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QUAL E’ IL GENITORE IDEALE?

Qual è il genitore ideale?

Posto che ci sia un unico modello funzionale, è difficile non tormentarsi nel confronto, leggendo Massimo Recalcati.

Un tempo c’era il padre padrone, quello dall’io imperante, impossibile da assoggettare. Oggi c’è quello empatico, l’amico per antonomasia. Forse più disastroso ancora, se ci si confronta con la realtà.

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: Non fate malagrazie!”.

Difficile non ripensare a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, con la figura del padre, in primo piano, che giganteggia, strepita, burbero e amorevole, le sfuriate improvvise poiché “non sapeva controllare il timbro della voce”, nei corridoi del laboratorio dove lavorava, e per le strade, mentre esprimeva il suo pensiero.

Dal genitore che faceva timore, si è passati al genitore amico, dove “il figlio assomiglia sempre più a un principe al quale la famiglia offre i suoi innumerevoli servizi (…), con il rischio che i figli rivendichino la stessa dignità simbolica dei loro genitori”, scrive lo psicanalista Recalcati.

Molto spesso empatizzare con i figli significa convincerli, imporre loro la propria visione del mondo: “il dono più alto della genitorialità sta nel riconoscere la differenza del figlio, la sua incomprensibilità, il suo segreto”. Per fare questo bisogna avere fiducia nel desiderio del figlio, lasciare che questo si rafforzi. I legami che durano nel tempo si fondano sulla incomprensibilità: io amo mio figlio, non perché mi assomiglia, ma perché lo vedo diverso da me.

L’educazione non è imporre al figlio il rispetto esteriore delle regole. Incamminarsi su una strada imposta dai genitori provoca infelicità nei figli. La parola del padre un tempo chiudeva i discorsi, ora ha perso potere. Prima i figli avevano il dubbio se i genitori li amassero abbastanza, ora il paradigma si è rovesciato: sono i genitori a non sapere se i figli li amano abbastanza. È il figlio a dettare legge alla famiglia con i suoi drammi.

Per dirla alla Recalcati “ciascun genitore è chiamato a educare i figli, solo a partire dalla propria insufficienza, esponendosi al rischio dell’errore e del fallimento. Per questo i migliori non sono quelli che si offrono ai loro figli come esemplari, ma come consapevoli del carattere impossibile del loro mestiere”.

Da mediatore famigliare, mi scontro con le realtà più diverse, impossibile non aprire un dibattimento fra il prima e l’adesso. Per questo è difficile non essere in sintonia con Camus quando diceva che “l’assurdo nasce dal confronto tra la domanda dell’uomo e l’irragionevole silenzio del mondo”.

Gli ALTRI sono COME ME… E se non fosse cosi?

Se da adolescenti vi avessero chiesto, dietro compenso, di vestirvi da sandwich e girare per 30 minuti in pieno centro, in orario di punta, con un cartello pubblicitario appeso al collo, avreste accettato? E quanti dei vostri amici, avrebbe seguito il vostro esempio?

Questo è un esperimento messo in atto per capire come le persone utilizzano le opinioni per prevedere il comportamento di chi sta loro intorno: il 62% degli studenti coinvolti rispose affermativamente, contro il 38% che rifiutò. Ma a sorprendere furono le percentuali che venne chiesto loro di stimare su quanti dei loro amici avrebbero accettato e rifiutato quel tipo di lavoro.

• Chi accettò il lavoro, rispose che la maggior parte degli altri studenti (il 68%) sarebbe stata disposta a fare il cartellone vivente;

• Chi rifiutò rispose, in maniera speculare, che la maggior parte degli altri studenti (il 67%) NON sarebbe stata disposta a fare il cartellone vivente.

Due studenti su 3 immaginano che il comportamento degli altri studenti rispecchi il loro, qualunque esso sia!!!

FALSO CONSENSO

La tendenza a sovrastimare la misura in cui i propri comportamenti, credenze, qualità e atteggiamenti siano diffusi nella popolazione e condivisi da altre persone prende il nome di fenomeno del falso consenso.

In altre parole siamo convinti che gli altri, quando si trovano nelle nostre stesse situazioni, abbiano i nostri stessi pensieri e comportamenti.
In generale più un comportamento devia dalla norma più l’effetto del falso consenso è potente. Il problema è che spesso la norma la creiamo noi, senza alcuna ragione apparente.

Si dice che il giorno dopo la vittoria presidenziale di Nixon nel 1972, la critica cinematografica del New Yorker Pauline Kael commentasse: non ci posso credere, non conosco nessuno che abbia votato per lui. La Kael non conosceva nemmeno un elettore repubblicano e tanto le bastava. Quella per lei era diventata la norma degli americani.
La cosa importante è rendersi conto che il mondo reale non è fatto a nostra sola e totale somiglianza, e che ciò che si tende a fare è proiettare il nostro modo di pensare, e delle persone a noi affini, su tutti gli altri, finendo intrappolati negli effetti deformanti del falso consenso.

MOTIVAZIONE, LEADERSHIP e TANTE PICCOLE SPINTE GENTILI

La parola leadership è, in questi ultimi anni, fra le più usate/abusate nel business (e non solo). Non a caso, le aziende spendono un bel po’ di soldi, per aiutare i propri uomini di punta, a svilupparla al meglio: circa 3,4 miliardi di dollari all’anno, secondo le stime, ma nulla o poco cambia.
 
Perché?

Non è mancanza di talento o pigrizia. O di cattiva programmazione o inefficienza. E’ ciò che viene chiamato in gergo “gap conoscitivo”, il grande abisso fra ciò che sappiamo e ciò che effettivamente applichiamo sul lavoro.
 
