone, osservando le antilopi, non pensa: “mannaggia, stanno correndo più veloci del solito. Devo allenarmi per migliorare il mio stato di forma.” Quello che accade in natura è che solo le antilopi più veloci riescono a sopravvivere e riprodursi. Questo metterà pressione ai leoni in quanto solo quelli più veloci riusciranno a catturare le prede e a continuare la specie.

Nel lungo periodo, la velocità media di antilopi e leoni aumenterà, poiché la pressione su prede e predatori è costante. Questa è l’essenza dell’Effetto Regina Rossa: costringere gli organismi a un adattamento continuo semplicemente per sopravvivere.

L‘equilibrio non esiste o, meglio, ci troviamo di fronte a un equilibrio dinamico. L’equilibrio c’è, ma cambia sempre. L’evoluzione è come una reazione a catena nel teatro dell’ecologia.

LA REGINA ROSSA E LA STRATEGIA AZIENDALE

L’Effetto Regina Rossa può essere utilizzato come modello per interpretare le pressioni competitive a cui sono soggette le aziende. Van Valen aveva osservato che la pressione sulle specie è costante e non connessa alla longevità: “indipendentemente da quanto una specie è sopravvissuta, l’incapacità di continuare ad adattarsi può comunque portarla all’estinzione”.

Nella competizione tra aziende, a volte correre veloci non basta neanche per rimanere fermi. Per progredire e innovare bisogna correre in maniera diversa dalla concorrenza, inventandosi nuovi mercati, cambiando le regole del gioco.

L’intensità dell’Effetto è quindi un fattore fondamentale per valutare il posizionamento di un’attività imprenditoriale, nonchè uno dei parametri chiave utilizzati da Munger e Buffett per decidere in quali aziende investire.

Secondo Munger esistono delle forze competitive distruttive (il suo modo per definire l’Effetto Regina Rossa) che nel lungo periodo mettono in pericolo la sopravvivenza di gran parte delle aziende.

Per questo Munger e Buffett hanno quasi sempre evitato settori caratterizzati da un Effetto Regina Rossa troppo intenso. Quando non hanno seguito questa regola, hanno subito perdite importanti: è il caso dell’investimento nel settore tessile, che Buffett considera uno dei suoi errori più importanti.

Tutti gli investimenti per ridurre i costi furono inutili perché anche tutti i competitor fecero lo stesso con il risultato che a ridursi furono solo i prezzi. E quindi dopo ogni giro di investimenti tutti i giocatori si ritrovarono con più soldi sul piatto e con gli stessi rendimenti anemici. Il classico esempio dell’Effetto Regina Rossa a massima potenza!

In ogni caso, per contrastare l’Effetto Regina Rossa presente in varie intensità in tutti i settori, le aziende devono sviluppare dei vantaggi competitivi, che Munger e Buffett definiscono moats, fossati, per difendersi dalle incursioni esterne. Questi fossati devono essere continuamente allargati per assicurare una protezione sostenibile nel tempo, altrimenti gli invasori troveranno, prima o poi, il modo di superarli.

Le aziende migliori, quindi, sono quelle che non solo sono in grado di costruirsi un fossato, cioè un vantaggio competitivo, ma lavorano in maniera incessante per allargarlo, cioè continuano ad adattarsi e a evolvere per far fronte alla pressione continua dell’Effetto Regina Rossa a cui sono inevitabilmente sottoposte.

ALTRI MODI PER RACCONTARE LA REGINA ROSSA

In Deep SimplicitJohn Gribbon descrive il principio della regina rossa usando le #rane.

Ci sono molti modi in cui le rane, che vogliono mangiare le mosche, e le mosche, che vogliono evitare di essere mangiate, interagiscono. Le rane potrebbero sviluppare lingue più lunghe, per catturare le mosche; le mosche potrebbero evolversi in un volo più veloce, per scappare.

Le mosche potrebbero sviluppare un sapore sgradevole o espellere veleni che danneggiano le rane e così via. Sceglieremo una possibilità. Se una rana ha una lingua particolarmente appiccicosa, troverà più facile catturare le mosche. Ma se le mosche hanno corpi particolarmente scivolosi, troveranno più facile scappare. Immagina una situazione stabile in cui un certo numero di rane vive in uno stagno e mangia ogni anno una certa proporzione delle mosche.

