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QUANTO sono (in)UTILI i MEMI?

Sono yuppies oppure yappies, per chi mastica l’inglese. Sono i figli di quest’Italia che va di corsa, che toglie i soldi dal materasso e li sputtana tutti in borsa”, cantava Barbarossa o per dirla alla Brunori “Noi siamo i figli della borghesia, la quintessenza dell’ipocrisia. Siamo i gemelli sui polsini. Siamo l’oliva nel Martini”… Fino a Pit: “Ho la faccia di quel #meme, quando stiamo insieme soltanto di notte. Domani c’è chi mi chiede chi è quello che mi ha coperto, questa faccia di botte”…

Un modo insolito per presentare il tema di questo post: il #meme. Con uno sguardo malinconico sul passato e un po’ di retorica sul presente, sperando che non sia il futuro. Ma forse più attuale di molti incipit.

Veniamo al dunque.

IL MEME QUESTO CONOSCIUTO

Il meme è un contenuto di natura umoristica o frutto di rielaborazione creativa di scene di film, serie o programmi TV, opere artistiche, diventati cult nell’immaginario comune che si diffonde rapidamente in rete, diventando spesso virale.

Il termine deriva dal greco mimēma: ciò che è imitato. È nel campo della biologia genetica che si riscontrano i primi utilizzi del termine, dove indicano una mutazione improvvisa nel processo di selezione darwiniana, legata a un cambiamento casuale propagatosi per replicazione. Solo a partire dagli anni ‘70 meme viene utilizzato per spiegare come si diffondono idee, gusti culturali, informazioni.

A coniare il termine è Richard Dawkins, pioniere della biologia evoluzionistica e autore de Il gene egoista. A differenza dei geni, i meme sono idee che si diffondono tra persone, replicandosi come virus sociali.

UTILITA’ DEI MEME

Da una parte aiutano la condivisione di emozioni, tanto che si sta cercando di capire come il loro utilizzo possa impattare sulla salute mentale. Alcuni studi hanno rilevato che comunicare tramite meme divertenti aiuta la gestione dell’ansia durante le fasi acute di malattia. Altre ricerche hanno dimostrato che le persone con sintomi depressivi hanno maggiori probabilità rispetto alle persone che non ne soffrono di trovare i meme depressivi divertenti, riconoscibili, condivisibili e capaci di migliorare l’umore.

L’uso dei meme come reazione, presenta un grosso impatto sui comportamenti collettivi, perché facilitano i comportamenti specifici che possono meglio garantire la sopravvivenza sociale, classificando i pensieri. Si usa sempre un meme che si sa che l’altro si aspetta di ricevere o che secondo noi avrebbe postato come reazione.

Nonostante le diverse classificazioni delle espressioni facciali emotive, che spesso ne appiattiscono la complessità, i ricercatori oggi considerano le emozioni e le loro espressioni dipendenti dai modelli di pensiero e dai contesti culturali. Ciò che sembra paura per una persona potrebbe sembrare sorpresa per un’altra. Inoltre, spesso si confonde la rabbia con il disgusto e la paura con la sorpresa. Quindi le emozioni hanno bisogno di una nuova classificazione. Un esempio è la scena di The Big Bang Theory in cui Amy Farrah Fowler osserva le reazioni di Sheldon e di una scimmia al test delle emozioni.

Diverse ricerche hanno osservato che vi sono sfumature nelle emozioni evocate dai contenuti video che le teorie precedenti non avevano considerato. Mostrando dei video emotivi alle persone e analizzando le parole nelle loro risposte auto-segnalate, alcuni ricercatori hanno avrebbero individuato 27 “emozioni” distinte.

PENSIERI ESTERNALIZZATI

Aditya Shukla definisce i meme “pensieri esternalizzati”. Se riesci a pensare a un meme per una situazione, significa che c’è un modello di pensiero già pronto che è stato acquisito da un precedente meme. Di fatto, ricorriamo a un modello esistente della cultura di internet sotto forma di meme per elaborare il pensiero, anziché utilizzare una frase.

Adattare i pensieri ai meme o trovare la corrispondenza migliore è un processo metacognitivo: pensieri sui pensieri. Se il meme trasmette più significato delle parole a causa del suo schema intrinseco, lo si usa per essere compresi. Questo in una visione ottimistica. I ricercatori si chiedono quanto i ragazzini abbiano bisogno di semplificare le emozioni per poterle classificare, o quanto invece abbiano necessità di apprendere più sfaccettature possibili per descrivere e comprendere ciò che arriva loro davanti improvvisamente in una chat con sconosciuti.