Esistono molte cause: sistemi di ricompensa fallaci, competizione all’ultimo sangue, stremanti obiettivi a breve termine, motivazione vacillante, carichi di lavoro disumani, riunioni fiume, spesso anche inconcludenti, e via dicendo. In pratica il manager sa cosa deve fare ma non ha modo di farlo. 
 
Prendiamo ad esempio Mario, un manager che si sta impegnando per essere un grande leader: si preoccupa dell’engagement del proprio team, perché sa bene che è il riconoscere il valore dell’altro che dà benzina all’impegno. Poi però Mario comincia pian piano a correre da una riunione all’altra, focalizzandosi sulle singole attività, sui fogli di Excel, su cose non strettamente importanti o spettanti al suo ruolo, dimenticandosi di coinvolgere la squadra, motivarla, congratularsi anche quando fa un ottimo lavoro… vorrebbe farlo, ma qualcosa di sempre più impellente, reclama il suo tempo e la sua attenzione.
 
In fondo Mario ha seguito corsi su corsi su come impiegare al meglio le sue skills ma nessuno gli ha insegnato cosa realmente motiva le persone. Lui medesimo.
 
In questi casi basterebbe ci fosse appollaiato sulla spalla di Mario, una sorta di consigliere pronto a sussurrargli: “Mario, alla prossima riunione, prova a elogiare chi della tua squadra si è distinto per aver portato un risultato eccellente. Per qualcosa di positivo che ha fatto e per cui si è distinto. Qualcuno che ha dato il buon esempio”. Già, perché alle volte bastano due righe di e-mail per fare miracoli, per incoraggiare, ad esempio, anche le persone più introverse, prima di una riunione, a parlare e migliorarne il senso di inclusione.
 
Questo suggerimento è di fatto un promemoria, o meglio una spinta, un nudge. E i nudge possono fare una enorme differenza sui comportamenti che mettiamo in atto e possono sostanzialmente colmare la differenza fra ciò che sappiamo e ciò che applichiamo effettivamente sul lavoro. Molto più di standardizzati corsi di formazione.

COSA SONO I NUDGE?

Ufficialmente, il termine nudge è stato definito e reso popolare da due grandi professori di economia, Richard Thaler e Cass Sunstein: «Un nudge è qualsiasi aspetto della presentazione delle scelte che condizioni il comportamento degli individui, senza vietare però alcuna possibilità». In altre parole i nudge sono interventi che guidano le persone nella scelta verso decisioni più efficienti, preservando la libertà di scelta individuale. Alle spinte ognuno di noi può sempre e deliberatamente opporsi in quanto non sono vincolate da alcuna legge, se non da comune buonsenso. Un avvertimento è un esempio di nudge, l’allarme che si attiva quando dimentichiamo di allacciarci le cinture di sicurezza in auto, così come le indicazioni del GPS oppure un’impostazione predefinita.

Per qualificarsi come nudge, un intervento non deve prevedere incentivi materiali, tanto quanto i disincentivi. Multe e condanne in prigione non sono spinte gentili.

PIU’ FORMAZIONE NON E’ SEMPRE LA MIGLIORE SOLUZIONE 

Il potere dei nudge di influenzare positivamente il comportamento umano si è rivelato così impattante che le grandi aziende, i militari e persino i paesi hanno formato delle “nudge unit” ufficiali, una sorta di task force per elaborare strategie per raggiungere con meno sforzo e più successo gli obiettivi organizzativi, rendere i luoghi di lavoro più funzionali al benessere individuale e collettivo, motivare i propri dipendenti e via dicendo.
 
Tutti, anche i manager più navigati e motivati, cadono facilmente nelle vecchie abitudini, concentrandosi su compiti che invece dovrebbero delegare, o si dimenticano di fornire feedback efficaci, dare apprezzamenti, sbagliano stile comunicativo e rimangono incastrati nella routine.
 
Anche se non esiste un proiettile d’argento, un antidoto universale, sappiamo che più formazione è raramente la risposta. Dovremmo forse dedicare meno tempo e denaro a nuovi programmi di formazione manageriale e un po’ di più all’applicazione delle conoscenze che già si possiedono. Con le odierne tecnologie digitali, dall’e-mail alla messaggistica ai messaggi audio, è più facile che mai ricorrere od organizzare  campagne di nudging per promuovere i comportamenti virtuosi desiderati.

NUDGE E MOTIVAZIONE 
 
Fra i compiti che spettano al leader, c’è indubbiamente quello di saper motivare collaboratori e dipendenti. Detto così sembra semplice, ma non lo è. Probabilmente molti di noi, senza usare i nudge, se dovessero, di punto in bianco, pensare a strategie per motivare i colleghi, a costo zero, brancolerebbero un bel po’ nel buio.
 
Come possono aiutare i nudge?
 
La motivazione non viene attivata dal denaro, ecco sfatato un primo mito. I soldi contano, ma nella scala gerarchica occupano un ruolo marginale.  Il primo posto è occupato dall’individuazione di uno scopo, un purpose nell’attività che si sta svolgendo, come ben si evince già nella prefazione del libro Nudge Revolution. La strategia che rende semplici scelte complesse.

A dimostrare la portata dello scopo sono anche gli studi e le ricerche di Dan Ariely, professore di psicologia ed economia comportamentale alla Duke University. In un esperimento ha chiesto alle “cavie di turno” di montare dei Lego Bionicle per soldi. I partecipanti sapevano già che una volta realizzati, questi sarebbero stati “distrutti”, per poi essere ricostruiti da altri. Se in un primo momento, i volontari hanno accettano di buon grado di stare al gioco dietro compenso, man mano che l’esperimento procedeva le cose si sono fatte via via più incerte. Dopo non più di una decina di prove i volontari hanno dato forfait
 
Il motivo: hanno perso motivazioneNon vedevano le loro azioni ricompensate da uno scopo reale: «Distruggendo i Lego davanti ai loro occhi – ha spiegato Ariely – hanno anche sostanzialmente distrutto la felicità che traevano da quest’attività».
 