A causa di una mutazione, una rana sviluppa una lingua extra appiccicosa. Andrà bene, rispetto ad altre rane, e i geni per lingue extra appiccicose si diffonderanno nella popolazione di rane. All’inizio viene mangiata una percentuale maggiore di mosche. Ma quelli che non vengono mangiati saranno quelli più scivolosi, quindi, i geni per una maggiore scivolosità si diffonderanno nella popolazione di mosche. Dopo un po’, nello stagno ci sarà lo stesso numero di rane di prima e ogni anno verrà mangiata la stessa proporzione di mosche. Sembra che non sia cambiato nulla, ma le rane hanno lingue più appiccicose e le mosche corpi più scivolosi.

Siddhartha Mukherjee, nel suo libro vincitore del premio Pulitzer The Emperor of All Maladies, descrive la Regina Rossa nel contesto della droga e del cancro.

Nell’agosto 2000, Jerry Mayfield, un poliziotto quarantunenne della Louisiana con diagnosi di leucemia mieloide cronica, iniziò il trattamento con il Gleevec, un farmaco antitumorale specifico per quella malattia. All’inizio la risposta fu rapida e positiva. Il poliziotto si sentiva bene, in forma. Ma durò poco. Tre anni dopo, la malattia si è ripresentata e pur aumentando e aumentando ancora la dose di Gleevec, non ci fu risposta. Il cancro di Mayfield era diventato resistente alla terapia…

Si era avviata una battaglia perpetua con un combattente instabile. Quando la malattia è riuscita a rendere innocuo il farmaco, solo un nuovo trattamento di nuova generazione avrebbe potuto contrastare la leucemia.

In Attraverso lo specchio di Lewis Carroll, la Regina Rossa dice ad Alice che il mondo continua a muoversi così velocemente sotto i suoi piedi che deve continuare a correre solo per mantenere la sua posizione. Questa è la situazione con il cancro: “siamo costretti a continuare a correre solo per stare fermi”.

CONCLUSIONI

L’Effetto Regina Rossa ci ricorda che non possiamo mai rilassarci (troppo) neanche quando abbiamo acquisito una posizione di forza rispetto ai nostri concorrenti o il contesto in cui lo caliamo: la pressione è costante e se rimaniamo fermi, prima o poi qualcuno o qualcosa troverà il modo per raggiungerci e superarci. Non è la forza che ci consente di sopravvivere nel lungo periodo, ma la capacità di adattamento.

Ps. Attenti a non confondere la Regina Rossa con la Regina di Cuori del libro precedente Alice’s Adventures in Wonderland. Le due regine condividono le caratteristiche di essere rigorose e associate al colore rosso. Tuttavia, le loro personalità sono diverse “Ho immaginato la Regina di Cuori come una sorta di incarnazione di una passione ingovernabile: una Furia cieca e senza scopo. La Regina Rossa l’ho immaginata come una Furia, ma di un altro tipo; la sua passione deve essere fredda e calma – formale e severa, ma non scortese; pedante al decimo grado, l’essenza concentrata di tutte le governanti!

E’ PIU’ PERICOLOSA LA PAURA O IL COVID-19?

Con il proliferare dei casi da Covid-19, si fa pandemica anche la paura. E sebbene ognuno di noi la viva e la manifesti in modo differente, sottovalutarne gli effetti è rischioso.

Come ricercatrice che studia il cervello e i comportamenti umani, spesso ho visto quanto può essere dannoso il contagio da paura. Se da un lato ci aiuta a sopravvivere, dall’altro ci può far fare cose insensate, che vanno in direzione contraria alla ragione per la quale questa emozione esiste.

Pensiamo a un branco di antilopi nella savana africana. Quando viene percepita la presenza di un leone, l’antilope si blocca per darsi subito dopo, alla fuga, seguita dall’intero branco. I loro cervelli sono programmati per rispondere alle minacce dell’ambiente e garantire la sopravvivenza della specie. Olfatto, vista, udito segnalano la presenza del predatore e innescano automaticamente la loro unica possibile soluzione: l’immobilità e subito dopo la fuga.

Responsabile di questo comportamento è l’amigdala una ghiandola sepolta nella profondità del lobo temporale del cervello, nonché la chiave per rispondere alle minacce: riceve le informazioni che le derivano dai 5 sensi, e inoltra il segnale a diverse aree del cervello, compresi ipotalamo e tronco encefalico, per coordinare le risposte di difesa specifiche: immobilizzazione, attacco o fuga.

Condividiamo, di fatto, gli stessi comportamenti automatici e inconsci di molte specie animali. Di fronte a una minaccia possiamo scappare, combattere o rimanere paralizzati.

