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MENO E’ MEGLIO… anche quando si scrive

Quando scrivete una mail, un sms o registrate un vocale su whats’app quanto rispettate la regola del “meno è meglio”? 

Una delle convinzioni che spesso fanno deragliare i nostri migliori buoni propositi è che “di più è meglio”, perché pensiamo che scrivere tanto ci faccia sembrare più intelligenti o perché abbiamo tante cose da dire. Oppure temiamo che l’essere troppo concisi, ci costringa a tralasciare informazioni importanti.

Qualunque sia la causa, il risultato che otteniamo non è solo quello di tediare l’interlocutore, ma addirittura spingerlo a non leggere ciò che gli inviamo.

Facciamo una prova: se aprendo la casella di posta dovessi scegliere fra queste due e-mail, solo basandoti su oggetto e mittente, quale leggeresti per prima?

Probabilmente quella più corta.

Ciò che facciamo, è interpretare la lunghezza di un messaggio come un’indicazione di quanto sarà difficile e dispendioso in termini di tempo rispondere, il che è un altro motivo per cui scegliamo di non impegnarci in una comunicazione prolissa.

In uno studio, sono state inviate due versioni di un’e-mail a 7.002 membri dei consigli scolastici negli Stati Uniti chiedendo loro, nell’ultima riga, di completare un breve sondaggio online. Un’e-mail conteneva 127 parole; l’altra 49 parole.

L’ e-mail con 49 parole ha prodotto quasi il doppio delle risposte al sondaggio: un tasso di risposta del 4,8% vs 2,7%.

Molti hanno guardato la lunghezza dell’email di 127 parole scegliendo di non interagire. Altri non l’hanno letta fino in fondo e non hanno colto la richiesta finale (rispondere al sondaggio). Inoltre, alcuni potrebbero aver utilizzato la lunghezza dell’e-mail come indicatore del tempo che ci sarebbe voluto per completare il sondaggio e risultando dispendioso hanno deliberatamente ignorato la richiesta.

Entrambe le e-mail indirizzavano i destinatari allo stesso identico sondaggio, il cui completamento richiedeva circa cinque minuti.

La maggior parte di chi riceve un’email, ma soprattutto quelli che hanno poco tempo, rischiano di essere scoraggiati da messaggi e richieste che si aspettano difficili e onerose da gestire.

Coloro che abbandonano anzitempo un lungo messaggio potrebbero, dando una scorsa al testo, decidere che è troppo faticoso da affrontare in quel momento – troppi argomenti, azioni o parole richieste –, sperando o ripromettendosi di ritornarci sopra più tardi.

Alcuni in realtà non riprenderanno più la lettura del testo. Altri sì, ma a quel punto potrebbero aver perso una scadenza o qualche informazione ormai inutilizzabile.

In media, un messaggio prolisso verrà trattato meno rapidamente di un messaggio breve. Nel peggiore dei casi, un messaggio prolisso sarà relegato allo stesso destino delle centinaia di altri messaggi che languono nelle caselle di posta, per non essere mai lette.

PAGARE DAZIO

Anche quando vengono lette, le comunicazioni impongono un sacrificio: più lungo è il messaggio, maggiore è l’impegno, lo sforzo, il tempo, ecc.

Immagina di ricevere 120 e-mail ogni giorno, ciascuna lunga tre paragrafi. Leggerle integralmente richiederebbe quattro ore.

Oppure capovolgi la situazione e immagina di inviare un messaggio di tre paragrafi a 120 dipendenti della tua organizzazione.

Ogni destinatario impiega in media due minuti per leggere quello che hai scritto. Tra i 120 dipendenti, il tuo messaggio realizzato con cura e attenzione, imporrà un impegno di quattro ore totali. Se riducessi la lunghezza di un solo paragrafo, risparmieresti 80 minuti totali di tempo dei dipendenti.

Scrivere in modo conciso richiede una spietata volontà di tagliare parole, frasi, paragrafi e idee non necessarie. Può essere difficile cancellare le parole che si è impiegato del tempo a buttare su carta. Ma farlo aumenta le possibilità che il tuo pubblico legga ciò che scrivi.

