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FEEDBACK: li si DESIDERA RICEVERE più di quanto PIACCIA DARLI

Qualche tempo fa, un amico mi chiese un #feedback su un suo speech dove erano presenti un centinaio di persone.

Non è stato un bell’intervento. Non era a suo agio sul palco e nemmeno dimostrò di conoscere a fondo ciò di cui parlava, senza contare che era inciampato in errori grossolani che avevano suscitato l’ilarità di molti dei presenti.

Cercai di svicolare ma vista l’insistenza, mi lasciai convincere a dirgli cosa, a mio avviso, non aveva funzionato. Soprattutto perché uno dei suoi obiettivi a breve termine avrebbe dovuto essere quello di tenere conferenze.

A convincermi a dare un feedback, oltre alla sua insistenza fu anche un episodio che mi capitò ai tempi in cui ancora insegnavo all’università. Colloquiando dei candidati per alcuni progetti, mi trovai di fronte una donna preparata ed entusiasta, che però attribuì una ricerca a un docente sbagliato dell’università in cui lavoravo. Non volendo metterla in difficoltà non dissi nulla. Scoprì poi che rifece lo stesso errore con un altro membro della commissione. Questo mi dispiacque molto poiché se le avessi dato il feedback quando ne ho avevo avuto la possibilità, avrebbe potuto correggersi e non perdere una chance importante per la sua carriera.

Entrambe le esperienze mi hanno lasciato l’amaro in bocca. Difficile però capire quando è utile tacere e quando intervenire, pur sapendo che i feedback sono importanti e, se ben dati, fondamentali per migliorarsi.

Analizzando scientificamente la questione è emerso che spesso le persone preferiscono non dare feedback, anche se viene espressamente loro richiesto.

Secondo le ricerche, le persone esitano e/o evitano di fornire feedback per tre motivi principali:

–      Per non ferire i sentimenti degli altri o metterli in imbarazzo

–      Per non essere visti come portatori di cattive notizie

–      Poiché non riconoscono quanto e quando gli altri vogliono davvero un feedback.

Il terzo motivo è stato frutto di non pochi studi sia sul campo sia in laboratorio, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sul Journal of Personality and Social Psychology.

A essere testato è stato il desiderio di dare e ricevere feedback in ogni tipo di situazione e contesto, con estranei e amici intimi; quando il feedback era meno consequenziale (come pronunciare male una parola) e più consequenziale (come commettere un grave errore durante un’intervista).

I ricercatori hanno scoperto che, in quasi tutte le situazioni, le persone hanno sottovalutato quanto gli altri volessero un feedback.

Uno degli esperimenti ha richiesto di inviare degli assistenti in un campus. Ognuno di loro aveva tracce di cioccolato sul volto e una barretta di cioccolato in mano. Gli assistenti hanno avvicinato degli studenti e chiesto loro di partecipare a un sondaggio: su 155 persone che hanno ammesso di aver notato le tracce di cioccolato, solo quattro (2,6%) hanno informato l’assistente.

Quando in seguito è stato loro chiesto il perché del mancato feedback, il 40% ha detto che non pensavano che il ricercatore volesse saperlo. Il 37% dei commenti si è invece concentrato su motivi: “Non erano affari miei” e “Non volevo essere scortese” e il restante 23%: “Ero di fretta” o “Il ricercatore sembrava occupato.”

Sottovalutare il desiderio di feedback

Non solo non abbiamo l’abitudine di dare feedback ma siamo anche poco bravi a capire quando il nostro interlocutore lo desidera. Tra i destinatari del feedback, l’86% ha dichiarato di volerlo ricevere, ma solo il 48% ha voluto darlo.

Come capire quando gli altri vogliono il nostro feedback?

Con un gruppo di partecipanti online assegnati in modo casuale a dare o ricevere feedback, sono stati testati due interventi.

In uno, è stato chiesto ai partecipanti incaricati di fornire feedback, di mettersi nei panni dell’altra persona prima di prevedere quanto l’altra persona desiderasse un feedback. “Se tu fossi stato in quella situazione, quanto pensi che avresti voluto che qualcuno te ne parlasse?”