Ciò che ci motiva è essenzialmente avere ben chiaro lo scopo, la ragione delle nostre azioni. Il  perché facciamo una determinata cosa.

Se si è annoiati o si pensa che la propria motivazione stia venendo meno, Ariely consiglia di dare risposta a due domande. “Quale significato possiamo trovare in quello che facciamo? E  in che modo il lavoro che svolgiamo contribuisce ad aiutare gli altri?».
 
E’ la definizione di uno scopo a motivarci e di conseguenza a renderci più felici e soddisfattiA farci fare meglio le cose, a non farci mollare o a farci mollare in un tempo più dilatato, a rendere le decisioni meno faticose e insidiose. A far sembrare anche il compito più ingrato, utile, necessario e importante
 
Un bonus in busta paga non sempre migliora la produttività di un lavoratore, anzi spesso ha l’effetto opposto. Come dimostra un esperimento sociale condotto in uno stabilimento Intel: i responsabili della fabbrica avevano stanziato dei bonus di produttività per motivare i dipendenti nella produzione di chip, in particolare nella loro prima giornata del ciclo lavorativo.

Cosa sarebbe successo se, invece di una ricompensa economica, fosse stata consegnata direttamente a casa una deliziosa pizza formato famiglia? Cosa sarebbe successo se al posto di una ricompensa tangibile, i dipendenti avessero ricevuto un messaggio dal proprio capo con su scritto “ottimo lavoro”?
 
Nel primo giorno di produzione, coerentemente con le intuizioni dei responsabili, fu riscontrato che il denaro, la pizza e l’elogio avevano tutti dato risultati migliori della condizione di controllo (né messaggi né promesse di bonus). Tutti e tre gli approcci accrescevano la motivazione in modo simile. Ma ecco la sorpresa: il coupon per la pizza incrementava la produttività del 6,7%, quasi a pari merito con il 6,6% di incremento ottenuto dal riconoscimento scritto. Dei tre incentivi, il denaro aveva la resa peggiore, attestandosi leggermente più in basso al 4,9%.
 
Paradossalmente quando il nostro lavoro viene riconosciuto ed apprezzato siamo disposti a lavorare di più per una paga inferiore. Come dimostra la metafora dei tre operai, la motivazione è un elemento imprescindibile.Tre persone erano al lavoro in un cantiere edile. Avevano il medesimo compito, ma quando fu loro chiesto quale fosse il loro lavoro, le risposte furono diverse. “Spacco pietre” rispose il primo. “Mi guadagno da vivere” rispose il secondo. “Partecipo alla costruzione di una cattedrale” disse il terzo.” 
 
Più un’azienda sa offrire ai dipendenti opportunità che creano significato e legame, maggiori sono le probabilità che quei dipendenti si impegnino di più e che la loro fedeltà sia più duratura. 
 
Se avete ancora qualche dubbio circa il potere del denaro nella motivazione, pensate se nel ricevere un regalo alla vostra festa di compleanno, un amico palesasse quanto gli è costato in termini economici. Quante probabilità ci sono che lo invitereste anche l’anno successivo?
 
Qualsiasi cambiamento si voglia generare, prima occorre comprendere quale sia il comportamento che si desidera modificare, tenendo conto dei valori, bisogni, desideri e priorità che muovono l’individuo. Riconoscerli è cruciale, dato il complesso ambiente nel quale le persone prendono decisioni. Più conosciamo a fondo gli individui di cui vogliamo modificare i comportamenti e più riusciremo a creare architetture delle scelte efficaci. E i nudge permettono tutto questo!

Questo articolo è anche stato pubblicato sul Magazine DF: https://magazine.darioflaccovio.it/2019/12/17/motivazione-leadership-e-tante-piccole-spinte-gentili/

PERCHE’ RIMANDIAMO A DOMANI, CIO’ CHE DOVREMMO FARE OGGI? Pigrizia e scarsa volontà non sono le risposte giuste!

Come al solito non hai voglia di studiare… di allenarti… di lavorare… Frasi trite e ritrite che ci siamo sentiti dire e che abbiamo rivolto un numero indefinito di volte…

Gli altri si aspettano tante cose da noi e noi di riflesso facciamo lo stesso con chi ci circonda, con chi veniamo in contatto, con chi viviamo e lavoriamo giorno dopo giorno. Spinti da quella orrenda frase che ci rincorre fin da bambini puoi fare di più.

In azienda, persone di tutti i ruoli procrastinano la consegna di progetti, mancano appuntamenti importanti e arrivano tardi laddove è considerato sacrilego. E così in università: raramente gli studenti consegnano elaborati rispettando la scadenza. Una volta ho avuto una studentessa che ha perso due anni per consegnare la tesi.

Pigrizia, scarsa volontà? No. Assolutamente no. O meglio fino a non troppo tempo fa pensavo anch’io fosse così…

Sono una comportamentista, quindi sono interessata (ossessionata è più corretto) a ciò che guida i comportamenti e le scelte umane. Quando si cerca di anticipare le azioni di un soggetto guardare il contesto è più predittivo che rifarsi all’intelligenza o ad altri tratti della personalità (https://psycnet.apa.org/record/1979-28632-001)

Così quando qualcuno non riesce a stare nei tempi, ho imparato a chiedermi: Quale situazione lo ha rallentato o bloccato? Cosa gli è mancato? Quali ostacoli che non vedo gli impediscono di agire?

Con il tempo ho imparato che ci sono sempre degli ostacoli che ci limitano, ecco perchè è sbagliato gridare alla cattiva volontà o alla pigrizia, se prima non si è analizzato il contesto.