MEME PER IMITAZIONE

I meme sono potenti strumenti di connessione e condivisione che attraversano generazioni e comunità online. Questi fenomeni umoristici rappresentano un linguaggio universale, facilitando l’identificazione tra individui. Tuttavia, è importante notare che un uso eccessivo dei meme, e quindi dei dispositivi digitali, può portare a conseguenze come il phubbing.

Non va dimenticato che spesso si ricorre ai meme per imitazione: per il desiderio di non essere diversi dalle persone che ci circondano. Un esempio è il film Zelig dove il protagonista, Woody Allen, si trasforma nei personaggi con cui parla. Quando parla con un rabbino, si trasforma in un rabbino. L’effetto camaleonte può essere del tutto spontaneo, ma può anche essere provocato intenzionalmente. Questo è un punto importante, perché ci dice che i memi possono essere pericolosi.

Dawkins considera i memi come aspetti del modo di pensare e di comportarsi che, presumibilmente, sono sempre esistiti. Di certo il ruolo guida nella diffusione del modo di pensare per “memi” spetta alla società statunitense: la rimozione, o distruzione, delle statue di Cristoforo Colombo, considerato esponente del pre-colonialismo, o a ossessivi richiami alla eguaglianza di genere. Se ne può citare una al limite dell’assurdo: non si dica più – impone il meme – history ma herstory… Nel resto del mondo occidentale è fastidiosa la trasformazione della parola uomo in senso memico. Questa trasformazione è iniziata nelle riviste scientifiche che, con la motivazione che man discriminerebbe le donne, hanno incominciato a correggere titoli come “The neocortex in the man” in “The neocortex in humans”. E il meme si è esteso anche a campi diversi dalla medicina. Una rivista di architettura ha modificato il titolo: “Una città a misura di uomo” in “Una città a misura della persona”.

Altri esempi: “portare avanti il discorso” – un meme popolarissimo negli anni ’60. Significa “non abbiamo deciso, creiamo un Comitato di studio”. “Fare un passo indietro” usato per chiedere le dimissioni. È un’ipocrisia linguistica di una certa eleganza usata quando si sa che non si ha la forza per ottenere le dimissioni richieste. “Resilienza”: mediato dalla metallurgia per descrivere la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. La Commissione Europea ha inserito la “resilienza” tra le priorità della politica economica europea. Non è chiaro che cosa il meme indichi, ma non importa: è un meme bello, suona bene, e fa sentire colto chi lo usa.

POSSONO ESSERE PERICOLOSI?

Possono i meme essere pericolosi in quanto capaci di influenzare il modo di pensare della comunità su questioni di grande valenza?

In parte sì, in quanto l’invasione dei meme sul nostro cervello, e la loro conseguente diffusione, avviene quando le nostre capacità critiche latitano. Negli anni ‘30, un mezzo efficace per propagare memi è stata la radio. L’abilità di Goebbels (Ministro della Propaganda di Hitler dal 1933 al 1945) nell’uso della radio come mezzo di propaganda, è stato un fattore fondamentale per diffondere le idee naziste e fare entrare nella mente dei tedeschi memi irrazionali come i presunti complotti del capitalismo “ebraico” o la superiorità della “razza” ariana, ecc.

Il fattore pericoloso oggi è internet nel suo aspetto interattivo. Il bombardamento di memi, con la richiesta di condividerli, in assenza del momento critico di riflessione che dovrebbe accompagnare la richiesta, è divenuto ossessivo. I memi di internet si propagano immediatamente e influenzano migliaia di persone, sfortunatamente anche su temi di grande importanza.

Sfuggire ai meme è difficile. Poichè permeano il quotidiano soprattutto per alleggerire e far sorridere. Eppure, finiscono per essere presi sul serio: obbligandoci, per esempio, a definire i portatori di gravi disabilità come “diversamente abili”, e gli spazzini come “operatori ecologici”. Il fatto è che il nuovo nome – meme piace a una classe politica convinta e soddisfatta di avere determinato così, col nuovo meme, una promozione sociale degli spazzini.

O ancora, siamo ufficialmente tenuti a definire madre e padre “genitore 1” e “genitore 2” e qui i commenti sono superflui.

Forse, non ci rendiamo conto della pericolosità della situazione per il dilagare di tutti questi memi minori. È indispensabile opporvisi, seguendo l’esortazione scrittore brasiliano Jorge Amado: “Io dico no quando tutti in coro dicono sì. Questo è il mio impegno”. Dire no, quando i memi in coro dicono sì, pare a ogni modo una buona regola.

Cosa ne pensate?

