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Una STRANA CORSA VERSO la LIBERTA’

Un uomo trova un dado da gioco, e prendendolo in mano sente la necessità di lanciarlo e di comportarsi in base al risultato. “Se esce il 3 faccio quello che farei comunque, mi lavo i denti e vado a dormire; se esce il 2 faccio ciò che vorrei realmente fare: busso alla mia vicina e se apre la porta, ci vado a letto…”

Un’opzione per ogni faccia del dado. Esce il 2 e l’uomo rallenta, sa di trovarsi di fronte un limite, se lo oltrepassa la sua vita rischia di cambiare… ma in fondo la decisione non è sua, è del dado e così asseconda questo destino un po’ forzato.

Quando torna a casa, qualche ora più tardi, si sente cambiato, un cambiamento percettibile ma inarrestabile. Ha fatto qualcosa che mai avrebbe fatto, si sente più coraggioso e più libero.

UNA DOMANDA, SEI SOLUZIONI

Passa il tempo e l’uomo si affida sempre di più al dado. Una domanda, sei soluzioni: tutto attraversa la coscienza del dado. La scelta del film da vedere, cosa mangiare, chi maltrattare o riverire… All’inizio le opzioni sono prudenti, poi si fanno più audaci e tutto ciò che mai aveva considerato, diventa opzione del gioco. Andare in un luogo in cui non andrebbe mai, provare a sedurre una donna pescata a caso sull’elenco telefonico, entrare in un locale per scambisti, andare a letto con un uomo… Anche con i suoi pazienti usa il dado: lui è uno psichiatra.

I risultati sono spaventosi, la moglie lo lascia, l’ordine dei medici lo espelle perchè incapaci di sostenere questa terapia rivoluzionaria, gli amici lo abbandonano.
Ma l’uomo prosegue in questa strana corsa verso la libertà, l’obiettivo è chiaro: non essere più prigionieri di se stessi, poter agire secondo l’umore e il capriccio del momento. “All’inizio, era come marijuana, piacevole e divertente, poi è diventato come l’acido una roba esaltante ma distruttiva”.

Via via che il racconto procede, la tentazione di ricorrere al dado, l’ho avuta anch’io. Lasciando all’inanimato seduttore di numeri, quello che in realtà affiora alla coscienza, senza portarne la colpa. Dire ciò che si pensa o fare ciò che le convenzioni non ci consentono di fare e poter sorridere tirando il dado, una volta di più.
Poi mi sono chiesta se questa apparente anarchia fosse solo un desiderio inespresso di deporre l’affannoso e crudele arbitrio che non abbiamo. Arrestare l’indicibile elenco di dettami che la vita che ci siamo costruiti, ci ha imposto. Ma chi è il dado? Chi rappresenta? La mia coscienza vulnerabile o il mio inconscio soggiogato che militarmente disarciona il cavaliere? Perdere la guida per perdere la strada.

LA LIBERTA’ CHE IL DADO REGALA A CARO PREZZO

Qualcuno nel tempo è morto per la scelleratezza del dado, altri sono rinsaviti, altri non hanno rotto la dipendenza pur ricorrendoci solo per scelte poco pericolose.
Il dado è un mezzo che regala a caro prezzo un sorso di libertà. Mi viene in mente la Merini, la poetessa che non aveva bisogno del dado per uscire dalle convenzioni. Era la prima a considerarsi folle.

Luke, l’uomo del dado, giorno dopo giorno continua ad affidarsi al fato che il dado sceglie in vece sua. Giocherà il gioco dello psicopatico, del debole, dell’aggressivo, del fanatico, dello stupido, del simpatico, dell’affabile, del romantico… fino a uccidere uno sconosciuto. Non verrà mai scoperto.

THE DICE MAN

Chissà chi ognuno di noi chiederebbe al dado di uccidere al posto nostro? Mi chiedo mentre l’ultima pagina consegna al libro la sua integrità. The dice man, l’uomo dei dadi… Sì, perchè l’uomo dei dadi è un racconto, e come nei racconti migliori, poco importa se ciò che vi è narrato sia accaduto veramente. È l’immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un’utopia negativa, più aperta alla distruzione, che alla creazione.

