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L’IMPATTO, di un singolo TOCCO, su DECISIONI e COMPORTAMENTI

Qualche giorno fa, entrando in un negozio di abbigliamento, la commessa (che non conoscevo), si è avvicinata e mi ha toccato la spalla invitandomi a visionare i nuovi arrivi. Il #gesto mi ha infastidito, come mi infastidiscono tutti coloro che mentre ti parlano ti devono per forza toccare. Ma ciò che mi ha sorpreso è constatare come invece, per molti, quel gesto apparentemente causale, è inconsciamente persuasivo e pervasivo.

MANCE, DRINK E CONSUMI

Proprio così, un semplice #tocco (una stretta di mano come una pacca sulla spalla) è estremamente persuasivo. Le prime evidenze risalgono al 1984, quando i ricercatori dell’Università del Mississippi e del Rhodes College hanno studiato, in un ristorante, le interazioni tra camerieri e clienti. Hanno così scoperto che un tocco è in grado di condizionare l’ammontare della mancia che verrà lasciata a fine pasto.

Durante lo studio, i camerieri hanno toccato per un istante la mano o la spalla di alcuni clienti, mentre consegnavano il resto. Il risultato è stato interessante: le mance sono risultate maggiori quando i camerieri toccavano i clienti rispetto a quando non lo facevano. Le persone erano disposte a dare più soldi dopo essere stati toccati.

Nella condizione no-touch, hanno dato mance nella percentuale del 12,2% rispetto l’ammontare del conto. Quando invece le persone hanno ricevuto un tocco sulla spalla, la percentuale è salita al 14,4, al 16,7% quando a venir toccata era la mano.

Tradotto in numeri significa che un cameriere, che segue dieci tavoli a sera, per cinque giorni a settimana, su un conto di 50 $ a tavolo, potenzialmente potrebbe ottenere circa 6 mila dollari di entrate extra l’anno. Una bella somma semplicemente aggiungendo un breve tocco insieme al conto.

Lo studio è poi stato esteso ad altre tipologie di ospitalità e comportamenti dei clienti: ad esempio, i ricercatori della Virginia Commonwealth University hanno scoperto che uomini e donne consumavano più alcol quando venivano toccati dai camerieri, mentre prendevano l’ordinazione.

E IN EUROPA?

Gli studi sull’impatto del tocco nelle #decisioni non ha coinvolto solo l’America. I ricercatori dell’Université Bretagne Sud hanno scoperto che anche i clienti francesi sono sensibili al tocco durante un’esperienza culinaria.

L’aspetto interessante dello studio francese è che la #mancia, pur non essendo obbligatoria, poiché inclusa nel conto, è stata comunque data in proporzioni maggiori dai clienti che sono stati toccati.

Questo dimostra che il tocco breve e non invasivo, ha un valore in #contesti e ambienti diversi.

TOCCO PERSUASIVO

Nel 1990, Jacob Hornik dell’Università di Tel Aviv ha condotto diversi esperimenti per misurare l’influenza del tocco sulle risposte dei #consumatori. In uno studio, gli acquirenti sono stati avvicinati mentre entravano in una libreria. Ad ogni cliente è stato dato un catalogo contenente informazioni su sconti e articoli presenti nel negozio. In particolare, alcuni clienti sono stati toccati sul braccio mentre veniva consegnato loro il catalogo, altri no.

Coloro che sono stati toccati hanno trascorso il 63% di tempo in più nel negozio rispetto a quelli che non sono stati toccati. Hanno anche valutato il negozio in modo più favorevole e hanno speso il 23% in più.

Ci sono poi studi che dimostrano come la sola visualizzazione del tocco può influire sulle intenzioni di acquisto. Uno studio monitorato con imaging cerebrale, condotto da ricercatori dell’Università di Shenzhen ha scoperto che guardare altre persone mentre toccano i prodotti ha aumentato l’intenzione di acquistare gli articoli, un’intuizione applicabile al nostro mondo moderno pieno di shopping online e annunci multimediali.

Un veloce contatto sociale può aumentare i comportamenti amichevoli e prosociali. Includere un tocco a una richiesta, può aumentare la nostra disponibilità a partecipare a sondaggi, a dare soldi in beneficenza e persino a prendersi cura del cane di uno sconosciuto per 10 minuti mentre entra in un negozio!

