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BRAINSTORMING: la SCELTA PERFETTA per ANNIENTARE la CREATIVITA’

Ha un nome elegante. E’ facile da applicare. E’ gratis. Per questo (forse) in tanti ne fanno uso.

Il brainstorming, tecnica creativa di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un problema iniziò a diffondersi nel 1957, grazie al libro Applied Imagination del dirigente pubblicitario Alex Faickney Osborn.

Eppure non è il modo migliore per produrre idee.

Osbord insoddisfatto per l’insufficiente creatività dei collaboratori, o meglio per la paura che questi accusavano quando si trattava di esporre le idee, in quanto terrorizzati dal possibile giudizio dei colleghi, ideò il metodo di brainstorming per fare in modo che i membri di un team producessero idee in un ambiente accogliente, senza censure e giudizi.

Osborn era fortemente convinto che i gruppi producessero idee migliori e in maggiori quantità rispetto alle persone che lavorano da sole e non smise mai di tesserne le lodi.

Eppure il brainstorming di gruppo non funziona, nonostante se ne faccia, spesso, un uso indiscriminato.

A sostegno le ricerche di un professore di psicologia Marvin Dunnette, che nel 1963 condusse i primi studi. Dunette coinvolse nella sua ricerca 96 dipendenti maschi, 48 pubblicitari e 48 ricercatori della 3M, chiedendo loro di partecipare a sessioni di brainstorming di gruppo e individuali. La sua ipotesi iniziale era che i pubblicitari, più loquaci, avrebbero beneficiato del brainstorming di gruppo, mentre i ricercatori, più introversi, avrebbero funzionato meglio in attività solitarie.

In realtà nella quasi totalità dei casi, le persone coinvolte produssero più idee quando lavoravano da sole, e non solo: idee di uguale e maggiore qualità rispetto a quando erano in gruppo, senza differenze fra ricercatori e pubblicitari o comunque persone intro o estroverse. I pubblicitari inoltre non si dimostrarono più adatti al lavoro di gruppo rispetto ai ricercatori.

Quelle di Dunnette furono solo le prime di una lunga serie di ricerche, giunte tutte alla stessa conclusione: il brainstorming di gruppo non funziona. Anzi, studi recenti mostrano addirittura che la performance peggiora con l’aumento delle dimensioni del gruppo.

In parole semplici e citando Adrian Furnham: “le persone motivate e di talento è meglio incoraggiarle a lavorare da sole, se le tue priorità sono efficienza o creatività”.

Fa eccezione il brainstorming online. Se ben gestiti i gruppi che fanno brainstorming online non solo ottengono risultati più performanti rispetto ai singoli, ma migliorano al crescere della dimensione del gruppo. Lo stesso vale per la ricerca accademica con docenti che collaborano in rete. Non a caso dalle collaborazioni digitali sono nate Linux e Wikipedia. Collaborazioni così performanti che hanno fatto sopravvalutare tutti i lavori di gruppo a scapito della riflessione individuale. “Non ci accorgiamo che – scrive Susan Cain in Quiet – partecipare a un gruppo di lavoro online è a sua volta una forma di solitudine e diamo invece per scontato che il successo delle collaborazioni virtuali si trasferirà identico anche a quelle faccia a faccia”.

Quando è utile il brainstorming? Per rafforzare i gruppi e far crescere la coesione fra i membri ma non quale stimolo alla creatività.

Si può ESSERE un OTTIMO TEAM anche senza aver NUOTATO fra gli SQUALI…

Qualche giorno fa, una multinazionale mi ha chiesto se fossi stata disponibile a gestire un team building in cui i top manager avrebbero dovuto nuotare fra gli squali in una esotica località di mare. Pur facendo immersioni ed essendo una nuotatrice che in giovane età ha vissuto l’esperienza nazionale, la richiesta mi ha a dir poco sconcertata. Che utilità aveva far vivere quell’esperienza estrema ai poveri manager prescelti?

L’engagement, il riallineamento, la motivazione all’interno di un gruppo possono essere migliorati in diversi modi, ma quale fattore critico di successo poteva mai avere buttarli in pasto ai pesci?

 TEAM BUILDING: QUESTO SCONOSCIUTO

Il termine team building indica un insieme di metodologie e di attività utili a formare un team orientato a migliorare le proprie capacità di lavorare in gruppo. Fra i primi a interessarsi al concetto di gruppo, gli psicologi sociali Lewin e Tuckeman: il gruppo è più della somma delle singole parti (Lewin, 1948). L’idea di base era che il gruppo è una totalità dinamica in cui i membri sono in interdipendenza e al cambiamento dello stato di uno degli elementi mutano anche tutti gli altri componenti e il gruppo stesso come totalità. Tuckeman propose il modello in 5 fasi, particolarmente utile nei luoghi di lavoro: Forming, Storming, Norming, Performing e Adjourning. Step inevitabili per far crescere il team, affrontare le sfide e raggiungere gli obiettivi.

In altre parole un team non può essere considerato come un mero numero di persone che lavorano insieme: un gruppo ha una dinamica ben precisa che si evolve in fasi e comportamenti diversi.

UNA MODA DEL MOMENTO?

Ragionando sulla richiesta dell’azienda di portare i manager in acque profonde e pericolose, ho dovuto accettare l’idea che questa fosse solo una delle tante mode del momento. Il responsabile delle risorse umane, era infatti a conoscenza delle attività più bizzarre, come camminare sui carboni ardenti, surviving in zone remote dell’Asia, love management, volare con le frecce tricolore e via dicendo. Oltre a mostrarmi un articolo di un noto quotidiano che narrava le gesta di una ventina di manager della Silicon Valley persuasi (o manipolati…) a nuotare tra gli squali dell’acquario di Monterey in California.

Perché un gruppo di persone diventi anche un team di lavoro, occorre che i membri sperimentino un senso di interdipendenza e di coesione, che prendano coscienza delle rispettive personalità, aspettative e delle potenzialità dei propri colleghi. L’idea portante è che attraverso queste attività costruttive e non familiari si affrontino situazioni diverse da quelle tipiche del luogo di lavoro, sfide, difficoltà concrete che permettono di far conoscere le persone in modo approfondito, costruire e potenziare relazioni interpersonali, sviluppare maggiormente l’ascolto, la collaborazione e la fiducia reciproca.

COSA C’E’ DOPO?

Perché ci sia coesione le attività devono dunque essere “divertenti e il divertimento educativo”, per parafrasare il sociologo Marshall McLuhan, ecco perché è opportuno chiedersi se tutte siano davvero utili, efficaci e necessarie allo scopo prefissato. Spesso purtroppo, una volta completato il team building, le persone tornano in aziende dove tutto è rimasto immutato e di innovazione non c’è nemmeno l’ombra.

Al di là del tipo di esperienza che si vuol far vivere ai propri dipendenti ciò che fa davvero la differenza non è tramortirli e stupirli per il tempo di una settimana, ma ripensare nuove competenze, condividere know-how ed esperienze per attivare in un continuum, reali processi di trasformazione umana e reale culture change. Ecco che allora l’intrattenimento, il team building possono farsi precise metafore di apprendimento facili da portare nel contesto organizzativo per accelerare trasformazioni in atto e raggiungere insieme nuovi orizzonti.

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…