Di fronte a un comportamento di una persona che non rispetta le nostre aspettative, possiamo comportarci in due modi: giudicare o cercare di capire. Fra le due è molto più semplice giudicare e additare i procrastinatori per il loro cattivo comportamento. Rinviare un progetto riporta facilmente all’idea di pigrizia, almeno a una analisi superficiale. Spesso lo pensano così anche coloro che procrastinano… devi fare qualcosa, sei un fallimento, un pigro…

Da decenni gli studi psicologici spiegano la procrastinazione non come un effetto collaterale della pigrizia, come dimostrano tra l’altro anche molte persone di successo che hanno raggiunto risultati sopra la media procrastinando: (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/0092656686901273).

La procrastinazione è un processo esistenziale più profondo e complesso di quanto appare. E di come ci piace bollare. Un articolo di Charlotte Lieberman bene inquadra l’attitudine seriale a rimandare, ovvero la relazione complicata tra noi e le nostre emozioni.

PERCHE’ PROCRASTINIAMO?

 

Ci spiace spiegare pigrizia, negligenza e scarso senso del dovere (“Ce la potrebbe fare… ma non si applica!”), quale risposta a una cattiva gestione del tempo, a una scarsa pianificazione delle attività, a una insufficiente efficacia nella risoluzione dei problemi (“Ce la potrebbe fare… prova ad applicarsi… ma lo fa male!”).

Eppure ciò che caratterizza la procrastinazione non è solo l’atto di rimandare un’attività… ma anche la disturbante percezione emotiva che ne consegue: la sensazione che stiamo andando contro ciò che ci suggerisce il buon senso. Di fatto è un “auto-sabotaggio”. Inizialmente ci solleva dall’ansia, poi non ci fa sentire a posto con noi stessi.

Procrastinare è un comportamento irrazionale. Secondo Tim Pychyl, professore di psicologia e membro del Gruppo di Ricerca sulla Procrastinazione dell’Università di Carleton di Ottawa, la procrastinazione non è causa di pigrizia, ma una reazione a stati emotivi dolenti che si faticano a gestire: ansia, timore di critica, inadeguatezza, senso di colpa. E’ il prevalere dell’urgenza di gestire immediatamente un’emozione dolorosa, rispetto al vantaggio a lungo termine di portare avanti un’attività.

A cui vanno aggiunti i personali stati d’animo: Sarò in grado di portare a termine il progetto?; Cosa penseranno gli altri di me se dovessi fallire?

Davanti a questi pensieri possiamo allarmarci e cercare una via di fuga: questo non elimina gli stati dolorosi associati all’impegno rimandato, ma semplicemente li posticipa spesso in maniera non indulgente, ma sotto forma di dialogo interiore severo e inflessibile (“Buono a nulla! Incapace! Non sei in grado!”) che aumenta la sofferenza e che paradossalmente proviamo a gestire… procrastinando ancora!

TORNIAMO A NOI…

L’intolleranza alla procrastinazione non deve farci dimenticare che spesso è determinata da ragioni più profonde che la scarsa volontà, come invece accade.

Conosco colleghi dell’università che non si sono mai chiesti cosa bloccasse uno studente. Una collega si rifiutava di lasciar entrare in classe  qualunque studente in ritardo. Non si interessava del perché; partiva dall’idea che nulla è impossibile se lo vuoi ottenere, figuriamoci arrivare in orario alle lezioni. Ricordo di un ragazzo sordomuto che poi si è laureato con il massimo dei voti a ingegneria, venire sottoposto a esame orale anziché scritto e venir bacchettato dal docente perché non capiva la domanda. Quando sarebbe bastato guardarlo in volto affinchè lui leggesse il labiale. Lui non è diventato un procrastinatore ma avrebbe potuto diventarlo e non per scarsa volontà.

O la studentessa che arrivava sovente in ritardo la prima ora di lezione perché passava le notti al capezzale della madre morente. Provava vergogna per la ruvidezza del docente, e nemmeno trovava la forza per esplicitare la sua situazione.

Al di là delle catalogazioni scientifiche, talvolta sarebbe sufficiente chiedersi il perché di un comportamento, prima di giudicarlo senza ascoltarne la risposta.

So che non è facile,  non siamo stati educati a riflettere su ciò che blocca i nostri collaboratori, i nostri studenti, i nostri amici. Tanti sono coloro che orgogliosamente rifiutano di condividere spazio e tempo con chi è meno fortunato, più lento, apparentemente meno elitario. E più rivestiamo ruoli importanti più mettiamo distanza, benchè diventiamo vittime di altre problematiche rispetto alla pigrizia. Eppure proprio come sappiamo che la pigrizia non è sempre una scelta attiva, anche i comportamenti elitari e giudiziari sono determinati dall’ignoranza situazionale.

Il segreto è chiedersi contro cosa lottano gli altri, e ricordare che probabilmente non se lo sono scelto. Ci stanno provando a fare bene, ma non sempre è facile. Alcune barriere sono difficili da abbattere, anche per i più forti e i più tenaci. Spesso, è sufficiente adottare un approccio curioso ed empatico nei confronti di individui che inizialmente vogliamo giudicare “pigri” o irresponsabili. E qui, mi domanderei perchè abbiamo questa esigenza da soddisfare, prima ancora di capire le ragioni della pigrizia altrui.

Le persone non scelgono deliberatamente di fallire o di deludere. Nessuno vuole sentirsi incapace, inefficace o inutile. Se guardando l’azione (o la non azione) di una persona, vedi solo pigrizia, probabilmente ti sei perso i dettagli chiave. C’è sempre una spiegazione. Ci sono sempre barriere. Solo perché non puoi vederle o non le vedi come legittime, non significa che non ci siano.

Forse devi solo imparare a guardare meglio.