Uno studio, del 1970, ha scoperto che le persone sono più propense a restituire una moneta dimenticata in una cabina telefonica se chi le ha precedute le toccava quando lasciavano la cabina rispetto a chi non lo faceva. Quasi tre decenni dopo, uno studio del 2007 in Francia ha rilevato che le persone sono più propense a regalare una sigaretta se la richiesta è accompagnata da un tocco.

Questi risultati ci mostrano come i tocchi che riceviamo nelle interazioni sociali quotidiane possano fornire un punto di partenza per la #cooperazione e la conformità. Un breve tocco persuasivo può esercitare un forte impatto, anche tra estranei.

E SE A TOCCARCI E’ UN ROBOT?

Anche il tocco di un #robot ha potere persuasivo. Nel 2021, in Germania, è stato condotto uno studio che ha coinvolto degli studenti universitari, per capire se un robot umanoide che toccava o meno loro la mano durante una conversazione ne avrebbe modificato i #comportamenti.

Gli studenti sono stati divisi in due gruppi. Un gruppo ha avuto una semplice conversazione con il robot. Il secondo gruppo ha ricevuto tre carezze alla mano, durante l’interazione.

Pensaci un attimo: saresti più propenso a soddisfare una richiesta di un robot se ti toccasse o ti parlasse?

Questa è la domanda che i ricercatori hanno posto agli studenti.

Il robot ha chiesto agli studenti di prendere parte a un corso. I risultati hanno mostrato che l’81% degli studenti ha risposto “sì” laddove il robot li ha toccati. Nel gruppo dove il tocco è mancato, ha soddisfatto la richiesta solo il 59%. Il tocco di un piccolo robot ha contribuito a convincere le persone a conformarsi.

A questo punto una domanda sorge spontanea: se un robot ti toccasse mentre entri in un negozio, pensi che soddisferesti la richiesta di provare un nuovo prodotto?

In una società e in un’epoca storica in cui le interazioni tra esseri umani e robot non posso che aumentare e affinarsi, i risultati di questi studi hanno potenti implicazioni.

Forse, dopotutto, vista la ritrosia verso chi invade il mio spazio, non sarei la vittima perfetta per commessi e camerieri ma chissà se a toccarmi fosse un robot… forse mi parrebbe meno invasivo.

Cosa ne pensate?

SIAMO SICURI che l’IA SEMPLIFICHI la VITA? Le mie BATTAGLIE PERSE con ALEXA

Adoro la tecnologia che mi semplifica la vita.

Anelo all’auto elettrica, annoiandomi alla guida e avendo un senso dell’orientamento deficitario anche con il navigatore in funzione… al robot che fa la spesa, pulisce casa e se possibile cucina… e poi c’è Alexa, che da qualche settimana è refrattaria alle mie richieste. Si rifiuta di accendere alcune stazioni radio italiane (RDS per citarne una) a vantaggio della BBC che, seppure sento spesso per allenare il mio inglese, non dovrebbe avere il monopolio. Alexa è stata acquistata per aiutarmi laddove glielo permetto. Anche se la sua fissazione o testardaggine a farmi sentire ciò che piace a lei è tutt’altro che persuasiva.

Qual è dunque la vera utilità degli assistenti vocali?

I ricercatori dell’Università di Sidney hanno scoperto che i messaggi che arrivano da dispositivi di Intelligenza Artificiale (IA) sono più persuasivi quando evidenziano come dovrebbe essere eseguita un’azione, piuttosto che perché[1].

Ad esempio, siamo più disposti a mettere la protezione solare quando un dispositivo di IA spiega come applicare la crema, piuttosto che perché. Tendenzialmente non crediamo che una macchina possa comprendere le necessità e soddisfare i nostri desideri.

La ricerca suggerisce che le persone trovano i consigli dell’IA più persuasivi in situazioni in cui questa mostra semplici passaggi su come preparare una spremuta o scegliere la racchetta da tennis giusta, piuttosto che il perché tale scelta sia importante o necessaria.

L’intelligenza artificiale ha il libero arbitrio?

