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Cosa ci può INSEGNARE l’ARTE (e gli artisti) per MIGLIORARE il modo di PRENDERE DECISIONI

C’è la tendenza a ragionare a compartimenti stagni, quando si tratta di decisioni. Come se ogni disciplina, contesto e ambito avesse e dovesse rispondere a regole proprie che nulla o molto poco hanno a che fare con altri mondi.

Eppure, come l’ambito militare o medico possono darci spunti almeno quando si tratta di decisioni rapide e in situazioni di forte incertezza, anche l’arte può offrire consigli interessanti.

Entriamo nel dettaglio.

LE REGOLE NELL’ARTE

Quattro sono le cose che gli artisti fanno deliberatamente (cose che gli altri non necessariamente fanno intenzionalmente) quando affrontano un processo decisionale:

  • usano la distanza e la diminuzione per ottenere la giusta prospettiva. Quando un artista vuole creare l’illusione della profondità, una delle abilità chiave che deve padroneggiare è la diminuzione, in modo che gli oggetti distanti siano resi più piccoli di quelli in primo piano. Questo è un esercizio abbastanza semplice poiché ci sono specifiche regole geometriche da seguire. Ma quando si tratta di distanza psicologica, non esiste una regola a cui attenerci per capire quanto dovremmo minimizzare le cose che sembrano “distanti”. Di conseguenza, commettiamo errori: cose che accadono in un futuro lontano o a persone che non conosciamo, sono troppo facili da ridurre a minuscoli puntini sulla linea dell’orizzonte del nostro panorama decisionale psicologico. È vero anche il contrario e troppo spesso la nostra tela mentale viene dominata da cose urgenti, immediate o emotivamente evocative anziché rimanere focalizzata sull’obiettivo.
  • Il punto di vista. Gli artisti tengono in gran conto il punto di osservazione, affinché lo spettatore possa apprezzare il loro lavoro. Non a caso, quando si tratta di creare un’opera d’arte, prima di iniziare, un artista pensa molto attentamente al punto da cui l’opera dovrebbe essere vista. Stessa cosa dovremmo fare noi: riconoscere che tutti percepiamo le cose in modo diverso. Invece, quando affrontiamo problemi o decisioni, tendiamo a sottovalutare quanta parte della nostra percezione dipenda da chi siamo e dove ci troviamo, piuttosto che dai fatti oggettivi della situazione. In Tanzania, a Nyaruguru, il terzo campo profughi più grande del mondo, per modificare l’atteggiamento prevalente secondo cui la violenza è uno strumento appropriato per la disciplina in classe, gli insegnanti sono stati spinti a mettersi nei panni dei loro studenti. Molto più efficace che ricordare loro le regole standard del campo contro l’uso delle punizioni corporali. La bontà della strategia è stata confermata dalla ricerca:quando ai docenti sono state fornite le informazioni sul motivo per cui usare le punizioni corporali non è efficace, hanno affermato che avrebbero usato la forza fisica come soluzione nel 35% degli scenari presentati. Ma quando è stato chiesto loro di ricordare come si sentivano da bambini e di mettersi nei panni dei loro alunni, la tolleranza alla violenza è scesa al 26%.
  • Composizione: mettere in relazione i dettagli con il quadro generale. Quando un artista crea, pensa alla composizione, ossia alla relazione fra i dettagli della sua opera e l’impressione generale che lascia, a come apparirà nel suo complesso. Gli impressionisti, ad esempio, hanno creato opere in cui i dettagli appaiono sfocati, ma l’insieme è un’immagine coerente. Nel processo decisionale ci troviamo spesso a oscillare fra i dettagli e il quadro generale. E non è sempre facile trovare il giusto equilibrio. Nel business, esiste un effetto, noto come bike shedding, in cui i team dedicano troppo tempo a un dettaglio relativamente banale come i capanni per biciclette e non abbastanza tempo a questioni più importanti e complesse come la soddisfazione del cliente o la redditività.
  • Cornice: cosa abbiamo eliminato dal contesto decisionale. Gli artisti spesso fanno scelte deliberate su cosa mostrare e non mostrare del loro lavoro. In questo modo impongono una “cornice” alla nostra esperienza. Questa cosa la facciamo di continuo. Non ci accorgiamo che le nostre scelte sono vincolate dalle convenzioni sociali, dai sistemi economici, dai pregiudizi… Se potessimo notare i limiti del quadro e sfidarli, potremmo mettere in discussione le regole che ci vincolano e di conseguenza progettare un mondo migliore. Un esempio di ampliamento della cornice è la piattaforma di assunzione Applied. Rendere il reclutamento più equo è una sfida continua e nonostante i molteplici tentativi, è facile rimanere intrappolati dai limiti dei processi di reclutamento esistenti. Non è risolutorio, ad esempio, implementare il numero di candidati rispetto un determinato lavoro, se qualcuno, coinvolto nel processo, continua a introdurre pregiudizi inutili nella decisione di chi portare o meno a colloquio. Quel pool di candidati più ampio potrebbe non portare a cambiamenti in chi viene assunto. Un team del BIT si è fatto una domanda diversa: “E se riprogettassimo completamente le assunzioni per renderle più eque e più accattivanti?” Uno dei primi passi è stato rimuovere informazioni personali o identificative dai CV, quindi parti tradizionali del processo di assunzione che causavano problemi, sostituendole con approcci alle assunzioni basati sull’evidenza che hanno ampiamente eliminato il rischio di essere influenzati da pregiudizi. Durante gli esperimenti, è emerso che lo screening tradizionale dei CV avrebbe eliminato il 60% dei candidati che invece si sarebbe assunto utilizzando Applied. Da allora la piattaforma è stata utilizzata da milioni di candidati in tutto il mondo.

