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NON tutto è SCIENTIFICO. ATTENTI a ciò che LEGGETE!

Ci sono riviste scientifiche che millantano standard accademici, ma che dietro compenso, pubblicano qualsiasi articolo. Dati alla mano sono 2,5, in Italia, i milioni di euro spesi per vedere pubblicate ricerche che probabilmente, se non si fosse messo mano al portafoglio, non sarebbero mai state nemmeno prese in considerazione.

Pubblicazioni farlocche comprate solo per far carriera o per vedere il proprio nome in bella mostra.

Questo tipo di riviste prende il nome di predatory journals, riviste predatorie ossia tutte quelle pubblicazioni che si presentano come scientifiche, ma dove in realtà i loro editori non fanno alcuna verifica dei contenuti. Per vedere un articolo pubblicato è sufficiente che l’autore paghi una quota.

A fare la scoperta, uno studio condotto da tre ricercatori (Mauro Sylos Labini, dipartimento di Scienze politiche Università di Pisa, Manuel Bagues Università di Warwick e Natalia Zinovyeva Università di Aalto), che hanno passato al setaccio i curriculum di 46mila tra ricercatori e professori che comparivano nelle candidature della I edizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale dell’anno 2012-13.

Per chi fosse interessato: http://www.lem.sssup.it/WPLem/2017-01.html

Cosa emerge dalla ricerca? Circa il 5% dei partecipanti all’abilitazione scientifica nazionale ha utilizzato le riviste predatorie almeno una volta. Vale a dire oltre 2000 ricercatori universitari.

Tra i 2mila docenti ci sono anche ricercatori che non sapevano di incappare in una scorciatoia poco professionale. I settori scientifici maggiormente interessati da questo escamotage sono Economia aziendale, Organizzazione e Finanza aziendale. Sono questi infatti i campi in cui sono state riscontrate maggiormente le pubblicazioni a pagamento.

Tenendo invece presente il tariffario delle riviste predatorie, lo spreco di risorse sembra essere maggiore per le pubblicazioni nel campo della Medicina dove una pubblicazione può arrivare a costare anche 2.500 dollari. Più pubblicazioni si hanno, maggiore è la possibilità di veder aumentare il proprio h–index, il punteggio con cui si giudica l’attività di un ricercatore.

Il fenomeno delle pubblicazioni a pagamento è ben noto all’estero tanto che esistono vere e proprie liste nere con i nomi delle riviste. Una delle più famose è quella messa a punto da un bibliotecario dell’Università del Colorado, Jeffrey Beall. Un esempio celebre è la pubblicazione della trama della puntata di Star Trek “Vojager”: un ricercatore dal nome fittizio Zimmerman, volendo svelare l’inganno, riuscì a farsi pubblicare la ricerca, passandola per buona, dall’American Research Journal of Biosciences che gli chiese 749 euro. Alla fine ne bastarono 50.

La facilità con cui è possibile realizzare studi fake è sorprendente. Nel 2005 alcuni studenti del Mit di Boston si sono divertiti a creare un generatore di articoli scientifici fake, fra cui la storia virale dei gattini in bottiglia, una delle bufale scientifiche più riuscite di sempre.

Le riviste predatorie possono fare danni non trascurabili, rafforzando tesi pseudoscientifiche per chi non è in grado di discriminare fra scienza e pseudoscienza. Come succede quando si parla di Novax, Terrapiattisti e tanto altro.

Come contrastare questo fenomeno e mettersi al riparo da notizie false? Leggere gli studi e accertarsi del metodo di ricerca utilizzato e su dove è stato pubblicato. Ci si può inoltre informare sugli autori della ricerca, sui loro possibili conflitti di interesse. Insomma, non basta sostenere che esiste uno studio, occorre anche vedere su cosa si basa e dove questo è stato pubblicato.

Le FATE NON esistono SE i BAMBINI NON battono le MANI

Era il 1999, avevo 18 anni, e quando mio nonno mi chiese quale regalo volessi per il compleanno risposi I versetti satanici di Salman Rushdie. Pur essendo un fervente e onnivoro lettore, mi guardò stranito. Per i miei “primi” 18 anni sicuramente si era aspettato qualcosa di più impegnativo, almeno economicamente.