L’uomo dei dadi è un racconto antropologicamente affascinante, denso di psicologia e filosofia. Dove ad aver l’ultima parola è il diktat supremo: «Chiunque può essere chiunque». Se in Fu Mattia Pascal, c’è un annichilimento dell’identità e una ricerca di pura autenticità seppur nel fallimento, qui c’è un disperato bisogno di (auto)distruzione, è il nichilismo estremo il fondo più fondo di questo libro che si legge a strati. E che molto difficilmente si dimentica.

L’ODIO, STUPIDA MALATTIA o l’altra FACCIA dell’AMORE?

“L’odio è una passione diabolica che andrebbe controllata ed eradicata”. Vito Mancuso, teologo e docente italiano dalla conoscenza infinita, in un articolo di qualche giorno fa sul Foglio, porta a riflettere su questo sentimento arrivando a dire che è una malattia.

“Un conto è avversare, un altro è odiare. L’avversario è sì oggetto di avversione ma non necessariamente di odio. Il nemico lo si vuole vincere, sconfiggere ma non annientare. L’odio invece vuole annientare e il suo furore accecante lo rende ignorante”.

Eppure le aree del cervello che si attivano quando odiamo sono in parte comuni a quelle di quando amiamo. Come a dire che senza il male non ci sarebbe il bene e viceversa.

A dimostrarlo i ricercatori dell’University College di Londra: https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0003556).

LA VISIONE DELLE NEUROSCIENZE

In questo studio i ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul sentimento di odio provato nei confronti, ad esempio, di un collega o di un ex partner. Il campione dello studio era costituito da 17 soggetti, i cui cervelli sono stati esaminati con risonanza magnetica mentre erano impegnati ad osservare le immagini di persone odiate e di persone a loro conosciute, nei confronti delle quali non sussisteva tale sentimento.

I ricercatori hanno così notato che la vista della persona odiata attivava particolari circuiti del cervello e alcune componenti che si sanno coinvolte nella generazione di comportamenti aggressivi e nella loro traduzione in schemi motori.

Nella corteccia prefrontale si attivavano aree essenziali per la previsione delle azioni degli altri, il tutto come se ci si stesse preparando ad affrontare il diabolico nemico, benchè questo fosse solo in fotografia. A livello sottocorticale vengono invece coinvolti il putamen e l’insula, due aree che si attivano nelle emozioni di disgusto e disprezzo, ma anche nelle prime fasi di attivazione nel sistema motorio. Proprio questo legame potrebbe costituire la ragione per la quale amore e odio sono così strettamente interconnessi.

“È significativo – spiega il prof. Zeki, responsabile dello studio – che sia il putamen sia l’insula vengano attivati dall’amore romantico. Il putamen potrebbe essere inoltre coinvolto nella fase di preparazione di azioni aggressive all’interno di un contesto amoroso, per esempio nelle situazioni in cui un potenziale rivale costituisce un pericolo. Gli studi fanno ritenere che l’insula potrebbe essere coinvolta anche nelle risposte agli stimoli della sofferenza, e la vista di un viso amato o odiato potrebbe costituire un segnale di sofferenza.”

ODIO E AMORE: DIFFERENZE

La differenza esistente tra il sentimento d’amore e il sentimento di odio è la seguente: una vasta area della corteccia cerebrale si disattiva nel caso dell’amore, mentre solo un’area minima si disattiva in presenza di odio. Dato questo che potrebbe sorprendere considerato che l’odio può essere una passione molto intensa, esattamente come lo è l’amore. “Ma mentre nell’amore romantico il partner ha spesso un atteggiamento meno critico e giudicante nei confronti del proprio amato, è più probabile che in caso di odio, la persona che prova questo sentimento voglia esercitare un giudizio per decidere azioni atte a danneggiare, ferire o vendicarsi della persona oggetto di odio.”

L’ODIO è IGNORANTE?

Mancuso conclude “l’odio non è intelligente. Non si tratta di essere necessariamente buoni nello scegliere di combattere l’odio. Si tratta di essere intelligenti”. Difficile dargli torto, la visione empatica ha sempre qualcosa di grandioso: aiuta a fare ammenda al senso di colpa che ci si incolla dal momento della nascita, eppure per chi studia la mente, l’odio è una passione interessante quanto l’amore, forse ancora di più. Diventiamo irrazionali in entrambe le situazioni, sia quando ci innamoriamo sia quando odiamo, e le azioni che talvolta compiamo come atti eroici o malvagi ne sono la diretta conseguenza. Quasi una necessità di sopravvivenza.

