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SEI INCLUSIVO o stai facendo TOKENISMO?

Quante volte ci troviamo a fare concessioni simboliche per dare una parvenza di giustizia e inclusività? Per dimostrare di fare qualcosa che è visto come giusto e non perché crediamo davvero che sia la cosa giusta da fare?

Questo perché, probabilmente, siamo caduti nella trappola del #tokenismo, una forma di discriminazione subdola e pervasiva.

Entriamo nel merito.

COS’E’ IL TOKENISMO

Il fenomeno del tokenismo, o teoria della massa critica, è stato definito per la prima volta da Rosabeth Moss Kanter nel 1977. Secondo Kanter, è:

una pratica mediante la quale un gruppo di maggioranza accoglie una o più minoranze, al fine di sembrare inclusivo agli occhi degli altri.

Il tokenismo tocca ogni tipo di gruppo minoritario e si può trovare facilmente in diversi ambiti: dal mondo del lavoro alla televisione.

Non è un caso che negli ultimi anni – in particolare dopo il movimento femminista #metoo – sia facile trovare donne agli apici di aziende importanti. Tuttavia, il problema sorge dal momento in cui le donne presenti nelle aziende sono le uniche dell’intero ufficio, o quasi. Infatti, la presenza di una sola donna nell’intero team è un aspetto estremamente negativo: quella donna altro non è che un token: l’emblema della “donna forte e potente che può arrivare al vertice di una azienda”.

Agli occhi della società, l’azienda in questione diventerà simbolo di uguaglianza e apertura mentale, quando in realtà si tratta solo di tokenismo.

La vera inclusività sarà raggiunta solo quando il numero di donne aumenterà; lo stesso ragionamento è applicato al caso delle persone con disabilità all’interno dei board.

ESEMPI DI TOKENISMO

Dal 1991 esiste un termine che esprime perfettamente il concetto: the Smurfette Principle, “il Principio di Puffetta”: indica la presenza di una sola donna all’interno di un ampio gruppo di uomini, esattamente come nel cartone animato.

Il fenomeno del tokenismo è molto evidente in TV: è sempre più alto il numero di film e serie che raffigurano minoranze inserendo personaggi omosessuali, di colore, di religioni diverse e altre minoranze etniche, con il fine ultimo di dare una parvenza di inclusività, avendo, però, l’effetto opposto.

Questo perché i ruoli assegnati alle minoranze, rispecchiano gli stereotipi e i pregiudizi che solitamente vengono loro accomunati.

Inoltre, accade di rado che venga loro attribuita una parte di spessore, né, tantomeno, quella da protagonista. Anzi, spesso accade proprio che gli attori di colore ricoprano ruoli come l’antagonista della storia o personaggi con caratteristiche negative.

Ad oggi, tuttavia, si può parlare di sviluppi positivi in materia. I registi di film e serie tv recenti stanno iniziando ad applicare il colour-blind casting, al fine di scollegare la scelta dell’interprete da qualsiasi aspetto che riguardi il sesso biologico, l’identità di genere e l’etnia del personaggio.

L’attrice Jodie Turner-Smith nei panni di Anna Bolena, nell’omonima serie tv, è un caso emblematico; così come la maggior parte dei personaggi di Bridgerton: ad esempio, Golda Rosheveul, di origini guyane, interpreta la regina Carlotta e moglie di re Giorgio; mentre Regé-Jean Page, anglo zimbabwese, è il Duca di Hastings.

Un altro esempio è il personaggio di Token Black in South Park. In questo caso, la discriminazione non è reale, ma si inserisce nel solco satirico e parodiale del prodotto animato. Token Black rappresenta l’unico bambino afroamericano della serie (almeno fino alla stagione 16) ed è calamita di pregiudizi e stereotipi razziali da parte dei compagni di scuola. La sua fisiologica sensibilità alle critiche sociali, però, ha il merito di porre in risalto i contrasti e i preconcetti della società contemporanea, conducendo anche gli amici a riflettere sui problemi correlati alle questioni etniche e al razzismo (come nell’episodio “Le mie più sentite scuse a Jesse Jackson”, incentrato proprio sulle criticità della N-Word).

Il token è, quindi, un simbolo utilizzato per veicolare una parvenza di inclusività e atteggiamento paritario in un contesto, che attinge al bacino delle minoranze per creare una sorta di scudo nei confronti delle possibili accuse di discriminazione e apporre, un cerotto a un problema sistemico: il mancato coinvolgimento di tutte le fasce della società, dalle donne alle persone di colore, dagli individui con disabilità alle personalità queer.

Tradotto: tutti coloro che non sono uomini, bianchi, cisgender ed etero, ossia la norma.