SCRITTURA ESPRESSIVA

A creare il parallelismo fra il modo in cui gli artisti creano e il modo in cui prendiamo decisioni nel quotidiano è Elspeth Kirkman, chief program officer di Nesta[1]. Secondo Kirkman, il processo decisionale è “l’equivalente consapevole della tela di un artista“. Se un artista disegna qualcosa di oggettivo, l’arte non si concentra su un punto particolare. Allo stesso modo il nostro modo di considerare una scelta è ciò su cui mettiamo la nostra attenzione, ciò che poniamo in primo piano e ciò che lasciano indietro. Talvolta dimenticando che su ciò che portiamo la nostra attenzione, a influire sono i pregiudizi.

Fra le soluzioni che Kirkman suggerisce c’è la scrittura espressiva di cui James Pennebaker ne è l’ideatore[2]. Uno stile di scrittura che include scrivere senza parlare, senza pensarci troppo, senza criticare ciò che si sta scrivendo, semplicemente lasciando che le parole fluiscano. Dedicarsi a questo tipo di scrittura periodicamente, pare avere un potente effetto psicologico. Nessuno leggerà i tuoi scritti, ma inizierai a elaborare i tuoi pensieri e sentimenti in modo più efficace.

Una volta completata la stesura, si ha la libertà di disporne come meglio si preferisce. In alcuni studi, le persone hanno scelto di conservarli, osservando come si evolvono nel tempo. Ed è emerso uno spostamento verso espressioni più costruttive, coerenti e concise, che è una testimonianza della crescita personale.

Il cambiamento nell’uso dei pronomi è una delle caratteristiche più interessanti della scrittura espressiva[3]. Pennebaker sostiene che le persone tendono a iniziare con i pronomi in prima persona. Man mano che continuano a esprimersi per iscritto, la situazione cambia. Così come, piano piano, si distanziano anche da ciò che scrivono. “Non si tratta più di me; riguarda la situazione”. Quando si tratta di loro, la domanda è: “Cosa posso fare per migliorare?” La scrittura espressiva influisce sul benessere, sulla guarigione, su vari processi sanitari, sulla disoccupazione e su altri risultati che non ci si aspetterebbe.