Nell’altro intervento, è stato chiesto loro di immaginare che qualcun altro (non loro) avrebbe dato alla persona un feedback.

In entrambe le condizioni, dopo che i partecipanti avevano svolto l’esercizio assumendo la prospettiva dell’altra persona o dissociandosi, è stato chiesto di prevedere quanto l’altra persona desiderasse un feedback.

Si è così scoperto che entrambi gli interventi hanno reso i potenziali donatori di feedback più accurati nel prevedere il desiderio di feedback dei riceventi, ma è il primo tipo di intervento a dimostrarsi più efficace.

Tuttavia, nessuno dei due interventi ha colmato completamente il divario tra le stime dei donatori e le relazioni dei riceventi. Anche dopo essersi messi nei panni altrui, le persone continuavano a sottovalutare il desiderio di feedback dei destinatari, sebbene le loro previsioni fossero più vicine alle valutazioni dei destinatari rispetto alle stime di coloro che fornivano feedback nel gruppo di controllo.

In altre parole, gli interventi hanno aiutato, ma ancora non hanno colmato del tutto il divario tra il previsto desiderio di feedback da parte di chi dà e quello effettivo di chi riceve.

Dovremmo o non dovremmo dare feedback?

Gli studi suggeriscono che le persone desiderano il nostro feedback più di quanto pensiamo. Se dovessimo esitare sull’opportunità di dare un feedback a qualcuno, utile è provare uno dei due interventi citati. Questo potrebbe aiutare a capire quanto l’altra persona desideri il feedback e potrebbe renderci più propensi a fornire effettivamente il nostro parere.

Forse se mi fossi messa nei panni della candidata da colloquiare, l’avrei corretta e ne sarebbe stata grata. Nel primo caso invece, forse mi sarei accorta che la richiesta del mio amico non era tanto di un feedback quanto di un incoraggiamento. A prescindere.

E tu, che rapporto hai con i feedback?

fonti

  • Abi-Esber, N., Abel, J., Schroeder, J., Gino, F. (2022). “Just wanted to let you know…” Underestimating others’ desire for constructive feedback. Journal of Personality and Social Psychology, 123(6), 1362–1385.
  • Abel, J., Vani, P., Abi-Esber, N., Blunden, H., Schroeder, J. (2022). Kindness in Short Supply: Evidence for Inadequate Prosocial Input. Current Opinion in Psychology, 101458.
  • Moyer, M. W. (2022). The Case for Criticism. The New York Times.

QUANDO è più FACILE LASCIARE (l’azienda) che RIMANERE. 5 campanelli d’allarme e altrettante soluzioni…

Un collaboratore scontento che lascia l’azienda, per cercare condizioni più favorevoli altrove, ha un costo. Un costo che diventa un problema quando a seguirne l’esempio è più di uno solo.

Secondo l’ US Bureau of Labor Statistics, a settembre, 4,4 milioni dipendenti statunitensi (il 3% della forza lavoro) hanno lasciato il posto di lavoro. Ad agosto, il 65% dei dipendenti statunitensi era alla ricerca di un nuovo posto, il doppio rispetto a maggio. Con le dimissioni in aumento in Europa e in Asia, il fenomeno riguarda tutti. E non pensiate che sia tutta colpa della pandemia.

I problemi sono più complicati di così e sono iniziati molto prima dell’arrivo del Covid-19.

PERDITE INEVITABILI?

Paola, manager di grande capacità e dal roseo futuro, dopo che il suo responsabile viene promosso ad altro ruolo, si ritrova un nuovo capo che sebbene voglia (all’apparenza) supportarla allo stesso modo del predecessore, non ha però la stessa autorevolezza e capacità. Paola si ritrova così oberata di lavoro, con scarse proiezioni di carriera e una comunicazione via via più vacua e inconsistente, fatta di menzogne, cose non dette e una inutile perdita di tempo.