Nancy Gibbs, ex caporedattrice della rivista Time, direbbe al suo staff che “ogni parola deve guadagnarsi il suo posto in una frase, ogni frase deve guadagnarsi il suo posto in un paragrafo e ogni idea deve guadagnarsi il suo posto in un testo”.

SCRIVERE NON E’ PER TUTTI

La maggior parte di noi non è mai stata addestrata a scrivere in maniera concisa E la maggior parte di noi non è stata nemmeno addestrata all’abilità di editing.

Infatti se pur nella stesura del testo non ci siamo dilungati troppo, tendiamo a recuperare nel momento dell’editing: aggiungendo contenuti anziché rimuoverli. In uno studio condotto dai ricercatori dell’Università della Virginia, ai soggetti del test è stato chiesto di leggere e riassumere un breve articolo sulla scoperta delle ossa di re Riccardo III sotto un parcheggio a Leicester, in Inghilterra.

Dopo aver completato il riassunto, è stato chiesto loro di modificarlo e di migliorarlo: l’83% dei partecipanti allo studio ha aggiunto parole. Lo stesso modello si è manifestato in argomenti che vanno dagli itinerari di viaggio ai brevetti: tendiamo ad aggiungere idee anziché sottrarle o rimuoverle nel processo di modifica.

Lo sforzo aggiuntivo richiesto per scrivere in modo efficace è un investimento. È più probabile che si trovi il tempo per interagire a messaggi brevi, ben strutturati e facili da leggere.

Dedicare un po’ più di tempo in anticipo per essere concisi fa risparmiare tempo agli interlocutori e ai mittenti riducendo i follow-up, le incomprensioni e le richieste lasciate insoddisfatte.

La prossima volta che dovete scrivere, pensateci!


 FONTI

Come SCRIVERE un ARTICOLO TECNICO di SUCCESSO

“Quando qualcuno parla di cose che non conosce a fondo, sarà capito soltanto da chi conosce l’argomento, meglio di lui” (I legge di Whittington sulla comunicazione), o detto in altri termini: conoscere non significa automaticamente saper divulgare.

Non sempre l’essere esperti in un determinato ambito, ci rende esperti divulgatori.

Ecco perchè la stesura di un articolo, soprattuto se tecnico, può risultare ostico. Ci sono però alcune domande che se poste prima della stesura, possono semplificare molto il lavoro:

CHI SONO I MIEI LETTORI: prima di scrivere, analizzate chi sono i vostri lettori. Cercate di definirne età, sesso, livello di istruzione, interessi e tutto quanto può aiutarvi a immaginarli come delle persone a cui state parlando da vicino

COSA LI SPINGE A LEGGERE: sono alla ricerca di informazioni? Stanno leggendo per divertimento, curiosità o per interesse? Cercate di comprendere al meglio le ragioni principali per cui i lettori leggono un testo che riguarda il vostro lavoro

QUALI INFORMAZIONI POSSIEDONO SULL’OGGETTO DEL TESTO: sono nuovi lettori, hanno conoscenze generali o sono esperti in materia? Più sono esperti e più potrete usare termini tecnici ed entrare nello specifico dell’argomento

QUAL E’ L’OGGETTO DELLA COMUNICAZIONE: individuate un solo oggetto della comunicazione. Evitate di voler dire tante cose in un solo passaggio. E’ già molto difficile ottenere attenzione su un solo argomento, mettendo insieme più messaggi non ne avreste nessuna e creereste solo confusione

QUAL E’ L’OBIETTIVO DELLA COMUNICAZIONE: stabilite l’obiettivo per cui state scrivendo. In una buona comunicazione si devono incrociare diversi obiettivi: dare informazioni e stimolare a un comportamento.

Tenete sempre presente il vostro obiettivo durante la stesura del testo e se non è chiaro dal titolo, specificatelo nell’introduzione. Se il percorso da intraprendere è complicato e richiede molti passaggi, anticipatelo al lettore e a ogni passo ricapitolate. Il lettore deve capire in ogni momento da dove è partito, dove arriverà e dove si trova.

COSA VOGLIO CHE FACCIANO DOPO AVER LETTO IL TESTO: rispondete a questa domanda in modo pratico. Rendete esplicito questo obiettivo invitando il lettore a rispondere alla vostra comunicazione

COSA SCRIVERE NEL TESTO: se avete risposto alle domande precedenti, avete già una parte della risposta. L’importante è che siate: chiari, concisi, corretti, cortesi, colloquiali, convincenti, completi. E non dimenticate la bibliografia!