E’ stata un’intervista di Antonio Monda su La Stampa allo scrittore indiano, a farmi tornare alla mente quell’episodio.

Irriverente, ma coraggioso, mi stimolava l’idea di leggere un libro censurato e di un autore che oltre alla condanna a morte decretata da Khomeyni, anche diversi traduttori avessero rischiato la vita (il traduttore italiano e quello svedese vennero feriti e il traduttore giapponese venne ucciso l’11 luglio 1991) per aver avuto a che fare con questa storia.

“Un uomo che decide di inventare se stesso, si assume il ruolo del Creatore, almeno secondo un certo modo di vedere le cose: è uno snaturato, un bestemmiatore, un abominio tra gli abomini. Da un altro punto di vista, potreste vedere pathos nella sua persona, eroismo nella sua lotta, nella sua disponibilità a rischiare: non tutti i mutanti sopravvivono. […] Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta”.

Ricordo lo smarrimento dopo aver divorato le 500 pagine del libro e la magia sognante di una storia di cui non si capisce il senso fino a quando una voce non ti illumina all’improvviso dall’alto e ti dice: Per rinascere si deve prima morire.

Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta. Di recitare ancora la parte di Dio, potreste dire. Ma potreste anche scendere qualche gradino e pensare a Tinker Bell: le fate non esistono se i bambini non battono le mani. O potreste semplicemente dire: significa proprio questo essere un uomo. Non è solo il bisogno di esser creduti, ma quello di credere in un altro.

Rushdie mi aveva conquistata. Una storia dove uomini comuni precipitano da 6000 metri senza conseguenza alcuna, dove uomini comuni acquistano come per magia un’aureola luminosa o due corna da capra, dove uomini comuni scelgono di vivere una vita lontano dalla loro patria e si fanno sedurre dalle luci dell’Occidente, dove uomini comuni cercano un’integrazione in una cultura diversa dalla loro. Quello che mi ha insegnato Rushdie, è che ogni persona può sbagliare e avere debolezze, che la lotta tra il Bene e il Male è e sarà sempre parte importante della nostra vita, che l’Amore (per se stessi, per gli altri), è l’unico segreto da conoscere.

Mentre scorro l’articolo, le parole di Rushie, continuano a farmi riflettere: “Cos’è la libertà di espressione? Senza la libertà di offendere cessa di esistere”.

PENSAVO FOSSE un Amico invece è un BUGIARDO PATOLOGICO…

Stalin, Cagliostro, Iago e infine l’inconscio. Solo alcuni dei grandi bugiardi della storia. Di Stalin c’è poco da dire, se non che cancellò la definizione stessa di verità e condusse un intero popolo a mentire: per terrore, necessità, abitudine.

Più simpatico ci è Cagliostro, capace di usurpare titoli nobiliari, frodare monaci e poveri, nonché anticipare la figura del medico impostore.

Iago di bugia ne disse una soltanto, a proposito di un sogno di Desdemona che spinse Otello a interpretare in modo sbagliato fatti veri. Fu il prototipo del manipolatore, dimostrando che l’arte più raffinata della menzogna è lavorare sul contesto e spostare i pezzi dell’insieme, oppure ometterne qualcuno. Costruire insomma la bugia con il vero che si ha a disposizione.

Infine l’inconscio, il più diffuso fra i bugiardi. Coltiva stupidi rancori infantili. Secondo alcuni è un poveraccio, per altri una leggenda. Ciò che pensa lo fa dire al conscio senza trovare mai il coraggio di mostrarsi.

E poi ci sono tutti gli altri che come comparse appaiano e scompaiono sulla scena, talvolta incapaci di dire la verità. Spesso negandola con la spudoratezza della cecità: mentono sulla realtà che non vedono e/o da cui hanno bisogno di sottrarsi. Ne conosciamo tutti qualcuno, audaci, famelici, coerenti nella bugia. Purtroppo però li riconosciamo solo una volta che siamo caduti in trappola. Nella rete del ragno, subdola, tenace, affascinante nella sua trama sfaccettata come un diamante…

Ci sono caduta anch’io che di comportamenti dovrei intendermi… non a caso sono qui a scriverne.