La maggior parte di noi crede di avere il libero arbitrio. Ci complimentiamo con chi aiuta gli altri perché pensiamo che lo faccia liberamente e penalizziamo coloro che danneggiano o ignorano gli altri. Siamo disposti a ridurre la pena se il reo è stato privato del libero arbitrio, ad esempio se in preda a un delirio schizofrenico.

Ma cosa pensiamo del libero arbitrio rispetto l’‘IA?

In un esperimento sono stati dati a una persona $ 100 a cui si è chiesto di regalarne una parte, a piacimento, a un’altra persona. L’unica condizione è che il ricevente accetti quanto gli viene donato o entrambi otterranno niente.

Quando la prima persona tiene per sè 80$ e ne regala 20, il ricevente tende a rifiutare l’offerta. Benchè razionalmente $ 20 sia meglio di niente, le ricerche suggeriscono che è probabile che l’offerta di $ 20 venga rifiutata perché percepita come ingiusta. Ci si aspetta di ricevere almeno la metà, ossia 50 dollari. O ci sentiamo svalutati[2].

Cosa succede se il proponente anziché un essere umano è un’IA?

Il rifiuto si riduce in modo significativo: è più probabile che le persone accettino l’offerta “sleale” di soli 20 dollari.

Questo perché non pensiamo che l’IA abbia l’intento dannoso di sfruttarci o svalutarci: è solo un algoritmo, non ha il libero arbitrio, quindi possiamo accettare soli 20 dollari.

Il fatto che le persone possano accettare offerte sleali dall’AI preoccupa perché significa che questo fenomeno potrebbe essere usato in modo dannoso e manipolativo. Ad esempio, un’azienda potrebbe manipolare i lavoratori affinché accettino salari ingiusti dicendo che è stata una decisione presa da un computer. Per proteggere i consumatori, occorre capire quando, dove e quanto le persone sono vulnerabili alla manipolazione da parte dell’IA.

Siamo sorprendentemente disposti a divulgare informazioni all’AI

In alcuni lavori in via di pubblicazione, i ricercatori hanno scoperto che le persone tendono a divulgare informazioni personali ed esperienze imbarazzanti più volentieri all’intelligenza artificiale che a un essere umano.

E’ stato detto ai partecipanti di immaginare di essere dal medico per un’infezione del tratto urinario. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi, quindi metà ha parlato con un medico in carne ed ossa e metà con un medico di IA. I partecipanti sono stati informati che il dottore avrebbe fatto alcune domande per trovare il miglior trattamento e più si rispondeva più questo avrebbe aiutato il medico.

I partecipanti hanno rivelato più informazioni personali all’AI, riguardo a domande potenzialmente imbarazzanti sull’uso di giocattoli sessuali, preservativi o altre attività sessuali. Questo perché siamo portati a pensare che l’IA non giudichi, mentre gli umani sì.

Parlare con un sistema di intelligenza artificiale ci fa sentire più al sicuro e meno giudicati, nonostante molte persone temano per la loro privacy.

Se l’intelligenza artificiale avesse il libero arbitrio?

Dare all’IA caratteristiche umane o un nome umano, induce a credere che l’IA abbia il libero arbitrio[3]. Con tutte le implicazioni del caso:

  • L’’IA si fa così più persuasiva non solo quando dice come fare le cose, ma anche quando spiega il perché, poiché vedendola a noi simile, pensiamo sia in grado di comprendere obiettivi e motivazioni umane
  • Offerte e condizioni sleali (per esempio i 20 dollari dell’esperimento sopra citato) hanno meno probabilità di essere accettate se l’IA ha un aspetto umano che la accomuna all’uomo
  • Iniziamo a sentirci giudicati dall’intelligenza artificiale e in imbarazzo e tendiamo a rivelare meno informazioni personali
  • Ci sentiamo in colpa quando danneggiamo un’IA dall’aspetto umano, e quindi tendiamo ad agire in modo più benigno nei suoi confronti

In futuro con il progredire dell’IA, quando diverranno utili in cucina, a servire, a vendere, a prendersi cura dei pazienti in ospedale e persino a sedersi a un tavolo da pranzo come un partner normale, sarà importante capire come influenza le nostre decisioni per proteggerci là dove e quando serva[4].

Intanto Alexa ha deciso di farmi sentire una stazione radio irlandese…

 

Fonti

[1] Kim TW, Duhachek A.,  Artificial Intelligence and Persuasion: A Construal-Level Account. Psychological Science. 2020;31(4):363-380.