Come CONOSCERE una PERSONA: CONVERSAZIONI per APPREZZARE quanto c’è di BELLO negli ESSERI UMANI

Non tutti hanno la capacità (e l’energia) per socializzare e spendere molto tempo fra la gente. Io sono fra questi. Per quanto mi piaccia confrontarmi, parlare e ascoltare le persone, stare da sola a casa a leggere un buon libro, non mi annoia mai. Anzi, mi ricarica.

Ed è di questi due aspetti che voglio scrivere oggi: di libri e di socialità. Rubando idee e suggerimenti a David Brooks, editorialista americano, autore di: How to Know a Person: The Art of Seeing Others Deeply and Being Deeply Seen.

Brooks spiega che le capacità conversazionali e sociali,non sono solo tratti innati, e come tali possono essere apprese e migliorate. Un libro utile per gli introversi, per coloro più a loro agio a stare in silenzio o immersi nei loro pensieri che a chiacchierare, ma non solo.

Difficile leggere How to Know a Person, senza prendere appunti e riflettere sul proprio stile comunicativo.

Nel capitolo “Good Talks“, il focus è su ciò che rende una conversazione significativa. Se ci fermiamo a riflettere, non è così scontato che tutte lo siano. Ci sono occasioni in cui si è pienamente presenti e coinvolti, altre in cui si cerca solo di non venir interrotti pur di poter dire la propria su argomenti di cui, facilmente, gli altri sono poco o nulla interessati.

Una delle lezioni più strategiche del libro è l’importanza dell’ascolto attivo o, come lo chiama Brooks, ascolto ad alta voce. In questo sono piuttosto brava, almeno quando sono molto interessata a un argomento e posso imparare qualcosa di nuovo o aiutare chi mi è di fronte. Su questo, il libro mostra quanto possa essere trasformativo avere lo stesso entusiasmo sia quando si ascolta qualcuno parlare di una difficoltà che sta affrontando sia di un risultato di cui è orgoglioso.

I consigli pratici non mancano.

Porre domande aperte che invitano le persone a condividere esperienze e prospettive in modo più approfondito è un buon inizio. Così come usare la tecnica del looping” o parafrasi: riassumere quanto è appena stato detto per assicurarsi di averlo capito correttamente. O ancora, il metodo SLANT per trasmettere attenzione e interesse in una conversazione: Sit up (siediti); Listen (ascolta), Ask & Answer questions (fai domande), Nod your head (annuisci) e Track the speaker (segui l’oratore).

Pratiche che ci permettono di essere presenti e in sintonia in tutti i tipi di relazioni e interazioni e di far sentire gli altri ascoltati e apprezzati.

Nel capitolo “The epidemic of blindness”, il focus è la tecnologia e come questa ha contribuito a un crescente senso di solitudine e disconnessione. Siamo più connessi che mai, ma ci stiamo davvero vedendo e comprendendo?

Questa domanda diventa ancora più urgente se si considerano le divisioni sociali e politiche evidenziate da Brooks. Le statistiche che cita sull’aumento di depressione, suicidi e della sfiducia sono allarmanti e sostiene che “questo sfaldamento sociale sta alimentando le divisioni politiche”. La sua discussione su come la politica possa diventare un sostituto della connessione genuina, portando le persone a trarre soddisfazione dall’urlare contro e odiare coloro con cui non sono d’accordo invece di cercare di capirli, evidenzia una tendenza di cui è difficile non preoccuparsi.

Nel libro, David collega questi mali sociali ai cambiamenti del sistema educativo. Sostiene che le scuole si sono allontanate dall’insegnamento di ciò che lui chiama “abilità morali e sociali“, e che questo ci ha lasciato impreparati a costruire relazioni e comunità forti. È un argomento interessante e attuale che coinvolge tutti.

Ciò però che rende il libro così avvincente è che ci sfida a mettere in pratica le sue intuizioni. Riguarda l’essere intenzionali nelle nostre interazioni, che ciò significhi porre domande più ponderate, ascoltare le risposte o esprimere un apprezzamento sincero. Riguarda l’affrontare le conversazioni con generosità e curiosità, cercando modi per connettersi e comprendere. E riguarda la consapevolezza che anche piccole cose, come porre la domanda giusta al momento giusto o fare un complimento, possono fare una grande differenza nella costruzione di relazioni. Sono certa che ciò che ho imparato dal libro rimarrà con me per molto tempo.

How to Know a Person, più che una guida per conversazioni migliori, è un modello per un modo di vivere più connesso e umano. Con molti riferimenti a fonti letterarie, scientifiche e psicologiche. È una lettura obbligata per chiunque voglia approfondire le proprie relazioni e ampliare le proprie prospettive, e credo che abbia il potere di renderci amici, colleghi e cittadini migliori.

