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DIO ESISTE, MA NON SEI TU

Tutti ne abbiamo incontrato uno. Almeno una volta. Con il complesso di Dio.
All’inizio, ci può anche essere sembrato divertente… all’inizio…
Poi, più il tempo passava e più quel bisogno di erigersi al di sopra di tutto e tutti, ha cominciato a erodere la nostra pazienza.
Ma a quel punto, talvolta, è troppo tardi…

 

FAUST, HITLER E TANTI ALTRI

Faust vendette l’anima al diavolo per appropriarsi dell’onnipotenza, il potere infinito negato agli esseri umani.
E da lì, i posteri, affamati dello stesso male e desiderosi di superare ogni limite terreno, ne hanno modellato il profilo, questo è infatti il processo evolutivo del nazismo e del suo capo Hitler.
Nei tempi moderni si aggiunge anche l’insoddisfazione di chi non è pago di nulla, vittima dei miraggi del suo desiderio.
Un desiderio che ossessiona l’umanità dalle origini e che ha il suo campione iniziale in Lucifero, che sfida Dio e induce ognuno di noi, a fare altrettanto.
Per alcuni elevarsi al di sopra di tutti si fa necessità, spinti dalla convinzione assolutamente schiacciante che la propria soluzione sia infallibilmente esatta.

 

E questi alcuni sono facili da riconoscere: sono coloro che di fronte a un mondo incredibilmente complicato, sono intimamente convinti di capire come funziona. Tutto.

 

IL COMPLESSO DI DIO

Il Complesso di Dio. E’ questo il nome che veste chi non accetta di sbagliare, di essere fallibile. Eppure è la realtà e difficilmente siamo disposti a concedere potere e credibilità a chi dice di non sapere, nonostante da millenni siano prove ed errori ad aver permesso evoluzione e scoperte scientifiche. Edison con il suo filamento per la lampadina ne è l’emblema. Ma lui aveva quella sensibilità paradigmatica che molti hanno perso: l’umiltà.
In ogni sistema complesso i dati hanno preso il sopravvento sulla sensibilità. Ti mostrano grafici che dovrebbero inquadrare meglio un problema, ma ogni grafico è solo un trucco, l’incapacità di schematizzare il tutto.

 

LA VERA STORIA DI COCHRANE

Prendiamo la storia del medico Archie Cochrane.
Voleva compiere un esperimento:  si chiese se le persone infartuate avessero migliori possibilità di guarigione post infarto, in ospedale o a casa.
Tutti i cardiologi tentano di farlo tacere. Loro sapevano che il posto migliore era l’ospedale, in virtù del complesso di Dio.
Cochrane a conclusione dell’esperimento, convocò i colleghi:
Ho i risultati preliminari che non sono significativi statisticamente. Ma qualcosa abbiamo. Ho scoperto che voi avete ragione e io ho torto. E’ pericoloso per i pazienti riabilitarsi a casa. Dovrebbero rimanere in ospedale”.
I medici cominciarono a lanciare commenti di giubilo.
Te lo avevamo detto che eri immorale, uccidi le persone per fare esperimenti clinici. Ora devi stare zitto”.
Cochrane aspettò che l’ambiente si calmasse e poi:
“E’ molto interessante signori, perchè quando vi ho dato le due tabelle ho invertito i risultati. Ho scoperto che i vostri ospedali stanno uccidendo le persone, e che i pazienti dovrebbero stare a casa. Volete sospendere gli esperimenti adesso o volete aspettare di avere risultati più significativi?”.
Cochrane faceva quel genere di cose. E il motivo per cui faceva quel genere di cose è perché aveva capito che ci si sente molto meglio a dire:
“Qui nel mio piccolo mondo, sono un Dio, capisco tutto. Non voglio che le mie opinioni vengano sfidate. Non voglio che le mie conclusioni siano messe alla prova”.
E’ rassicurante.
Cochrane capì che l’incertezza, la fallibilità, l’essere sfidati, è doloroso. E qualche volta bisognerebbe affrontare la realtà.
Così come è dolorosa la vita di Bucky Cantor in Nemesi di Roth, forte di una idea delirante di onnipotenza. Segnato, per tutta la vita, dalla tragica perdita della madre, morta mettendolo alla luce. Rimarrà per sempre interiormente legato alla convinzione di essere l’autore, insieme a Dio, della malvagità onnipotente e di quella assurda morte.