Ma la paura del contagio è qualcosa di più.

La fuga da parte delle antilopi non inizia nel momento dell’attacco da parte di un leone, bensì quando ne viene percepita la vicinanza. Ed è il comportamento terrorizzato dell’antilope che per prima intercetta il predatore, a condizionare il comportamento dell’intero branco.

Noi, esseri umani, non ci comportiamo in modo tanto diverso. Infatti, sappiamo inconsciamente intercettare la paura sul volto delle altre persone, in 33 millesimi di secondo, prima ancora cioè di averne piena consapevolezza.

L’area del cervello responsabile di tutto questo è la corteccia cingolata anteriore (ACC): circonda il fascio di fibre che collegano l’emisfero destro e sinistro del cervello. Quando vediamo una persona esprimere paura, l’ACC si attiva e porta l’informazione all’amigdala che a sua volta fa partire la risposta: attacco, fuga o paralisi.

Intercettare la paura in modo tanto rapido è utile dunque per aiutare un intero gruppo a preservarsi, a sopravvivere. Ed è tanto più solida, questa abilità, fra persone dello stesso gruppo rispetto a quella fra estranei.

CONTROLLARE LA PAURA, SI PUO’?

Il contagio della paura si verifica automaticamente e inconsciamente, rendendone così difficile il controllo. Questo fenomeno spiega gli attacchi di panico di massa che possono verificarsi durante i concerti, i grandi eventi sportivi o le pandemie. Una volta che la paura si innesca tra la folla – per esempio quando qualcuno pensa di aver sentito uno sparo – non c’è tempo o modo per verificare le fonti. Le persone devono fare affidamento l’una sull’altra, proprio come fanno le antilopi. La paura viaggia da una all’altra, infettando ogni individuo mentre procede, come un effetto domino. Tutti iniziano a correre per difendere la propria vita. Troppo spesso, il panico di massa finisce in tragedia.

Il contagio da paura inoltre non richiede un contatto fisico per attivarsi. Bastano immagini terrificanti trasmesse da Media e Social per far crollare la fiducia nelle persone. Inoltre, mentre le antilopi della savana smettono di correre quando sono a distanza di sicurezza dal predatore, la sensazione di pericolo immediato, negli esseri umani non diminuisce altrettanto facilmente.

Non c’è modo di impedire il contagio da paura – dopo tutto è automatico – ma si può fare qualcosa per mitigarlo. Gli scienziati hanno scoperto che la presenza di una persona calma e sicura può fare la differenza. Ad esempio, un bambino terrorizzato da uno strano animale si calmerà se è presente un adulto calmo.

FATTI E PAROLE: UGUALMENTE IMPORTANTI

Inoltre, le azioni contano più delle parole ma le parole e le azioni devono essere coerenti fra loro: spiegare alle persone che non è necessario se si è sani, indossare una maschera protettiva, mostrando immagini di individui che indossano tute ignifughe è contro produttivo. L’unico risultato che otterremo è quello di spingere le persone a fare scorta di maschere perché vedono figure autoritarie che le indossano quando affrontano un pericolo invisibile.

Anche se i fatti contano più delle parole, le parole mantengono ancora una certa importanza. Le informazioni devono essere chiare, coerenti e univoche. Quando si è sotto stress, è più difficile elaborare dettagli e sfumature. Mentire e omettere dati aumenta l’incertezza e l’incertezza aumenta paura e ansia.

L’evoluzione ha indotto gli esseri umani a condividere minacce e paure. Ma ci ha anche fornito la capacità di affrontare insieme queste minacce e a contenerle se ci ricordiamo di usare la nostra razionalità.

OBIETTIVI, CREDENZE e LIBERO ARBITRIO… Il nuovo anno è alle porte!

Life is what happens to you while you’re busy making other plans” cantava John Lennon, in Beautiful boy, il brano dedicato al figlio. La vita è proprio ciò che ti succede mentre sei impegnato a fare altri progetti…

Progetti è, guarda caso, la parola chiave di ogni fine e inizio anno, periodo durante il quale si rimugina sui fallimenti e/o si pianifica il futuro. Se ci pensiamo bene però, la nostra vita non si svolge secondo i nostri desiderata. Difficilmente riusciamo a prevedere ciò che ci renderà felici, poiché perdiamo molto di quello che ci accade sequestrati dalle attese che facciamo su ciò che deve accadere e su noi stessi. Molto di ciò che viviamo e sentiamo si colloca al di fuori della portata della coscienza.