L’epilogo è segnato: stanca e insoddisfatta, Paola decide di guardarsi intorno e rapidamente riceve da un concorrente un’ottima proposta con tanto di promozione e un notevole aumento di stipendio.

Era una perdita che l’azienda poteva evitare?

La risposta è scontata. Nonostante ciò, errori di questo tipo si ripetono di continuo nelle organizzazioni. Spesso incapaci di comprendere i motivi per cui le persone se ne vanno. O più semplicemente poco interessate a sondarli e dimentiche di quanto sia costoso sostituire i talenti.

Secondo il Work Institute’s  2017 Retention Report si stimano costi fino al 33% dello stipendio annuale di un lavoratore, un terzo dello stipendio annuo. Senza contare il rischio reputazionale.

Sicuramente è molto più economico e lungimirante monitorare le esperienze dei collaboratori e investire in soluzioni.

Ecco cinque campanelli d’allarme a cui prestare attenzione e cinque soluzioni.

5 CAMPANELLI DI ALLARME

Perdita di fiducia.

Più volte ho visto i migliori talenti perdere fiducia nel management a causa di opportunità non concretizzate e a cui sono seguiti i silenzi più imbarazzanti. Indipendentemente dalle ragioni, la persona inizia a chiedersi quanto sia utile fidarsi. Ancor più quando  non c’è una persona di riferimento a cui rivolgersi per capire cosa non ha funzionato e negoziare eventuali azioni correttive, senza parlare delle prospettive relative al futuro. Senza mentori e riferimenti fidati, un dipendente deluso può trovare più facile rivolgersi ad aziende esterne che stanno esprimendo interesse piuttosto che restare e sperare in tempi migliori.

Comprendere i motivi per cui le persone se ne vanno è il primo passo per impedire agli altri di seguirli. Sostituire il talento è costoso se si considerano i costi di reclutamento, formazione e la perdita di produttività.

 

Percorsi di carriera poco chiari. 

L’incertezza genera domande.

Quando le persone non riescono a vedere cosa verrà dopo è inevitabile che inizino a dubitare delle scelte fatte. Non sapere quale tipo di esperienze sono necessarie, cosa serve per avanzare, o come colmare il gap (a parte chiedere al proprio capo), i collaboratori fanno fatica a costruire un piano a lungo termine. E iniziano a chiedersi se sono nel posto giusto. Il richiamo di un’altra azienda o cultura diventa più difficile da ignorare.

 

Squilibrio tra lavoro e vita privata. 

Quando i dipendenti sentono che le loro ambizioni personali sono troppo difficili da raggiungere, iniziano a pensare di andarsene. “Non mi dispiace fare sacrifici, ma i compromessi stanno producendo i benefici che mi aspettavo?” Quando questa domanda emerge, spesso le persone sono già con un piede sulla porta.

 

Mancanza di cura manageriale. 

Il management spesso mostra grande attenzione per le prestazioni e poca per le persone che forniscono i risultati. Sentirsi trascurati è mortale per la motivazione e distruttivo per le prestazioni a lungo termine.  Raramente i responsabili si interessano alla vita personale dei team. Troppi pochi manager mostrano genuina comprensione e apprezzamento per ciò che è servito per ottenere risultati importanti. Il risultato? Le persone sentono che tutto ciò che conta è la loro performance.

 

Comportamenti autolesionistici. 

Ognuno di noi ha abitudini e preferenze nel modo in cui lavora e coopera con gli altri. Alcune di queste sono funzionali, altre possono creare muri e barriere e finiscono con l’etichettarci, senza contare che sono difficili da correggere.

Il feedback è essenziale per creare un team di lavoro produttivo e sano. Ad esempio, i dipendenti più giovani hanno spesso bisogno di trovare colleghi che li aiutino su progetti complessi. E poiché tutti sono sempre piuttosto occupati, la modalità predefinita è quella di spingere gli junior ad arrangiarsi da soli e sviluppare comportamenti competitivi, talvolta fino all’eccesso. Se questi atteggiamenti non vengono corretti, e il leader non interviene, è più facile per chi non si ritrova in quello stile, andarsene che cercare di adattarsi. E al tempo stesso quel leader tenderà ad attrarre solo un certo tipo di collaboratori poco inclini alla collaborazione e allo spirito di gruppo. Con tutte le conseguenze che conosciamo.