BUGIE: COSA DICONO LE NEUROSCIENZE

Nature Neuroscience ha pubblicato uno studio che dimostra che dire continuamente bugie diminuisce i sensi di colpa e rende più facile dirne altre. Come riporta Smithsonian, Tali Sharot, psicologo sperimentale e tra gli autori dello studio: «Ci immaginavamo già che mentire potesse portare a un aumento sempre crescente di disonestà, ma non c’era stata ancora alcuna ricerca empirica che ne spiegasse il motivo e il processo».

Per capire come funziona, i ricercatori hanno ideato un gioco che incentivava le persone a mentire: in cambio di una bugia, infatti, avrebbero avuto un regalo in denaro. A più di 80 partecipanti è stato chiesto di indovinare quante monete fossero contenute in un barattolo, poi è stato detto di aiutare un altro partecipante – chiamato “stimatore” – a capire quante ne contenesse effettivamente. Chi doveva aiutare non sapeva che gli “stimatori” fossero in realtà attori. I ricercatori hanno creato sessanta diversi scenari per gruppo che avrebbero potuto incentivare i partecipanti a sovra o sottostimare il numero di monete: in alcuni casi mentire avrebbe fatto sì che chi suggeriva avrebbe vinto dei soldi.

Gli scienziati si sono poi focalizzati sull’amigdala, cioè la regione del cervello associata alla paura, l’ansia ed altre emozioni: utilizzando un elettroencefalogramma nei partecipanti hanno scoperto che, più i suggeritori dicevano bugie, sempre meno l’amigdala veniva stimolata, il che suggerisce che le emozioni negative connesse al mentire svanivano col tempo.

Altri studi avevano già dimostrato che la disonestà aumenta quando è previsto un premio di vario genere, ad esempio quando dire una bugia potrebbe aiutarci a cogliere una buona opportunità. Stavolta, però, «è la prima occasione in un cui le persone hanno dimostrato una escalation di bugie in un ambiente di laboratorio», ha detto il ricercatore di Princeton Neil Garrett.

Secondo gli autori della ricerca, questo potrebbe risultare utile anche per vari policy makers: per Sharot se lo stato emotivo di una persona viene sollecitato mentre sta mentendo, allora si potrebbe invertire l’effetto, inducendola a dire la verità o a comportarsi correttamente. Un po’ come funziona con i cartelli che chiedono di non rubare nei camerini, o quelli per non copiare nelle classi: «Un avvertimento del genere potrebbe portare all’inizio a voler essere disonesti, ma allo stesso tempo indurrebbe un ripensamento», ha detto Garrett.

BUGIE E PSICOLOGIA

I motivi che spingono le persone a mentire compulsivamente sono vari, e spesso collegati a due disturbi di personalità: bordeline (BDP) e narcisistico. Nel primo caso, a causa di emozioni così intense da annebbiare il pensiero e il giudizio, le persone possono arrivare a interpretare tutto attraverso una lente emozionale capace di distorcere la realtà. Inoltre dire bugie aiuta a tollerare meglio la situazione, senza che l’individuo riesca a pensare alle conseguenze negative della bugia a lungo termine.

In un narcisista invece la bugia nasce come reazione alla sensazione di inadeguatezza, per costruire una maschera di superiorità nei confronti degli altri, per creare agli occhi di se stesso e degli altri una realtà speciale, non per forza migliore. Per questo un narcisista potrebbe arrivare a inventarsi un lavoro prestigioso, di essere andato a cena in un ristorante di lusso, postandolo sui social per colmare il suo profondo senso di inadeguatezza.

Diversa, e più estrema è la situazione del bugiardo patologico: mente allo scopo di manipolare l’altro e raggiungere il proprio tornaconto, a scopo totalmente utilitaristico, senza provare alcun rimorso o senso di colpa. La menzogna in questo caso non è automatica, ma è una vera e propria strategia: spesso i bugiardi patologici non riescono a conformarsi né alla legge (commettendo atti illegali come truffa, furto, etc), né alle norme sociali e i loro comportamenti sono spesso disonesti e manipolativi, ad esempio mentono o assumono false identità per trarne vantaggio o piacere.