 

SOCRATE DOCET

Forse andrebbe ricordato a chi vende l’anima al Diavolo per sostituirsi a Dio (e ce ne sono tanti, basta accendere la tv), che il male non ha nulla di sovrannaturale.
Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata, perchè il degrado sembra sempre irreversibile.
Non è neppure questione religiosa. In realtà sono sufficienti umiltà e cultura. Le performance incredibili sono, di fatto, il risultato di tentativi e di errori.
Perché ci sono problemi che non hanno una risposta giusta. Sapere di non sapere… insomma… ma Socrate non sentì il bisogno di vendere l’anima al diavolo…

SCRIVERE per PUBBLICARE è una cosa SERIA

Tutti scrivono. Tutti hanno sempre scritto. Eppure saper scrivere una email o un tema, non è esattamente uguale a scrivere un libro. Tanto è vero che nel campo editoriale si dice spesso “Scrivere è per tutti, pubblicare no”.

Scrivere per pubblicare è cosa seria, è un lavoro. Ecco perché tanti, troppi, scelgono di pagare per vedere il proprio pensiero trasformato in libro. Ma non è la stessa cosa.

SCRIVO SOLO QUANDO HO L’ISPIRAZIONE”, mi racconta Dario alla prima sessione di writing coaching, frustrato dal fatto che il suo romanzo è fermo, dopo tre anni, al secondo capitolo.

Purtroppo scrivere non è una illuminazione che arriva benevolente dal cielo, scordatevelo. Tutti i grandi scrittori scrivono ore ogni giorno e ogni giorno cestinano interi capitoli. Ciò in cui  va cercata l’ispirazione è il modo di raccontare una storia che già è stata raccontata in mille altri modi. Tutto è già stato scritto, solo che ne ignoriamo l’esistere.

VOGLIO SCRIVERE, NON LEGGERE”, è invece il rimprovero che mi ha fatto Roberta, quando le ho detto che non si diventa scrittori senza aver macinato un bel po’ di classici, contemporanei e scritti di ogni genere. Inutile dire che ha deciso di cambiare passione.

Stephen King, non a caso ha detto «Se non hai tempo per leggere, non hai tempo (né gli strumenti) per scrivere».

Se lo dice lui… fate bene a credergli.

VALE LA PRIMA”, niente affatto ho replicato a Giulia. Se non hai voglia di rileggere all’infinito ogni parola che scrivi, cambia passione. Non esiste un buon libro che non sia stato vittima di una profonda riscrittura.

«Non esiste una grande scrittura, solo una grande riscrittura». (Justice Brandeis)

VOGLIO AVERE SUCCESSO”, anche in questo caso hai sbagliato passione. Un libro vero non si scrive in una settimana o in un mese. Un libro può richiedere anche anni e spesso è stato rifiutato e rifiutato ancora e scritto e riscritto, prima di iniziare a scalare le classifiche.

E CHE NESSUNO MI CRITICHI”, so io quanto vale il mio scritto.

Pubblicare un libro vuol dire renderlo pubblico e quindi inevitabilmente cadrà vittima di complimenti e critiche. Non necessariamente deve piacere a tutti e come tu hai il diritto di pubblicare, il lettore ha il diritto di dire ciò che pensa.

Se non accetti questo, ecco un altro buon motivo per non scrivere un libro.

“SCRIVERE MI RICHIEDE UNO SFORZO CHE SPESSO RASENTA LA FRUSTRAZIONE”, mi dice avvilito Marco, che pensava di diventare famoso scrivendo libri. Scrivere è uno dei mestieri più solitari e introspettivi che esistano, l’eventuale successo arriva solo dopo, molto dopo e non necessariamente dura nel tempo. Mai scrivere per fare soldi, diventare famosi, far innamorare la diva del cinema del momento. Scrivere deve rendere felici.

MI HANNO SEMPRE DETTO CHE DOVREI FARE LA SCRITTRICE PERCHE SCRIVO BENISSIMO”, mi dice Amalia, quando mi sottopone le bozze del suo manoscritto.

Purtroppo per fare della scrittura una professione, saper scrivere bene è solo una delle tante condizioni, ma non basta. Ci vuole pazienza, meticolosità, determinazione e umiltà. Una viscerale umiltà. Scrivere un libro è qualcosa di totalmente diverso dal mettere in fila qualche frase.