[2] Henrich J., Boyd R, Bowles S., Camerer C.F., Foundations of humans sociality: economic experiments and ethnographic evidence from fifteen small-scale societies, 2006, Oxford University Press

[3] http://abotdatabase.info/

[4] Danaher J., McArthur N., Robot sex: social and ethical implications, The Mit Press, 2017

Il LAVORO si PAGA. SEMPRE

“Non chiedermi di pagare per lavorare”.

E’ l’avviso che vorrei che tutti, sul proprio biglietto da visita, facessero imprimere. A scanso di equivoci e a protezione di chi più facilmente di altri, cade vittima di millantatori e manipolatori.

In poco più di due mesi, è il terzo cliente che mi chiama perché lo aiuti a prendere una decisione in merito ad una proposta di collaborazione “interessantissima e irrinunciabile”, alla quale però non solo non ci sarebbe remunerazione, ma addirittura viene chiesto del denaro (non poco) in cambio.

Detto in altri termini: “ti offro l’opportunità di lavorare con me, alla interessante cifra di $$$, che però mi versi tu che lavori”, senza contare gli altri “benefit” inclusi nell’offerta.

E’ indiscutibile la capacità manipolatoria di questi “venditori” di opportunità, ma ciò che più mi ha fatto pensare è che ben 3 (quindi non una coincidenza) manager di alto profilo, con un lavoro invidiabile e contenti di ciò che fanno, abbiano anche solo preso in considerazione simili proposte.

Ripensando agli studi fatti negli anni, riconduco il tutto a due facce dello stesso fenomeno. La prima, di ordine socio-culturale, chiama in causa la svalutazione del lavoro intellettuale, e della persona in questione. La seconda è di ordine antropologico: il commercio a prezzo fisso nasce con i grandi magazzini nell’800, precedentemente vigeva la pratica della contrattazione, erede del baratto, che nella sua versione più estrema includeva anche l’eventualità dell’acquisizione a titolo gratuito o per baratto.

Diverso, invece, il percepito per chi formula la richiesta. Chiedere può essere sfrontato, ma non è un peccato, e l’imbarazzo si fa pari a zero se sostenuto dalla miracolosa frase “senza fini di lucro”.

Ma se occorre addirittura pagare per lavorare, un professionista muore. L’individuo muore.

Ai professionisti che seguo, rispondo a questo quesito così: accettare un lavoro gratis o addirittura a fronte di un pagamento, senza le dovute riflessioni, ma solo per ‘esserci’, corrisponde ad auto-svalutare il valore della propria professionalità e le proprie competenze.

Se però quella di pagare per lavorare è una scelta alla quale non puoi sottrarti ricorda: il tuo lavoro sarà quotato di conseguenza sia dalle persone con cui hai già collaborato (e che ti faranno nuove proposte basandosi su questo dato, sottintendendo cioè che tu questi progetti li segui gratis o addirittura paghi tu chi te li commissiona), sia dal network che gira attorno a queste persone e riposizionare il proprio valore economico sarà molto difficile!

Imparare a dire no o avanzare richieste non è sempre facile, intendiamoci, ma è una scelta che ti tutela e che come professionista devi imparare a fare.

Ho imparato che la serietà di una persona o di un progetto si misura anche da questi parametri.

Si può ESSERE un OTTIMO TEAM anche senza aver NUOTATO fra gli SQUALI…

Qualche giorno fa, una multinazionale mi ha chiesto se fossi stata disponibile a gestire un team building in cui i top manager avrebbero dovuto nuotare fra gli squali in una esotica località di mare. Pur facendo immersioni ed essendo una nuotatrice che in giovane età ha vissuto l’esperienza nazionale, la richiesta mi ha a dir poco sconcertata. Che utilità aveva far vivere quell’esperienza estrema ai poveri manager prescelti?

L’engagement, il riallineamento, la motivazione all’interno di un gruppo possono essere migliorati in diversi modi, ma quale fattore critico di successo poteva mai avere buttarli in pasto ai pesci?

