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COSA INDUCE UNA PERSONA AL FANATISMO? L’analisi, vent’anni dopo…

Sono trascorsi vent’anni ma, in certi giorni, è come se il tempo si fosse fermato ad allora. La memoria sa come far male e un sapore amaro torna alla bocca come un disagio cronico con il quale si può solo imparare a convivere.

Di quello che è materialmente successo, oggi sappiamo tutto. O quasi. Conosciamo la dinamica, il dirottamento di un primo Boeing 737 sul World Trade Center, lo schianto sulla facciata della torre nord alle 14.46 ora italiana, e di un secondo sulla torre sud. I crolli, meno di due ore dopo, delle Twin Tower, la morte di coloro che sono rimasti bloccati nei piani più alti dei due edifici. Un terzo aereo che precipita sulla facciata ovest del Pentagono, seguito da un ultimo Boeing che alcuni passeggeri riescono a far cadere in Pennsylvania, ma che i terroristi avrebbero voluto dirottare sul Campidoglio.

Quindi c’è il dopo, con tutto quello che ha comportato, una fitta nebbia di incongruenze e cose lasciate a metà. Quei fatti, però, restano lì, appesi al filo della memoria. E segnano un’epoca. Per molti c’è un prima e c’è un dopo l’11 settembre. Perché quel giorno fu uno spartiacque, un smacco tremendo, un’esperienza irreversibile e unica. Che non ha risparmiato nessuno, anche i più lontani. Per ideologia o semplicemente per geografia.

COSA INDUCE UNA PERSONA al FANATISMO?

Il terrorismo è una minaccia senza tempo, che obbliga ad affrontare paure e incertezze, figlie della natura imprevedibile e spesso non prevenibile degli attacchi dell’11 settembre. Ma non solo[1]. Madrid, Londra, Tolosa, Bruxelles, Parigi, Copenhagen, Nizza, Rouen, Berlino, Stoccolma, Manchester, Londra, Barcellona, Turku, Trèbes, Liegi, Schiedam, Flensburg, Strasburgo, per citare quelli in Europa, certa di averne dimenticati alcuni.

Cosa induce una persona al fanatismo? Perché persone cresciute in culture estranee a quella islamica e non, decidono di combattere per una causa, posta agli antipodi dei valori in nome dei quali la nostra società ci ha educati?

L’assunzione secondo cui soltanto una persona affetta da psicosi o sadismo sia disposta ad atti di eclatante violenza è errata o quanto meno non incontra pareri condivisi. Studi condotti tra gli anni ’60 e ‘70 hanno confermato che la maggior parte dei terroristi non possa considerarsi mentalmente instabile. Anzi sono essenzialmente razionali, perfettamente capaci di soppesare costi e benefici degli atti terroristici, giungendo alla conclusione della loro utilità e necessità.

L’INSEGNAMENTO DI MILGRAM E ZIMBARDO

Nel 1961, a seguito del processo per crimini di guerra a carico del nazista Adolf Eichmann, Stanley Milgram, professore di psicologia a Yale, condusse un controverso studio[2], il cui scopo era rispondere alla domanda: “È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?“.

La ricerca ha dimostrato che i partecipanti erano disposti a somministrare scosse elettriche ad altre persone, anche di intensità letale, dietro semplice richiesta del ricercatore. I soggetti non erano costretti a partecipare, ma soltanto incalzati dal ricercatore che sosteneva la necessità di questa azione per il bene dello studio.

Una ricerca altrettanto controversa, nota come esperimento di Stanford, è quella condotta da Zimbardo[3]. La ricerca ha rivelato che gli studenti a cui era assegnato il “ruolo” di guardia carceraria, in una sorta di gioco simulazione, sono diventati in poco tempo molto inclini ad umiliare ed abusare gli altri studenti che invece recitavano la parte di prigionieri[4].

Questi esperimenti dimostrano che CHIUNQUE, TROVANDOSI IN SPECIFICHE CONDIZIONI, E’ CAPACE DI ATTI DI VIOLENZA.

Dal punto di vista psicologico la maggior parte dei terroristi, così come i partecipanti agli esperimenti di Milgram e Zimbardo, possono essere definiti normali. Ciò che trasforma una persona ordinaria in un fanatico non è da ricondurre a difetti di personalità (se ovviamente non ne è già affetta), ma alle dinamiche sociali e di gruppo in cui si trova.

Attenzione, ciò non accade automaticamente a tutti i partecipanti. Secondo gli autori, il comportamento deviante di una persona dipende da due fattori:

  • l’identificazione con gli altri elementi del gruppo
  • il distacco da chiunque non ne faccia parte, cessando di considerare ogni elemento esterno come importante e degno di riguardi e considerazioni etiche e morali.