Quanto male siamo disposti dunque a fare in nome del Bene? Forse messa così, l’odio non appare neppure più una minaccia, solo un disperato bisogno di venir amati.

Addio Amos… scrittore della speranza

“Non c’è una felicità che assomiglia all’altra”, scriveva nel romanzo epistolare “La scatola nera”. Vivere nonostante la disperazione era forse la sua massima espressione di felicità.

Amos Oz, il grande scrittore israeliano, che nelle parole ha sempre cercato il senso del vivere e l’umanità delle cose, ha perso la sua ultima battaglia a 79 anni, dopo lunga malattia.

“Imparai a leggere praticamente da solo, ero ancora molto piccolo. Che altro avevamo da fare? Alle sette di sera eravamo già chiusi in casa per via del coprifuoco imposto dagli inglesi a tutta la città. Spesso saltava la corrente elettrica, negli anni Quaranta del secolo scorso a Gerusalemme, ma anche quando non saltava si viveva comunque dentro una luce vaga, perché era immorale usare una lampadina da quaranta watt quando si poteva leggere, cavandosi gli occhi, con una da venticinque (“che cosa avrebbero detto i vicini, vedendo un’illuminazione da gala?”.

L’ultimo libro tradotto in italiano “Finchè morte non sopraggiunga”, si fa oggi premonitore, nonostante sia stato pubblicato nel 1971.

Con ironia e passione, ha raccontato nei suoi libri l’amore e la morte, i sensi di colpa e la nostalgia. Di qualcosa che è stato ma poteva essere molto diverso. Il suicidio della madre, e lo spasmodico bisogno di trovarne un senso, la ribellione alle leggi famigliari entrando in un kibbutz e abbandonando il cognome originario, il racconto della storia di Israele. La lotta al fanatismo perché combattere «un pugno di fanatici su per le montagne dell’Afghanistan» è una cosa, ma «essere» contro il fanatismo significa essere aperti al pluralismo e alla tolleranza. Perché il fanatismo, prima di qualsiasi integralismo, è questione antichissima e radicata nella natura umana: «un gene del male».

«Lo scenario non è solo un ritratto di Israele dal giorno in cui fu fondato nel 1948 fino a oggi. È altresì una rappresentazione della stessa condizione umana. Noi tutti, ovunque, viviamo davvero alle pendici di un vulcano attivo. Forse il vulcano mediorientale è più attivo di quello europeo, ma ogni essere umano, in ogni luogo ed epoca, vive a stretto contatto con la disperazione, la paura, la catastrofe».

Lo ricordo con una frase che mi ha fatto molto pensare:  “Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere”

Addio Amos, che tu possa continuare a lottare anche là, dove forse la penna da arma, può farsi abbraccio.

 

 

PERCHE’ TUTTI ABBIAMO BISOGNO di CREDERE in un qualche DIO…

Sei dodicenni già vecchi, sei bambini soldato. Avevano visto la morte, forse l’avevano anche data, erano vissuti a contatto con l’orrore. E di colpo si erano ritrovati invecchiati: la fronte solcata da rughe profonde, gli occhi che avevano smesso di ridere, le mascelle serrate che indurivano i tratti del volto. Uno di loro mi chiese di spiegargli perché lui stava bene soltanto in chiesa. “Non vedo che immagini spaventose. Ma appena entro in chiesa vedo cose belle”.

All’età di 14 anni, un altro bambino fu gettato in un inferno dove la realtà si era trasformata in follia: Auschwitz. Di ritorno dal regno dei morti non riusciva a parlare. Intorno a lui tutti domandavano “Quale Dio ha permesso tutto questo?”. Finchè il ragazzo capì che Dio soffriva per la presenza del male.

PSICOTERAPIA DI DIO

Inizia così “Psicoterapia di Dio”, un libro che dà risposte. Anche quelle scomode. Sulla vita e sulla morte. Sul dolore e sul peccato e spiega perché miliardi di persone, hanno bisogno di rivolgersi a Dio in cerca di aiuto.

Che sia il Dio dei cristiani, quello degli ebrei o dei musulmani, che sia una presenza benevola o un equilibrio cosmico di ascendenza orientale, resta il fatto che moltissime persone si rivolgono a Dio per provare pace.