Comprensibilmente, comportamenti analoghi possono far sorgere difficoltà all’interno di una relazione: partner, famiglia, amici spesso sono disorientati e arrabbiati alla scoperta di tanta finzione, e non riuscendo a capirne il motivo passano dalla colpevolizzazione di se stessi alla colpevolizzazione del bugiardo.

Ma una compulsione, per definizione, serve a far star meglio la persona—e come tale, se resta non scusabile, una volta compresa può essere decolpevolizzata: è infatti necessario comprendere il ruolo che assolvono le bugie per l’individuo (quale parte di sé sta disperatamente cercando di nascondere ai propri occhi e a quelli altrui? quale motivo di sofferenza sta cercando di gestire?).

Il bugiardo patologico è una persona che non può fare a meno della menzogna per vivere. E’ così concentrato ad evitare che gli altri lo conoscano esattamente per quello che è, che passa il suo tempo a costruire una rete di bugie per dare un’immagine immacolata di sè.

Molte persone che appartengono a questa categoria, possono sembrare sicure e con una grande autostima. In realtà, il bugiardo non è contento di com’è, vorrebbe essere diverso e non è soddisfatto della vita che ha. Per questo indossa una maschera, ed è spesso sfuggente.

Non accetterà mai di essere scoperto e, se ciò dovesse accadere, cambierà mille volte versione dei fatti e agirà anche in modo imprevedibile pur di confermare a se stesso e agli altri che è esattamente il tipo di persona che ha sempre fatto credere di essere.

COME RICONOSCERE UN BUGIARDO CRONICO

Vuole indorare la realtà. Presenta sempre se stesso come un vincente ed è attento a non essere smascherato. Non accetta di vivere una vita normale, teme la mediocrità e vuole sempre far apparire tutto più bello di quello che realmente è. Potresti scoprire che fa il lavoro più comune del mondo mentre, in realtà, ti ha raccontato di attività molto più belle e avventurose.

Non prova rimorso né senso di colpa. Non ha una morale tradizionale. Riesce a vivere senza problemi nel castello di carte che si è creato. Non si pone dubbi e interrogativi come invece farebbe ogni altra persona al suo posto. Il bugiardo cronico spesso è un individuo che pensa che tutto gli sia dovuto, che gli altri non facciano mai abbastanza per lui ed è sempre pronto a chiedere di più senza minimamente pensare che anche gli altri possano avere bisogno delle stesse attenzioni. Di solito è egocentrico e, prima di pensare a chiunque altro, deve essere innanzitutto soddisfatto lui. Naturalmente, pur di essere accontentato, racconta molte frottole.

Si crede più intelligente e furbo degli altri.Il fatto di riuscire ad abbellire la realtà lo fa sentire addirittura molto ricco di immaginazione e di intelligenza. Si vede superiore a tutti quei ‘sempliciotti’ che, invece, prendono la vita così com’è ed accettano anche le esperienze negative. Nella sua presunta intelligenza, spesso tratta gli altri dall’alto in basso e, tendenzialmente, predilige la compagnia di persone dolci e ben educate che possano assecondarlo nel suo gioco senza opporglisi.

Racconta i fatti in modo avvincente. Ingigantisce gli eventi e aggiunge particolari anche bizzarri alle sue storie pur di attirare l’attenzione altrui. Una bugia in più o una in meno per lui non fa differenza pur di risultare interessante. Spesso, il bugiardo cronico ama stare al centro dell’attenzione, è contento di avere un pubblico pronto ad ascoltare le sue storie e, magari, anche a restarne affascinato.

Cambia versione dei fatti in base alla convenienza. Pur di fare colpo sul proprio interlocutore, il bugiardo patologico è disposto a cambiare repentinamente idea (o a far credere di averla cambiata). Non appena si accorge che la persona con cui sta parlando non è più così attenta e rapita dai suoi discorsi, oppure non condivide la sua idea, è in grado di virare magistralmente anche sull’idea opposta, facendo passare per stupida la persona che sta parlando con lui. Spesso, infatti, succede che chi assiste a questo cambiamento repentino, si ritrovi completamente spiazzato e, per non mettere l’altra persona in imbarazzo, stia zitto e non sottolinei la stranezza dell’accaduto. Il bugiardo, però, in questo modo rinforzerà la propria idea di essere una persona di successo e superiore agli altri.