Se vogliamo fare un collegamento con le Neuroscienze cognitive, impattiamo in molti bias dall’outgroup, all’effetto gregge, all’overconfidence, solo per citarne alcuni.

Identificandosi con la causa a cui viene loro chiesto di aderire, e dis-identificandosi dalle loro vittime, i partecipanti degli esperimenti sono capaci di agire in modo oppressivo e violento.

TERRORISTI E RAZIONALITA’

Lo psichiatra Marc Sagemann[5] sostiene che i terroristi sono generalmente dei veri credenti che comprendono chiaramente il significato delle loro azioni. Senza mettere da parte l’importanza dei leader, come Bin Laden e Al-Baghdadi, suggerisce che questi servano più da ispirazione che da veri e propri orchestratori delle azioni terroristiche. Sono infatti scarse le prove che dimostrano che gli attentati siano condotti da un leader (eccezion fatta per l’11 settembre).

Com’è possibile allora che così tanti seguaci vengano radunati senza che i leader forniscano ordini diretti?

Proprio come negli esperimenti di Zimbardo e Milgram, infondono negli adepti un’identità comune dipendente da una causa ritenuta nobile (il progresso scientifico), allo stesso modo i leader di ISIS, Al Qaeda e altre organizzazioni simili, utilizzano una strategia affine, appellandosi alla necessità di promuovere il terrore in favore di una società migliore, improntata ai principi della religione islamica.

L’Università dell’Arizona ha condotto una ricerca sulla propaganda dell’ISIS, notando come soltanto il 5% dei messaggi promuovesse attivamente comportamenti violenti, mentre la maggior parte di essi includesse una visione di un “califfato ideale”[6].

La credibilità e il potere dell’ISIS sta però, purtroppo, non soltanto nelle azioni che promuove ma anche nel comportamento degli “avversari”.

Una ricerca della London School of Economics ha rilevato che le persone scelgono un leader bellicoso se il gruppo percepito come avversario, a sua volta, assume un atteggiamento bellicoso. Questa reazione aggressiva fornisce un appiglio che, agli occhi dei seguaci, giustifica i loro moventi e li idealizza maggiormente.

Un ricercatore del King’s College di Londra ha sottolineato come l’ISIS agisca per spingere i paesi occidentali a reazioni tali da portare i Musulmani a dis-identificarsi con queste comunità.

Dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, la rivista dello stato islamico Dabiq ha pubblicato un editoriale in cui inneggiava alla creazione di un mondo in cui la divisione tra Musulmani e non Musulmani fosse netta[7]. Spiegando che l’attentato alla sede della rivista francese è stato un primo passo in questa direzione.

Unirsi a un gruppo radicale fornisce un senso di potere, identità e appartenenza a persone che altrimenti vivrebbero nella solitudine, nel sentimento di impotenza e inutilità. Spesso entra in gioco il senso di rivendicazione di passate umiliazioni.

Studi sulle vite di alcuni terroristi indicano che traumi e violenze passate sono tra le cause più importanti che li ha condotti a unirsi a un movimento estremista.

Molti dei responsabili degli attentati però sono nati nelle nazioni contro cui si scagliano. Anche questi individui maturano quel senso di estraneità dalla società in cui sono nati e cresciuti e dalle persone che li circondano, come anche lo stesso sentimento di rivendicazione sentito da chi invece è nato in ambienti e circostanze ben meno favorevoli.

Alcuni ricercatori hanno intervistato diverse persone scozzesi, Musulmani e non, presso vari aeroporti. Tutti dichiaravano di “sentirsi a casa” dopo essere rientrati da un viaggio all’estero, ma gli scozzesi di religione Musulmana riportavano anche di sentirsi trattati con sospetto dalla Sicurezza rispetto ai propri connazionali dall’aspetto caucasico. Queste situazioni conducono al distaccamento dagli “altri”, e a lungo andare porta alla perdita di identità e a una maggiore predisposizione a cedere al richiamo dell’estremismo.

FRATELLI DI SANGUE

Un’ultima riflessione, dall’11 settembre, molti attentati del terrorismo islamico vedono spesso all’opera fratelli. Come si spiega?