Ultima annotazione: la cura formale dei testi è fondamentale. Rivedete e correggete fino alla noia prima di far uscire la pubblicazione: bad form, bad business. Cattiva notizia, cattivi affari!

Le FATE NON esistono SE i BAMBINI NON battono le MANI

Era il 1999, avevo 18 anni, e quando mio nonno mi chiese quale regalo volessi per il compleanno risposi I versetti satanici di Salman Rushdie. Pur essendo un fervente e onnivoro lettore, mi guardò stranito. Per i miei “primi” 18 anni sicuramente si era aspettato qualcosa di più impegnativo, almeno economicamente.

E’ stata un’intervista di Antonio Monda su La Stampa allo scrittore indiano, a farmi tornare alla mente quell’episodio.

Irriverente, ma coraggioso, mi stimolava l’idea di leggere un libro censurato e di un autore che oltre alla condanna a morte decretata da Khomeyni, anche diversi traduttori avessero rischiato la vita (il traduttore italiano e quello svedese vennero feriti e il traduttore giapponese venne ucciso l’11 luglio 1991) per aver avuto a che fare con questa storia.

“Un uomo che decide di inventare se stesso, si assume il ruolo del Creatore, almeno secondo un certo modo di vedere le cose: è uno snaturato, un bestemmiatore, un abominio tra gli abomini. Da un altro punto di vista, potreste vedere pathos nella sua persona, eroismo nella sua lotta, nella sua disponibilità a rischiare: non tutti i mutanti sopravvivono. […] Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta”.

Ricordo lo smarrimento dopo aver divorato le 500 pagine del libro e la magia sognante di una storia di cui non si capisce il senso fino a quando una voce non ti illumina all’improvviso dall’alto e ti dice: Per rinascere si deve prima morire.

Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta. Di recitare ancora la parte di Dio, potreste dire. Ma potreste anche scendere qualche gradino e pensare a Tinker Bell: le fate non esistono se i bambini non battono le mani. O potreste semplicemente dire: significa proprio questo essere un uomo. Non è solo il bisogno di esser creduti, ma quello di credere in un altro.

Rushdie mi aveva conquistata. Una storia dove uomini comuni precipitano da 6000 metri senza conseguenza alcuna, dove uomini comuni acquistano come per magia un’aureola luminosa o due corna da capra, dove uomini comuni scelgono di vivere una vita lontano dalla loro patria e si fanno sedurre dalle luci dell’Occidente, dove uomini comuni cercano un’integrazione in una cultura diversa dalla loro. Quello che mi ha insegnato Rushdie, è che ogni persona può sbagliare e avere debolezze, che la lotta tra il Bene e il Male è e sarà sempre parte importante della nostra vita, che l’Amore (per se stessi, per gli altri), è l’unico segreto da conoscere.

Mentre scorro l’articolo, le parole di Rushie, continuano a farmi riflettere: “Cos’è la libertà di espressione? Senza la libertà di offendere cessa di esistere”.

RACCONTI STORIE o COSTRUISCI RACCONTI?

Tutti raccontiamo storie, attraverso i post, i video, le foto, i blog, i profili, le canzoni…

Raccontiamo storie, ma il raccontare storie non è fare storytelling.
Proprio così. Fare storytelling non vuol dire raccontare storie ma costruire racconti.

La storia è una cronologia, il racconto invece è una rappresentazione. Fare storytelling significa creare rappresentazioni testuali, visive, percettive, scegliendo gli strumenti giusti con cui porgere al pubblico giusto un racconto che a quel punto diventa la tua rappresentazione specifica”. A dirlo il più rilevante esperto di Corporate Storytelling in Italia, Andrea Fontana.

In altri termini… una cosa è raccontare la storia cronologica di Apple, un’altra è il racconto di Apple, che è fatto dal mito di Steve Jobs, dal comportamento dei suo manager, dalla estetica dei suoi store e dei suoi prodotti e le modalità di rappresentazione che come azienda decide di avere per raccontarsi.