Esiste una spiegazione?  Boris Cyrulnik, il più noto neuropsichiatra francese, profondo studioso dei traumi dei bambini-soldato, si pone questa domanda cruciale. Il tema è immenso e non scevro da valenze politiche in un momento storico come il nostro, nel quale masse di persone compiono crimini efferati proprio in nome di un cieco credo religioso.

GLI EFFETTI POSITIVI DELLE RELIGIONI

Ma resta il dato positivo: l’ambiente pacifico, calmo e fiocamente illuminato delle cattedrali gotiche, il cantillare delle liturgie ebraiche, la voce rassicurante del muezzin che chiama i fedeli in preghiera sono tutti esempi del lato consolatorio della religione, in cui così tanti esseri umani cercano riparo. Con gli strumenti delle neuroscienze e con i concetti chiave di attaccamento e di resilienza, Cyrulnik mostra come la religione sia effettivamente in grado di avere effetti psicoterapeutici, spesso visibili. L’approccio scientifico e psicologico porta a comprendere come il cervello del bambino instauri con Dio un rapporto affettivo paragonabile a quello che si instaura coi genitori. Il mondo della mente in via di sviluppo si struttura e nel cervello si scolpisce un sé neurologicamente e psicologicamente legato all’ambiente di crescita, che spesso aiuta, e molto, a combattere le inevitabili avversità della vita. Dio e psicoterapia sembrerebbero dunque alleati, almeno fintanto che Dio viene percepito come un padre buono e accogliente. I problemi iniziano quando l’ambiente della crescita presenta ai bambini un Dio vendicativo e intransigente. Proprio come avviene coi padri violenti.

Che tu sia credente o non lo sia affatto, poco importa. Non è un libro che indottrina, è un libro che sviluppa la resilienza.

BIANCO a ogni COSTO: ANALISI di un FENOMENO PREOCCUPANTE

Una pubblicità di qualche anno fa vedeva come protagonista un ragazzino nero che entrava in una vasca e usato il prodotto reclamizzato, ne usciva con la pelle bianca.

In un altro spot l’ex miss Nigeria Akinnifesi, usava una nuova crema che pareva capace di rendere la sua pelle molto più chiara.

In un’altra ancora si vedono in fila tre ragazze (nera, bruna e bianca) avvolte solo da un asciugamano. Sopra di loro la nota: “prima” e “dopo”. Come se il sapone in questione riuscisse a “pulire” la pelle nera, rendendola bianca.

PERCHE’ LE DONNE VOGLIONO SCHIARIRE IL COLORE DELLA LORO PELLE?

Perché milioni di donne nel mondo, mi sono chiesta, vogliono schiarire il colore della loro pelle?

Un articolo della BBC “Africa: Where Black is not really Beautiful (Africa, dove il nero non è proprio bello)” ha scatenato un acceso dibattito su questa pratica che ribadisce una supremazia bianca e s’interroga sulla sua natura.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le Nigeriane sono le più dedite alla pratica, il 77% di loro consuma regolarmente prodotti per lo sbiancamento della cute. Seguono le cittadine del Togo con il 59%, quelle del Sudafrica con il 35%, mentre in Mali sono al 25%.

Lo fanno perché vogliono “la pelle bianca”, ha spiegato l’artista sudafricana Nomasonto Mshoza Mnisi, che ha difeso la sua scelta come una soddisfazione della sua autostima, al pari di un qualsiasi altro intervento estetico, e infatti si è anche sottoposta a interventi chirurgici per avvicinare i suoi lineamenti a quelli caucasici.

Allo stesso modo dell’analogo tentativo di sbiancamento di Michael Jackson.

PERICOLI E MALATTIE

Necessità che se da un lato può, a sentire le donne coinvolte, aiutare l’autostima e allineare agli stereotipi, può essere pratica pericolosa per la salute. Tanto è vero che il commercio di creme e prodotti sbiancanti è proibito in molti paesi dell’Asia e in quasi tutto l’Occidente, ma non ne è proibita la produzione e quindi, proprio da qui sono prodotti ed esportati in Africa, dove legalmente o clandestinamente finiscono sui mercati del continente.