 

5 SOLUZIONI

Monitora i comportamenti. 

Organizza riunioni periodiche per valutare come si sentono le persone. Incoraggia i manager a condividere di più aspetti della loro vita personale con il team e a mostrare interesse per la vita degli altri. E presta particolare attenzione quando ti riorganizzi o quando arriva un nuovo responsabile.

 

Parla di opzioni di carriera. 

Crea momenti in cui le persone possano discutere della loro carriera, dei loro fallimenti e dei loro successi e possano scambiarsi esperienze. È utile condividere lo stato dell’arte di progetti, programmi di formazione, empowerment, ecc. Infine, rendi le promozioni e i passaggi di carriera più trasparenti, compresi i processi, i criteri e le tempistiche.

 

Insisti sui piani di sviluppo per ogni membro del team. 

Aiuta le persone a fornire feedback utili, a creare piani di sviluppo misurabili e che facciano la differenza. Incoraggia tutti a parlare di ciò su cui stanno lavorando in modo che lo sviluppo continuo diventi una norma. Oltre ai percorsi di promozione, investi sullo sviluppo e sulla crescita.

 

Parla di esempi reali di resilienza. 

Poiché il benessere è nella mente dei dipendenti, è fondamentale che i manager controllino come stanno andando i team e agiscano in modo appropriato. Istruisci le persone su come dire no in modi che non danneggeranno la loro reputazione. Prendi, ad esempio, in considerazione la possibilità di vietare le e-mail al di fuori dell’orario di lavoro, come è stato adottato in Portogallo, o quanto meno di stabilire delle priorità. Se hai iniziato a limitare le ore per l’invio di e-mail o a impostare orari in cui non è possibile tenere riunioni, assicurati che i tuoi manager e i loro collaboratori seguano tali direttive.

 

Tieni d’occhio i talenti chiave. 

Non aspettare che qualcosa vada storto per avviare gruppi di confronto, perché a quel punto sarà troppo tardi, qualcuno se ne sarà già andato o la fiducia che nutre per te o l’azienda sarà già stata messa in discussione.

Se il management di Paola avesse eseguito solo alcuni di questi passaggi, molto probabilmente lei sarebbe ancora in azienda. Un po’ più di apprezzamento per il lavoro che stava facendo e i risultati che stava producendo, maggior confronto e feedback avrebbero fatto un’enorme differenza per lei.

Nel migliore dei casi, trattenere le persone è una sfida. Oggi è fondamentale che le aziende facciano il possibile per rimanere attraenti per le persone che hanno già reclutato e formato. È essenziale concentrarsi su come i manager si relazionano con i team e su come l’organizzazione crea piani di carriera e pratiche di sviluppo. Anche se, alla fine, fondamentale è considerare le persone come individui complessi. Aiutare le persone a gestire gli inevitabili alti e bassi della carriera e a destreggiarsi tra le loro vite e le ambizioni personali con obiettivi chiari, misurabili e condivisi di lavoro li incoraggerà a rimanere. O almeno, non andarsene, alla prima occasione.

QUATTRO CONSIGLI per MEGLIO GESTIRE i CONFLITTI sul LAVORO

 

Noi, dobbiamo parlare…

Non è sempre facile mantenere la calma di fronte a un collega che con sguardo accigliato, le braccia incrociate e una richiesta perentoria, entra con violenza nel nostro ufficio. Eppure essere in grado di calmare la situazione e gestire il conflitto può fare la differenza. In termini di performance ma soprattutto di benessere.  Anche perchè un luogo di lavoro privo di conflitti non esiste. Per fortuna. Il confronto e talvolta anche lo scontro, se finalizzati, possono essere un modo per migliorare e crescere.

Occupandomi di emozioni, decisioni e comportamenti sono spesso chiamata a risolvere conflitti interni ai team e attraverso microinterventi aiuto le persone a gestire situazioni stressanti e complesse.