 TEAM BUILDING: QUESTO SCONOSCIUTO

Il termine team building indica un insieme di metodologie e di attività utili a formare un team orientato a migliorare le proprie capacità di lavorare in gruppo. Fra i primi a interessarsi al concetto di gruppo, gli psicologi sociali Lewin e Tuckeman: il gruppo è più della somma delle singole parti (Lewin, 1948). L’idea di base era che il gruppo è una totalità dinamica in cui i membri sono in interdipendenza e al cambiamento dello stato di uno degli elementi mutano anche tutti gli altri componenti e il gruppo stesso come totalità. Tuckeman propose il modello in 5 fasi, particolarmente utile nei luoghi di lavoro: Forming, Storming, Norming, Performing e Adjourning. Step inevitabili per far crescere il team, affrontare le sfide e raggiungere gli obiettivi.

In altre parole un team non può essere considerato come un mero numero di persone che lavorano insieme: un gruppo ha una dinamica ben precisa che si evolve in fasi e comportamenti diversi.

UNA MODA DEL MOMENTO?

Ragionando sulla richiesta dell’azienda di portare i manager in acque profonde e pericolose, ho dovuto accettare l’idea che questa fosse solo una delle tante mode del momento. Il responsabile delle risorse umane, era infatti a conoscenza delle attività più bizzarre, come camminare sui carboni ardenti, surviving in zone remote dell’Asia, love management, volare con le frecce tricolore e via dicendo. Oltre a mostrarmi un articolo di un noto quotidiano che narrava le gesta di una ventina di manager della Silicon Valley persuasi (o manipolati…) a nuotare tra gli squali dell’acquario di Monterey in California.

Perché un gruppo di persone diventi anche un team di lavoro, occorre che i membri sperimentino un senso di interdipendenza e di coesione, che prendano coscienza delle rispettive personalità, aspettative e delle potenzialità dei propri colleghi. L’idea portante è che attraverso queste attività costruttive e non familiari si affrontino situazioni diverse da quelle tipiche del luogo di lavoro, sfide, difficoltà concrete che permettono di far conoscere le persone in modo approfondito, costruire e potenziare relazioni interpersonali, sviluppare maggiormente l’ascolto, la collaborazione e la fiducia reciproca.

COSA C’E’ DOPO?

Perché ci sia coesione le attività devono dunque essere “divertenti e il divertimento educativo”, per parafrasare il sociologo Marshall McLuhan, ecco perché è opportuno chiedersi se tutte siano davvero utili, efficaci e necessarie allo scopo prefissato. Spesso purtroppo, una volta completato il team building, le persone tornano in aziende dove tutto è rimasto immutato e di innovazione non c’è nemmeno l’ombra.

Al di là del tipo di esperienza che si vuol far vivere ai propri dipendenti ciò che fa davvero la differenza non è tramortirli e stupirli per il tempo di una settimana, ma ripensare nuove competenze, condividere know-how ed esperienze per attivare in un continuum, reali processi di trasformazione umana e reale culture change. Ecco che allora l’intrattenimento, il team building possono farsi precise metafore di apprendimento facili da portare nel contesto organizzativo per accelerare trasformazioni in atto e raggiungere insieme nuovi orizzonti.

DAMMI una RAGIONE e IO COMPRERO’…

Volete essere più persuasivi? Fornite una spiegazione.
A prescindere da quanto questa sia (in)sensata, sarete ben ricompensati.

A dimostrarlo è lo studio denominato “fotocopiatrice Xerox” condotto da Ellen Langer, psicologa ad Harvard. (http://www.ellenlanger.com/blog/141/mind-power): una studentessa doveva cercare, con una scusa, di saltare la coda per utilizzare la fotocopiatrice. Nel primo scenario la ragazza chiedeva a coloro che erano in coda: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice?” Nel 60% dei casi le persone le permettevano di saltare la coda. 

Nel secondo scenario chiedeva: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè sono di fretta.” Il permesso a saltare la coda è salito al 94% dei casi, solo aggiungendo una scusa.

Il terzo scenario è il più sorprendente: “Scusate, ho solo 5 pagine, posso usare la fotocopiatrice? Perchè devo fare alcune copie.” La percentuale è stata del 93% anche se ciò che era stato fatto era aggiungere una spiegazione ridicola e ridondante.