Quei PULSANTI PROGETTATI per NON FUNZIONARE…

Entri in ascensore e qualcosa dentro di te ti spinge a premere compulsivamente il bottone chiusura porte. Sai perché accade questo?

La percezione è che schiacciando il pulsante, le porte si chiuderanno prima. Peccato che nella maggior parte dei casi, il comando sia, per ragioni di sicurezza, disattivato.

Allo stesso modo dei pulsanti presenti agli incroci per attivare anzitempo il verde dei semafori pedonali: non funzionano. Pulsanti progettati non per funzionare ma per tranquillizzare chi li usa illudendoli che servano a qualcosa.

ILLUSIONE DEL CONTROLLO

In gergo sono chiamati pulsanti placebo: fai qualcosa aspettandoti un risultato e, se il risultato arriva, continui a fare quella cosa. Solo che tra la cosa e il risultato non c’è nessun rapporto causa-effetto.

I pulsanti placebo non sono piazzati lì da tecnici crudeli. Hanno solo una funzione psicologica che ha a che fare con la teoria dell’illusione del controllo, proposta negli anni ’70 da Ellen Langer, docente ad Harvard. La studiosa si accorse, sbagliando l’ordine di distribuzione delle carte durante una partita a poker, che gli altri giocatori si erano innervositi molto. Provò a spiegare loro che, nella pratica, le loro probabilità di vincere o perdere erano identiche. Ma capì anche che scombussolando l’ordine di distribuzione aveva tolto loro l’illusione del controllo su una situazione incontrollabile (la casualità delle carte ricevute).

Da qui deriva deriva dunque l’espressione illusion of control per dimostrare la tendenza degli esseri umani a credere di avere il controllo, o quanto meno una certa influenza, su degli avvenimenti su cui in realtà non hanno alcun potere.

Un altro esempio sono i giocatori d’azzardo, che credono di possedere una capacità, una sorta di potere magico, che permette loro di avere maggior successo degli altri. In un esperimento, Langer ha dimostrato che quando lanciano i dati, i giocatori tendono a imprimere maggiore forza quando vogliono numeri alti, minore per i numeri bassi. Ovviamente questo non altera in nessun modo le probabilità, ma ai giocatori piace pensare sia così.

Langer ha definito l’illusione del controllo come l’aspettativa che le probabilità del proprio successo personale siano più alte delle probabilità oggettive. E anche se molte persone si dicono consapevoli dell’influenza del caso, inconsciamente si comportano come se avessero controllo sugli eventi casuali.

STEVE JOBS

L’illusione del controllo si applica tranquillamente alla vita di tutti i giorni, e tutti ne siamo vittime, anche Steve Jobs. Come racconta Don A. Moore, Ph.D in Comportamento Organizzativo, quando al fondatore di Apple venne diagnosticato un cancro al pancreas nel 2003, come era abituato a fare in azienda, credette di poter controllare autonomamente anche la sua malattia. Disse no all’operazione chirurgica in urgenza e la chemioterapia, per “curarsi” con agopuntura, rimedi naturali e dieta. Nove mesi dopo accettava di sottoporsi ad intervento, ma a quel punto il cancro si era esteso irrimediabilmente: i medici pur asportando cistifellea, stomaco, dotto biliare e intestino tenue, non poterono guarirlo.

Sovrastimare le nostre possibilità di controllo, può portarci a compiere errori tragici e dispendiosi – commenta Moore – come per esempio rifiutare un trattamento medico perché abbiamo la falsa speranza che, per esempio, il cancro possa essere curato dalle risate o dai pensieri positivi.

ILLUSIONI POSITIVE

In psicologia, quella dell’illusione del controllo è descritta come una “illusione positiva”. Le illusioni positive – spiegano Makridakis e Moleskis in uno studio – sono associate a un ottimismo irrealistico sul futuro e a una valutazione eccessiva delle proprie abilità. Sono molto comuni nella vita quotidiana e sono considerate essenziali per mantenere uno stato mentale salutare, anche se su questo non c’è accordo unanime da parte degli studiosi.

Un esempio è quello noto come “migliore della media”. Dimostrata da Brown nel 2012, questa illusione ci porta a pensare di essere un po’ meglio delle altre persone in determinati campi: alla guida, nello studio, nel lavoro e così via. Questa e altre illusioni ci spingerebbero ad avere più speranza di fronte a difficoltà e incertezza, riuscendo così a superare gli ostacoli più duri e a raggiungere obiettivi impegnativi.

Se da un lato quindi è pericoloso dare eccessivo credito a queste illusioni, d’altro canto può essere pericoloso anche fare il contrario. È quindi saggio da parte nostra pensare di non avere alcun controllo sulla nostra salute o sulle nostre scelte? – chiede Moore – Questo può condurre all’errore opposto: sottostimare ciò che possiamo controllare. È facile capire quante opportunità ci perdiamo perché ragioniamo in questo modo. Molte persone si rifiutano di ‘controllare’ le situazioni che possono ‘controllare’.

‘Controllare’ ciò che possiamo ‘controllare’ è quindi il migliore antidoto alla rassegnazione, al senso di impotenza, alla scarsa fiducia in noi stessi.  L’ideale quindi è trovare il giusto mezzo tra illusione e rassegnazione.

E’ RESPONSABILE CHI COMANDA o CHI UBBIDISCE?

Se il tuo capo ti ordinasse di infliggere una scossa elettrica di 400 volt a uno sconosciuto, ubbidiresti? Non rispondere subito “no”, potrebbe non essere la risposta corretta.

Il 65% delle persone di fronte a un ordine eticamente contrario alla propria morale, vìola i propri principi per ubbidire ai voleri di un potere esterno riconosciuto, non sentendosi poi moralmente responsabile delle proprie azioni.