Crede alle sue stesse bugie. Il cervello ha la capacità di riorganizzare le informazioni e le impressioni che riceve. Infatti, cerca sempre di trovare una logica in quello che accade, a costo di forzare i collegamenti tra i fatti. Il cervello di un bugiardo cronico non sfugge a questa regola. Nella sua mente, il mondo immaginario che si è creato si struttura come se fosse vero. Sovente, per il bugiardo, sogno e realtà si confondono e lui stesso arriva al punto di non saperli più distinguere e si convince che le sue stesse menzogne siano invece la realtà.

Sfugge alle responsabilità. Un altro motivo per cui il bugiardo decide di mentire è sfuggire alle responsabilità. Per lui è difficile ammettere di avere sbagliato oppure doversi giustificare. Ma così finisce per mentire anche in situazioni quotidiane e di importanza irrilevante. Ad esempio, se il bugiardo cronico arriva in ritardo ad un appuntamento, potrebbe inventarsi scuse di ogni tipo. L’importante, per lui, è non ammettere di avere sbagliato per una propria mancanza o per disorganizzazione. Non è raro che si inventi incidenti, ingorghi, disavventure o qualsiasi altra cosa ben più strana per sfuggire al giudizio negativo che gli altri avrebbero su di lui se dicesse la verità.

Non tollera le bugie altrui. Nonostante i bugiardi patologici abbiano fatto della menzogna il loro stile di vita, non riescono a sopportare che qualcuno usi la loro stessa arma. In quel caso, appena il bugiardo scopre l’inganno altrui, si sente ferito nell’orgoglio. Sembrerà paradossale ma, a volte, proprio il bugiardo cronico si può trasformare, in alcune situazioni, in paladino della verità. In quei momenti, si sente investito di una grandiosa missione e, pur di portare avanti la sua improvvisa voglia di onestà, se la prende con il proprio interlocutore, lo attacca e non gli lascia via di scampo.

Non ammette di avere torto. Durante le discussioni, pur di avere ragione, il bugiardo cronico inizia ad inventare competenze che non ha. Oppure, fa riferimenti a dimostrazioni e studi scientifici (nemmeno di sicura esistenza) che avvalorano la sua tesi. E guai a metterlo in difficoltà. Se si sente minacciato nella sua sicurezza, potrebbe iniziare ad arrampicarsi sugli specchi e, alla fine comunque, non ti lascerà mai vincere.

Non so se queste indicazioni saranno utili per smascherare i bugiardi patologici prima che possano arrecarvi danno, nel caso ci ho provato!

Non TUTTO è SCIENZA. Come non farci MANIPOLARE da POST e ARTICOLI

Come faccio a capire se i dati e le ricerche che mi vengono vendute, sono serie ed autorevoli? Spesso ho l’impressione che mi propinino protocolli, metodologie e tecniche rubando qui e là dati tutt’altro che rappresentativi e statisticamente rilevanti”.

Non sono rare le volte che qualche cliente mi contatta per chiedermi lumi su dei paper che di scientifico hanno poco. Non basta infatti scrivere due dati, perché un metodo diventi scienza.

Per diversi anni mi sono occupata di ricerca in ambito scientifico e devo dire che non è proprio una passeggiata redigere un lavoro che venga accettato dalla comunità scientifica, come non lo è leggerlo e capirlo nel dettaglio se non si è dei ricercatori o degli addetti ai lavori.

Per questo ho pensato di redigere una breve guida per facilitare la lettura e la comprensione di un articolo scientifico.

Un articolo scientifico revisionato prima della sua pubblicazione viene controllato e discusso da esperti e profondi e accreditati conoscitori della materia (peer-reviewed).