Molti dei proposti, così come i bilanci, sono pieni di giudizi. Si soffermano su ciò che non è andato o mancato. Ecco perché alcuni studi dicono che i buoni propositi per il nuovo anno hanno in genere vita breve. Sono perfettamente inutili.

Al di là della bontà della pianificazione degli obiettivi, che sinceramente mi hanno un po’ stancato, non posso non pensare al libero arbitrio e a quanto sosteneva il biologo molecolare britannico, Francis Crick secondo cui “le neuroscienze contraddicono la nozione di libero arbitrio”. Anche il semplice atto di prendere un foglio dalla scrivania, è sostenuto e preceduto da complessi processi biochimici che avvengono al di sotto del livello di coscienza.

LIBERO ARBITRIO

Per quanto dibattuta e ambigua, la nozione di libero arbitrio è incentrata sul valore della libertà di scelta e sull’idea che chiunque, attraverso l’impegno e il sacrificio, possa raggiungere i propri obiettivi a prescindere dalle condizioni iniziali. Ma fin dalle teorie sull’evoluzione elaborate da Charles Darwin, è noto almeno dalla seconda metà del diciannovesimo secolo che le stesse facoltà intellettive alla base delle nostre scelte razionali siano almeno in parte un’eredità biologica e che, allo stesso tempo, il loro sviluppo sia condizionato da molteplici fattori ambientali. A seconda di quale dei due aspetti si consideri prioritario rispetto all’altro, la discussione tra addetti – neuroscienziati, filosofi, neurofisiologi e psichiatri – tende a oscillare tra due poli opposti rappresentati dal concetto di “natura” (l’eredità biologica) e da quello di “cultura” (i condizionamenti ambientali).

Tornando a Crick “Sei consapevole di una decisione, ma non sei consapevole di ciò che ti fa prendere la decisione. Ti sembra ovvio, ma è il risultato di cose di cui non sei a conoscenza”. Sapendo che sono in molti a negare il libero arbitrio, Crick studiò con attenzione gli esperimenti condotti dallo psicologo Benjamin Libet. Libet aveva chiesto alle sue cavie di premere un pulsante in un momento a loro scelta, segnando il momento della decisione su un orologio. Le loro onde cerebrali, monitorate da elettroencefalogramma (EEG), mostravano un picco di attività quasi un secondo prima che i soggetti decidessero di premere il pulsante. Questo e altri risultati mostrano, secondo Crick, che le nostre decisioni coscienti sono letteralmente ri-pensamenti.

Grazie a ulteriori esperimenti che non vi tedierò illustrandoli, due scienziati cognitivi Daniela Schiller e David Carmel scoprirono che “nel cervello ci sono neuroni che sanno che stai per fare un movimento un secondo prima che lo sappia tu stesso (Scientific American). Si potrebbe essere tentati di concludere che il libero arbitrio è un’illusione”.

Ovviamente questi esperimenti sono insufficienti per sondare il libero arbitrio, poiché le cavie avevano già preso la decisione di premere il pulsante; hanno solo scelto quando farlo. Ci sarebbe da sorprendersi se i sensori EEG non avessero trovato un’anticipazione neurale di quella scelta.

Diversi sono gli studi con elettrodi impiantati nel cervello che rivelano come inganniamo noi stessi nel pensare di avere il controllo quando non lo abbiamo. Gli scienziati, per esempio, possono far alzare il braccio di un paziente stimolando elettricamente un punto nella corteccia motoria. Spesso il paziente sostiene che intendeva sollevare il braccio e addirittura inventa un motivo. Nel libro The Illusion of Conscious Will, lo psicologo Daniel Wegner chiama confabulazioni queste spiegazioni deliranti successive all’evento.

Noi tutti confabuliamo. Facciamo passivamente ciò che ci è stato detto di fare e crediamo a quello che ci è stato detto di credere da genitori, formatori, sacerdoti e leader politici, e ci convinciamo che è una nostra scelta. Sovvertiamo la nostra volontà per arrivare in modo insincero a una conclusione scontata, fallendo nell’agire sulla base delle nostre risoluzioni. A volte agiamo seguendo un impulso – paura o rabbia – senza pensare alle conseguenze delle nostre azioni. Ma non significa che la volontà non esista.

Il filosofo Daniel Dennett nel libro L’evoluzione della libertà osserva che il libero arbitrio non è “quello che la tradizione afferma che sia: un potere quasi divino di astrarsi dal tessuto causale del mondo fisico”. Il libero arbitrio è la capacità di percepire, riflettere e mettere in atto delle scelte; infatti, scelta, o addirittura libertà, sono sinonimi ragionevoli di libero arbitrio.

