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Quanto puoi ESSERE TU, sui social Media?

Qualche anno fa, la giornalista del Guardian, Elle Hunt, decise, a seguito di una conversazione con amici su film e generi cinematografici, di aprire un sondaggio su Twitter. L’obiettivo era capire se il film Alien, potesse o meno essere considerato un horror.

La sua posizione era chiara: «no, perché un horror non può essere ambientato nello Spazio».

Il giorno dopo, la giornalista trovò decine di email da parte di sconosciuti arrabbiati e di amici preoccupati: il sondaggio aveva ottenuto 120 mila voti e la sua opinione era stata citata da migliaia di persone che se la prendevano con lei per quanto affermato. Molti volevano delle scuse. La ragione di tante attenzioni era che quel sondaggio era finito tra gli argomenti “di tendenza” su Twitter.

La spiacevole esperienza vissuta dalla Hunt è uno dei numerosi esempi di interazioni sui Social in cui un pubblico eccessivamente esteso elabora – in modi solitamente poco indulgenti – un’informazione inizialmente concepita per un pubblico ristretto. Questo fenomeno, molto comune sulle piattaforme social, è noto come “collasso del contesto”.

COLLASSO DEL CONTESTO: NEI DETTAGLI

Il collasso del contesto è dunque l’effetto prodotto dalla coesistenza di molteplici gruppi sociali in un unico spazio, in un unico #contesto.

Dove sta il problema?

Nel mondo reale abbiamo un range di relazioni, che va dai confidenti intimi agli amici, fino ai conoscenti. E, a seconda dei momenti e delle circostanze, mostriamo facce diverse e diciamo bugie per mantenere inalterata l’immagine che gli altri hanno di noi. Nel mondo virtuale, dei social media, questi confini sono sfumati, se non addirittura inesistenti.

Facebook è stato inizialmente impostato per avere un solo tipo di “amico”, in modo che ogni persona che hai accettato come amico avrebbe visto tutti i tuoi post. Negli anni, ha ampliato le sue opzioni per l’ordinamento in base ad “amici intimi”, “conoscenti” e altri gruppi, in modo che gli utenti possano modellare i loro feeddi notizie e pubblicare post mirati.

L’etnografa Danah Boyd, una delle prime ricercatrici della vita sociale online, fa riferimento alla “convergenza sociale” nei siti di social networking. La convergenza sociale, si verifica quando più mondi sociali si fondono. Ciò si traduce in un “collasso del contesto“, il che significa che i social media riuniscono contemporaneamente diversi contesti sociali. È come cercare di chattare comodamente con tua madre, un tuo amico, la tua collega e il tuo ex allo stesso tempo.

Alcuni nuovi problemi sociali sono emersi come risultato di questi circoli sociali che si sono fusi. Devo taggare la mia amica Maria in una foto che pubblico su un socialanche se so che non farà piacere all’altra mia amica Barbara? Se non la taggo, si offenderà? Anche se non pubblico, devo comunque chiedere a Maria di non taggarmi in uno dei suoi post perché sono preoccupato per la possibile reazione di Barbara…

Chi non si è trovato in situazioni simili?

In uno studio del 2012, i ricercatori hanno utilizzato i dati dei focus group per elaborare 36 “regole” dell’amicizia su Facebook. Per molti versi l’amicizia su Facebook è la stessa cosa dell’amicizia nel mondo reale.

Ma sui social, il peso elevato attribuito alla presentazione di un’immagine positiva è portato all’estremo. L’amicizia nel mondo offline è più complessa e comporta doveri più seri. Ci aspettiamo che gli amici ascoltino seriamente le nostre preoccupazioni, che ci sostengano e capiscano quando facciamo cose che non sono educate, simpatiche o interessanti. Online, essere un “buon amico” significa più comunemente mantenere il costrutto di “persona felice” di qualcuno.

Bernie Hogan, ricercatore presso l’Oxford Internet Institute, ci esorta a considerare le amicizie sui siti di social networking come relazioni di accesso, non di intimità, affetto o attaccamento emotivo. Diventare amici su Facebook, significa ottenere i diritti di visualizzazione e pubblicazione delle “performance” identitarie di qualcuno.