Gli esperti di antiterrorismo suggeriscono che molti gruppi terroristici sono dotati di un “fratello maggiore” che converte gli altri e conduce il piano. Gli attentati di Bruxelles del 22 marzo, la strage del 13 novembre 2015 a Parigi, quella di Charlie Hebdo e prima ancora quella di Boston, durante la maratona nell’aprile del 2013, lo stesso attentato in Barcellona, hanno un macabro particolare in comune, oltre al marchio del terrorismo islamico: alcuni attentatori erano tra loro fratelli. E, secondo il rapporto della commissione 9/11, lo erano anche 6 dei 19 dirottatori che presero parte gli attacchi dell’11 settembre.

La partecipazione di un fratello minore a un atto terroristico troverebbe dunque le sue radici nell’emulazione e nel plagio. Ma non solo.

«C’è qualcosa che si chiama disturbo paranoide condiviso in cui una persona in un rapporto stretto ha manie e tira l’altro in questo sistema delirante»,

spiega Harold Bursztain, psichiatra e co-fondatore del programma di Psichiatria e Legge alla Harvard Medical School. Solitamente la persona più dominante nel rapporto sviluppa prima paranoia o deliri e poi influenza il più debole, portandolo ad avere gli stessi pensieri contorti. Il disturbo paranoide condiviso potrebbe anche spiegare perché i due attentatori di Boston non hanno inizialmente programmato una rapida fuga dopo la strage. Bursztajn è convinto che

avrebbero potuto fantasticare che Dio si prendesse cura di loro”.

La condizione psichiatrica, tuttavia e come già accennato in apertura, non accontenta tutti. Alcuni studiosi propendono piuttosto per l’ipotesi che i fratelli si incoraggino a vicenda nel compiere un atto così atroce. “Possono credere che l’omicidio sia sbagliato, ma il loro senso di fedeltà e lealtà reciproca (o al gruppo) prendono il sopravvento e sostituiscono il senso di giusto e sbagliato”, spiega James Alan Fox, professore di criminologia alla Northeastern University[8].

Terribili reati possono essere commessi solo per il gusto di una sorta di perverso legame. E penso che hanno portato fuori uno il peggio dell’altro”, continua Fox. “Non sono sicuro che da soli (riferendosi a Džochar e Tamerlan Carnaev, i due attentatori di Boston) avrebbero commesso un omicidio per conto proprio”.

Più che la parentela però conterebbero le affinità, che di solito sono maggiori tra fratelli o congiunti. Gli esperti di antiterrorismo suggeriscono che il punto più significativo non è che i terroristi spesso cospirano con i fratelli, piuttosto che essi tendano, nella maggior parte dei casi, a creare bande con un piccolo gruppo di coetanei, siano essi fratelli o amici o vicini di casa.

Intanto vent’anni sono passati e le ferite non si sono ancora fatte cicatrici.

 

Fonti

[1] https://ednh.news/it/cronologia-degli-attacchi-terroristici-in-europa-dal-2004-al-2017/

[2] Milgram S. (1974).Obedience to Authority: An Experimental View. New York: Harper and Row. An excellent presentation of Milgram’s work is also found in Brown, R. (1986). Social Forces in Obedience and Rebellion. Social Psychology: The Second Edition. New York: The Free Press

[3] Zimbardo P. G. (1971). The power and pathology of imprisonment, Congressional Record (Serial No. 15, 1971-10-25). Hearings before Subcommittee No. 3, of the United States House Committee on the Judiciary, Ninety-Second Congress, First Session on Corrections, Part II, Prisons, Prison Reform and Prisoner’s Rights: California. Washington, DC: US Government Printing Office.

[4] https://www.prisonexp.org/

[5] Sagemann M., Understanding Terror Networks, E-book

[6] https://global.oup.com/academic/product/isis-propaganda-9780190932459?q=katharine%20boyd&lang=en&cc=us#%C2%A0

[7] Campanini M., Il discorso politico dell’islamismo radicale. Tra modernità e post-modernità, Teoria politica. Nuova serie Annali, 6-2016, 65-77

[8] https://news.northeastern.edu/2019/08/13/the-story-behind-the-data-on-mass-murder-in-the-united-states/

COSA fai QUANDO TROVI un PORTAFOGLIO?

Ho una buona notizia: siamo altruisti più di quanto pensiamo.

Mi spiego meglio: se perdete il portafoglio avete, in Italia, il 50 per cento di possibilità che vi venga restituito. Soprattutto se è pieno di soldi.

In pratica, più il portafoglio è ricco, più i cittadini di molti Paesi del mondo si sentono in dovere di restituirlo al legittimo proprietario. La percentuale è variabile e cresce in funzione della quantità di denaro presente all’interno. A dirlo una ricerca pubblicata su Science: condotta dalle Università di Zurigo, Michigan e Utah, che ha preso in esame 355 città di 40 nazioni in tutto il mondo, Italia compresa.