Ecco riassunte quattro strategie scientificamente supportate che possono tornare utili.

 

ASCOLTA

Chi è arrabbiato, di solito, ha un problema che deve risolvere. La cosa migliore da fare è ascoltare attentamente e cercare di comprendere la situazione, lasciando pregiudizi e giudizi al di fuori del contesto. Anche se ti rendi conto che non è un problema che si può risolvere sull’immediato, ascoltare è il modo migliore per andare avanti.

Le persone si sfogano perché vogliono sentirsi ascoltate o perché cercano empatia. In uno studio che ha analizzato la rabbia dei clienti nei confronti di alcuni prodotti, la semplice ricezione di una risposta da parte della azienda in questione, anche se non risolveva il problema, aumentava la fedeltà del cliente al brand[1]. Questo vale anche per te. Resisti alla tentazione di intervenire, alzare i toni o avviare un dibattito e fai del tuo meglio per essere presente. Nella maggior parte dei casi, il contenuto della tua risposta è meno importante del tuo semplice ascolto.

 

RICONOSCI COME SI SENTE L’ALTRA PERSONA

Per aiutare l’altro a sentirsi ascoltato, fai capire di aver compreso il suo punto di vista. Usa un linguaggio che rifletta ciò che ti è stato detto e fai attenzione a non minimizzare le emozioni. Sottovalutare i sentimenti è molto più costoso che sopravvalutarli[2].

Se il tuo collega è turbato, non dire: “Capisco che ti senti a disagio“. È meglio esagerare: “Capisco che sei devastato“.

Se anche tu sei contrariato per il problema in questione, riconosci apertamente i tuoi sentimenti: “Capisco perfettamente che sei arrabbiato. Sono ugualmente frustrato e condivido la tua preoccupazione“. Sopprimere le emozioni non aiuta: quando cerchiamo di nascondere come ci sentiamo, gli altri lo percepiscono e il rischio è che si sentiranno meno a loro agio con noi[3].

 

CONCENTRATI SUI FATTI

Anziché soccombere in pensieri negativi o sentirti in colpa (“Sono un collega orribile, ho commesso un errore enorme e questo ha fatto arrabbiare il collega”) prova a mappare i suoi sentimenti. Cerca di capire perché è frustato, adirato, ecc. C’è qualcosa che puoi fare per cambiare la situazione?

Focalizza quindi la tua attenzione sul bisogno che sta dietro le emozioni. Questo ti permetterà di essere più obiettivo e distaccato dalla situazione e proteggere[4] il tuo benessere emotivo.

Ciò che devi tenere a mente è di non prendere sul personale i commenti pungenti. È probabile che la persona si stia semplicemente sfogando e non pensi assolutamente ciò che sta dicendo preso dalla foga del momento.

 

IMPARA DALL’ESPERIENZA E POI VAI OLTRE

Una volta compreso il problema, pensa a come potresti risolverlo. O, se ti rendi conto che hai commesso un errore, chiedi scusa in modo semplice e diretto.

Quando sarai da solo, prenditi qualche minuto per scrivere ogni feedback ricevuto o le lezioni che hai imparato in quel contesto. Può essere difficile elaborare un feedback critico nel momento in cui le emozioni sono alle stelle, quindi impegnati a rivisitare gli appunti a distanza di qualche giorno[5].

Una volta che hai risolto il problema, volta pagina. Tornare sull’argomento e sulla lite può portarti a rimuginare e a nuovi scontri con quegli stessi colleghi proprio a causa delle parole che sono seguite nel momento di crisi.

 

FONTI

[1] https://hbr.org/2018/01/how-customer-service-can-turn-angry-customers-into-loyal-ones

[2] Klein N., Better to overestimate than to underestimate others’ feelings: Asymmetric cost of errors in affective perspective-taking, Organizational Behavior and Human Decision Processes, Vol 151, 2019: 1-15.

[3] Butler E.A., Egloff B., Wilhelm F.H., Smith N.C., Erickson E.A., Gross J.J. The social consequences of expressive suppression. Emotion. 2003 Mar;3(1):48-67.