Nei contesti vis à vis, spesso abbiamo un maggiore controllo sulla nostra identità perché possiamo personalizzare il modo in cui ci presentiamo in una determinata situazione sociale. Se abbiamo amici con noi, anche loro regolano le informazioni che condividono in base a chi è presente. E, proprio come noi, sono consapevoli delle ripercussioni sociali di rivelare qualcosa che è inappropriato per un pubblico specifico. Ma online, un’amica potrebbe pubblicare una foto di te in una situazione compromettente che diventa immediatamente visibile a tua madre e al tuo capo. È raro che un amico mostri intenzionalmente una foto del genere a un pubblico inadatto nella vita reale. L’equivalente digitale di “un lapsus” – come pubblicare una foto di una coppia e rovinare il loro alibi socialmente accettabile – accade facilmente e spesso. Ed è meno probabile che passi inosservato in un formato in cui tutto viene scritto e trasmesso a una rete convergente.

Quando si accetta una richiesta di amicizia online, occorre ricordare che si sta fondendo il mondo di questa nuova persona con il nostro. Si sta concedendo al nuovo “amico” i diritti di pubblicazione della nostra identità sociale.

Ps…

Non è un caso se molti utenti, per mitigare gli effetti del collasso del contesto, ricorrano a strategie le più diverse, come autocensurarsi, creare identità multiple o utilizzare le impostazioni per la privacy.

E voi? Avete mai fatto caso a questo fenomeno? Vi trovate a vostro agio o avete adottato strategie utili che volete condividere?

Ci sono VOLTE in cui TACERE è peggio che DIRE ciò che si PENSA. Attenti all’IGNORANZA PLURALISTICA…

Ti è mai capitato di trovarti in mezzo a un gruppo di persone e non riuscire a sopportarne una in particolare? Potrebbe trattarsi di un amico di un amico, un collega o della nuova fidanzata di tuo fratello. Poco importa. Ciò che è rilevante è che mentre tu ritieni questa persona odiosa o indelicata, sembri anche l’unica a pensarla così. Così per non rovinare la serata, fai buon viso a cattivo gioco e cerchi di celare il tuo disappunto.

Ma, anche se nessuno palesa di non apprezzare quella persona, è comunque corretto ritenere che piaccia a tutti?

Assolutamente no, il gruppo potrebbe solo sperimentare ignoranza pluralistica.

Che cos’è l’ignoranza pluralistica?

Il termine è stato coniato, a inizio del Novecento, da Allport per descrivere una situazione in cui tutti i membri di un gruppo rifiutano privatamente le sue norme, credendo però, allo stesso tempo, che tutti gli altri membri le accettino.

Detto in altri termini: è quel fenomeno in cui la maggioranza delle persone non è d’accordo con l’opinione della minoranza, ma crede che l’opinione della minoranza sia l’opinione della maggioranza.

Questo accade perché nessuno parla contro l’opinione prevalente, presumendo che tutti gli altri siano d’accordo poiché nessuno sta parlando.

E’ dunque quella sensazione che proviamo quando crediamo che amici e colleghi la pensino diversamente riguardo a un argomento, anche se questi sono, in realtà, sulla nostra lunghezza d’onda. Un esempio si ha in un’aula universitaria quando gli studenti non interrompono un professore che dice una cosa sbagliata, poiché, guidati dall’inazione generale, credono di aver capito male.

In concreto

È dimostrato come i membri esterni di alcuni C.d.A. possano sottostimare la preoccupazione dei membri interni dello stesso consiglio riguardo a una performance non soddisfacente della propria azienda. E’ sufficiente che i membri interni non manifestino le loro preoccupazioni affinché il punto di vista della minoranza, quello dei membri esterni, venga percepito come quello di una larga maggioranza. Il supporto che ha la visione della minoranza viene così sovrastimato a causa dell’inazione dei membri interni.

Non è raro che i dipendenti di un’azienda, pur di dare sostegno al proprio gruppo supportino alcuni valori che, in privato, rigettano.