Il pericolo si chiama ocronosi: malattia in forte aumento e che colpisce la cute a lungo sbiancata, facendola diventare viola e rovinandola anche oltre lo sgradevole effetto cromatico, estendendosi fino alle leucemie e ai tumori a reni e polmoni.

IDENTITA’ FERITE

Ma cosa spinge donne di colore, anche bellissime, a farsi bianche?

Non è la mentalità coloniale ossia la necessità di ritenere da parte degli africani, prodotti e cittadini dei paesi a maggioranza bianca e in particolare quelli europei, superiori. Non solo, almeno. Quanto piuttosto il riconoscimento inconscio di una realtà nella quale essere nero è ancora oggi, per molti, un disvalore. Anche in Africa.

Anche qui infatti un ascendente bianco nobilita il lignaggio, e coloro che si sbiancano la pelle non lo fanno per vezzo, ma perché vivono in società che hanno privilegiato la “pelle chiara” e continuano a farlo, così come continuano a privilegiare l’identità maschile su quella femminile.

Chiaramente la corsa allo sbiancamento rappresenta anche una ferita all’identità nera e un suo tradimento, almeno nella misura in cui riconosce e riafferma una superiorità bianca, ma ridurre il discorso al ritratto delle ingenue africane che trovano più bella la pelle bianca è limitante.

Basti pensare che il fenomeno che non ha subito rallentamenti nemmeno con la elezione di Obama a Presidente di una superpotenza mondiale, ma anzi lo ha alimentato in quanto ha una madre bianca e lui “non è poi così nero”, confermando che “meno nero” è comunque meglio di “più nero”.

PREGIUDIZIO O SOPRAVVIVENZA?

Nonostante sia passato un discreto numero di anni dai tempi dello schiavismo, il potere è ancora bianco e il pregiudizio contro i neri è ancora fortissimo e non ha mai smesso di essere alimentato. Se pensiamo ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è spesso un sentimento di diffidenza. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Tra neri con molti discendenti del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono un gradino più alti. C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.

Lo è in Africa, dove la maggior parte dei paesi sono oppressi da dittatori neri ma i fili sono tirati dai paesi dei bianchi e lo è negli Stati Uniti. È vero che si sono visti neri ricoprire tutte le maggiori cariche pubbliche statunitensi, ma è altrettanto vero che lo stesso Obama era l’unico (quasi) nero in tutto il senato.

Non è quindi difficile capire in quali mani stia lo scettro del potere. E non è difficile capire che la vicinanza culturale e di classe fra i maschi bianchi (molto ricchi) alla blindata maggioranza ai vertici dell’economia mondiale rappresenti quasi la divinità alla quale ispirarsi. Benchè quasi irraggiungibile.

Ecco perché attaccare o deridere le donne che rischiano la salute per salire qualche gradino di una scala sociale senza fine, può al limite apparire grottesco e triste. E talvolta necessario.

A COSA serve ESSERE SAGGI in MANICOMIO e VIRTUOSI in un NIGHT?

“Può esistere un mondo di soli sapienti?”.

“Sarebbe ancora più ingovernabile di quello che già è: con un eccessivo numero di persone orgogliose della propria intelligenza, del proprio sapere e poco propense a collaborare”.

“L’ignoranza costringe a cooperare: ognuno è depositario di un sapere individuale e si affida agli altri per avere accesso ad altre conoscenze e sfruttarle”.

“Questo è anche ciò che distingue il selvaggio dall’uomo moderno: il primo sa usare gli attrezzi che gli tornano utili, il secondo quasi nulla senza però che questo sia un problema”

“Esatto, nessuno lamenterebbe l’ignoranza in campo medico di un architetto. Ognuno di noi non conosce qualcosa, ma può, se ha interesse, a porvi rimedio”.

“Purchè ci sia consapevolezza. Per colmare la propria ignoranza in un certo settore bisogna prima ammetterla: l’errore non deriva dalla difficoltà a trovare la corretta risposta ma dall’incapacità di porsi le giuste domande”.

“Infatti le campagne contro l’ignoranza non sembrano funzionare. Credo sia perché trascurano un dato: l’ignoranza non è il contrario della conoscenza ma ne è parte. Più si sa più ci si accorge di non sapere”.