Per diventare very Storyteller occorre essere strateghi del racconto. Non si racconta a caso, è tutto estremamente curato. Uno stratega cerca di capire chi è il suo lettore, che mercato frequenta, di cosa ha bisogno. Nel costruire un racconto c’è ispirazione e creatività, ma non senza tecnica e sistema.

Occorre possedere lo script-writing narrativo. Che non consiste nella semplice abilità a scrivere. Scrivere in modo narrativo è la capacità di creare mondi di senso e di destino. Occorrono competenze visive e di costruzione di immaginari visuali.

E per finire occorre il design di esperienze narrative. Quando ho costruito un racconto devo curarmi anche di come gli altri vivranno il racconto. Se non sai fare questo, non sai nemmeno costruire un libro, un video, una storia…. Non solo non sai come costruirla, ma neanche come gli utenti la vivranno. In altre parole: sei tu che prepari le “regole del gioco” del (tuo) racconto che l’altro dovrà poi vivere.

Ricapitolando ecco le 3 qualità di un bravo storyteller:

  1. Ordine strategico: bisogna scegliere bene a chi raccontare cosa. La selezione del proprio target è fondamentale per avere uno storytelling efficace. Andare a caso, lasciare spazio solo alle emozioni, non paga.
  2. Saper scrivere e sapere ciò di cui si scrive: saper scrivere narrativamente è più difficile di quello che sembra. Non si improvvisa e richiede anni di pratica e studio.
  3. Aver chiaro come il cliente vivrà il racconto: l’user experience è essenziale e un bravo storyteller si domanda come gli altri vivranno il suo racconto e ne tiene conto.

L’errore che un bravo storyteller sa assolutamente evitare? Raccontarsi in modo eccessivo. Può sembrare un paradosso, ma bisogna raccontare la storia degli altri, non la propria. Quella in cui vi riconoscono e si riconoscono.

L’IMPAZIENZA NON PAGA. PIU’ CERCHI di SBRIGARTI, MENO TEMPO RISPARMI

In auto, costretto nel traffico, Jonathan Boreyko, un ingegnere americano, nota che ai semafori rossi e agli stop, gli automobilisti tendono a fermarsi in estrema prossimità del veicolo che li precede. Motivo: pensano di avere più probabilità di attraversare l’incrocio prima che scatti nuovamente il rosso, di arrivare a destino in tempi ridotti, anche se così aumenta sensibilmente il rischio di tamponamento.

Convinzione errata.

Ricreando la scena del semaforo su una pista di prova Boreyko, ha scoperto che gli automobilisti che si attaccavano al paraurti del veicolo davanti al loro, non procedevano più rapidamente. Pur essendo appena più vicini al semaforo, in realtà impiegavano più tempo a ripartire e i due fattori di fatto, si annullavano a vicenda. In altri termini: più cerchi di sbrigarti, meno tempo risparmi. E più il rischio di incidenti si alza.

Allo stesso modo degli automobilisti, anche quando si ha a che fare con scrittura e attività creative, gli addendi non cambiano: l’impazienza non paga (quasi mai). Compresa quella delle persone che quando hanno un obiettivo diventano inarrestabili. Anche se all’apparenza pare producano molto di più.

A sostenerlo è lo psicologo Robert Boice. Per lui l’impazienza è una delle principali cause della sofferenza che si prova mentre si scrive. “Quando finisce il tempo che un determinato giorno avete destinato alla scrittura, smettete immediatamente, anche se avete l’ispirazione – si legge in How writers journey to comfort and fluency. – Il bisogno di continuare contiene già una forte componente di impazienza per non aver ancora finito, per non aver prodotto abbastanza, perché forse non si troverà mai più un momento tanto perfetto. Quando si stabilisce un orario per scrivere, è fondamentale rispettarne l’inizio e la fine, sempre”.

Affrettarsi a finire qualcosa ha un costo che bilancia o supera i benefici: si rischia di metterci più tempo, farlo peggio, essere più stanchi, o danneggiare ciò che già è stato fatto. Smettete quando il tempo scade e imparerete l’autodisciplina, continuate e asseconderete la vostra insicurezza.

Inevitabilmente mi tornano in mente gli insegnamenti del prof. Nardone: partire dopo per arrivare prima. La spontaneità, qualcuno potrebbe ribattere, in questo modo viene meno. “Ciò che viene definita spontaneità altro non è che una serie di apprendimenti divenuti acquisizioni”.