[4] Shiota M.N., Levenson R.W., Turn down the volume or change the channel? Emotional effects of detached versus positive reappraisal. J Pers Soc Psychol. 2012;103(3):416-429.

[5] Fredrickson B.L., Branigan C., Positive emotions broaden the scope of attention and thought-action repertoires. Cogn Emot. 2005;19(3):313-332.

LE PERSONE NON RESISTONO AL CAMBIAMENTO. RESISTONO A ESSERE CAMBIATE

Uno degli errori più ricorrenti quando si applicano interventi di change management è concentrarsi unicamente sul cambiamento che si vuole ottenere trascurando l’impatto che questo ha sulle persone che lo subiranno.

Se si è troppo concentrati sul piano di azione e poco sulle persone, ci sono buone possibilità che il progetto fallisca.

Uno dei modelli più utili allo scopo è quello di William Bridges.

 

Che cos’è il modello di transizione Bridges?

 Creato dal consulente organizzativo William Bridges, questo modello ha la peculiarità di fare una distinzione tra cambiamento e transizione.

Bridges ha descritto il cambiamento come “un evento esterno che si verifica“. Ad esempio, l’adozione di un nuovo software o il lancio di un nuovo prodotto.

Ciò che le persone attraversano durante questo cambiamento esterno è una “transizione” interna. Il modello di transizione di Bridges si concentra sul processo psicologico che vivono le persone durante il cambiamento e consta di tre fasi.

Se gli step di transizione non vengono affrontati e gestiti, la resistenza al cambiamento può far deragliare il progetto o non produrre il risultato finale desiderato.

Un aspetto chiave è dato dal fatto che l’obiettivo di un progetto di change management di successo non dovrebbe essere il risultato del cambiamento, ma la fine del vecchio processo che le persone devono affrontare all’inizio di quel cambiamento .

Pur essendo simile al modello Lewin, il modello di Bridges è più incentrato sull’individuo e sulle tante emozioni (sia negative sia positive) che possono accompagnare un cambiamento organizzativo.

L’obiettivo è che coloro che facilitano il cambiamento comprendano e affrontino eventuali emozioni negative in modo che possano rimuovere le barriere al cambiamento.

Le fasi della transizione

 

  • Ending: gestire la transizione durante il cambiamento significa capire che inizia con una fine o una perdita. Le persone stanno dicendo addio al modo in cui le cose venivano fatte, il che può comportare sentimenti di rabbia, rifiuto, confusione e frustrazione.
  • Zona neutrale: subentra nel momento in cui le persone, superata la fase di rifiuto, elaborano le nuove informazioni. Questo è un momento di flusso e può includere sentimenti di eccitazione, ansia, resistenza, creatività e innovazione.
  • Nuovi inizi: significa cementare nuovi modi di fare le cose e incorporarli come nuova norma. I sentimenti in questa fase possono comportare sollievo, confusione, incertezza, impegno ed esplorazione.

 

Come si usa il modello di transizione di Bridges per facilitare il cambiamento?

Una volta che sai cosa stanno attraversando le persone, come puoi utilizzare il modello Bridges per facilitare il cambiamento?

COMUNICAZIONE

E’ importante che le persone sappiano quale ruolo svolgono nel cambiamento, in modo che si sentano incluse e apprezzate. Comunicaglielo.

FEEDBACK

Dai alle persone la possibilità di esprimere ciò che sentono riguardo al cambiamento. Entrare in contatto con gli stakeholder, durante il progetto di cambiamento, può aiutarti a essere consapevole in quale fase del modello Bridges si trovano. Ciò ti consentirà di affrontare i sentimenti negativi che potrebbero impedir loro di abbracciare il cambiamento.

MONITORAGGIO

Segui le persone mentre attraversano le tre fasi del modello Bridges in modo da sapere quali piani d’azione potrebbero dover essere messi in atto per gestire la resistenza al cambiamento.

 

E ricorda, le persone non resistono al cambiamento. Resistono a essere cambiate.