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COME RIESCONO i GRANDI ad ESSERE così BRAVI in QUELLO che FANNO?

Questa è la domanda su cui lo psicologo Anders Ericsson concentra da sempre la sua attività di ricerca. E per rispondere ha esplorato i campi più diversi, uno studio fra tanti è quello che ha coinvolto i giovani violinisti del Conservatorio di Berlino.

Con l’aiuto degli insegnanti del conservatorio ha suddiviso i musicisti in 3 gruppi:

1. I migliori violinisti, quelli con le maggiori possibilità di avere una carriera nelle orchestre internazionali più prestigiose 2. I buoni violinisti, non eccellenti ma di ottimo livello 3. I mediocri violinisti, avviati alla carriera di insegnante (ma non concertisti di alto livello)

L’obiettivo era capire cosa distingueva questi gruppi. Quanto tempo dedicavano alla musica? Come e quanto si esercitavano? Quanto avevano studiato in passato? Il gruppo dei migliori cosa aveva di diverso rispetto gli altri due?

Per scoprirlo studiarono le routine quotidiane presenti e passate, notando che i violinisti dei 3 gruppi trascorrevano la maggioranza del loro tempo esercitandosi – da soli o in compagnia – suonando per divertimento, esibendosi, studiando o ascoltando musica. Nel complesso occupavano circa 50 ore a settimana. La musica era quindi la loro attività principale.

Dove stava allora la differenza?  Nel tipo di pratica.

Tra tutte le attività di studio svolte dai violinisti, una in particolare era considerata dagli stessi la più importante per migliorare: esercitarsi da soli. Suonare in compagnia, o esibirsi, prendere lezioni, erano tutti modi per fare esercizio. Ma nulla produceva miglioramenti come la pratica intenzionale, svolta in solitudine, con lo scopo preciso di lavorare sui propri limiti e di superarli.

Ed era proprio in questo tipo di pratica che i primi due gruppi, si distinguevano dal III. I violinisti del I e del II gruppo dedicavano allo studio del violino in solitudine circa 24 ore alla settimana; mentre i violinisti del III, solo 9 ore.

I più bravi erano coloro che occupavano più tempo nell’esercizio solitario.

Cosa distingueva poi il I dal II gruppo: entrambi dedicavano alla pratica deliberata in solitudine 24 ore alla settimana. Perché alcuni erano valutati come eccellenti e altri come molto bravi?

Ulteriori studi confermarono il risultato precedente in modo esponenziale: i violini eccellenti, a 18 anni avevano accumulato più di 7.400 ore di pratica in solitudine. I violisti molto bravi 5.300 e quelli mediocri, solo 3.400. Il numero di ore di pratica deliberata (in solitudine) spiegava perfettamente le differenze tra i 3 gruppi.

I violinisti più bravi di tutti erano quelli che nel corso degli anni avevano trascorso più tempo da soli, a tu per tu con il loro violino, con la precisa intenzione di esercitarsi per migliorare le loro capacità.

A ulteriore conferma, Ericsson studiò un IV gruppo di violinisti: professionisti di mezza età che già suonavano nelle più importanti orchestre a livello internazionale. Anche a loro fu chiesto di stimare il numero di ore di pratica in solitudine che erano arrivati a mettere assieme all’età di 18 anni, e il risultato fu pressoché simile a quello dei giovani violinisti eccellenti: 7.300 ore circa.

In sintesi – concluse Ericsson – l’elemento che spiegava il successo nel suonare il violino era questo: l’esercizio in solitudine.

Il segreto sta dunque nella deliberate practice, nella pratica deliberata, ossia nello studio in solitudine perché stare soli riduce le interferenze, richiede una motivazione molto forte e permette di lavorare sugli aspetti più complessi. Come dimostra la storia di Stephen Wozniak, le cui ricerche portarono alla creazione dell’Apple I, un personal computer assemblato e pronto all’uso, ma per questa narrazione dovete aspettare il mio prossimo articolo.

BRAINSTORMING: la SCELTA PERFETTA per ANNIENTARE la CREATIVITA’

Ha un nome elegante. E’ facile da applicare. E’ gratis. Per questo (forse) in tanti ne fanno uso.

Il brainstorming, tecnica creativa di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un problema iniziò a diffondersi nel 1957, grazie al libro Applied Imagination del dirigente pubblicitario Alex Faickney Osborn.