SCRIVERE per PUBBLICARE è una cosa SERIA

Tutti scrivono. Tutti hanno sempre scritto. Eppure saper scrivere una email o un tema, non è esattamente uguale a scrivere un libro. Tanto è vero che nel campo editoriale si dice spesso “Scrivere è per tutti, pubblicare no”.

Scrivere per pubblicare è cosa seria, è un lavoro. Ecco perché tanti, troppi, scelgono di pagare per vedere il proprio pensiero trasformato in libro. Ma non è la stessa cosa.

SCRIVO SOLO QUANDO HO L’ISPIRAZIONE”, mi racconta Dario alla prima sessione di writing coaching, frustrato dal fatto che il suo romanzo è fermo, dopo tre anni, al secondo capitolo.

Purtroppo scrivere non è una illuminazione che arriva benevolente dal cielo, scordatevelo. Tutti i grandi scrittori scrivono ore ogni giorno e ogni giorno cestinano interi capitoli. Ciò in cui  va cercata l’ispirazione è il modo di raccontare una storia che già è stata raccontata in mille altri modi. Tutto è già stato scritto, solo che ne ignoriamo l’esistere.

VOGLIO SCRIVERE, NON LEGGERE”, è invece il rimprovero che mi ha fatto Roberta, quando le ho detto che non si diventa scrittori senza aver macinato un bel po’ di classici, contemporanei e scritti di ogni genere. Inutile dire che ha deciso di cambiare passione.

Stephen King, non a caso ha detto «Se non hai tempo per leggere, non hai tempo (né gli strumenti) per scrivere».

Se lo dice lui… fate bene a credergli.

VALE LA PRIMA”, niente affatto ho replicato a Giulia. Se non hai voglia di rileggere all’infinito ogni parola che scrivi, cambia passione. Non esiste un buon libro che non sia stato vittima di una profonda riscrittura.

«Non esiste una grande scrittura, solo una grande riscrittura». (Justice Brandeis)

VOGLIO AVERE SUCCESSO”, anche in questo caso hai sbagliato passione. Un libro vero non si scrive in una settimana o in un mese. Un libro può richiedere anche anni e spesso è stato rifiutato e rifiutato ancora e scritto e riscritto, prima di iniziare a scalare le classifiche.

E CHE NESSUNO MI CRITICHI”, so io quanto vale il mio scritto.

Pubblicare un libro vuol dire renderlo pubblico e quindi inevitabilmente cadrà vittima di complimenti e critiche. Non necessariamente deve piacere a tutti e come tu hai il diritto di pubblicare, il lettore ha il diritto di dire ciò che pensa.

Se non accetti questo, ecco un altro buon motivo per non scrivere un libro.

“SCRIVERE MI RICHIEDE UNO SFORZO CHE SPESSO RASENTA LA FRUSTRAZIONE”, mi dice avvilito Marco, che pensava di diventare famoso scrivendo libri. Scrivere è uno dei mestieri più solitari e introspettivi che esistano, l’eventuale successo arriva solo dopo, molto dopo e non necessariamente dura nel tempo. Mai scrivere per fare soldi, diventare famosi, far innamorare la diva del cinema del momento. Scrivere deve rendere felici.

MI HANNO SEMPRE DETTO CHE DOVREI FARE LA SCRITTRICE PERCHE SCRIVO BENISSIMO”, mi dice Amalia, quando mi sottopone le bozze del suo manoscritto.

Purtroppo per fare della scrittura una professione, saper scrivere bene è solo una delle tante condizioni, ma non basta. Ci vuole pazienza, meticolosità, determinazione e umiltà. Una viscerale umiltà. Scrivere un libro è qualcosa di totalmente diverso dal mettere in fila qualche frase.

E infine un ultimo consiglio: commettere errori fa parte della natura umana, ma perseverare nei propri sbagli, pensando che smettere di scrivere sia un fallimento, non può che diventare diabolico e dannatamente presuntuoso.

PORTATILE e DITA VELOCI: NON è COSI’ che si SCRIVE uno SPEECH

“Laura, ho bisogno che mi scrivi un altro di quei tuoi bellissimi discorsi. E’ un’occasione importante per l’azienda che rappresento, come ben sai”. Detto così sembra semplice. In fondo cosa ci vuole per scrivere uno speech: carta, penna, anzi portatile, dita veloci e qualche idea bene infiocchettata…

Se questa è la tua convinzione… non è l’articolo giusto per te!