GLI EFFETTI DEL TOKENISMO

Le conseguenze del tokenismo sono molteplici, e molti di noi, già le subiscono, pur non rendendosi conto dell’entità del fenomeno.

Il primo effetto è l’isolamento che l’individuo token percepisce nel contesto in cui è immerso. Con tutte le ripercussioni sulla salute che ne possono derivare.

Essere l’unica o una delle poche persone che condividono un’identità può sembrare isolante. Potrebbe non avere colleghi a cui rivolgersi per supporto e convalida quando si verificano aggressioni e attacchi. O, al contrario, il fenomeno può esporre a un’estrema visibilità, pensiamo alla pressione che vive l’unica persona di colore in un posto di lavoro o l’unica donna in una sala piena di uomini. Potrebbe essere tentata di lavorare troppo per cercare di essere un “buon” rappresentante di quel gruppo di identità, il che può portare a stress, senso di colpa, vergogna ed esaurimento. E a stati di frustrazione, depressione, rabbia e impotenza. Quasi come se la persona non avesse valore in sé, ma assumesse importanza solo perché portavoce di un gruppo di personalità escluse dai discorsi di potere e, per questo motivo, isolate.

PERCHE’ IL TOKENISMO è DANNOSO

A prima vista, il tokenismo potrebbe sembrare un impegno sincero per la diversità. Potrebbe, ma ci sono ragioni per non ricorrervi sui luoghi di lavoro (e non solo):

Morale e impegno dei dipendenti più bassi. Cosa pensi che accadrà quando i dipendenti tokenizzati si renderanno conto di non essere realmente apprezzati per i loro contributi, ma per la diversità che rappresentano?

Si demotiveranno. E questo può condurli a disimpegnarsi dal lavoro e ridurre la produttività.

Mina la fiducia e la credibilità. Se le persone capiscono che le iniziative per la diversità sono solo di facciata, si creerà un senso di sfiducia nei confronti del board. Questo le porterà a mettere in discussione ogni decisione. E quando la notizia di questa forma di discriminazione raggiungerà clienti, azionisti e partner, il danno di reputazione avrà conseguenze importanti sull’intera organizzazione.

Sopprime l’innovazione e la creatività. Il tokenismo riduce l’innovazione e il pensiero creativo. Quando non ci sentiamo presi sul serio, considerati, difficilmente siamo motivati dall’impegnarci e proporre soluzioni efficaci.

Aumenta i rischi legali e di conformità. Il tokenismo è una forma di disuguaglianza che a lungo andare può anche avere ricadute legali.

Danneggia la cultura organizzativa. La cultura organizzativa, in qualsiasi azienda, si basa sulla fiducia, sul rispetto e sull’inclusione autentica. Il tokenismo porta alla cultura tossica.

Crea un disallineamento con i valori aziendali. Il 63% delle aziende oggi si concentra sull’inclusione delle iniziative DEI nella propria visione, missione e valori. Tuttavia, l’esistenza stessa del tokenismo sul posto di lavoro evidenzia la differenza tra i valori dichiarati e le pratiche effettive.

Contrasto che può scoraggiare i dipendenti che potrebbero iniziare a riconsiderare la loro fedeltà e il loro impegno nei confronti dell’azienda.

SEGNALI DI ALLARME CHE INDICANO TOKENISMO SUL POSTO DI LAVORO

Minoranze in ruoli visibili ma senza potere. Il primo e più evidente segno di tokenismo si ha quando i collaboratori appartenenti a minoranze vengono inseriti in ruoli in cui sono molto visibili, ma non hanno alcun potere o influenza reale. Queste posizioni sono spesso simboliche, progettate per dare l’impressione di diversità senza dare l’autorità di apportare cambiamenti significativi.

In questo modo, si impedisce alle persone emarginate di acquisire l’esperienza e le competenze necessarie per ricoprire, in futuro, posizioni di leadership.

Mancanza di voci diverse nel processo decisionale. Non ha senso assumere persone rappresentanti minoranze se non vengono ascoltate. Dovrebbero avere la possibilità di parlare liberamente delle loro preoccupazioni.

I team con background diversi hanno maggiori probabilità di prendere in considerazione un’ampia gamma di prospettive e di prendere decisioni migliori e più informate, a vantaggio dell’intera organizzazione e non solo della maggioranza.

Turnover delle minoranze. Esaminando le statistiche di retention, ci si può facilmente rendere conto di quante persone appartenenti a gruppi sottorappresentati hanno lasciato l’azienda di recente. Se il tasso di turnover è alto, bisognerebbe cominciare a preoccuparsi. Quando le persone sentono di venir isolate, sottovalutate o minimizzate, è probabile che lascino l’organizzazione.