Le FATE NON esistono SE i BAMBINI NON battono le MANI

Era il 1999, avevo 18 anni, e quando mio nonno mi chiese quale regalo volessi per il compleanno risposi I versetti satanici di Salman Rushdie. Pur essendo un fervente e onnivoro lettore, mi guardò stranito. Per i miei “primi” 18 anni sicuramente si era aspettato qualcosa di più impegnativo, almeno economicamente.

E’ stata un’intervista di Antonio Monda su La Stampa allo scrittore indiano, a farmi tornare alla mente quell’episodio.

Irriverente, ma coraggioso, mi stimolava l’idea di leggere un libro censurato e di un autore che oltre alla condanna a morte decretata da Khomeyni, anche diversi traduttori avessero rischiato la vita (il traduttore italiano e quello svedese vennero feriti e il traduttore giapponese venne ucciso l’11 luglio 1991) per aver avuto a che fare con questa storia.

“Un uomo che decide di inventare se stesso, si assume il ruolo del Creatore, almeno secondo un certo modo di vedere le cose: è uno snaturato, un bestemmiatore, un abominio tra gli abomini. Da un altro punto di vista, potreste vedere pathos nella sua persona, eroismo nella sua lotta, nella sua disponibilità a rischiare: non tutti i mutanti sopravvivono. […] Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta”.

Ricordo lo smarrimento dopo aver divorato le 500 pagine del libro e la magia sognante di una storia di cui non si capisce il senso fino a quando una voce non ti illumina all’improvviso dall’alto e ti dice: Per rinascere si deve prima morire.

Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta. Di recitare ancora la parte di Dio, potreste dire. Ma potreste anche scendere qualche gradino e pensare a Tinker Bell: le fate non esistono se i bambini non battono le mani. O potreste semplicemente dire: significa proprio questo essere un uomo. Non è solo il bisogno di esser creduti, ma quello di credere in un altro.

Rushdie mi aveva conquistata. Una storia dove uomini comuni precipitano da 6000 metri senza conseguenza alcuna, dove uomini comuni acquistano come per magia un’aureola luminosa o due corna da capra, dove uomini comuni scelgono di vivere una vita lontano dalla loro patria e si fanno sedurre dalle luci dell’Occidente, dove uomini comuni cercano un’integrazione in una cultura diversa dalla loro. Quello che mi ha insegnato Rushdie, è che ogni persona può sbagliare e avere debolezze, che la lotta tra il Bene e il Male è e sarà sempre parte importante della nostra vita, che l’Amore (per se stessi, per gli altri), è l’unico segreto da conoscere.

Mentre scorro l’articolo, le parole di Rushie, continuano a farmi riflettere: “Cos’è la libertà di espressione? Senza la libertà di offendere cessa di esistere”.

RACCONTI STORIE o COSTRUISCI RACCONTI?

Tutti raccontiamo storie, attraverso i post, i video, le foto, i blog, i profili, le canzoni…

Raccontiamo storie, ma il raccontare storie non è fare storytelling.
Proprio così. Fare storytelling non vuol dire raccontare storie ma costruire racconti.

La storia è una cronologia, il racconto invece è una rappresentazione. Fare storytelling significa creare rappresentazioni testuali, visive, percettive, scegliendo gli strumenti giusti con cui porgere al pubblico giusto un racconto che a quel punto diventa la tua rappresentazione specifica”. A dirlo il più rilevante esperto di Corporate Storytelling in Italia, Andrea Fontana.

In altri termini… una cosa è raccontare la storia cronologica di Apple, un’altra è il racconto di Apple, che è fatto dal mito di Steve Jobs, dal comportamento dei suo manager, dalla estetica dei suoi store e dei suoi prodotti e le modalità di rappresentazione che come azienda decide di avere per raccontarsi.

Per diventare very Storyteller occorre essere strateghi del racconto. Non si racconta a caso, è tutto estremamente curato. Uno stratega cerca di capire chi è il suo lettore, che mercato frequenta, di cosa ha bisogno. Nel costruire un racconto c’è ispirazione e creatività, ma non senza tecnica e sistema.

Occorre possedere lo script-writing narrativo. Che non consiste nella semplice abilità a scrivere. Scrivere in modo narrativo è la capacità di creare mondi di senso e di destino. Occorrono competenze visive e di costruzione di immaginari visuali.

E per finire occorre il design di esperienze narrative. Quando ho costruito un racconto devo curarmi anche di come gli altri vivranno il racconto. Se non sai fare questo, non sai nemmeno costruire un libro, un video, una storia…. Non solo non sai come costruirla, ma neanche come gli utenti la vivranno. In altre parole: sei tu che prepari le “regole del gioco” del (tuo) racconto che l’altro dovrà poi vivere.