ARTE E DECISIONI

Pianificare con chiarezza è un’arte, ma la vera innovazione spesso richiede un deliberato allontanamento o un rifiuto del vecchio modo di fare le cose. Questo atto coraggioso di andare contro le regole può portare a nuove ed entusiasmanti possibilità. Se ci pensiamo, nella pittura, l’uso della profondità è solo un’illusione. Usata con arguzia, innovazione o precisione certosina.

Prendiamo l’arte cinese, il Rinascimento italiano e la prospettiva lineare e come questi movimenti siano stati capaci di conquistare il mondo. All’epoca, la gente si chiedeva ingenuamente perché gli artisti cinesi non fossero ossessionati dal realismo e dall’umanesimo. Gli artisti cinesi erano certamente capaci di creare arte realistica, ma il loro scopo non era ricreare il mondo. Invece, hanno cercato di rappresentare qualcosa oltre la prospettiva di una persona. Questo approccio unico, parallelo alla proiezione, è ciò che ha dato origine all’arte cinese, consentendo agli spettatori di vedere molto più di ciò che un singolo occhio umano potrebbe percepire.

È strano osservare quel tipo di arte perché può risultare inquietante se non la si conosce. Difficile capire perché non sia realistico, ma sai che non saresti in grado di vedere tutti i dettagli da solo. La cosa interessante è che se pensi all’emergere del cubismo, arrivato più tardi, potresti vedere la stessa cosa da diverse prospettive smontando l’immagine e riorganizzandola.

CONCLUSIONE

Per migliorare la presa di decisioni, un consiglio mutuato dall’arte è dunque quello di rappresentare mentalmente i fattori che determinano le nostre scelte, come fa l’artista sulla tela. Visualizzare le decisioni, può aiutare a vedere e valutare le scelte che stiamo facendo in modo più efficace. E, proprio come non esiste un modo “giusto” per fare arte, non esiste un modo “giusto” per prendere decisioni: ognuno di noi lavora sulla propria tela individuale, facendo le proprie scelte. Ma applicare le pratiche deliberate utilizzate dagli artisti, può aiutare a rendere visibili le forze che deformano le nostre prospettive e compromettono le nostre decisioni, e anche le cose che possiamo fare per mitigarle.


Fonti

[1] Kirkman E., Decisionscape: how thinking like an artist can improve our decision making, MIT Press, 2024 https://mitpress.mit.edu/9780262048941/decisionscape/

[2] https://www.youtube.com/watch?v=PGsQwAu3PzU

[3] Pennebaker J., The Secret Life of Pronouns: What Our Words Say About Us; Bloomsbury Press, 2013

E se NON fosse un PLAGIO? ..Ma solo CRIPTOMNESIA!

Una serata come tante, un gruppo di amici che cenano insieme, chiacchiere che si mescolano e confondono in un’unica trama senza né strappi o fronzoli. Ad un tratto, il discorso piega sulla difficoltà celata nel cucire racconti, di libri incompiuti, manoscritti lasciati ammuffire in un cassetto e di pensieri annotati nel cuore della notte che si sgretolano alle prime luci dell’alba. Di quelle storie appena abbozzate, ne avevo non poche, e va a finire che, fra un piatto e l’altro, ne parlo con un’amica.

Passano le settimane e poi qualche mese, e rivedo quell’amica che, con leggerezza e spensieratezza, interrompe i convenevoli per mettermi al corrente di una novità che la riguarda: “Sto scrivendo un libro”. Sapevo che subiva da tempo il blocco dello scrittore, e fui felice per lei, fino a che, ascoltandone i contenuti, mi sono resa conto che era esattamente il tema di cui avevo parlato quella sera a cena.

Non volendo rovinare la nostra amicizia, ho taciuto. Mi era difficile credere che lo stesse facendo di proposito, visto che me lo stava raccontando. Impossibile credere che mi avesse deliberatamente rubato un’idea. Mi rannicchiai fra la tristezza e la delusione, la rabbia e lo stupore fino a che mi ricordai che ciò che avevo appena sperimentato, non era nient’altro che una dinamica piuttosto diffusa, e dal nome inusuale: criptomnesia[1].