Il nostro cervello ama le risposte, così come ama le parole crociate e i rompicapo. Una risposta fornisce la soddisfazione neurologica ed intellettuale alla nostra “fame” per una soluzione. Il discorso più coinvolgente non solo trasmette informazioni, ma fornisce anche soluzioni. I prodotti più efficaci non sono semplicemente indirizzati a problemi, li risolvono.

Questa apparente semplice tecnica persuasiva, rientra nella sfera del Neuromarketing, la disciplina volta alla individuazione dei processi decisionali d’acquisto. Dammi una ragione e io comprerò. Non per niente, il Neuromarketing agisce traendo vantaggio dai numerosi punti ciechi della nostra consapevolezza.

Detto questo, non vi resta che dilettarvi.. nel trovare una ragione… E le code non saranno che un brutto ricordo…. accettate il consiglio, questa volta!

La PERSUASIONE OCCULTA nel WEB si CHIAMA CAPTOLOGIA

Influenza il modo in cui pensiamo e agiamo e ci aiuta a risolvere nuovi problemi attraverso nuove soluzioni. Ci ammalia, motiva e convince.
Chi, cosa?

La captologia, quel territorio di indagine dove arte della persuasione e scienza dei computer si mescolano e che comprende la progettazione, la ricerca e l’analisi di prodotti informatici interattivi, come il Web, software per computer, smartphone e apparecchi specializzati, inclusi siti, applicazioni mobili e social network, creati allo scopo di cambiare atteggiamenti o comportamenti delle persone.

A coniare il termine, nel 1996, B.J. Fogg, direttore del Laboratorio di Tecnologia Persuasiva alla Stanford University, derivandolo dall’acronimo Computers As Persuasive Technologies: CAPT.

La persuasione, nel senso della captologia, si riferisce a qualsiasi tentativo atto a provocare “intenzionalmente”, tramite l’interazione uomo-macchina, un determinato cambiamento “volontario” nelle idee e nei comportamenti, senza far uso di inganno o coercizione. Sono esclusi quei cambiamenti che, pur avvenendo a seguito dell’interazione uomo- macchina, non sono stati voluti e intenzionalmente pianificati dal progettista.

L’idea della persuasione subliminale ha origine negli anni 50 con gli “inserti subliminali” nei cinema, poi screditata quando chi la lanciò ammise di aver falsificato le ricerche. L’attuale resurrezione del subliminale, questa volta su computer, si fonda su nuove evidenze dalle neuroscienze che hanno mostrato come ad esempio le parti del cervello deputate all’elaborazione del linguaggio si attivano di fronte a stimoli subliminali contenenti parole.

Non si può non citare alcuni curiosi risultati.

Come quello condotto da M. Cavazza (Teesside University) in cui gli utenti usando al computer una simulazione 3D di un frigorifero, dovevano riempirlo con vari cibi. I ricercatori hanno tentato di influenzarne le scelte inserendo immagini subliminali di cibi. Quando gli utenti reagivano immediatamente dopo lo stimolo subliminale (entro 1 secondo), le loro scelte venivano effettivamente influenzate, mentre se passava più tempo l’effetto andava perso.

Gli stimoli ambientali, quali colori od odori, a cui non siamo soliti attribuire significati persuasivi, possono influenzarci, come hanno dimostrato due ricercatori olandesi, Cees Midden e Jaap Ham. Cambiare il colore delle luce ambientale in base a quanto elevato è il consumo risultante dalla programmazione del termostato, è una strategia efficace per ottenere comportamenti energetici più contenuti. Un’ottima applicazione di nudge, posso aggiungere.

Se invece si vuole persuadere in rete e raccogliere un numero ampissimo di followers? La cosa più valida da fare (come ha dimostrato Genevieve Johnson dell’Università dell’Oklahoma) è:
– millantare un elevato livello di esperienza sul tema che si tratta,
– esprimersi con la sicurezza e chiarezza di chi sa tutto (anche se non è così)
– atteggiarsi ad autorità indiscutibile, e quindi impossibile da contraddire
– e per rafforzare anche i più insensati “ragionamenti”, ricordate di citare qualche (sconosciuto) scienziato o (improbabile) pubblicazione scientifica.

Talvolta o forse troppo spesso purtroppo il Web riesce a dare credibilità anche a persone che non apparirebbero né esperte né autorevoli in un confronto pubblico faccia a faccia ed in tempo reale.