Ricapitolando ecco le 3 qualità di un bravo storyteller:

  1. Ordine strategico: bisogna scegliere bene a chi raccontare cosa. La selezione del proprio target è fondamentale per avere uno storytelling efficace. Andare a caso, lasciare spazio solo alle emozioni, non paga.
  2. Saper scrivere e sapere ciò di cui si scrive: saper scrivere narrativamente è più difficile di quello che sembra. Non si improvvisa e richiede anni di pratica e studio.
  3. Aver chiaro come il cliente vivrà il racconto: l’user experience è essenziale e un bravo storyteller si domanda come gli altri vivranno il suo racconto e ne tiene conto.

L’errore che un bravo storyteller sa assolutamente evitare? Raccontarsi in modo eccessivo. Può sembrare un paradosso, ma bisogna raccontare la storia degli altri, non la propria. Quella in cui vi riconoscono e si riconoscono.

Per FORTUNA OGGI sembra andare TUTTO STORTO…

Ci sono giorni in cui tutto inizia in modo sbagliato. Non trovi nulla da indossare, nonostante la cabina armadio straripi di vestiti, l’unico che vorresti mettere è in tintoria. La corrente elettrica ti abbandona e ti tocca aprire a mano il garage per far uscire l’auto, e la conferma di avvio di un progetto latita. Oggi è una di quelle giornate.

Poi inizio a lavorare e il mio cliente prima ancora di sedersi mi chiede “Perché a volte sembra che tutto vada storto?”.

E già solo ascoltare la domanda, mi rasserena. Mentre penso alla relatività delle cose e al bisogno umano di avere il controllo sugli accadimenti. Quando il controllo lo abbiamo piuttosto raramente.

Abbiamo la presunzione di averlo, una beata illusione. Forse abbiamo il controllo del volume della suoneria dello smartphone e dell’aria condizionata, ma non a molte più cose. E’ evidente che ognuno di noi si illude di avere il controllo sulla propria vita, quando in realtà quasi nulla è in nostro potere.

A volte accadono cose per cui non siamo pronti. Tanto che la vita ci coglie impreparati. La maggior parte delle volte, ad essere sinceri. Ci siamo preparati per anni alle delusioni, ai fallimenti, agli abbandoni, ai pericoli, alle brutte notizie. Ma sostanzialmente non siamo pronti. Siamo (stati) preparati, ma non pronti. Siamo pugili con la guardia alta, ma ci dimentichiamo che l’unico modo sicuro per non prendere neanche un pugno in pieno viso è stare giù dal ring.

Tenere la guardia alta, è faticoso. Vuol dire decodificare ogni possibile movimento dell’avversario, capire da questo le sue intenzioni e anticiparle per non andare a tappeto. Tre cose, quindi siamo costretti a fare continuamente: monitorare (l’avversario), controllo (di sé) e anticipazione (delle azioni e dei movimenti).

Scendiamo dal ring. Cosa ci insegnano fin da piccoli? Che se vuoi, puoi. Che se ti impegni abbastanza le cose belle succedono, e le cose brutte succedono se non ti impegni abbastanza: se non stai abbastanza attento, se non prevedi qualcosa che a pensarci un attimo meglio saresti riuscito a prevedere, se non anticipi possibili catastrofi, se non cogli i segnali. E noi, giustamente, a queste cose crediamo.

Crescendo, riceviamo un sacco di rinforzi per la nostra capacità di prevedere, per il nostro monitoraggio, per il nostro livello di controllo su di noi e sull’ambiente. Ho tenuto d’occhio le priorità del capo, mi sono focalizzato e speso su quelle e ho ottenuto una promozione. Ho capito cosa piace alla ragazza che mi piace, le ho attaccato bottone parlando di quello e ci sono uscito assieme. Rinforzi su rinforzi, e la strategia si mantiene.

Cosa vogliamo a tutti i costi evitare attuando questa strategia? Qual è la sensazione che non vogliamo provare? Non vogliamo sentirci vulnerabili. Ognuno di noi ha un particolare tipo di pugno che non vuole ricevere: per qualcuno ha a che fare con il rifiuto, per altri con il mancato riconoscimento del proprio valore, per altri con la percezione di essere colpevole. Ed ecco l’avversario.

Teniamo alta la nostra guardia fatta di anticipazione e controllo per non permettere a noi stessi di percepire questo stato intollerabile per noi, anche alla luce della pochissima esperienza che ne abbiamo fatto (grazie alla nostra strategia, appunto, e qui la storia si ripete).