E infine un ultimo consiglio: commettere errori fa parte della natura umana, ma perseverare nei propri sbagli, pensando che smettere di scrivere sia un fallimento, non può che diventare diabolico e dannatamente presuntuoso.

Una STRANA CORSA VERSO la LIBERTA’

Un uomo trova un dado da gioco, e prendendolo in mano sente la necessità di lanciarlo e di comportarsi in base al risultato. “Se esce il 3 faccio quello che farei comunque, mi lavo i denti e vado a dormire; se esce il 2 faccio ciò che vorrei realmente fare: busso alla mia vicina e se apre la porta, ci vado a letto…”

Un’opzione per ogni faccia del dado. Esce il 2 e l’uomo rallenta, sa di trovarsi di fronte un limite, se lo oltrepassa la sua vita rischia di cambiare… ma in fondo la decisione non è sua, è del dado e così asseconda questo destino un po’ forzato.

Quando torna a casa, qualche ora più tardi, si sente cambiato, un cambiamento percettibile ma inarrestabile. Ha fatto qualcosa che mai avrebbe fatto, si sente più coraggioso e più libero.

UNA DOMANDA, SEI SOLUZIONI

Passa il tempo e l’uomo si affida sempre di più al dado. Una domanda, sei soluzioni: tutto attraversa la coscienza del dado. La scelta del film da vedere, cosa mangiare, chi maltrattare o riverire… All’inizio le opzioni sono prudenti, poi si fanno più audaci e tutto ciò che mai aveva considerato, diventa opzione del gioco. Andare in un luogo in cui non andrebbe mai, provare a sedurre una donna pescata a caso sull’elenco telefonico, entrare in un locale per scambisti, andare a letto con un uomo… Anche con i suoi pazienti usa il dado: lui è uno psichiatra.

I risultati sono spaventosi, la moglie lo lascia, l’ordine dei medici lo espelle perchè incapaci di sostenere questa terapia rivoluzionaria, gli amici lo abbandonano.
Ma l’uomo prosegue in questa strana corsa verso la libertà, l’obiettivo è chiaro: non essere più prigionieri di se stessi, poter agire secondo l’umore e il capriccio del momento. “All’inizio, era come marijuana, piacevole e divertente, poi è diventato come l’acido una roba esaltante ma distruttiva”.

Via via che il racconto procede, la tentazione di ricorrere al dado, l’ho avuta anch’io. Lasciando all’inanimato seduttore di numeri, quello che in realtà affiora alla coscienza, senza portarne la colpa. Dire ciò che si pensa o fare ciò che le convenzioni non ci consentono di fare e poter sorridere tirando il dado, una volta di più.
Poi mi sono chiesta se questa apparente anarchia fosse solo un desiderio inespresso di deporre l’affannoso e crudele arbitrio che non abbiamo. Arrestare l’indicibile elenco di dettami che la vita che ci siamo costruiti, ci ha imposto. Ma chi è il dado? Chi rappresenta? La mia coscienza vulnerabile o il mio inconscio soggiogato che militarmente disarciona il cavaliere? Perdere la guida per perdere la strada.

LA LIBERTA’ CHE IL DADO REGALA A CARO PREZZO

Qualcuno nel tempo è morto per la scelleratezza del dado, altri sono rinsaviti, altri non hanno rotto la dipendenza pur ricorrendoci solo per scelte poco pericolose.
Il dado è un mezzo che regala a caro prezzo un sorso di libertà. Mi viene in mente la Merini, la poetessa che non aveva bisogno del dado per uscire dalle convenzioni. Era la prima a considerarsi folle.

Luke, l’uomo del dado, giorno dopo giorno continua ad affidarsi al fato che il dado sceglie in vece sua. Giocherà il gioco dello psicopatico, del debole, dell’aggressivo, del fanatico, dello stupido, del simpatico, dell’affabile, del romantico… fino a uccidere uno sconosciuto. Non verrà mai scoperto.

THE DICE MAN

Chissà chi ognuno di noi chiederebbe al dado di uccidere al posto nostro? Mi chiedo mentre l’ultima pagina consegna al libro la sua integrità. The dice man, l’uomo dei dadi… Sì, perchè l’uomo dei dadi è un racconto, e come nei racconti migliori, poco importa se ciò che vi è narrato sia accaduto veramente. È l’immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un’utopia negativa, più aperta alla distruzione, che alla creazione.