Mentre mi informo sui contenuti che dovrò inserire nel discorso, leggo, analizzo la concorrenza, studio, mi confronto e cerco di lasciare il meno possibile al caso. Perché se è vero che occorre emozionare per attrarre il pubblico, per mettere dei contenuti di valore è essenziale conoscere ciò di cui si scrive. Il back di ogni scrittura è un lavoro enorme, spesso neanche minimante considerato. Da chi non sa di cosa si sta parlando…

I grandi oratori sono capaci di connettersi con il pubblico e rimuovere qualsiasi distrazione che ostacoli la comunicazione e il raggiungimento del loro obiettivo. Gli altri meno grandi, invece, sono focalizzati su ciò che vogliono dire e dimenticano di avere davanti un pubblico che ha delle specifiche esigenze. Un buon discorso deve tenere conto di quello che il pubblico si aspetta di sentire e capire quali parole sia meglio usare. E ipotizzare quali ostacoli potrebbero interferire sulla buona riuscita dello speech.

PREVIENI GLI OSTACOLI. Se chi scrive uno speech non si concentra abbastanza sul destinatario della comunicazione e sui desideri, bisogni e stile di vita che lo caratterizzano, potrebbe prendere involontariamente le distanze dalla platea. Bisogna trovare un linguaggio comune e rapportarsi in maniera spontanea e diretta. Un modo per evitare che il pubblico perda interesse o faccia resistenza è pensare alla natura delle possibili resistenze. Sforzarsi di pensare a diversi punti di vista, anche quelli apparentemente assurdi. Ogni punto di vista, per quanto possa sembrare ridicolo, potrebbe essere proprio quello di uno degli spettatori che è venuto apposta a sentirti parlare. Potresti non condividere affatto tale punto di vista ma è importante che l’ascoltatore sappia che tu l’hai considerato. Dimostra che hai approfondito il tuo lavoro fino in fondo.

LA STORIA NELLA STORIA. Dopo anni passati a studiare letteratura e discorsi celebri ho scoperto una struttura che i grandi comunicatori usano da secoli: la storia nella storia. La ragione per cui amiamo così tanto queste storie è dovuta all’alternarsi di tensione e rilascio, conflitto e risoluzione. Si può ottenere la medesima tensione giocando a muovere avanti e indietro il filo del discorso, alternandolo tra ciò che è la realtà adesso e ciò che potrebbe diventare. Attraverso il contrasto continuo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il pubblico comincia a vedere una realtà molto più interessante di quella in cui si trova attualmente. Riuscire a modificare l’atteggiamento, e di conseguenza l’azione, del pubblico è difficile. Usare il contrasto è il modo migliore per aiutarlo a vedere la tua idea più chiaramente.

PAROLE E CAMBIAMENTO. Un grande discorso produce un cambiamento nel pubblico. Lo fa sentire migliore, gli conferisce nuove conoscenze e nuovi strumenti e lo spinge all’azione. Le migliori presentazioni producono esattamente questo cambiamento, spingono il pubblico a migliorarsi.
E’ noto che quando ascoltiamo una bella storia il nostro corpo reagisce involontariamente. Le pupille si dilatano, sentiamo i brividi lungo la schiena, ci protendiamo in avanti per ascoltare meglio il racconto. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato delle sensazioni durante un discorso? Per questa ragione i presentatori spesso sono reticenti ad allegare materiale durante i loro discorsi, così da avere la possibilità di stupire il pubblico. La cosa migliore che si può sperare di ottenere dal pubblico è un riscontro di tipo emozionale.

QUANDO DEVE DURARE UNO SPEECH? Uno speech deve essere breve. Se hai un’ora a disposizione usa 40 minuti; una maggiore sintesi risulta difficile a chi non è allenato. La forza dei Ted ad esempio sta nella durata degli “speech”: fra i 15 e i 20 minuti, dietro i quali si nasconde un poderoso sforzo comunicativo volto a esprimere un punto di vista in poco tempo. Oggi viviamo nella società dell’impazienza, del tutto subito. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: ‘speriamo che la presentazione sia lunga!’. Quindi tagliare, accorciare e rileggere per rendere il tutto più asciutto possibile.