Una delle maggiori conseguenze dell’ignoranza pluralistica a livello aziendale è l’influenza negativa che questa può avere nei processi decisionali di gruppo. Dato che i dipendenti non condividono le loro reali opinioni in un contesto di decisione di gruppo, potrebbero essere inclini a intraprendere azioni che non sono supportate dai singoli membri del gruppo.

O più banalmente, potrebbe accadere al bar o in un contesto pubblico: un cliente abituale prende a fare battute sessiste ad alta voce verso alcune donne sedute al bancone. Per un po’ si tenderà ad osservare il comportamento dell’avventore, provando disagio ma anche un po’ di timore. Poi, una volta che ci è guardati intorno e resi conto che nessuno dice niente, si è tentati di pensare che forse non è un atteggiamento tanto errato visto che mette a disagio solo te.

Sfortunatamente, in casi come questo più a lungo il cattivo comportamento viene tollerato, più la persona è portata a pensare di essere appropriata e facilmente cercherà di spingere i limiti ancora più in là.

Perché si verifica l’ignoranza pluralistica?

Se ti sei trovato in una situazione come quelle sopra menzionate, o simili, conosci la sensazione. Hai paura di essere l’unica persona a sentirsi in difficoltà. Non vuoi causare problemi, innescare una lite o attirare l’attenzione. O, dai per scontato che qualcun altro interverrà. Due sono i fenomeni che spiegano perché ci sentiamo a disagio e come questo possa portare un intero gruppo a presumere la cosa sbagliata.

Effetto spettatore. Se a nessuno in un gruppo viene assegnato un compito, tutti possono presumere che qualcun altro se ne occuperà. Soprattutto se l’attività richiede di mettersi in evidenza o di separarsi dagli altri membri. L’effetto spettatore può avere conseguenze disastrose in caso di emergenza. In quanto, anziché intervenire, la prima cosa che fanno tutti è guardarsi intorno per vedere chi sta per agire e aiutare la persona in difficoltà. Perdendo tempo prezioso che potrebbe fare la differenza in caso di vita o di morte.

Ingroup Effetto. Agli albori dell’umanità, andare controcorrente era pericoloso. Nessuno voleva separarsi dalla propria “tribù”. Questa mentalità è ancora radicata in noi. Sentiamo il bisogno di conformarci agli altri, anche se quegli “altri” sono solo persone nella nostra stessa stanza mentre partecipiamo a un esperimento di psicologia sociale!

Per questo, ci vuole molto coraggio per andare controcorrente e dare voce a quella che si crede sia un’opinione minoritaria. Ma ci vuole anche fiducia. Se non sei sicuro che le persone del tuo gruppo reagiranno con rispetto alla tua opinione, specie se negativa, potresti pensare che sia più sicuro per te tenere la bocca chiusa.

L’ignoranza pluralistica può verificarsi in quegli ambienti tutt’altro che sicuri dove proteggersi è più proficuo che dare la propria opinione.

Come superare l’ignoranza pluralistica

Il primo passo dovrebbe farlo colui che ha convocato la riunione per decidere su un determinato argomento. Questo individuo dovrebbe essere il primo a mostrarsi aperto a un potenziale feedback negativo, e dovrebbe in qualche modo cercarlo, esternando le proprie preoccupazioni qualora la decisione presa dovesse andare contro i desideri di un membro del gruppo stesso.

Le realtà aziendali però richiedono spesso decisioni complesse, non riducibili a semplici aperture verso potenziali feedback negativi. Nonostante ciò, essere consapevoli dell’esistenza di questo bias, può aiutare le organizzazioni ad approfondire l’argomento e ad affrontare i loro processi decisionali di modo da non andare contro gli interessi dei decisori stessi.

O almeno, questo è quello che penserebbe una larga maggioranza.

Fonti

Miller D.T., McFarland C. (1987). Pluralistic ignorance: When similarity is interpreted as dissimilarity. Journal of Personality and Social Psychology, 53(2), 298-305.

Halbesleben J.R.B., Wheeler A.R., Buckley M.R., Understanding pluralistic ignorance in organizations: application and theory. J Manag Psychol. 2007;22(1):65–83.

Latané B., Darley J., The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, Appleton-Century-Crofts, 1970.