Eppure non è il modo migliore per produrre idee.

Osbord insoddisfatto per l’insufficiente creatività dei collaboratori, o meglio per la paura che questi accusavano quando si trattava di esporre le idee, in quanto terrorizzati dal possibile giudizio dei colleghi, ideò il metodo di brainstorming per fare in modo che i membri di un team producessero idee in un ambiente accogliente, senza censure e giudizi.

Osborn era fortemente convinto che i gruppi producessero idee migliori e in maggiori quantità rispetto alle persone che lavorano da sole e non smise mai di tesserne le lodi.

Eppure il brainstorming di gruppo non funziona, nonostante se ne faccia, spesso, un uso indiscriminato.

A sostegno le ricerche di un professore di psicologia Marvin Dunnette, che nel 1963 condusse i primi studi. Dunette coinvolse nella sua ricerca 96 dipendenti maschi, 48 pubblicitari e 48 ricercatori della 3M, chiedendo loro di partecipare a sessioni di brainstorming di gruppo e individuali. La sua ipotesi iniziale era che i pubblicitari, più loquaci, avrebbero beneficiato del brainstorming di gruppo, mentre i ricercatori, più introversi, avrebbero funzionato meglio in attività solitarie.

In realtà nella quasi totalità dei casi, le persone coinvolte produssero più idee quando lavoravano da sole, e non solo: idee di uguale e maggiore qualità rispetto a quando erano in gruppo, senza differenze fra ricercatori e pubblicitari o comunque persone intro o estroverse. I pubblicitari inoltre non si dimostrarono più adatti al lavoro di gruppo rispetto ai ricercatori.

Quelle di Dunnette furono solo le prime di una lunga serie di ricerche, giunte tutte alla stessa conclusione: il brainstorming di gruppo non funziona. Anzi, studi recenti mostrano addirittura che la performance peggiora con l’aumento delle dimensioni del gruppo.

In parole semplici e citando Adrian Furnham: “le persone motivate e di talento è meglio incoraggiarle a lavorare da sole, se le tue priorità sono efficienza o creatività”.

Fa eccezione il brainstorming online. Se ben gestiti i gruppi che fanno brainstorming online non solo ottengono risultati più performanti rispetto ai singoli, ma migliorano al crescere della dimensione del gruppo. Lo stesso vale per la ricerca accademica con docenti che collaborano in rete. Non a caso dalle collaborazioni digitali sono nate Linux e Wikipedia. Collaborazioni così performanti che hanno fatto sopravvalutare tutti i lavori di gruppo a scapito della riflessione individuale. “Non ci accorgiamo che – scrive Susan Cain in Quiet – partecipare a un gruppo di lavoro online è a sua volta una forma di solitudine e diamo invece per scontato che il successo delle collaborazioni virtuali si trasferirà identico anche a quelle faccia a faccia”.

Quando è utile il brainstorming? Per rafforzare i gruppi e far crescere la coesione fra i membri ma non quale stimolo alla creatività.

E se un GIORNO INCONTRASSI MURAKAMI…

Controverso, asciutto e spesso impenetrabile. E’ questa l’immagine che mi ero fatta attraverso i suoi libri. Leggendo quelle fitte parole che non lasciano spazio a troppi sorrisi. Trovarmelo di fronte, non è stato molto diverso. Haruki Murakami, uno degli scrittori più acclamati degli ultimi anni, più volte candidato al Nobel, nel primo incontro pubblico in Italia.

Schivo e sfuggente, lontano da riflettori e interviste, non a caso non firma copie per i suoi fan, è in Langa. Colline altrettanto schive e impenetrabili, che hanno custodito il male di vivere di altri introversi Pavese, per fare un nome fra i tanti. Il luogo adatto per chi scrive per l’amore della parola e non per il riconoscimento che la letteratura come sangue, spilla dal cuore e dalle anime inquiete.

Comprendo il suo disagio, che vivo ogni volta anch’io. “Il mio mestiere è scrivere, non certo parlare”, potrebbe dire qualche personaggio dei suoi romanzi…

Per chi non lo conosce, per chi ancora non lo ha affrontato e anche per tutti gli altri, racconto attraverso parole chiave Murakami. Almeno ci provo.

ADOLESCENZA

Accosta, nei suoi romanzi, personaggi complessi, incapaci talvolta persino di comprendere loro stessi. Dall’adolescenza crudele, drammatica, dove morte e abbandono son così ricorrenti, da far male anche al lettore.