A volte, però, succede qualcosa. Sei sul ring e un forte rumore ti distrae, qualcuno sbatte la porta, una luce attira la tua attenzione, giri gli occhi e ti ritrovi al tappeto. Tutto il castello di carte costruito fino a quel momento, tutta la strategia, tutta l’onnipotenza che portava in sé pensare di avere una strategia che ti avrebbe sempre difeso, tutto crolla. Come un castello di carte al soffio del vento. Sei per terra. Non ci sei mai stato. Allora succedono cose nuove. Spesso è solo allora che accadono cose buone.

Il mio cliente è qui a richiedermi una consulenza proprio per evitare che quel pugno arrivi, affinchè possa diventare ancor più bravo a prevenire, anticipare e controllare. Quasi una missione impossibile. Non è quella la soluzione vincente.

Mentre le parole vagano nella stanza, fra coaching e consulenza, gli interrogativi si dipanano. Le domande scrostano certezze ataviche, quelle di entrambi.
E mentre saluto il cliente, sorridendo ripenso alla mia giornata. Per fortuna è stato un giorno in cui tutto è andato storto…

TUTTO SUCCEDE alle 4 del MATTINO… ci avete mai fatto caso?

Avete mai fatto caso che ci sono cose che si fanno luogo comune, senza che nemmeno ce ne accorgiamo? Una di queste è ritrovarsi svegli alle 4 del mattino. La peggiore ora possibile. Troppo tardi per addormentarsi e troppo presto per sentirsi riposati.

L’ora delle streghe, delle avventure, dei suicidi, dei pensieri raggomitolati su se stessi, degli incubi e degli agguati alla polizia: il copione di Coppola nel Padrino sono le 4 del mattino.

Nella Casa degli Spiriti di Isabel Allende, Rosa dopo che viene uccisa, il medico la conserva con unguenti, lavorando fino alle 4 del mattino.

Martin Amis invece scrive: “l’11 settembre 2001, aprì gli occhi alle 4 del mattino a Portland: così iniziò l’ultimo giorno di Mohamed Atta”. Per essere l’ora più tranquilla e povera di eventi, le 4 del mattino vantano una pessima reputazione.

Sono molti i Media che non si sottraggono a questo luogo comune. Forse l’espediente delle 4 del mattino è qualcosa di segreto, deliberato, che noi comuni mortali non sappiamo comprendere…

Alberto Giacometti le cui sculture sono raffigurate sulle banconote da 100 franchi svizzeri, ha un’opera esposta al Moma di New York con il titolo “Palazzo alle 4 del mattino”.

Se cercate su Google “quattro del mattino”, oltre alle canzoni di Faron Young, i film di Judi Dench, incappate anche nella poesia di Wislawa Szymborska. Cosa possono avere in comune una poetessa polacca, una gentildonna inglese e un musicista country?

Faron Young si sparò alla testa il 9 dicembre del 1996, che per inciso è anche il giorno del compleanno di Judi Dench. Ma non è morto quel giorno, bensì quello dopo, alla stessa età di Giacometti.

Quello stesso giorno, il 10 dicembre 1996, invece Wislawa Szymborska era a Stoccolma a ritirare il premio Nobel per la letteratura, 100 anni dopo la morte dello stesso Alfred Nobel.

Coincidenze? Sincronismi?

In My life, la biografia di Bill Clinton, a pagina 474 si legge “Sebbene stesse migliorando, ancora non ero soddisfatto del discorso inaugurale. I miei autori lavorarono dall’1 alle 4 del mattino del giorno dell’inaugurazione, e ancora lo stavano cambiando”. Insomma, ti eri preparato tutta la vita a quello storico evento e qualsiasi discorso non pareva mai quello giusto.

Qualche riga dopo “il discorso migliorò molto alle quattro del mattino”. Com’è possibile? Che diavolo prende ai presidenti americani, alle 4 del mattino delle inaugurazioni?

Cos’é successo a William Jefferson Clinton? Potremmo non saperlo mai.

Ciò che va ricordato, nel finale della sua bella autobiografia, è che quel giorno Bill Clinton ha iniziato un viaggio – un viaggio che lo ha visto arrivare a primo Presidente Democratico eletto per due volte consecutive da decenni. Da generazioni.  Il secondo dopo quest’uomo, Franklin Delano Roosevelt,  che iniziò questo viaggio senza precedenti,  alla sua prima elezione,  in tempi meno complicati, nel lontano 1932. L’anno in cui Alberto Giacometti realizzò “Palazzo alle quattro del mattino”…

PORTATILE e DITA VELOCI: NON è COSI’ che si SCRIVE uno SPEECH

“Laura, ho bisogno che mi scrivi un altro di quei tuoi bellissimi discorsi. E’ un’occasione importante per l’azienda che rappresento, come ben sai”. Detto così sembra semplice. In fondo cosa ci vuole per scrivere uno speech: carta, penna, anzi portatile, dita veloci e qualche idea bene infiocchettata…

Se questa è la tua convinzione… non è l’articolo giusto per te!