Gli articoli di revisione o review sono rassegne, analisi dettagliate che riassumono diversi articoli di ricerca revisionati sullo stesso argomento, raccolgono opinioni significative, risultati e dibattiti attorno alle domande senza risposta attinenti allo stesso campo.

Occorre essere cauti riguardo gli articoli di revisione: sono una fotografia della ricerca sperimentale nel tempo in cui sono stati pubblicati. Per esempio un articolo del 1998 non è molto attendibile se letto nel 2019. Magari molte ricerche sono state fatte negli anni successivi e opinioni e risultati potrebbero essere cambiati.

Leggere un articolo scientifico è procedura diversa rispetto alla lettura di articoli di divulgazione scientifica, pubblicazione di giornali o blog.

Nel caso di un articolo scientifico i paragrafi vanno letti in ordine differente da come vengono presentati e la prima volta servirà molto tempo per leggere un singolo articolo. Il processo sarà più veloce con l’esperienza.

La maggior parte degli articoli sono suddivisi in: Abstract, Introduzione, Metodi, Risultati e Conclusioni. L’ordine di queste sezioni dipende dal giornale nel quale l’articolo è pubblicato.

Prima di iniziare a leggere, prendi nota degli autori e della loro carica accademica. Non tutti sono autorevoli e preparati, così come alcuni istituti sono molto rispettabili; altri nulla. Si prenda anche nota del giornale in cui è pubblicato. Le riviste in campo biosanitario sono indicati da Pubmed https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/. Esistono elenchi di giornali o editori non affidabili, chiamati predator. Sono fonti non affidabili, che non seguono le corrette regole di revisione scientifica e non verificano i contenuti.

Ricorda: le parole scientifiche hanno un significato ben preciso.

Ecco alcuni consigli.

Inizia leggendo l’introduzione, non l’abstract

L’abstract è il primo paragrafo all’inizio dell’articolo. Spesso è l’unica parte dell’articolo che molti non-addetti ai lavori leggono quando cercano di costruire argomentazioni scientifiche. Quando si sceglie quale articolo leggere, si decide consultando titolo e abstract. Quando se ne hanno diversi da visionare in modo completo, l’abstract viene letto sempre per ultimo. Al suo interno infatti è contenuto un breve riassunto dell’intero articolo. Più utili sono le parole chiave, che classificano più facilmente i temi discussi e a volte i metodi.

Identifica la domanda principale

La domanda principale deve rispondere a: “Quale tipo di problema si cerca di risolvere?” e non: “Che cosa tratta questo articolo”

Chiediti:

Quali altri lavori sono stati fatti in questo campo per rispondere alla domanda principale?

Quali sono i limiti del lavoro?

Questo passo è arbitrario, ma ti obbliga ad essere sintetico e a comprendere meglio il contesto della ricerca. Per meglio comprendere l’articolo dovresti essere in grado di spiegare il motivo per cui è stata condotta la ricerca.

Individua il tipo di approccio

Nella sezione dei risultati fai attenzione a:

I termini “significativo” o “non significativo” hanno un preciso significato statistico. Identificali.

Numero minimo del campione: gli studi sono stati condotti su 10 o 10000 persone? (Per alcune delle ricerche proposte, il numero minimo del campione sufficiente potrebbe essere 20, ma per altre è invece  necessario un campione molto più ampio.

I risultati rispondono alla domanda dei ricercatori?

Leggi le conclusioni/discussioni/interpretazioni

Cosa pensa l’autore del significato dei risultati? Sei d’accordo? Riesci a interpretarli in maniera differente? L’autore riesce a individuare qualche limite all’interno del suo stesso studio? Cosa propone di fare come passo successivo?

Torna all’inizio e leggi l’abstract

E’ uguale a cosa dice l’autore nell’articolo? E’ in linea con la tua interpretazione?

Cosa dicono gli altri ricercatori a proposito dell’articolo?

Chi sono gli esperti (riconosciuti o autoproclamati) nel campo interessato della ricerca? Ne sono critici in maniera costruttiva e senza elementi sostenibili? Le loro critiche sono diverse dalle tue?

Trova nella sezione “letteratura citata” (bibliografia) quali altri articoli vengono citati all’interno dello studio. Questo ti permetterà di identificare l’importanza dell’articolo in quel particolare campo di ricerca e trovare spunti, idee utili e tecniche.