COSA È LA CRIPTOMNESIA

La criptomnesia è un disturbo della memoria[2] che ci porta a ricordare un’informazione, ma non il contesto in cui l’abbiamo appresa. Trasformando quel ricordo, che affiora alla mente in un secondo tempo, come idee e intuizioni originali.

Qualcuno etichetta il fenomeno come furto inconsapevole, tanto per delimitare un verdetto di innocenza, ma seminare comunque il dubbio. Ricordare quel fenomeno, mi ha permesso di preservare l’amicizia. E, anche, di portare alla memoria molti altri casi più o meno noti.

JUNG, MELVILLE, BALZAC, WILDE

Jung parla di criptomnesia nei suoi scritti, riferendola anche a sé stesso. Nel corso degli anni, venne a scoprire che molte cose, che lui attribuiva al suo intuito e alla sua creatività, già esistevano, in qualche libro o in qualche credenza.

Ricordate Ishmael, il naufrago caro a Melville? E’ il 1851 quando, negli Stati Uniti, viene pubblicato il libro. Nel 1719, un altro naufrago, Robinson Crusoe, si rivela al mondo. Melville aveva forse letto Crusoe? Ha forse ripescato Ishmael dal mare di Defoe? Chissà se il ricordo è diventato opportunità…

Balzac, ne “Le chef d’oevre inconnu”, racconta di un grande pittore che sta lavorando al ritratto di una donna, così intenso da suscitare in lui una passione smisurata. Finirà tutto in tragedia nel momento in cui il pittore mostrerà il dipinto, morendo dopo aver dato fuoco a tutti i suoi dipinti. Oltre la Manica, Oscar Wilde invece era intento a scrivere “Il ritratto di Dorian Gray”, un racconto inverso rispetto a quello dello scrittore francese. Un uomo, innamorato di sé stesso, vuole trasformare la sua vita in un’opera d’arte e ucciderà, fra gli altri, il pittore che lo ha ritratto.

… e OLIVER SACKS

A raccontare un caso personale di criptomnesia è Oliver Sacks, ne “Il fiume della coscienza”, una raccolta postuma di inediti, e dove in uno dei saggi, narra di un suo falso ricordo: i bombardamenti subiti da Londra durante la seconda guerra mondiale. Sacks ha descritto l’esplosione di una bomba incendiaria vicino a casa, per poi scoprire, a pubblicazione avvenuta, che quel ricordo non era suo, ma di suo fratello maggiore, che gliel’aveva descritto in modo dettagliato in una lettera. Negli anni, Oliver aveva ricreato nella propria mente l’immagine evocata da quella lettera, rendendola man mano sempre più sua: fino a sovrapporre la linea di demarcazione tra racconto e ricordo.

Ho il sospetto che molti degli entusiasmi e degli impulsi, che mi sembrano in tutto e per tutto miei, possano essere scaturiti da suggerimenti altrui dei quali ho subito, in modo più o meno consapevole, la forte influenza, e che ho poi dimenticato. […] In qualche caso queste dimenticanze possono estendersi all’autoplagio, e mi trovo a riprodurre intere frasi ed espressioni trattandole come nuove. […] Ho il sospetto che tutti incappino in tali dimenticanze, forse comuni soprattutto in chi scrive, dipinge o compone, giacché è probabile che la creatività ne abbia bisogno per riportare alla luce ricordi e idee, e osservarli in contesti e prospettive nuovi”.

GEORGE HARRISON, STEVENSON E UMBERTO ECO

Un altro caso eclatante è quello che ha protagonista George Harrison, che nel 1970 incise una canzone, My sweet lord, che conteneva parti sovrapponibili a quelle di un brano di Ronald Mack di otto anni prima (He’s so fine). Il plagio fu così palese che Harrison al proposito disse che era stupito lui stesso che non fosse riuscito a notarlo. Questo errore gli costò 587 mila dollari[3].