E INFINE…
Un ultimo consiglio: i discorsi non suonano credibili se le promesse che contengono non si realizzano. Questo vale per tutti!

Ciò che è NON SEMPRE è ciò che APPARE: ed è così che un giardiniere è quasi diventato presidente

C’era una volta un giardiniere analfabeta che per poco non divenne presidente.

Chance, questo il suo nome, è un personaggio triste e curioso, abile in due sole cose: la cura delle piante della villa nella quale è nato e cresciuto per molti anni senza mai uscirne e una spiccata conoscenza dei programmi tv, ai quali assiste con totale abnegazione. La vita di Chance è dominata dai ritmi naturali di una sorta di caos originario: tutto ciò che contava era muoversi nel proprio tempo, come le piante che crescevano.

Costretto, dopo la morte del padrone, a introdursi in un mondo a lui totalmente sconosciuto, quello reale, Chance in una condizione di perenne straniamento, ha un riscontro inaspettato. Affascina uomini d’affari e politici, si impone all’attenzione dei Media, conquista l’alta società fino a venir proposto come candidato alla Presidenza degli Stati Uniti d’America.

Un successo che si basa su un equivoco sistematico: in un universo comunicativo dominato da messaggi schizofrenici che finiscono per cancellare ogni reale informazione, il suo linguaggio perde la letteralità che lo contraddistinguono e viene interpretato in senso metaforico dai suoi interlocutori. Alla sua stupidità corrisponde la stupidità intelligente dei suoi interpreti, che sono costretti per capirlo a dare un senso, seppure improbabile, allegorico alle sue affermazioni.

Alla base di tutti i fraintendimenti che seguiranno, è il primo colloquio fra Chance e il suo ospite Ben, noto tycoon dell’epoca, che gli chiede quale sia la sua occupazione, a creare il precedente unico e inappellabile a cui tutti, inconsapevolmente, si affideranno:

Chance: “Non è facile trovare un posto adatto, un giardino, dove poter lavorare senza interferenze e crescere con le stagioni”. Ben: “un giardiniere! Non è la perfetta descrizione di quello che è un vero uomo d’affari? Chance, che metafora eccellente”.

Tutto quello che ha a che fare con il giardino verrà sistematicamente considerato una metafora del mondo degli affari, della finanza, dell’economia, della politica e delle strategie diplomatiche internazionali.

Chance, grazie a una serie illimitata di equivoci, ha successo, grazie ai suoi discorsi che possiedono, sebbene involontariamente, un forte potere retorico. La storia svela il meccanismo superficiale dell’inganno, in bilico fra genio, successo sociale da un lato e stupidità dall’altro, dove le parti spesso non si scambiano, piuttosto si fondono.

E’ un gioco comunicativo che svela i suoi abissi quello in cui ci porta Chance: dove due tipi di stupidità, quella onesta del giardiniere e quella ostinata degli suoi interlocutori, ci mostrano tutta la fragilità di cui pensiamo sia fatta la realtà. Chance non mente mai, semplicemente racconta l’unico mondo che conosce, quello delle piante. Chi ascolta, lo fa essendo vittima delle più comuni trappole mentali: quella di voler interpretare ciò che viene detto dal giardiniere, a totale proprio vantaggio. Lo spirito critico muore e chi ascolta, in realtà è sordo, se non a se stesso.

Della storia di Chance è stato scritto un libro “Oltre il giardino” e tratto un film. Una vicenda che va seguita, almeno per interrogarsi. E chiedersi ma io so ascoltare davvero?

Il CONGIUNTIVO non è una MALATTIA…

Il primo di cui mi è data memoria è Fantozzi con “vadi contessa, vadi”, poi sono arrivati attraverso tweet e meme, claudicanti dichiarazioni pubbliche, fitte di indicativi fuori luogo. Il più recente è Di Maio “mi impegno a far votare in Parlamento a tutto il gruppo parlamentare che rappresento, una legge che dimezza (dimezzi) le indennità dei parlamentari e introduce (introduca) la rendicontazione puntuale dei rimborsi spesa (spese)”. Passando da Conte, Renzi e Zingaretti.