SFATIAMO un MITO: NON è VERO che il CERVELLO non CAPISCE le NEGAZIONI

Voglio sfatare un mito che si sente raccontare spesso nei corsi di crescita personale (o si legge in “certi” libri) da chi di come funziona esattamente il cervello ne sa ben poco. Per lo meno rispetto a chi il cervello lo ha studiato per anni in aule universitarie e magari lo ha anche maneggiato nelle sale operatorie o nei centri di ricerca.

La negazione è una funzione tipica del linguaggio umano, ed è considerata esigenza universale pragmatica per le esigenze comunicative a cui risponde. Tuttavia, spesso si sente dire che abbiamo prima bisogno di rappresentare il significato di una parola, per poi negarlo.

A sostenere il fatto che non è vero che il cervello non capisce le negazioni, diversi studi, fra cui il più recente condotto dai ricercatori del Center for Neuroscience and Cognitive System (CNCS)  a Rovereto e dell’Institut des Sciences Cognitives “Marc Jeannerod” del CNRS a Lione.

NEGAZIONI E CERVELLO

Immaginate di leggere la frase “Non ci sono aquile nel cielo”. Successivamente vi vengono mostrate due immagini: un’aquila nel nido e un’aquila nel cielo. Se vi chiedessero quale immagine associate alla frase appena letta, indichereste immediatamente quella dell’aquila nel cielo e solo dopo vi correggereste.

Partendo da questa evidenza, neuroscienziati, esperti di linguaggio e psicologi hanno ipotizzato che per elaborare il significato di una negazione, sia prima necessario comprendere l’affermazione.

Tuttavia nell’esempio dell’aquila c’è un condizionamento di natura pratica: il cervello sceglie la strada cognitivamente più economica. La frase “Non ci sono aquile nel cielo” lascia aperte numerose possibilità. Le aquile potrebbero infatti essere nel loro nido, su un albero o in volo a pelo d’acqua.

Il nostro cervello preferisce dunque memorizzare l’unico caso impossibile, un’aquila in cielo, piuttosto che gli innumerevoli casi possibili. Ma cosa succede se non sussistono condizionamenti di natura pratica? È ancora vero che la comprensione delle negazioni avviene in due fasi successive?

Per rispondere a questa domanda i tre ricercatori hanno mostrato ai soggetti coinvolti nello studio frasi relative ad azioni che implicano il movimento della mano, in versione positiva e negativa, ad esempio “ora scrivo” e “non scrivo”.

L’ESPERIMENTO DI ROVERETO

Lo studio ha coinvolto 30 persone, tutte italiane e destrorse. A ciascun soggetto sono state mostrate sullo schermo di un computer una serie di verbi di azione e di stato precedute da un avverbio di contesto “ora” o “non”. Per monitorare l’attività cerebrale durante l’esperimento, la parte della corteccia motoria associata al movimento dell’avambraccio e della mano destra è stata sollecitata tramite stimolazione magnetica transcranica.

RISULTATI

I ricercatori hanno osservato che gli impulsi elettrici che raggiungono la mano quando i soggetti leggono azioni positive sono più intensi rispetto a quelli evocati da azioni negative, che risultano addirittura più deboli di quelli misurati in corrispondenza dei verbi di stato.

Questa differenza di intensità esiste già durante i primi istanti in cui la frase appare sullo schermo. L’elaborazione delle negazioni avviene dunque in maniera diversa rispetto a quella delle affermazioni sin dalle primissime fasi, senza bisogno di passare dall’elaborazione del significato positivo.

CONCLUSIONI

L’esperimento ha chiarito il funzionamento di un meccanismo logico fondamentale, la negazione, mostrando come il cervello sia più efficiente di quello che si pensi.

L’elaborazione delle negazioni probabilmente contribuisce a definire la differenza tra cognizione umana e cognizione non-umana.

Se il nostro sistema cognitivo non riconoscesse la negazione, questa stessa affermazione come un infinità di molte altre, sarebbero incomprensibili agli umani. E di conseguenza neppure le affermazioni positive.