Dennett chiama il libero arbitrio “una creazione evoluta delle attività e delle credenze umane”, che l’umanità ha acquisito recentemente come conseguenza del linguaggio e della cultura. Il libero arbitrio è una proprietà variabile che può crescere e diminuire sia negli individui sia nelle società: più scelte possiamo percepire e fare, più libertà avremo.

Noi, a nostra volta, siamo dipendenti dal libero arbitrio. Il concetto di libero arbitrio è alla base di tutta la nostra etica e morale: ci costringe ad assumerci le nostre responsabilità invece di consegnare il nostro destino ai nostri geni o a un piano divino. Le scelte, fatte liberamente, sono ciò che dà significato alla vita. Provate a dire ai prigionieri di Guantanamo o ai civili afgani, siriani e via dicendo in fuga da bombe e proiettili che le scelte sono illusorie. “Scambiamoci i ruoli”, potrebbero rispondere, “visto che non avete nulla da perdere.”

Alcuni studi inoltre dimostrano che “Le persone portate a credere meno al libero arbitrio hanno maggiore probabilità di comportarsi immoralmente”. E’ come se le persone private della convinzione della propria autodeterminazione smettessero allo stesso tempo di sentirsi responsabili delle proprie azioni.

ILLUSIONE O REALTA’?

Pur essendo ragionevolmente convinto che il libero arbitrio sia un concetto infondato, Saul Smilansky, docente di filosofia all’Università di Haifa, in Israele, sostiene che sia meglio vivere con l’“illusione” che esista qualcosa di simile, piuttosto che favorire la diffusione del determinismo. Secondo Smilansky, l’idea che ciascun individuo non abbia possibilità di autodeterminarsi non soltanto potrebbe creare i presupposti di una tendenza alla deresponsabilizzazione, ma annullerebbe automaticamente anche qualsiasi idea di merito individuale.

Se un uomo rischiasse la vita paracadutandosi in territorio nemico per portare a termine una coraggiosa missione. In seguito la gente dirà che non ha avuto scelta, che l’impresa, per dirla come Smilansky, è stata soltanto “il dispiegamento di un dato di fatto”, e perciò difficilmente encomiabile. E così come l’eliminazione delle responsabilità eliminerebbe un ostacolo ad agire in modo malvagio, l’eliminazione degli elogi eliminerebbe un incentivo a fare le cose bene.

Secondo i sostenitori di questa forma di “illusionismo” filosofico, la fiducia nel libero arbitrio potrebbe spronarci a tirare fuori il meglio da noi stessi. E Smilansky, che ritiene questa fiducia del tutto connaturata nell’essere umano, crede che le istituzioni fondate sul presupposto stesso del libero arbitrio – tutte quelle che amministrano la giustizia, per esempio – siano assolutamente necessarie per evitare di finire nell’estrema barbarie.

MEGLIO SENZA?

Altri studiosi, non credono che abbandonare il concetto di libero arbitrio possa avere effetti nocivi sul grado di civiltà di una società. Il neuroscienziato Sam Harris, crede che sarebbe molto meglio farne a meno, e che le nostre credenze debbano sempre seguire ciò che si dimostra essere vero. “Come società, dovremmo conoscere quali sono le leve da azionare per incoraggiare le persone a essere le migliori versioni di sé che possono essere”. Secondo lui, se accettassimo che “il comportamento umano emerge dalla neurofisiologia” potremmo più facilmente comprendere cosa davvero spinge le persone a compiere azioni dannose e provare a impedire che questo accada, piuttosto che usare punizioni come il carcere come deterrente.

Per comprenderne i benefici, prosegue Harris, basta confrontare due catastrofi di scala simile: le reazioni alle morti causate dall’uragano Katrina furono molto diverse dalle reazioni alle morti causate l’11 settembre. Nel primo caso, nessuno se la prese con le tempeste tropicali o dichiarò una Guerra al Clima, e la risposta collettiva all’uragano poté concentrarsi sulla ricostruzione e sulla prevenzione. Nel secondo caso, l’ottenebramento generato dal desiderio di vendetta portò a un’ulteriore, non necessaria, perdita di innumerevoli vite.

A voi, in un tempo di bilanci e costruzione di nuove aspettative, lascio l’ultima parola, la possibilità di credere o meno alle mie tante confabulazioni e delineare ciò che è scienza e ciò che è mal riposta credenza.

Buon anno!