Il monitoraggio dei tassi di abbandono e la conduzione di colloqui di uscita possono aiutare a capire cosa le spinge ad andarsene.

Disparità di opportunità e responsabilità. Un altro segno di tokenismo si verifica quando le minoranze hanno titoli e ruoli che sembrano impressionanti, ma privi di responsabilità. Questo contrasto spesso significa che non ricevono le stesse opportunità di crescita e avanzamento dei loro colleghi. Non viene nemmeno offerta loro la possibilità di imparare e crescere.

COME PREVENIRE IL TOKENISMO

Il tokenismo non è sempre intenzionale. Ecco alcune strategie che possono tornare utili.

Concentrati sulla variazione del valore rispetto alle statistiche. Le statistiche danno una rapida panoramica di tutti i dati aziendali, ma non dicono come si sentono le persone o se ci sono preoccupazioni a cui rispondere.

Concentrarsi troppo sulle cifre può aiutare a raggiungere la quota di diversità, ma non porterà alcun cambiamento positivo nell’ambiente di lavoro. Meglio concentrarsi sugli sforzi di inclusione autentica per migliorare la cultura dell’ufficio. Ciò significa sviluppare politiche e pratiche che supportino il DEI nelle assunzioni, nelle promozioni e nelle interazioni quotidiane.

Benefit flessibili. Nel progettare i benefit, le aziende spesso tentano l’approccio “un pacchetto che va bene per tutti”. Questo porta a ignorare le esigenze della minoranza.

Se si desidera davvero offrire un trattamento equo a tutti, essere flessibili può essere di aiuto. Permettere alle persone di scegliere i propri incentivi dimostra che li si apprezza come persone e non solo come rappresentanti di un determinato gruppo.

Sviluppare processi di promozione trasparenti. A volte, le persone appartenenti a minoranze possono cadere nella trappola dell’impostore quando vengono promosse a posizioni di potere. Potrebbero mettere in dubbio le loro capacità e qualifiche. Promozioni basate sul merito, dove a tutti vengono offerte le stesse opportunità, indipendentemente dalla diversità in questione, possono aiutare a chiarire questi dubbi.

Seguire pratiche di assunzione inclusive. L’assunzione è il primo passo del percorso. Anzichè assumere solo persone appartenenti a un determinato gruppo sottorappresentato, è più funzionale creare job description che attirano organicamente candidati di diversa provenienza.

Quindi utilizzare panel eterogenei di valutazione per eliminare i pregiudizi, nonchè pubblicizzare le offerte di lavoro in luoghi che attireranno candidati qualificati, indipendentemente dalla loro situazione.

VOGLIO e NON VOGLIO. L’INDECISIONE può farsi VIRTU’

Amore e odio. Felicità e tristezza. Paura e desiderio. Attrazione e repulsione. Rabbia e dolcezza.

Quante volte li viviamo entrambi, nello stesso tempo… Si chiama #ambivalenza questo altalenare di sentimenti, parte della vita, dai tempi di Cicerone, quando scriveva “Ama come se più tardi dovessi odiare”, e chissà quanti altri ancora, prima di lui.

Ci si sente “tirati” da due parti contrapposte, non a caso è insito nell’etimo (ambi = entrambi e valentia = forza), e non accade solo in amore: possiamo provare contemporaneamente paura e desiderio di buttarci con il paracadute, o attrazione e avversione (specie se siamo a dieta) nei confronti di una sacher torte.

Possiamo sentirci allettati e respinti da un’offerta di lavoro, da sembrare interessante quanto faticosa e piena di insidia. E possiamo nutrire sentimenti ambivalenti per un partito politico, un personaggio famoso, una squadra sportiva. O verso l’idea di iscriverci in piscina o in palestra (mi farebbe bene! Nuotare è noiosissimo!).

Quando ci troviamo di fronte a qualcosa che ci attrae e ci respinge, di solito esitiamo, i nostri comportamenti diventano più contraddittori e meno prevedibili. Per districarci ci tocca cimentarci in un salto di ragionamento. Un pensare al modo in cui stiamo pensando, arrivando a scrivere, su una scala da 1 a 10, quanto vale la nostra attrazione e quanto la nostra repulsione.

In pratica quando siamo lontani, le componenti attraenti sembrano più forti, e dunque ci avviciniamo. Ma più siamo vicini, più le componenti respingenti diventano visibili e tornano a prevalere. Così ci allontaniamo di nuovo. Questo scomodo andirivieni può ripetersi molte volte.