“Più utile sarebbe educare ad arrendersi ai limiti del conoscibile e imparare il valore dell’incertezza, anche se oggi google ci regala l’impressione di poter accedere a qualsiasi contenuto”.

“Il sapiente ha però un sostanziale svantaggio: quello di non essere compreso, come sosteneva oltre un secolo fa il saggista William Hazlitt che aggiunse: la vera felicità della vita consiste nel non essere né migliore né peggiore della media di quelli che si incontrano. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra, trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che ti interessa di più”.

“La più alta forma della  saggezza umana pare però troppo spesso consistere nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato: chiudendo gli occhi e cancellando i dubbi per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero. Quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie”.

“A cosa serve dunque essere dotti e sapienti?”.

“A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?”.

 

FERRAGOSTO: OGGI come ALLORA… TUTTO un SORPASSO

“Scusi, ma lei che fa a Ferragosto?”

Per l’ennesima volta mi sento porre questa assurda domanda. Fare qualcosa, con qualcuno, il 15 di agosto è diventato un imperativo, come a Natale e Capodanno.
Insomma, la solitudine a Ferragosto è un peccato da evitarsi ad ogni costo.
Non ho mai amato le ricorrenze, è forse il mio un ammutinamento all’effetto gregge, che vorrebbe tutti in fila, a timbrare i cartellini delle festività, come punti da raccogliere per vincere il premio dell’omologazione.

Il SORPASSO di FERRAGOSTO

Nelle riflessioni di prima mattina, mi viene alla mente che quel “scusi, lei che fa a Ferragosto”, in realtà è la domanda di avvio di un capolavoro “Il Sorpasso” di Dino Risi con un Vittorio Gassman e un Jean Louis Trintignant spettacolari.

Un film epico, benchè probabilmente nato con l’intenzione di fare semplicemente un film brillante e buono per i botteghini.
E’ il ritratto di un’Italia bighellona e assolata come mai era stato prima, è un’immagine perfetta, come i quadri marini di Monet: i “tipi” nazionali ci sono tutti, il riccone del boom, la bella ragazzina, la famigliola contadina, la campagna dell’alto Lazio, il mare quasi versiliano, la Roma agostana e rilucente dell’inizio del film, la leggendaria Aurelia B24, le sigarette e lo sci nautico, l’ignoranza, la solidarietà, il “rimorchio”, l’innocenza, la rissa al night club e la zuppa di pesce.
Insomma, la magia di un Ferragosto di altri tempi, passato troppo in fretta che ci impedisce, ogni anno, di diventare adulti. Insomma, allora come oggi, siamo sempre noi, alla ricerca di qualcuno, di qualcosa…

Buon Ferragosto a tutti, soli e in compagnia!

La SOLITUDINE di SCRITTORI e NUOTATORI

La SOLITUDINE del NUOTATORE

Ore seguendo una linea scura disegnata sul fondo, macinando chilometri, virata dopo virata, vasca dopo vasca e sfidando un cronometro impietoso.

Ci vuole resistenza e resilienza per nuotare. Sport solitario per eccellenza, l’unico limite che ti pone, non è l’acqua ma se stessi. Con i propri pensieri, le fragilità che vengono a galla e sono incapaci di perdonarti.

Senti il tuo respiro mentre nuoti, nient’altro che questo. E nessuno può dire se stai andando bene, devi saperlo da solo: si suppone che tu sappia, ogni minuto, ogni secondo, cosa stai facendo e se lo stai facendo nel modo giusto.

Nel momento stesso che metti piede in piscina, tutto svanisce.

Stress, paura e debolezze non possono entrare in acqua con te, devi essere più leggero che puoi, più veloce che puoi, più perfetto che puoi.  Sei semplicemente solo con te stesso. E all’improvviso neppure te ne accorgi della profonda solitudine in cui sei immerso. Quando nuoti. E quando scrivi.

La SOLITUDINE dello SCRITTORE

«La solitudine della scrittura – scriveva Marguerite Duras – è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora”.

Ci vuole separazione dagli altri quando si scrive. E la solitudine reale del corpo diventa presto quella, inviolabile, dello scritto.

Penna alla mano, mi domando quanto la solitudine affogata nell’acqua, mi abbia portato alla solitudine della scrittura. Così affine, perversa, necessaria.

