Tag Archivio per: #racconti

Se il CLOWN fosse il PERSONAGGIO SERIO… riflessioni leggendo Boll

Se la nostra epoca dovesse meritare un nome, dovrebbe chiamarsi l’epoca della prostituzione. La gente si abitua a un vocabolario da puttane.

A interrogarsi è il protagonista del romanzo di Heinrich Boll Opinioni di un clown. Difficile non farsi qualche domanda al riguardo…

Può l’arte moderna essere religiosa?”- “Sono stato bravo? Le sono piaciuto?

Alla lettera… le stesse domande che una prostituta fa al suo cliente che si congeda (..)

È subito chiaro che Heinrich Boll è un autore dall’ironia tagliente e dalla scrittura feroce. Il suo personaggio Hans Schnier, clown, con il dono prodigioso di fiutare le persone, viene presentato nel punto in cui la sua esistenza diventa più buia che mai: deve interrompere la sua carriera per un infortunio al ginocchio e viene abbandonato da Maria, fervente cattolica e figlia di un comunista. Maria è, come lui la definisce: « la sola donna con la quale posso fare tutto quello che gli uomini fanno con le donne».

La bellezza del romanzo sta nella condanna dell’insincerità morale, nella strenua difesa di questo principio che risulta saldo, intransigente e rigido proprio perché assolutamente naturale. Hans rivendica un amore non vincolato da un contratto statale o religioso.

É monogamo nel cuore.

Il grottesco della vita viene svelato, nella realtà il clown diventa il personaggio più serio, l’unico veramente capace di soffrire e amare, tanto che alla fine apparirà come un uomo sognante che tende ad un’utopia dell’amore.

Cosa ha che fare tutto questo con le Neuroscienze? L’intera storia ha un risvolto psicologico non indifferente. Hans ha la mistica prerogativa di percepire gli odori per telefono! Alzando la cornetta nel suo squallido appartamento, Hans non sente solamente una voce, bensì fiuta profumi e odori, un miscuglio di fragranze assolutamente impalpabili. Un paradosso… un giovane arreso alle gioie della vita riesce comunque ad afferrare in un simile modo i segni primordiali e animaleschi dell’esistenza: gli odori!

RACCONTARE STORIE CI RENDE UMANI

“Fino a che le gazzelle non sapranno raccontare le loro storie, i leoni saranno sempre protagonisti dei racconti di caccia”. Dice un proverbio africano. E mi piace aggiungere: e farsi leggenda.

Fra tante attività più proficue per l’evoluzione, come cacciare, costruire e combattere, l’uomo ha sempre dedicato tempo e energie a raccontare, e raccontarsi, storie. Perchè?

Banalmente possiamo dire che quando ascoltiamo una noiosa presentazione, si attivano alcune aree del nostro cervello. Quando invece ci raccontano una storia, il nostro cervello si attiva completamente. Ma la questione è un po’ più complessa di così, ed è anche la domanda centrale del saggio di Jonathan Gottschall (docente di Letteratura al Washington and Jefferson College, in Pennsylvania) ne L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani.

Dalle immagini sui muri delle caverne, ai racconti intorno al fuoco, dalle epiche avventure narrate da Virgilio e Omero, alle soap opera fino ai giochi interattivi, quale bisogno soddisfa la funzione narrativa?

QUALE BISOGNO SODDISFA LO STORYTELLING?

L’uomo è un essere fatto di storie e passa più tempo immerso in un mondo di finzione che nel mondo reale. La potenza delle storie risiede nella loro capacità di renderci vulnerabili, esposti. Dal cartellone pubblicitario davanti alla fermata dell’autobus al libro sul comodino, dalla canzone distrattamente canticchiata all’ultimo film che ci ha emozionati, ci crediamo sempre i fruitori delle miriadi di narrazioni che ci circondano quando in realtà ne siamo i creatori.

L’uomo passa la vita a costruire e modificare storie per imporre un ordine al caos che lo circonda ma la funzione più vera è che le storie con il loro essere “prove di volo”, esperimenti virtuali, ci servono ad affrontare emozioni e situazioni della vita reale.

Gli studi scientifici hanno ampiamente dimostrato che, immerso nelle storie, il nostro cervello reagisce attivamente, come se si trovasse realmente di fronte a un pericolo o in una situazione emotivamente coinvolgente. Continuiamo a lasciarci trascinare da tutto ciò, pur consapevoli che si tratta di finzione, perché fa parte della nostra natura: cominciamo sin da bambini con il gioco del “facciamo finta che” e continuiamo sempre, giorno dopo giorno.

E poi raccontiamo mentalmente delle storie per costruire un’immagine di noi stessi che migliori quella reale, alterando i ricordi. Cambiando ciò che non ci piace, trasformandoci in supereroi, almeno in quello spazio di tempo che chiamiamo sogno.

…La morale della storia, semplicemente, è che non sono state la scienza, la filosofia, la matematica, ma le storie – come recita il sottotitolo del libro elogiato anche dal grande biologo Edward O. Wilson – «a renderci umani». E a farci tollerare la realtà e al (con)viverci ogni giorno.

RACCONTARE STORIE è una STRATEGIA di SOPRAVVIVENZA

Non sappiamo vivere senza storie.  Di continuo abbiamo bisogno di elaborare racconti, invenzioni e fantasie. E non solo quando siamo svegli. Una sorta di dipendenza che però ha qualcosa di necessario, di biologico, di vitale, di genetico.

Come dimostra Jonathan Gottschall, docente al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura. L’arte di creare storie è un istinto iscritto nei nostri geni. Da Sharazade, che riusciva a sospendere la condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni, alla politica. dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali), la psicoterapia dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita e talvolta anche la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica.

NON AMIAMO LE STORIE A LIETO FINE

Tuttavia l’uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate: Edipo si acceca per l’orrore, Medea uccide i propri figli, i cadaveri che popolano i drammi di Shakespeare, le truculente fiabe dei Grimm… La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d’ogni genere e sul loro superamento finale, ricalcando l’interminabile viaggio dell’eroe che detta la trama di ogni racconto.

Ma perché la paura e l’orrore occupano una parte prevalente? “Perché – sostiene Gottschall – le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale”. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.

VIVIAMO LE STORIE CHE ASCOLTIAMO

“La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie”, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.

Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo. Gli uomini privilegiano l’irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l’inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano.

Insomma… è una strategia di sopravvivenza anche questa. Quella di raccontare storie per sopravvivere…