Mentre mi informo sui contenuti che dovrò inserire nel discorso, leggo, analizzo la concorrenza, studio, mi confronto e cerco di lasciare il meno possibile al caso. Perché se è vero che occorre emozionare per attrarre il pubblico, per mettere dei contenuti di valore è essenziale conoscere ciò di cui si scrive. Il back di ogni scrittura è un lavoro enorme, spesso neanche minimante considerato. Da chi non sa di cosa si sta parlando…

I grandi oratori sono capaci di connettersi con il pubblico e rimuovere qualsiasi distrazione che ostacoli la comunicazione e il raggiungimento del loro obiettivo. Gli altri meno grandi, invece, sono focalizzati su ciò che vogliono dire e dimenticano di avere davanti un pubblico che ha delle specifiche esigenze. Un buon discorso deve tenere conto di quello che il pubblico si aspetta di sentire e capire quali parole sia meglio usare. E ipotizzare quali ostacoli potrebbero interferire sulla buona riuscita dello speech.

PREVIENI GLI OSTACOLI. Se chi scrive uno speech non si concentra abbastanza sul destinatario della comunicazione e sui desideri, bisogni e stile di vita che lo caratterizzano, potrebbe prendere involontariamente le distanze dalla platea. Bisogna trovare un linguaggio comune e rapportarsi in maniera spontanea e diretta. Un modo per evitare che il pubblico perda interesse o faccia resistenza è pensare alla natura delle possibili resistenze. Sforzarsi di pensare a diversi punti di vista, anche quelli apparentemente assurdi. Ogni punto di vista, per quanto possa sembrare ridicolo, potrebbe essere proprio quello di uno degli spettatori che è venuto apposta a sentirti parlare. Potresti non condividere affatto tale punto di vista ma è importante che l’ascoltatore sappia che tu l’hai considerato. Dimostra che hai approfondito il tuo lavoro fino in fondo.

LA STORIA NELLA STORIA. Dopo anni passati a studiare letteratura e discorsi celebri ho scoperto una struttura che i grandi comunicatori usano da secoli: la storia nella storia. La ragione per cui amiamo così tanto queste storie è dovuta all’alternarsi di tensione e rilascio, conflitto e risoluzione. Si può ottenere la medesima tensione giocando a muovere avanti e indietro il filo del discorso, alternandolo tra ciò che è la realtà adesso e ciò che potrebbe diventare. Attraverso il contrasto continuo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il pubblico comincia a vedere una realtà molto più interessante di quella in cui si trova attualmente. Riuscire a modificare l’atteggiamento, e di conseguenza l’azione, del pubblico è difficile. Usare il contrasto è il modo migliore per aiutarlo a vedere la tua idea più chiaramente.

PAROLE E CAMBIAMENTO. Un grande discorso produce un cambiamento nel pubblico. Lo fa sentire migliore, gli conferisce nuove conoscenze e nuovi strumenti e lo spinge all’azione. Le migliori presentazioni producono esattamente questo cambiamento, spingono il pubblico a migliorarsi.
E’ noto che quando ascoltiamo una bella storia il nostro corpo reagisce involontariamente. Le pupille si dilatano, sentiamo i brividi lungo la schiena, ci protendiamo in avanti per ascoltare meglio il racconto. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato delle sensazioni durante un discorso? Per questa ragione i presentatori spesso sono reticenti ad allegare materiale durante i loro discorsi, così da avere la possibilità di stupire il pubblico. La cosa migliore che si può sperare di ottenere dal pubblico è un riscontro di tipo emozionale.

QUANDO DEVE DURARE UNO SPEECH? Uno speech deve essere breve. Se hai un’ora a disposizione usa 40 minuti; una maggiore sintesi risulta difficile a chi non è allenato. La forza dei Ted ad esempio sta nella durata degli “speech”: fra i 15 e i 20 minuti, dietro i quali si nasconde un poderoso sforzo comunicativo volto a esprimere un punto di vista in poco tempo. Oggi viviamo nella società dell’impazienza, del tutto subito. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: ‘speriamo che la presentazione sia lunga!’. Quindi tagliare, accorciare e rileggere per rendere il tutto più asciutto possibile.

E INFINE…
Un ultimo consiglio: i discorsi non suonano credibili se le promesse che contengono non si realizzano. Questo vale per tutti!