L’ambivalenza genera ansia e incertezza. Proprio per questo, quando ci troviamo ad affrontare un grande tema controverso tendiamo a non prendere in considerazione le argomentazioni di chi non la pensa come noi: interpretiamo male i fatti, ragioniamo in maniera sbrigativa e in base a pregiudizi la cui fondatezza evitiamo di verificare. Oppure rimuoviamo del tutto la questione.

L’ambivalenza ha uno scopo, dimostra una ricerca dell’Università di Stanford: coltivare deliberatamente l’ambivalenza nei confronti di un obiettivo che non siamo certi di raggiungere ci aiuta a consolarci più in fretta di un eventuale fallimento. Ma in caso di successo sminuisce il valore del risultato ottenuto. In parole semplici anche l’ambivalenza può avere conseguenze ambivalenti.

In tutta franchezza, le situazioni ambivalenti ci obbligano a sviluppare una più profonda comprensione della realtà, delle alternative possibili e di noi stessi.

Per uscirne la strategia è dare ascolto al proprio corpo. Immedesimarsi il più profondamente possibile nelle alternative e vedere come si sta. Poi, decidere di conseguenza.

COME ESSERE CERTI DI AVER PRESO UNA BUONA DECISIONE?

Come possiamo essere certi di aver preso una buona decisione?

Non necessariamente soddisfare l’obiettivo prefissato è sintomo di buona decisione.

Supponiamo di essere il direttore commerciale di un’azienda e di annoverare fra i collaboratori un commerciale di indubbia qualità e bravura, riconosciuto da tutti e a cui le società concorrenti fanno il filo da tempo.

Un giorno il commerciale arriva in ritardo a un meeting importante, si siede al suo posto come niente fosse e non chiede scusa e nemmeno imputa a qualche evento straordinario o grave la mancata puntualità.

Come vi comportereste nei panni del direttore? E come potete essere certi che la decisione presa sia buona?

Potreste riprendere il commerciale seduta stante o far finta di niente. In ogni caso, il rischio di incorrere in una decisione sbagliata potrebbe avere conseguenze pesanti: il commerciale potrebbe risentirsi e andarsene altrove oppure, se non agite, perdere credibilità e rispetto degli altri collaboratori.

Spesso la decisione che si prende è inficiata da convinzioni, valori e strategie adattive che in altri contesti e nel tempo si sono dimostrate efficaci. Non necessariamente però anche in questo caso, può funzionare. Mi spiego meglio.

Se per noi la puntualità è un valore importante e distintivo, difficilmente riusciremmo a tacere e saremo tentati di trattare il commerciale come tutti gli altri venditori della squadra e quindi a non considerarlo come il migliore dell’organizzazione. Di fatto, lo puniremmo appena entra in sala riunioni.

Se invece per noi è il valore della bravura a guidarci, saremo tentati di trattare i collaboratori proporzionalmente al loro merito e ai loro risultati. Di fatto, ignoreremo il ritardo certi dei vantaggi che il commerciale saprà portare all’azienda.

Quale decisione vi sembra corretta?

Nessuna delle due. Sia rimproverare sia ignorare il commerciale non sono decisioni corrette, poiché guidate dalla nostra storia, da pregiudizi e credenze e non dall’analisi del contesto, della situazione e di una visione a medio/lungo termine.

Riprendendo il commerciale, si potrebbero aprire due scenari. Il commerciale, accortosi dell’errore, potrebbe essere spinto a fare di più sul lavoro, aumentando ulteriormente il fatturato. E facilmente penseremmo che intervenire sui comportamenti sbagliati sia la miglior soluzione in frangenti di questo tipo, anche verso i collaboratori più efficaci e bravi.

Oppure il commerciale potrebbe prendere contatto con altre aziende del settore e imputarvi (imputare al direttore commerciale) la responsabilità della decisione, con il rischio che il CEO insoddisfatto di come è stata gestita la situazione, vi licenzi o perda fiducia in voi.

Quindi? Cosa è giusto fare?

Entrambe le scelte possono funzionare, purchè l’indicatore da considerare non sia semplicemente il risultato finale ma il processo che sottende a quella decisione.

Sapere quanto e quali valori, convinzioni e pregiudizi ci spingono verso strategie adattive e standardizzate è importante. Questo impedisce loro di portarci all’azione senza aver verificato le variabili e lo specifico contesto, rischi e opportunità di ciascuna opzione. Conoscere i rischi e gli effetti sia in negativo sia in positivo, ci guida verso la scelta corretta. In quel momento, in quel contesto.

Ogni decisione complessa non può essere presa senza un’analisi e un’attenzione al contesto.

Come è possibile prendere la giusta decisione?

Facendoci le giuste domande. Più domande ci facciamo più riusciremo a prevedere incertezza, eventi e rischi.

… to be continued

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…