A studiare questa caratteristica dell’uomo fu Stanley Milgran, che iniziò i suoi esperimenti tre mesi dopo l’inizio del processo al criminale di guerra Adolf Eichmann. Lo psicologo di Yale concepiva l’esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”. La difesa dell’ex nazista si basava esattamente su questo assunto.

L’esperimento consistette nel reclutare 40 uomini (pagati 4.50$). reperiti attraverso annunci sul giornale, il cui compito era rivestire il ruolo di insegnante e porre domande a uno sconosciuto (complice nell’esperimento) in presenza di uno scienziato che rappresentava l’autorità, e punire l’interrogato con scosse elettriche crescenti (dai 30 sino ai 450 Volt) ad ogni errore, in caso di risposta errata.

Il 65% dei partecipanti somministrò il livello finale di shock di 450 volt, sebbene si sentissero a disagio nel farlo. Qualcuno si fermò e mise in discussione l’esperimento, qualcun altro si informò sul denaro che avrebbe ricevuto in cambio. Nessuno rifiutò di dare uno shock prima che questo raggiungesse i 300 volt.

Lo stupefacente grado di obbedienza ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, ma NON a sentirsi moralmente responsabili delle loro azioni, IN QUANTO esecutori dei voleri di un potere esterno. Come a dire… è responsabile solo chi comanda e non chi ubbidisce!

Persone normali, che fanno il loro lavoro e senza alcuna particolare ostilità nei confronti delle vittime, possono diventare terribili parti attive in un processo di distruzione: anche quando gli effetti si rivelano in tutta la loro gravità, poche persone hanno le risorse necessarie per resistere ad una autorità. La psicologia sociale ci ha dato una grande lezione: a volte non è tanto il tipo di persona che siamo, ma la situazione in cui ci troviamo a determinare le nostre azioni” (Milgram, 1974).

A questo punto ti ripongo la domanda: se il tuo capo ti ordinasse di infliggere una scossa elettrica a uno sconosciuto… ubbidiresti fino a qualche voltaggio?

L’ARTE di DOMINARE le FOLLE

Quattro colleghi intorno a un tavolo, un caffè che si raffredda, qualche pasta e un collaudato brainstorming per trovare soluzioni laddove è difficile scovarne. E poi, lei, l’economista del gruppo, tutta calcoli e dati che mi guarda accigliata prima di chiedermi “come fanno certi personaggi a calamitare così tanto l’attenzione, pur non avendo poi così tanto da dire? Ad avere seguaci, più che sostenitori pensanti, a creare sette più che luoghi di confronto e scambio? Cosa spinge il singolo a perdere la propria identità?”.

Domanda complessa… mentre rimaneggio la pasta di meliga, cercando di srotolare i pensieri e trovare una risposta concreta, mi viene in aiuto un controverso scrittore francese, apprezzato dai grandi intellettuali del ‘900 e letto da Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini che ne trassero utili informazioni… per conquistare le masse.

Scritto in uno stile semplice, chiaro, metaforico ma anche perentorio, assertivo e ripetitivo, l’opera di Gustave le Bon “Psicologia delle folle” sebbene datata, continua a essere fra i suoi libri più noti. Per propagandare le sue idee. Ma anche profondamente apprezzato, con i tutti i limiti del tempo, per la genialità intuitiva e per la sua funzionalità sul piano del consenso politico.

LA FOLLA: UN’ANIMA COLLETTIVA

La folla, per Le Bon, non è necessariamente un numero immenso di persone radunate nello stesso luogo, piuttosto uno stato d’animo comune, il momento in cui il singolo si libera della sua identità, per fare proprie caratteristiche nuove che lo rendono partecipe di un’anima collettiva.  Una psicologia comune, che lo fa sentire, pensare e agire in modo diverso da come farebbe isolatamente. «Nella folla, le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci. I fenomeni inconsci svolgono una parte preponderante nel funzionamento dell’intelligenza.» E ciò accadeva, secondo Le Bon, non solo per una folla composta da individui senza cultura o appartenenti alle classi popolari, ma anche per una folla composta da individui colti o appartenenti alle classi superiori.

Insomma l’intelligenza individuale si perde immediatamente nella folla, abbassandosi ad un grado intellettivo minore. La folla, detto in parole semplici, è limitata.

LA FOLLA HA BISOGNO DI UN PADRONE

La caratteristica fondamentale della folla è la necessità di avere una guida, un capo. «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone». Per Le Bon i popoli sono sempre guidati da un capo. Rari però sono i grandi capi dotati di forti convinzioni capaci di creare nelle masse una nuova fede, mentre i capi sono spesso «retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti.»

AFFERMAZIONE E RIPETIZIONE

Ma sia i grandi sia i piccoli capi per conquistare le masse devono usare gli stessi modi di persuasione. I modi insegnati da Le Bon erano soprattutto l’affermazione e la ripetizione. «Quanto più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità.»

L’affermazione deve essere ripetuta continuamente perché solo così essa penetra «nelle regioni profonde dell’inconscio, in cui si elaborano i moventi delle azioni.» Solo così è possibile penetrare nella psicologia della folla, i cui caratteri specifici sono la suggestionabilità, l’incapacità di ragionare, l’esagerazione dei sentimenti, il semplicismo delle opinioni e altre caratteristiche che apparentano la folla al bambino o agli esseri primitivi per «la facilità a lasciarsi impressionare dalle parole e dalle immagini, a farsi trascinare in atti lesivi dei suoi più evidenti interessi.»

Le Bon insegnava ai capi che «conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare. « L’arte degli uomini di governo “consiste soprattutto nell’uso della parola”, perché la potenza della parola è così grande che bastano alcuni termini ben scelti per far accettare le cose più odiose.» Nella politica di massa, il potere di una parola non dipende dal suo significato «ma dall’immagine che essa suscita. I termini dal significato più confuso possiedono a volte il più grande potere», se sintetizzano le aspirazioni inconsce delle masse e la speranza della loro realizzazione. Perciò il capo deve conoscere «l’affascinante potere di seduzione che hanno le parole, le formule e le immagini», e servirsi di parole e di formule capaci di evocare immagini eccitanti la suggestionabilità delle folle.