L’uomo dei dadi è un racconto antropologicamente affascinante, denso di psicologia e filosofia. Dove ad aver l’ultima parola è il diktat supremo: «Chiunque può essere chiunque». Se in Fu Mattia Pascal, c’è un annichilimento dell’identità e una ricerca di pura autenticità seppur nel fallimento, qui c’è un disperato bisogno di (auto)distruzione, è il nichilismo estremo il fondo più fondo di questo libro che si legge a strati. E che molto difficilmente si dimentica.

Il FASCINO della SUPERFICIALITA’ e la NUOVA IGNORANZA

Il Presidente del Consiglio Conte ha esaltato l’8 settembre 1943, confondendolo con il 25 aprile 1945: data fondamentale per la rinascita dell’Italia, quando invece fu una catastrofe storica; Di Maio non solo ha spostato Matera dalla Basilicata alla Puglia ma ha anche audacemente dichiarato che il corpo umano è fatto al 90% di acqua.

E mi fermo qui.

Fino a non troppi anni fa, di fronte a tali affermazioni, ci si scandalizzava, additando l’autore di ignoranza. Oggi invece l’ignoranza è considerata orgoglio da establishment e chiunque provi a rimettere le cose in ordine, attribuendo fatti e numeri a chi davvero ne ha proprietà, viene tacciato di complottismo.

REALTA’ VS CONSENSO

Insomma la verità non consiste più nella corrispondenza, nell’accordo, tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica e concettuale (adaequatio rei et intellectus), ma fra la realtà e il consenso. E questo mi riporta immediatamente al totalitarismo, regime capace di mobilitare le masse nel nome di una ideologia o di una nazione.

TOTALITARISMO

Un modo gentile, totalitarismo, per definire il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, per citarne i più recenti, dove il tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita, imponendo l’assimilazione di una ideologia era la norma. Il partito che controlla lo Stato non si limita cioè a imporre direttive, ma vuole mutare radicalmente il modo di pensare e di vivere della società stessa. Ed ecco che il collegamento ad alcuni movimenti politici e guru che si ergono a motivatori diventa automatico.

In fondo la base del totalitarismo recente, non è il prodotto di élite culturali, di conoscenza e sapere ma di grande masse, come ben scriveva Elias Canetti in “massa e potere”, quasi 60 anni fa.

Insomma l’irruzione di internet ha agevolato un fenomeno che ha sostituito la conoscenza e il ragionamento critico con l’informazione di massa, vorace e poco controllabile, capace di manipolare e di rallentare la riflessione. Meglio cercare il consenso piuttosto che la verità.

NUOVA IGNORANZA

Non per nulla si parla di Nuova ignoranza, un fenomeno che premia la performance e dove la trasmissione del sapere diventa occasionale e deformata.  Il presunto pubblico colto si fa padrone della conoscenza, grazie al dilagare di libri di massa dai contenuti incerti e di indubbio valore e alle prediche che si ergono da palchi dove le star di turno accendono gli animi attraverso tecniche manipolatorie. Scambiate per sapere.

Essere conosciuti da chi non si conosce è la nuova definizione di fama.

SO DI NON SAPERE

Il rimedio è semplice: partire dal presupposto di non sapere, e di farsi spiegare le cose che da chi le vive, le conosce per davvero e poi procedere con approfondimenti e interpretazioni. Credere di sapere più degli altri (e quali altri…), la nuova ignoranza appunto è “una forma di prevaricazione culturale, aggressiva quanto il colonialismo”, dice Maurizio Bettini, sapiente filologo, latinista e antropologo italiano che consiglio a tutti di seguire. Attenzione: non è un guru, è “solo” un professore, colto e saggio… non imbonisce, non motiva, ma appassiona. E genera Cultura. Quella vera, di una volta. Priva di effetti collaterali dannosi.