Forse è per questo che non tutti sono scrittori… Non tutti sanno stare soli, nell’immensità vuota che forse, si farà libro. Non tutti sanno rendere la solitudine una necessità.

EGO, INDIPENDENZA e LAVORO INDIVIDUALE

Mi rendo conto che non si può essere nuotatore o scrittore se non si ama la solitudine e l’indipendenza violenta e inesprimibile che ne deriva. Glaciale e silenziosa eppure così accogliente e protettiva. Un gioco che da un lato coccola l’ego, dello scrittore e del nuotatore professionista, dall’altra il lavoro individuale della scrittura, il trauma e lo schiaffo della pagina bianca e delle vasche ancora, incessantemente, da nuotare.

RAZZISMO: FENOMENO DILAGANTE o INUTILE ALLARMISMO?

Il pregiudizio razziale è quella cosa per cui oggi se vedi due arabi che consultano freneticamente una mappa di Roma in treno ti domandi se non stiano preparando un attentato a Piazza di Spagna, mentre se incroci due norvegesi, su un treno, che consultano la stessa mappa e sono ugualmente agitati, dai per scontato che cerchino la strada per l’hotel nel quale soggiorneranno.

Se ne fa un gran parlare, in queste ultime settimane, di razzismo e reati contro gli immigrati. E non c’è giorno che qualche giornale e qualche politico snocciolino pro o contro, dati schizofrenici. Capirci qualcosa è complesso, così nel disordine di un indiscriminato overloading di dati, l’unica cosa a cui possiamo appellarci sono le scienze.

SCHELLING e i MODELLI sulla SEGREGAZIONE RAZIALE

“Perché una società sia segregazionista è necessario che le persone siano razziste non al 100% ma al 33%”, dimostrò l’economista americano Thomas Schelling, premio Nobel nel 2005 “per aver fatto avanzare la comprensione del conflitto e della cooperazione tramite la Teoria dei Giochi”.

Per usare le parole di Lucio Biggiero, docente di Organizzazione aziendale all’Aquila “se vogliamo evitare di finire in una società segregazionista, dobbiamo essere fortemente anti razzisti. La domanda da porsi quindi non è se non siamo razzisti, ma se siamo abbastanza anti-razzisti”.

Studi successivi a quelli di Schelling dimostrano che la segregazione raziale si genera già con livelli di intolleranza piuttosto bassi a cui si sommano sentimenti ed emozioni individuali.

L’ODIO: MIELE delle MASSE

I fanatici assolutisti non sono mai stati tanti, è piuttosto l’appartenere a un gruppo di tanti individui mediamente intolleranti che genera mostri, come ci ricorda la storia. Neanche troppo lontana.

L’odio, non dimentichiamolo, lega all’avversario, persino più di un sentimento amoroso. L’odio regala una specie di identità, una ragione sociale, un terreno di lotta. Sindrome, che il più grande scrittore di horror, Stephen King ha così magistralmente sintetizzato: “Forse è solo lo spirito della massa. Dare addosso all’individuo”.

 

 

 

 

QUANTO MI COSTA UN ARTICOLO SCRITTO DA LEI?

 

“Quanto costa un articolo scritto da lei”?

E’ una delle prime domande che mi viene posta, quasi ogni giorno. Prima ancora che mi vengano spiegati i contenuti e gli argomenti che si vorrebbero affrontare nel testo.

 Difficile è trovare un tariffario che indichi con precisione costi e prezzi per la scrittura di articoli o contenuti (per il web e non), di conseguenza i non addetti ai lavori si trovano in difficoltà ad interfacciarsi con i copywriter e i SEO copywriter, spesso non conoscendo il valore del lavoro.

La risposta è dipende.

Dipende da: tipo di articolo, tempistiche, competenze, professionalità ed esperienza del professionista. Gli articoli non sono tutti uguali e gli argomenti non sono tutti uguali. Così come non sono tutti uguali i blog, i giornali, le riviste dove vengono pubblicati.

COSA VUOL DIRE DIPENDE DAL TIPO DI ARTICOLO?

Esistono tipologie diverse di articolo: dalla riscrittura di news comparse su altri quotidiani (il prezzo in questo caso è piuttosto basso), all’articolo di 1500 parole per siti autorevoli che trattano specifici argomenti in maniera precisa e accurata. Scrivere genericamente di abbronzatura estiva è ben diverso dallo scrivere articoli scientifici sui danni che l’eccessiva esposizione al sole causa alla pelle. Diverso è scrivere su una generica pagina di FB, o su una rivista medica.