«L’irreale predomina sul reale». Il capo può promettere «senza timore le più imponenti riforme. Le promesse esagerate producono sul momento un grande effetto e non impegnano affatto per l’avvenire», perché la folla non si preoccupa mai di sapere se la guida ha rispettato la proclamata professione di fede.

Nell’eloquio, la tazzina di caffè si è svuotata, le briciole delle paste disegnano strane ombre e senza timidezza i nostri pensieri fanno un balzo in avanti. Le Bon non è mai stato tanto attuale…

PERCHE’ abbiamo SEMPRE BISOGNO di un NEMICO… QUALCUNO a cui dare la COLPA…

Perché abbiamo bisogno di trovare un nemico, qualcuno a cui dare la colpa dei nostri errori, delle nostre paure, dei nostri fallimenti?” – mi chiede un partner di una società di consulenza, durante una pausa caffè.

Domanda complessa di un fenomeno dilagante, dettato da stereotipi etnici e di genere che colpisce tutti trasversalmente, persino chi sarebbe chiamato a dare il buon esempio, se non altro per mandato istituzionale. Ma al di là dell’opportunismo, cosa accade nel cervello di un razzista?

Secondo la psicologia sociale il razzismo è determinato da due vizi di ragionamento: il pregiudizio e lo stereotipo. Nonostante l’accezione negativa, entrambi operano quotidianamente perché permettono di accelerare i nostri ragionamenti, facendo il minimo sforzo.

Il pregiudizio è un’opinione preconcetta che non si basa su un’esperienza diretta. Una semplice conoscenza scorretta diventa pregiudizio quando non cambia a fronte di nuovi dati.

Gli stereotipi sono descrizioni generalizzate di gruppi di persone che si basano su alcune caratteristiche salienti, positive o negative. A questi gruppi, riconoscibili per caratteristiche fisiche, sociali, culturali ecc.., vengono associati valori, motivazioni e comportamenti in modo così netto che diventa impossibile considerare la singola persona nella sua unicità.

Uno dei problemi fondamentali dello stereotipo è che, come il pregiudizio, si modifica con molta difficoltà. Ciò accade anche perché vengono create le condizioni affinché queste convinzioni si avverino. Se pensiamo che una persona sia fredda e ci relazioniamo con lei a nostra volta in modo freddo, il nostro interlocutore sarà portato a comportarsi di conseguenza avvalorando la nostra previsione. La generalizzazione permette di sapere come comportarci anche in situazioni ignote.

I razzisti sono empatici?

I neuroscienziati dell’Università di Bologna hanno testato la reazione a immagini dolorose relative al proprio e all’altro gruppo etnico, confermando che a fronte del dolore altrui si attivano automaticamente gli stessi circuiti cerebrali collegati alla percezione di quel dolore, come se l’osservatore lo stesse provando sulla propria mano. La risposta automatica però non si è attivata nel caso di individui appartenenti ad un diverso gruppo etnico. E quanto più i volontari avevano dimostrato un atteggiamento xenofobo, tanto più i loro cervelli si erano dimostrati indifferenti alla sofferenza altrui.

«La ricerca dimostra che la scarsa empatia, cioè la capacità di condividere e comprendere i sentimenti e le emozioni altrui nei confronti di persone di diverso gruppo etnico, è correlata al pregiudizio razziale inconscio dell’osservatore», ha spiegato Alessio Avenanti, coordinatore della ricerca.

Ma se il problema più che di mancata empatia fosse dovuto a una incapacità di immedesimazione?«Proprio per sgomberare il campo da questo sospetto, abbiamo introdotto nell’esperimento anche una mano viola, ma alla vista di un ago conficcato sull’arto di colore viola tutti i volontari hanno mostrato invece un atteggiamento empatico».

In sostanza i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con immagini di mani artificialmente colorate di viola, percepite come estremamente strane e non familiari da entrambi i gruppi e il risultato è stato sorprendente: i due gruppi hanno manifestato empatia nei confronti del dolore della mano viola, nonostante la sua peculiarità, e nonostante la mano viola mostrata ai bianchi fosse quella di un nero e viceversa.

Ciò suggerisce, che non è tanto il diverso aspetto a determinare la differenza di risposta, bensì il significato culturale che viene associato.

Il razzismo ci aiuta a sopravvivere?

La psicologia evolutiva, che spiega i comportamenti umani come comportamenti mantenuti dai nostri antenati ad oggi esclusivamente perchè utili alla sopravvivenza, ci dice che il razzismo era prevalente poiché era vantaggioso, per i primi esseri umani, privare altri gruppi di risorse.

Probabilmente, non avrebbe fatto bene ai nostri antenati essere altruisti e permettere ad altri gruppi di condividere le loro risorse: ciò avrebbe solo diminuito le possibilità di sopravvivenza. Soggiogare e sopprimere altri gruppi aumentava il loro accesso alle risorse. Tuttavia, possiamo ritenere che lo sviluppo che impregna la nostra civiltà sia ben lontano da allora e la nostra cultura, aperta al nuovo ed al costante cambiamento, debba tenerci lontani da fenomeni come il razzismo.

E se invece il razzismo fosse solo un meccanismo di difesa psicologica?

Una visione alternativa è che il razzismo e tutte le forme di xenofobia non abbiano una base genetica o evolutiva ma rappresentino un meccanismo di difesa psicologica generato da sentimenti di insicurezza e ansia.