HANDWRITING IS GOOD FOR YOUR CREATIVITY AND MEMORY

Writing down information and appointments by hand (instead of using the keyboard) helps you to remember concepts and notions better.
In adults, because handwriting is slower than typing, it gives you more time  to reflect; whereas in children, it also facilitates the learning process: allowing them to  not only learn to read quicker, once having learned to write by hand, but also to  make them more capable of generating ideas and of conserving data.
In other words, it is not only what we write that counts, but how we do it.
SUPPORTING EVIDENCE
Several studies support this theory, including the one carried out on children by the psychologist of the University of  Washington, Virginia Berninger. The researcher demonstrated that when children write freehand , they not only produce more words more quickly than they do with a keyboard, but also express more ideas, showing greater fluidity of language and information (and neural activation in the areas associated to the work memory and to the networks of reading and writing of the brain), than similar aged children who do their writing with a keyboard.
THE BENEFITS OF HANDWRITING
The benefits of handwriting extend beyond childhood. Two psychologists, Pam Mueller of Princeton and Daniel Oppenheimer of the University of California, Los Angeles, have found that both under laboratory conditions and in the class, students learn better when taking handwritten notes. “Handwriting  – explain the researchers – allows the student to process the content and reformulate it: a process of reflection and handling that may lead to a better understanding and codification in the mind”
Put more simply writing things down on paper “teaches” us to read better, contributes to reinforcing the areas of the  brain where the shape of the letters is recognised or where the sounds are associated to words.
Further confirmation comes from China, where the “pinyin” transcription system of Chinese on QWERTY keyboards is increasingly used: abandoning the handwritten Chinese characters, diagnoses of dyslexia and other reading difficulties are undergoing continual growth. “Typing a letter does not let you really understand the shape and the possible variations that do not change its meaning, like what does actually happen when you learn to write it by hand”, explains Karin James of the University of Bloomington, in Indiana.
Basically: when writing something by hand or with a digital pen, several more parts of the brain “light up” than when we use the keyboard. And using the pen activates deeper areas of the brain and this has positive effects on both memory and on learning in children and in adults.

Annotare informazioni e appuntamenti a mano (anzichè con la tastiera) aiuta a fissare e memorizzare meglio concetti e nozioni.

Negli adulti la scrittura a mano permette, in quanto più lenta rispetto a quella su tastiera, un tempo di riflessione maggiore; mentre nei bambini facilita anche il percorso di apprendimento: permettendo loro non solo di imparare a leggere più velocemente una volta appresa la scrittura a mano, ma anche di renderli più capaci nel generare idee e conservare dati.
In altre parole, non è solo quello che scriviamo che conta, ma come lo facciamo.

EVIDENZE A SOSTEGNO

A sostegno numerosi studi, fra cui quello condotto, sui bambini, dalla psicologa dell’Università di Washington Virginia Berninger. La ricercatrice ha dimostrato che quando i bambini scrivono a mano libera, non solo producono più parole e più rapidamente di quanto facciano su una tastiera, ma esprimono anche più idee, mostrando maggiore fluidità di linguaggio e informazioni (e di attivazione neurale nelle aree associate alla memoria di lavoro e alle reti di lettura e scrittura del cervello), rispetto ai coetanei che affidano il contenuto dei loro scritti alla tastiera.

I BENEFICI DELLA SCRITTURA A MANO

I benefici della scrittura a mano si estendono oltre l’infanzia. Due psicologi, Pam Mueller di Princeton e Daniel Oppenheimer dell’University of California, Los Angeles, hanno riferito che sia nella condizione di laboratorio sia in classe, gli studenti imparano meglio quando prendono appunti a mano. “La scrittura a mano – spiegano i ricercatori – permette allo studente di elaborare i contenuti e riformularli: un processo di riflessione e di manipolazione che può portare a una migliore comprensione e codifica in memoria”
In parole semplici la scrittura su foglio “insegna” a leggere meglio, contribuisce a rinforzare le aree del cervello dove si riconosce la forma delle lettere o in cui si associano i suoni alle parole.
Conferma ulteriore arriva dalla Cina, dove si utilizza sempre di più il sistema “pinyin” di trascrizione del cinese sulle tastiere QWERTY: abbandonando gli ideogrammi scritti a mano, le diagnosi di dislessia e altre difficoltà di lettura sono in continua crescita. «Digitare una lettera non permette di comprenderne davvero la forma e le possibili variazioni che non ne alterano il significato, come invece accade quando si impara a scriverla a mano», spiega Karin James dell’Università di Bloomington, nell’Indiana.
In sintesi: quando scriviamo a mano o con la penna digitale si “accendono” più parti del cervello rispetto a quando utilizziamo la tastiera. E l’utilizzo della penna attiva aree del cervello più profonde e questo ha effetti positivi sia sulla memoria sia sull’apprendimento nei bambini e negli adulti.