COSA VUOL DIRE DIPENDE DALLE COMPETENZE?

Non tutti coloro che scrivono, sanno scrivere e hanno le competenze (studi) e l’esperienza (maturata negli anni e comprovata) per farlo. Il costo di un articolo dipende anche dalle competenze dello scrittore, del professionista, del giornalista (e non persona improvvisata) che lo scrive.

Ricordo che giornalista non lo diventa scrivendo, ma dopo un iter non semplicissimo che si completa con l’iscrizione all’albo.

Quindi, se chi scrive è un professionista con reali competenze, ossia un giornalista un articolo può valere non poche decine di euro, diverso se chi scrive lo fa per diletto, in questo caso il valore corretto è quello che si può dare alla parole del provetto scrittore.

COME SI VALUTA IL COSTO DI UN ARTICOLO?

Il prezzo della stesura di un articolo è dato dalla somma di due diversi fattori: il valore dell’articolo in sé e la professionalità del Writer.

Esistono due diverse equazioni grazie alle quali è possibile quantificare il costo: la prima si basa sulla quantità di parole, la seconda sulla quantità di tempo.

Equazione n.1 – Numero delle parole x costo per parola = costo totale

Equazione n.2 –  Tempo per la scrittura x tariffa oraria del Writer = costo totale

A queste equazioni possono poi essere applicate delle costanti di difficoltà.  Se, ad esempio, viene richiesto un articolo per una rivista scientifica, il costo dell’articolo lieviterà, dovendo il writer andarsi a studiare l’argomento prima di poterne scrivere. Anche se a questo proposito sarebbe meglio avere argomenti ben definiti di cui scrivere, frutto di studi di base o approfondimenti. Insomma non ci si improvvisa tuttologi, ancor meno in questo campo.

Anche la tempistica ha un costo, così l’ottimizzazione SEO e la ricerca di immagini correlate se si tratta di testi online.

Il costo per parola dipende anch’esso dall’esperienza e competenza del copywriter. Per un freelancer alle prime armi un costo equo per parola è fra lo 0,015 – 0,02 cent; per un copy esperto 0,04-0,08 cent a parola.

Una tariffa oraria per un Freelancer potrebbe essere di 8-15 €/ora, quella di un professionista dipende da diversi fattori. Ha partita IVA? La sua attività ha spese? È formato e competente? In questo caso la tariffa potrà variare dai 25 ai 50 €/l’ora.

SCRIVERE UN ARTICOLO, COSA VUOL DIRE?

La scrittura del testo è solo una delle tante fasi necessarie alla realizzazione di un articolo e non è nemmeno la prima.

Prima fase: individuazione della Buyer Personas

Seconda fase: Key word Research

Terza fase: Studio dell’argomento
Quarta fase: Stesura dell’articolo

Quinta fase: formattazione su WordPress per aumentarne la leggibilità (se andrà online)
Sesta fase: ottimizzazione delle immagini
Settima fase: ottimizzazione SEO (tag title, meta description e link interni)

Scrivere un articolo, soprattutto quando ottimizzato SEO significa solo in una minima parte scrivere il contenuto testuale. Tutte queste fasi “accessorie” sono quelle che definiscono il valore, e quindi il prezzo, dell’ articolo, nonché la professionalità del Writer.

QUINDI, QUAL E’ IL PREZZO DI UN ARTICOLO?

Ogni articolo ha un prezzo diverso.

Dai 10 € per un esordiente senza esperienza, dai 50 € in su per i professionisti per un articolo standard sotto le 1000 parole.

Un costo non eccessivo se conti il tempo e l’esperienza.

E TU COME CALCOLI IL VALORE DEGLI ARTICOLI?

Questa è una domanda che non dimentico mai di fare ai miei clienti. Spesso, soprattutto chi non ha dimestichezza con la scrittura, tende a sottovalutare la professione dello scrittore… per questo è importante mai sostituirsi al cliente, ed è anche per questo che spesso più che sostituirmi a lui, lo affianco. Lui scrive e io aggiusto, limo, perfeziono. E questi sono sempre i clienti più soddisfatti.