Camuffati da anonimi passanti, i ricercatori sono entrati in banche, teatri, musei, uffici postali, hotel e stazioni di polizia, per consegnare un portafoglio, dicendo di averlo trovato casualmente per strada e chiedendo di restituirlo al proprietario di cui erano presenti alcuni documenti personali, una lista della spesa e a volte dei contanti di valore variabile.

Contro ogni previsione, è emerso che le persone interpellate provavano a rintracciare il proprietario del borsellino soprattutto se conteneva denaro: la probabilità era tanto più alta quanto maggiore era il valore economico in esso contenuto. In media, su scala globale, è stato restituito il 40% dei portafogli vuoti, il 51% di quelli che contenevano pochi spiccioli e il 72% di quelli più gonfi di denaro.

Un risultato assolutamente controintuitivo, perché l’etica in questo caso va a confliggere con l’interesse economico personale. Secondo ulteriori indagini, la maggior parte delle persone si comporta onestamente, soprattutto davanti a grandi cifre, non per altruismo, ma perché teme di essere considerata al pari di un ladro, distruggendo l’immagine auto percepita di sé come di una persona onesta.

Lo studio è illuminante insomma, perché mostra che sebbene la violazione di una regola comporti un vantaggio economico, come il guadagno di una somma di denaro, d’altra parte determina anche un costo personale che non tutti e non sempre siamo disposti a pagare: la distruzione dell’immagine che abbiamo di noi stessi come di persone oneste.

Il nostro comportamento è tanto più etico quanto più è integerrima l’immagine che ci siamo costruiti e questo dipende dal posto e dal modo in cui siamo cresciuti e dagli insegnamenti che abbiamo ricevuto. E’ un fatto culturale.

Dallo studio emerge poi una vera e propria classifica dei Paesi più onesti: in Svizzera è stato restituito l’80% dei portafogli con soldi; in Cina poco più del 20%, l’Italia è a metà strada, intorno al 50%, insieme a Grecia e Cile.

DENARO o REGALI? COSA METTERE sotto l’ALBERO?

Gli economisti sconsigliano di far trovare doni sotto l’albero, a Natale, in quanto abitudine (teoricamente) insensata e poco razionale.

Difficile dar loro totalmente torto soprattutto quando aperto il pacco ci si trova per le mani l’ennesimo foulard dai colori improbabili o un irritante maglione di lana riesumato da qualche fondo di magazzino.

Se agissimo come perfetti agenti razionali che non siamo, dovremmo regalare e voler ricevere denaro. A supporto gli studi di T. Ellingsen e M. Johannesson della Stockholm School of Economics, dove in ‘Conspicuous Generosity‘ (Generosità cospicua) stilano un elenco di ragioni per le quali è meglio scartare banconote, a Natale, piuttosto che regali.

L’acquisto dei regali comporta necessariamente dei rischi: il destinatario potrebbe non gradire il presente e, di conseguenza, il mancato piacere porterebbe all’annullamento del valore del dono; la valuta contante, al contrario, consente di acquistare esattamente ciò che si desidera.

Waldfogel, professore di economia applicata alla Carlson School of Management (Università del Minnesota), ha dimostrato che la somma che vorrebbero ricevere le persone al posto dei regali è inferiore rispetto al valore di uno qualsiasi tra i regali ricevuti.

Il discorso, in soldoni, non fa una piega.

Eppure milioni di persone preferiscono spendere i loro soldi nell’irrazionale paradosso del regalo perfetto e, nella maggior parte dei casi “poco utile”.

Il denaro viene associato a valori negativi, spiegano i ricercatori dell’Università svedese: la presenza di denaro spinge di fatto le persone a comportarsi in maniera sconsiderata. Gli individui sono più generosi quando hanno la possibilità di offrire solo il proprio tempo, piuttosto che l’opportunità di donare denaro.

I regali sono la manifestazione d’affetto nei confronti del prossimo e questo spiega il perché, quasi universalmente, i regali di Natale che richiedono tempo e sforzo siano più graditi rispetto a quelli molto costosi.

Tutti i regali rivelano qualcosa di ciò che colui che dona pensa rispetto al destinatario e sono la manifestazione tangibile della comprensione. Il regalo perfetto è ciò che il destinatario realmente desidera, gradisce ed apprezza e che magari non si comprerebbe mai da solo. Alla fine il dono giusto rimane, a dispetto dell’utopica razionalità, quello fatto con il cuore.