COME fare il REGALO PERFETTO? Ce lo dice l’ECONOMIA COMPORTAMENTALE

Qualsiasi cosa farete trovare sotto l’albero, non sarà il regalo ottimale. A meno che non siano soldi.

A dirlo gli economisti comportamentali che, come ogni anno, consigliano di optare per i soldi anziché per doni insensati per la semplice ragione che ricevere banconote permette di acquistare esattamente ciò che si vuole al giusto prezzo.

Difficile dar loro totalmente torto soprattutto quando aperto il pacco ci si trova per le mani l’ennesimo foulard dai colori improbabili o un irritante maglione di lana riesumato da qualche fondo di magazzino.

Se agissimo come perfetti agenti razionali che non siamo, dovremmo regalare e voler ricevere denaro. A supporto gli studi dei ricercatori della Stockholm School of Economics, dove in ‘Conspicuous Generosity‘ (Generosità cospicua) stilano un elenco di ragioni per le quali è meglio scartare banconote, a Natale, piuttosto che regali.

L’acquisto dei regali comporta necessariamente dei rischi: il destinatario potrebbe non gradire il presente e, di conseguenza, il mancato piacere porterebbe all’annullamento del valore del dono; la valuta contante, al contrario, consente di acquistare esattamente ciò che si desidera.

Waldfogel, professore di economia applicata alla Carlson School of Management, ha dimostrato che la somma che vorrebbero ricevere le persone al posto dei regali è inferiore rispetto al valore di uno qualsiasi tra i regali ricevuti.

Il discorso, in soldoni, non fa una piega.

Eppure milioni di persone preferiscono spendere i loro soldi nell’irrazionale paradosso del regalo perfetto e, nella maggior parte dei casi “poco utile”.

Il denaro viene associato a valori negativi, spiegano i ricercatori dell’Università svedese: la presenza di denaro spinge di fatto le persone a comportarsi in maniera sconsiderata. Gli individui sono più generosi quando hanno la possibilità di offrire solo il proprio tempo, piuttosto che l’opportunità di donare denaro.

I regali sono la manifestazione d’affetto nei confronti del prossimo e questo spiega il perché, quasi universalmente, i regali di Natale che richiedono tempo e sforzo siano più graditi rispetto a quelli molto costosi.

Tutti i regali rivelano qualcosa di ciò che colui che dona pensa rispetto al destinatario e sono la manifestazione tangibile della comprensione. Il regalo perfetto è ciò che il destinatario realmente desidera, gradisce ed apprezza e che magari non si comprerebbe mai da solo. Alla fine il dono giusto rimane, a dispetto dell’utopica razionalità, quello fatto con il cuore.

CHRISTMAS BLUES: NON TUTTI A NATALE SONO FELICI…

E’ il tempo dei sorrisi. E’ il tempo della tristezza.

E’ il tempo degli abbracci. E’ il tempo dell’abbandono.

E’ il tempo della compagnia. E’ il tempo della solitudine.

E’ il Natale, sinonimo di festa e di allegria, di obblighi, di cinismo, di isolamento forzato, cercato, fors’anche subito.

Per qualcuno è facile abbandonarsi alla festa, al divertimento tutto eccessi, per qualcuno il monologo ricorrente del rifiuto, del conformismo mette di malumore, e l’abito della tristezza pare l’unica veste che possa indossare.

Lo chiamano, gli americani, Christmas Blues, il leit motiv natalizio, di chi proiettato nei propri guai, nei pensieri negativi, fa fatica a rincorrere il sorriso.

LA MALINCONIA DEL NATALE SI CHIAMA CHRISTMAS BLUES

Ogni giorno la scienza ci dice che sono all’incirca 3 mila i pensieri negativi che ci passano per la mente, e lo stare lontano dal lavoro e dalle diverse frenetiche attività rende più difficile cadere nelle malinconie che abitano la nostra anima. A cui si aggiungono il sole che si fa meno pretenzioso e il clima rigido.