Robert Louis Stevenson, riprendendo in mano “Racconti di un viaggiatore” di Washington Irving, si rese conto di aver inavvertitamente sottratto diverse frasi dallo scritto dell’autore statunitense per comporre “L’Isola del tesoro”.

Umberto Eco, confessò di aver scoperto che alcuni dettagli che aveva letto da un antico volume erano affondati nei meandri della memoria per poi riemergere ne “Il nome della rosa”[4].

I BRAVI ARTISTI TRASFORMANO IN MEGLIO CIO’ CHE PRENDONO IN PRESTITO

Il fenomeno è piuttosto diffuso. E nonostante sia facile pensare male, è sufficiente conoscere almeno un po’ cosa sta dietro l’attitudine creativa, per capire che molti plagi sono stati fatti in buona fede[5].

C’è un esperimento, del 1989, che lo dimostra: è stato chiesto a gruppi di quattro studenti di produrre un certo numero di voci per una data categoria; conclusa questa fase, agli stessi studenti veniva richiesto di ricordare quali tra le varie voci appartenessero a ciascun soggetto; in una terza fase, infine, veniva chiesto di generare nuove voci per le stesse categorie: alla fine, il 70% dei partecipanti si ritrovava a segnare come nuova voce una di quelle prodotte dai compagni di gruppo.

Ciò che ci impedisce di ricordare la fonte e l’origine di ogni informazionein nostro possesso, è in realtà un punto di forza: se così fosse saremmo sopraffatti da informazioni spesso irrilevanti.

Il disinteresse per le fonti ci consente di assimilare quello che leggiamo, quello che ci viene raccontato, quello che altri dicono, pensano, scrivono e dipingono, con la stessa intensità e ricchezza di un’esperienza primaria. Questo ci permette di assimilare l’arte, la scienza e la religione attingendo alla cultura nella sua totalità, di penetrare e contribuire alla mente collettiva”.

Alla mia amica, non ho mai fatto notare il plagio. Chissà se ne è resa conto da sola, o se è ancora convinta della bontà della sua intuizione. E chissà, se di quell’idea, alla fine io ci avrei fatto qualcosa. Come scrisse Philip Massinger: “I cattivi poeti deturpano ciò che prendono in prestito, i buoni poeti lo trasformano in qualcosa di migliore, o se non altro in qualcosa di diverso”.

E poi, chissà quante idee che considero mie, le ho in realtà sottratte ad altri… Quante delle narrazioni[6] che reputo mie per intero, sono travestimenti più o meno simili dall’originale.

E voi, avete in mente qualche plagio innocente a cui avete assistito, di cui siete stati vittime o inconsapevoli carnefici?

FONTI

[1]  Brown A.S., Murphy D.R., (1989). Cryptomnesia: delineating inadvertent plagiarism. Journal of Experimental psychology: learning, memory and cognition, 15(3), 432-442

[2]  Macrae C.N., Bodenhausen G.V., Calvini G., (1999), Context of cryptomnesia; may the source be with you, Social Cognition 17, 273-297

[3] Criptomnesia: you’ve never had an original thought, feb. 3, 2023

[4]  Eco U., (1992), Interpretaion and overinterpretation. Cambridge University Press

[5]  Tenpenny P.L., Keriazakos M.S., Lew G.S., Phelan T.P., (1998), In search of inadvertent plagiarism. The American journal of psychology, 111(4); 529-559

[6] Gorvett Z., (2023, March 26), Why your colleagues can’t help stealing your ideas, BBC Worklife

SOPRAVVIVERE a un CAPO con un EGO smisurato

Talvolta accade. Di ritrovarsi a lavorare per un capo (o un socio) dall’ego spropositato ma che, inizialmente, era sembrato solo un po’ esuberante. Quasi simpatico. Se ne era anche apprezzata la capacità di eloquio, l’originalità nel proporre la sua ostinata visione del mondo.