A VOLTE le PAROLE non bastano. E allora SERVONO i COLORI.

Il professor Andrew Elliot condusse un esperimento bizzarro: chiese a studenti eterosessuali di sesso maschile di guardare più foto che ritraevano una giovane sconosciuta, e di valutarne l’attrattiva su una scala da 1 (per nulla attraente) a 9 (estremamente attraente). A cambiare da immagine a immagine era il colore del bordo che incorniciava la foto: bianco, rosso, blu e verde.

Gli psicologi conoscono alcune cose sul colore: il nero è associato all’eleganza, alla ricchezza, al potere e alla forza, il verde calma, il rosso è il colore dell’amore… Ma Elliot voleva capire se il colore potesse effettivamente cambiare il fascino di una persona.

La donna più attraente veste di rosso

I risultati condotti su più studi, sono sempre stati gli stessi: la donna più attraente, pur rimanendo sempre la stessa, era quella incorniciata di rosso. Su di lei concentravano l’attenzione, era più interessati a chiederle un appuntamento e a spendere più denaro. Attenzione, non credevano che la donna fosse più simpatica, gentile o intelligente – semplicemente era più attraente sessualmente.

Lo psicologo francese Nicolas Gueguen, ha replicato alcuni studi nel mondo reale, assumendo cinque ragazze brune di età compresa tra i 19 e i 22 anni, facendo fare loro le autostoppiste. Le donne indossavano jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta a tinta unita.

Diversi giorni e 4.800 automobilisti di passaggio più tardi, Gueguen tornò al laboratorio. Come per le donne di Elliot, gli automobilisti maschi si fermavano e quindi preferivano il 21 per cento delle volte in più le donne che indossavano magliette rosse.

Non soddisfatti Gueguen e la collega Céline Jacob, hanno condotto un esperimento simile in un sito di incontri online. Le donne che ricevevano più contatti e richieste di appuntamenti erano quelle che nelle foto indossavano magliette rosse. Il 21 per cento, contro un range fra il 14 e il 17 per cento di quando portavano abiti neri, bianchi, gialli, verdi e blu.

Ci sono almeno due ragioni che spiegano il perchè il rosso vince nel gioco dell’accoppiamento. Siamo stati condizionati ad associare al rosso, la passione e il romanticismo. Il rosso è il colore di cuori e rose, de la femme fatale, della lettera “a” che segnava il passato adultero di Hester Prynne ne La lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Inoltre come per gli animali (i babbuini arrossiscono quando sono sessualmente ricettivi), anche la pelle di noi umani subisce dei cambiamenti quando siamo attratti da qualcuno, rafforzando il legame fra rossore e recettività sessuale. La pelle di una donna, per esempio, arrossisce più facilmente mentre si avvicina all’ovulazione.

I colori influenzano anche i nostri giudizi in altri contesti.

A fine anni ’80, Mark Frank e Tom Gilovich analizzarono i rigori concessi a 21 squadre della National Hockey League e 28 della National Football League. Le squadre in ogni lega che hanno indossato uniformi nere, e dal momento che il nero è associato all’aggressione, hanno ottenuto più penalità di squadre che indossavano colori più tenui. Frank e Gilovich hanno anche dimostrato che gli studenti si comportavano in modo più aggressivo quando indossavano divise nere e credevano che gli altri studenti fossero più aggressivi quando anche quegli studenti indossavano il nero.

Nero Vs Rosa

All’altro estremo, negli anni ’70 lo psicologo Alex Schauss scoprì che i giovani detenuti in buona salute erano più mansueti dopo aver fissato un foglio di cartone rosa. Venne così dipinto l’interno di una cella di rosa brillante  e, la leggenda narra che i prigionieri che entravano nella cella arrabbiati ne uscivano 15 minuti dopo, pacificati e rilassati. La struttura normalmente contava decine di aggressioni, ma non un singolo detenuto che passava del tempo nella cella rosa si comportava in modo violento nei successivi nove mesi.

L’effetto si infiltrò anche nella cultura popolare e gli allenatori di football del Colorado e dell’Università dell’Iowa iniziarono a dipingere gli spogliatoi dei loro visitatori con lo stesso colore rosa, sperando di indebolire gli avversari.

Nero, rosso e rosa hanno una notevole capacità di plasmare i nostri pensieri, sentimenti e comportamenti. Sembra folle suggerire che la stessa persona possa essere più fortunata in amore quando indossa una maglietta rossa, che lo stesso calciatore diventi più aggressivo quando indossa un’uniforme nera, e che gli uomini forti diventano deboli in presenza di vernice rosa ma, almeno per quanto riguarda le prove sperimentali, quegli effetti sono reali.