Spesso però l’anticonformismo di chi odia il Natale, è diventano così frequente da fare a botte con chi non perde occasione di raccontare di feste e balli a cui non ha mancato con la diligenza del perfetto soldatino. La giusta misura è sempre quella che sta nel mezzo.

Gli scienziati quando parlano di Christmas Blues, stentano a darne definizione univoca. Per alcuni dipende dalla chimica: alla serotonina che fa le bizze diminuendo, si assocerebbe l’aumento della melatonina, che va ad influenzare i ritmi biologici del sonno e della fame.

Forse, per vincerla sul Christmas Blues basterebbero un po’ più di empatia, sincerità e attenzione al prossimo. La risata si sa è contagiosa e costa poco. Non lesinatela mai, soprattutto nelle tempo delle feste natalizie!

Le TRAPPOLE della (MALA) SCRITTURA

Non è facile far percepire il valore dello scrittore (professionista). Che si tratti di scrivere un articolo, un libro, una Newsletter o post per blog e social. Tutti sanno costruire frasi, ecco perché è facile improvvisarsi copy, ghostwriter e scrittori e millantare capacità letterarie poi non coerenti con i risultati portati a casa e sostenibili nel tempo.

Scrivere male è infatti assai più facile e più frequente dello scrivere bene. Per appropriarti dell’arte della scrittura l’unico modo è leggere tanto e scrivere di più. Migliorarsi è possibile ma non è nè facile nè rapido.

Inoltre ogni volta che ci si cimenta nella stesura di un libro o di un articolo alcune trappole mentali si materializzano come d’incanto per rendere l’impresa ancor più ardua. Quali?

LA TRAPPOLA DELL’AUTOCOMPIACIMENTO

E’ la credenza di avere la verità in tasca, di pensarsi migliori di tutti. E questo porta a una scrittura pessima, autoreferenziale, cieca ai bisogni di chi legge e di chi cerca risposte e soluzioni. Questo stile può funzionare quando si tratta di tomi universitari o di temi complessi, in tutti gli altri casi è un suicidio. La scrittura è ben altro: è la capacità di aprirsi agli altri, di confrontarsi e ascoltare le idee del mondo. Non c’è peggior scrittore di chi crede di essere Tim Roth, Martin Amis o Umberto Eco e di poter dire la sua senza ascoltare nessuno. In questi casi è meglio limitarsi a scrivere un diario da tenersi rigorosamente in un cassetto.

LA TRAPPOLA DELL’INSICUREZZA

Chi è insicuro o costellato di dubbi tende a scrivere male in quanto non vuole esporsi, vuole rimanere al sicuro nella propria zona di comfort. E finisce con trattare tematiche in modo superficiale e asettico, facendo di tutto per nascondere il proprio tratto distintivo, la propria firma, il proprio stile. Senza emozioni non c’è storia che vale la pena essere vissuta.

LA TRAPPOLA DELLA MONOTONIA

Come nella vita di tutti i giorni, anche nella scrittura tendiamo a proporre i soliti schemi, le nostre rassicuranti ed automatiche routine.

Nel caso della scrittura il rischio è di appiattire la trama, risultando noiosi e poco emozionali. Scontati. Confrontarsi con altri stili e leggere molto è sempre il miglior consiglio per appropriarsi di più stili e di una leggerezza narrativa raramente innata.

SCRIVERE E’ UN LAVORO PER POCHI

Scrivere è dunque un lavoro per pochi. Coloro che si mettono in gioco. Che conoscono la grammatica, la sintassi, le regole della leggibilità. Scrivere in modo errato “qual è” o “anch’io” sono errori che si possono correggere, più difficile è il rapporto con se stessi e il proprio pubblico. Non per nulla molti abbandonano o continuano a scrivere male, schermandosi dietro scuse e l’arroganza di chiamare stile personale, una schizofrenia di parole buttate a caso come tessere di un puzzle su un foglio bianco.

Scrivere è un lavoro. E come tale non può essere improvvisato.

LEGGO per LEGITTIMA DIFESA

Leggiamo poco, quasi nulla. E scriviamo tanto. Con le conseguenze che ognuno può immaginare.

Secondo il rapporto dell’Istat 23 milioni di persone dichiarano di aver letto appena un libro in 12 mesi: il che vuol dire che 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno. Inoltre queste statistiche si basano sulla quantità, non sulla qualità della lettura. Per quanto possa essere soggettivo il valore di un libro, è giusto ricordare che in tali dati il libro di ricette di Benedetta Parodi e Guerra e Pace di Tolstoj hanno la stessa incidenza.