Secondo la teoria della gestione del terrore, la motivazione di questi comportamenti è migliorare il senso di importanza o valore di fronte alla morte, o di acquisire un senso di sicurezza o appartenenza, come una modalità di protezione contro la minaccia della mortalità. Il razzismo potrebbe quindi essere una risposta simile ad un senso più generale di disagio o inadeguatezza. Ma la comune ed universale caducità della vita umana dovrebbe unirci in un’unica razza: l’uomo.

E se il nemico fossi io?

Come spesso accade, è più semplice vedere il problema fuori o nell’altro. Nascondersi dietro a giustificazioni e motivazioni di vario genere. La riflessione che dovrebbe scaturire da tutto ciò è quanto sia controproducente farsi la guerra, alimentare odi razziali. La storia ci ha insegnato cosa può generare tutto questo. È vero che la storia si ripete ciclicamente, ma serve anche a non ripetere gli stessi errori, serve a ricordare di quando anche noi tentavamo la fortuna.

Quindi per rispondere alla domanda di apertura… di fatto non c’è più ragione di trovare un nemico. Ma, si sa, alle abitudini soprattutto a quelle cattive, è difficile sottrarsi…

A VOLTE le PAROLE non bastano. E allora SERVONO i COLORI.

Il professor Andrew Elliot condusse un esperimento bizzarro: chiese a studenti eterosessuali di sesso maschile di guardare più foto che ritraevano una giovane sconosciuta, e di valutarne l’attrattiva su una scala da 1 (per nulla attraente) a 9 (estremamente attraente). A cambiare da immagine a immagine era il colore del bordo che incorniciava la foto: bianco, rosso, blu e verde.

Gli psicologi conoscono alcune cose sul colore: il nero è associato all’eleganza, alla ricchezza, al potere e alla forza, il verde calma, il rosso è il colore dell’amore… Ma Elliot voleva capire se il colore potesse effettivamente cambiare il fascino di una persona.

La donna più attraente veste di rosso

I risultati condotti su più studi, sono sempre stati gli stessi: la donna più attraente, pur rimanendo sempre la stessa, era quella incorniciata di rosso. Su di lei concentravano l’attenzione, era più interessati a chiederle un appuntamento e a spendere più denaro. Attenzione, non credevano che la donna fosse più simpatica, gentile o intelligente – semplicemente era più attraente sessualmente.

Lo psicologo francese Nicolas Gueguen, ha replicato alcuni studi nel mondo reale, assumendo cinque ragazze brune di età compresa tra i 19 e i 22 anni, facendo fare loro le autostoppiste. Le donne indossavano jeans, scarpe da ginnastica e una maglietta a tinta unita.

Diversi giorni e 4.800 automobilisti di passaggio più tardi, Gueguen tornò al laboratorio. Come per le donne di Elliot, gli automobilisti maschi si fermavano e quindi preferivano il 21 per cento delle volte in più le donne che indossavano magliette rosse.

Non soddisfatti Gueguen e la collega Céline Jacob, hanno condotto un esperimento simile in un sito di incontri online. Le donne che ricevevano più contatti e richieste di appuntamenti erano quelle che nelle foto indossavano magliette rosse. Il 21 per cento, contro un range fra il 14 e il 17 per cento di quando portavano abiti neri, bianchi, gialli, verdi e blu.

Ci sono almeno due ragioni che spiegano il perchè il rosso vince nel gioco dell’accoppiamento. Siamo stati condizionati ad associare al rosso, la passione e il romanticismo. Il rosso è il colore di cuori e rose, de la femme fatale, della lettera “a” che segnava il passato adultero di Hester Prynne ne La lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne. Inoltre come per gli animali (i babbuini arrossiscono quando sono sessualmente ricettivi), anche la pelle di noi umani subisce dei cambiamenti quando siamo attratti da qualcuno, rafforzando il legame fra rossore e recettività sessuale. La pelle di una donna, per esempio, arrossisce più facilmente mentre si avvicina all’ovulazione.

I colori influenzano anche i nostri giudizi in altri contesti.

A fine anni ’80, Mark Frank e Tom Gilovich analizzarono i rigori concessi a 21 squadre della National Hockey League e 28 della National Football League. Le squadre in ogni lega che hanno indossato uniformi nere, e dal momento che il nero è associato all’aggressione, hanno ottenuto più penalità di squadre che indossavano colori più tenui. Frank e Gilovich hanno anche dimostrato che gli studenti si comportavano in modo più aggressivo quando indossavano divise nere e credevano che gli altri studenti fossero più aggressivi quando anche quegli studenti indossavano il nero.

Nero Vs Rosa

All’altro estremo, negli anni ’70 lo psicologo Alex Schauss scoprì che i giovani detenuti in buona salute erano più mansueti dopo aver fissato un foglio di cartone rosa. Venne così dipinto l’interno di una cella di rosa brillante  e, la leggenda narra che i prigionieri che entravano nella cella arrabbiati ne uscivano 15 minuti dopo, pacificati e rilassati. La struttura normalmente contava decine di aggressioni, ma non un singolo detenuto che passava del tempo nella cella rosa si comportava in modo violento nei successivi nove mesi.

L’effetto si infiltrò anche nella cultura popolare e gli allenatori di football del Colorado e dell’Università dell’Iowa iniziarono a dipingere gli spogliatoi dei loro visitatori con lo stesso colore rosa, sperando di indebolire gli avversari.

Nero, rosso e rosa hanno una notevole capacità di plasmare i nostri pensieri, sentimenti e comportamenti. Sembra folle suggerire che la stessa persona possa essere più fortunata in amore quando indossa una maglietta rossa, che lo stesso calciatore diventi più aggressivo quando indossa un’uniforme nera, e che gli uomini forti diventano deboli in presenza di vernice rosa ma, almeno per quanto riguarda le prove sperimentali, quegli effetti sono reali.