Insomma, cambiano i tempi, ma il congiuntivo continua a mietere vittime. Da un lato è tocco di raffinatezza, capitale culturale. Dall’altro è una trappola sempre pronta a colpire: sbagliandolo non si fa certo bella figura.

CONGIUNTIVO VS CONGIUNTIVITE

Chi non è avvezzo ad usarlo correttamente, si rifugia nell’ipercorrezione: l’estensione del congiuntivo a contesti in cui l’indicativo sarebbe dichiaratamente più naturale. Sono i casi che alcuni opinionisti, come Beppe Severgnini, chiamano “congiuntivite”.

Nel frattempo, chi il congiuntivo lo destreggia bene, ha visto svilupparsi una forma di irritazione verso l’interlocutore sgrammaticato con il risultato di fomentare polemiche e conflitti con chi, comunque, della propria congiuntivite verbale se ne fa vanto.

E’ pur vero che il congiuntivo non è facilissimo da coniugare, l’indicativo invece è prevedibile. Per questo, spinti dal risparmio energetico, la tendenza è quella di usare il secondo al posto del primo. È una spiegazione allettante, ma subdolamente denigratoria, perché implica che l’indicativo sia una sorta di congiuntivo for dummies, un surrogato che consente di esprimere la stessa idea con meno sforzo.

INDICATIVO VS CONGIUNTIVO

Peccato che i due modi non siano assolutamente interscambiabili. Alda Mari, ricercatrice italiana del CNRS a Parigi, suggerisce che c’è una sottile, cruciale differenza tra di loro: l’indicativo serve a esprimere una propria convinzione personale; il congiuntivo suggerisce invece che ci sia una verità oggettiva, e che chi parla si stia impegnando a ricercarla. Questo, secondo Mari, ci permette di imprimere diverse sfumature ai nostri messaggi, insulti compresi. Dire “credo che tu sei un cretino”, è meno offensivo del “credo che tu sia un cretino”: nel primo caso è pura opinione emotiva; nel secondo ha il sapore agghiacciante di un giudizio supportato da alacre ricerca empirica.

IL CONGIUNTIVO E’ UNA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTA’

In sostanza: trattare l’indicativo come surrogato del congiuntivo non è solo un torto nei confronti dell’indicativo. È anche una rappresentazione errata di ciò che succede nella lingua, la cui grammatica mette a nostra disposizione sofisticate risorse per comunicare, che noi possiamo modulare in base ai nostri scopi. Anche decidendo quale modo verbale usare.

Probabilmente nell’epoca del “chi l’ha detto” e del ribaltamento fra conoscere e ignorare, dove “saper parlare in pubblico”, pur non avendo contenuti o passandoli per tali e sbagliando i tempi verbali è considerato “cool”, qualcuno potrà non essere d’accordo. Purtroppo per lui, il congiuntivo non sta sparendo e prima o poi tornerà utile saperlo usare. In modo corretto.

RACCONTARE STORIE è una STRATEGIA di SOPRAVVIVENZA

Non sappiamo vivere senza storie.  Di continuo abbiamo bisogno di elaborare racconti, invenzioni e fantasie. E non solo quando siamo svegli. Una sorta di dipendenza che però ha qualcosa di necessario, di biologico, di vitale, di genetico.

Come dimostra Jonathan Gottschall, docente al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura. L’arte di creare storie è un istinto iscritto nei nostri geni. Da Sharazade, che riusciva a sospendere la condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni, alla politica. dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali), la psicoterapia dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita e talvolta anche la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica.

NON AMIAMO LE STORIE A LIETO FINE

Tuttavia l’uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate: Edipo si acceca per l’orrore, Medea uccide i propri figli, i cadaveri che popolano i drammi di Shakespeare, le truculente fiabe dei Grimm… La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d’ogni genere e sul loro superamento finale, ricalcando l’interminabile viaggio dell’eroe che detta la trama di ogni racconto.

Ma perché la paura e l’orrore occupano una parte prevalente? “Perché – sostiene Gottschall – le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale”. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.

VIVIAMO LE STORIE CHE ASCOLTIAMO

“La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie”, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.

Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo. Gli uomini privilegiano l’irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l’inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano.

Insomma… è una strategia di sopravvivenza anche questa. Quella di raccontare storie per sopravvivere…