Se si vuole fare un confronto con gli altri paesi europei: la percentuale dei lettori è superiore al 75 per cento nella maggior parte dei paesi del centro e del nord dell’Europa occidentale: Svezia (89 per cento, il dato più alto), Danimarca, Finlandia, Estonia, Olanda, Lussemburgo, Germania, Regno Unito. Mentre è inferiore al 60 per cento in Portogallo, Cipro, Romania, Ungheria, Grecia. E Italia.

IL DISPREGIO DELLA CULTURA

Un soggetto competente viene definito un “professorone”, con tono dispregiativo; un uomo di cultura viene additato come nemico del popolo perché non vive sulla propria pelle la difficoltà di arrivare a fine del mese. Come se uno come Pier Paolo Pasolini non avesse avuto diritto di parlare dei “ragazzi di vita”, solo perché era benestante.

Nel 2018, ai politici italiani non conviene mostrare un alto lignaggio culturale: è preferibile immedesimarsi con “la gente”, sbagliare qualche congiuntivo e riallacciarsi a una certa cultura popolare che preferisce citare Massimo Boldi piuttosto che Petrarca.
Nel 1987, durante il discorso per il premio Nobel, Iosif Brodskij commentò: “Per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe meno sofferenza sulla Terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima d’ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì cosa ne pensi di Dostoevskij, Dickens, Stendhal”. Più di 30 anni sono passati da quel discorso, eppure è ancora attuale.

La lettura da molti viene ancora vista come un mero esercizio cerebrale o un passatempo per coloro che non devono dedicarsi a occupazioni più urgenti o necessarie, e invece, bisognerebbe leggere per “legittima difesa”, per ampliare i propri orizzonti e formare uno spirito critico in grado di permetterci di comprendere il mondo e agire con cognizione di causa, seguendo i nostri valori, non imposti da altri.

LA STORIA INSEGNA

La storia ci insegna che i libri hanno sempre rappresentato un pericolo per le dittature. Il popolo doveva restare ignorante per essere controllabile e gestibile, e la cultura veniva proposta come il nemico unico e assoluto. Pensiamo ai Bücherverbrennungen durante il nazismo: i roghi nei quali venivano bruciati tutti i libri distanti dall’ideologia totalitaria, oppure ai libri bruciati in Cile sotto Pinochet, o ancora a quelli più recenti dati alle fiamme dall’Isis. Senza dimenticare la Santa Inquisizione. La stessa letteratura distopica ha creato allegorie che si riallacciano a questo contesto. Tra queste spicca Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, con i pompieri che bruciano i libri in una società dove leggere è reato. Adesso, per lo meno in Italia, non è più necessario bruciare i libri però, semplicemente perché nessuno li compra e tanto meno li legge.

Le PAROLE SCRITTE sulla PELLE

Un taglio. Un altro ancora. Non c’è via d’uscita da quel dolore accecante e inespresso se non una lametta che tormenta la carne.

E poi le maniche lunghe, i pantaloni anche d’estate, a nascondere il corpo martoriato e parole tracciate come stigmatiche sulla pelle: sesso, verginità, perversione…

Non parla molto, fuma e beve vodka nascosta in bottiglie d’acqua Camille, reporter di un giornale di Saint Louis, reduce dal ricovero in un ospedale psichiatrico per abuso di alcol.

Camille che quando nella sua città natale, vengono ritrovati dei cadaveri di bambine, decide di partire per trovare una storia da raccontare.

Tempeste emotive che evocano ricordi, e i tagli si sommano. Necessari.

Nella casa di famiglia, ritrova la sorellastra, incarcerata in uno stretto dualismo fra il tentare di essere adulta e il rimanere bambina; la madre, instabile marionetta emotiva e tutti quei fantasmi infantili che si materializzano, come tessere scombinate di un misterioso puzzle. Traumi irrisolti che annegano nel sangue.

Camille è la protagonista di Sharp Objects, la miniserie tv, tratta dal romanzo Sulla pelle” di Gillian Flynn. Una storia di femminicidio da cui è esclusa la presenza maschile. Una storia originale, quello della violenza delle donne sulle donne.

Un libro da leggere e una serie da guardare….