Fino a quando si è scoperto, o dovuto ammettere, che la sua non era estroversione, ma puro egocentrismo. E le cose sono precipitate…

A me è accaduto, qualche anno fa. Ciò che più mi ha fatto riflettere è l’averne voluto ignorare i segnali, benché palesi. Forse, a spingermi in direzione opposta, è stato il fatto che il progetto su cui lavoravamo era particolarmente interessante. Sulla carta. Quando è venuto meno l’entusiasmo, e la sinergia ha perso la sua ragione d’essere, anche l’aurea magica che ruotava intorno al soggetto in questione si è dissolta. E io, ho dovuto fare i conti con la realtà.

LE MIE LEZIONI IMPARATE

DARE UN NOME ALLE COSE. La prima cosa da fare è riconoscere con chi si ha a che fare. E accettarlo. Anche se non ci piace. Ma è necessario se si vuol sopravvivere, ancor più se in quel momento non si ha modo di andarsene dall’azienda o lasciare il progetto su cui si sta lavorando. Più capiamo con chi abbiamo a che fare e più sarà possibile mettere in atto strategie funzionali al nostro obiettivo o quanto meno alla nostra sopravvivenza.

CAMBIARE STILE DI COMUNICAZIONE. Relazionarsi con chi ha un ego smisurato richiede l’apprendimento di una nuova lingua. O, meglio, di una parte. Allo stesso modo di come fanno gli attori. Quindi considerare l’utilità di frasi quali “Sì, hai assolutamente ragione“, seguito da “Hai mai considerato quest’altra idea che probabilmente ti era già venuta in mente?”. È una forma d’arte, in realtà, che naviga nel delicato equilibrio tra l’adulazione e il far capire il proprio punto di vista senza gonfiare ulteriormente l’ego di chi ci sta di fronte.

RENDI IL TUO LAVORO A PROVA DI EGO. Il tuo lavoro deve brillare, ma non così tanto da accecare l’ego del capo. Si tratta di far fare bella figura al capo senza annullarti. E’ un po’ come essere un ghostwriter per i tuoi successi. “Questo vecchio progetto? Ci ho lavorato nei ritagli di tempo, ma in realtà è stata la tua guida a renderlo tanto strategico“.

DAGLI, DI TANTO IN TANTO, QUELLO CHE VUOLE. A volte, il modo migliore per gestire chi ha un ego colossale è dargli ciò che vuole. Non dico di esagerare, ma la giusta quantità di elogi può oliare le ruote, rendendo la tua vita lavorativa meno in salita.

TIENI PRONTO UN PIANO B. Non sempre sarà possibile evitare le sfuriate di chi ha un ego spropositato. Per questo è utile avere un riparo dove proteggersi, fino a che la tempesta non sarà passata. Tieni a portata di mano una scorta di ombrelli metaforici, come un’e-mail di elogio o un promemoria di un successo passato. Questi piccoli stimolatori dell’ego possono essere la tua offerta di pace agli dei del narcisismo.

MANTIENI L’EQUILIBRIO. Bilanciare l’adulazione con una delicata quanto necessaria verifica della realtà può talvolta essere pericoloso ed elettrizzante allo stesso tempo. Nonchè richiede una certa dose di equilibrio fatto di tatto e tempismo. “È un’idea rivoluzionaria, ma forse potremmo prendere in considerazione questa piccola modifica per renderla ancora più innovativa?“. Si tratta di fare in modo che l’ego atterri dolcemente, senza lividi o ammaccature.

NON E’ SOLO SOPRAVVIVENZA. Ciò che ho imparato è che non si riduce tutto a una mera questione di sopravvivenza. Ma si tratta di crescere, maturare. E’ la capacità di trovare l’umorismo nell’assurdità, imparare la pazienza che non sapevi di avere e sviluppare le capacità di negoziazione. Perché, alla fine, non è quasi mai una questione personale. È solo ego.

Con un po’ di pratica, anche se in certi momenti risulta difficile crederlo possibile, si può anche diventare indispensabili per quel capo dall’ego tanto smisurato. Trasformando quello che avrebbe potuto essere il nostro più grande incubo sul posto di lavoro in una masterclass di agilità psicologica. Dopotutto, se riesci a gestire un capo di questo tipo, cosa non puoi gestire?