LIMBO

Dal dolore, dalla realtà che non risparmia nessuno, si travalica nel sogno. Si è sempre sospesi fra due mondi con Murakami. E man mano che le pagine si susseguono, smarrisci il sentiero e ti domandi dove vivi davvero. E poi c’è la certezza dell’incertezza. Il passato bussa ogni volta, reclamando attenzione. E portando il conto. Difficile sottrarsi.

TRISTEZZA

In ogni pagina ritorna la tristezza fitta, che come nebbia ti accompagna parola dopo parola e non si smarrisce nemmeno al The End. L’ineluttabile realtà non delle tragedie ma della vita normale. Quasi mai, se ci pensiamo bene, si vive felici e contenti. All’infinito.

SESSO

Anche il sesso è angosciante con Murakami. Disordinato, complicato, caotico, carne e passioni. Quasi mai piacevole da essere ricordato. Profondo nel suo simbolismo. In fondo, ogni orgasmo simula la vita e la morte. La realtà è molto peggio della fantasia.

MORTE E MUSICA

Compagne fidate, allietano o stroncano giornate più o meno amare. Ci sono sempre. E portano sempre un significato.

SOLITUDINE

I protagonisti sono spesso eroi solitari, indipendenti e liberi. Murakami descrive la bellezza di una solitudine non distruttiva, che è capace di uscire da un isolamento disperato perché in equilibrio. Quella, penso, che vive in lui. Che gli appartiene.

Così da vicino, schivo e sfuggente, ritrovo molti dei protagonisti dei suoi romanzi. L’equilibrio di essere se stessi, anche con gli abiti di chi lui, nei suoi libri, dà e toglie la vita.

L’ARTE PUO’ FAR MALE…

“Notre Dame brucia e io non posso far altro che stare a guardare”.

“Notre Dame brucia ma non muore. L’arte ci aiuta a sopravvivere, a renderci immortali. Per questo non morirà mai”.

E’ di questa strada infernale lastricata di buone intenzioni che converso nel giardino appena sfiorato dalla primavera, con le voci dei miei interlocutori che tengono coraggiosamente testa al pianto che ci invade il cuore. Eppure Parigi è accartocciata su se stessa, mutilata nella sua bellezza che si è sempre creduta invincibile.

L’arte può far male, penso. Perché c’è una relazione organica tra i mattoni di una chiesa, un castello, un palazzo e la vita: quando distruggi una distruggi l’altra. Non a caso, un monumento si fa spesso simbolo di tutto ciò che una mente dittatoriale odia, e la prima cosa che fanno i regimi totalitari è distruggere il passato per legittimare il loro presente. Ma non è questo il caso.

E’ sempre impressionante vedere come possiamo commuoverci per qualcosa che possiamo, al tempo stesso, ignorare per gran parte della nostra vita. Notre Dame è sempre stata lì. L’abbiamo visitata, apprezzata e fors’anche amata. Ma solo stasera mentre brucia, ne comprendiamo il significato.

Un mio professore prima di dettagliare astratti concetti filosofici, ci faceva passare di mano in mano un sasso. E’ quello che cerco di fare anch’io. E’ come se volessi dire ai miei discenti: sentite il sole o il vento sulla faccia, e ditemi cosa vedete. Molti non vedono. Non è facile percepire quanto sia bella la realtà, con tutte le sue imperfezioni. Se non ci è stato insegnato. Puoi essere circondato da tutta l’arte che vuoi, ma amarla non è scontato come è lecito immaginare.

Ritorno alle riflessioni silenziose che vivevo durante le mie soste in Notre Dame, dove cercavo di capire il mondo, in uno spazio che si faceva religioso e sacrilego allo stesso tempo. “L’unica cosa sacra nell’arte è il profano, diceva Salman Rushie -. Le opere, i monumenti, le costruzioni non sono qui per farti sentire a tuo agio, o darti consolazione spirituale”. Sono qui per farci sentire vivi, con tutte le loro contraddizioni. Peccato che spesso ce ne rendiamo conto quando qualcosa va distrutto.

Notre Dame brucia, forse, proprio per non morire.

Le PAROLE SCRITTE sulla PELLE

Un taglio. Un altro ancora. Non c’è via d’uscita da quel dolore accecante e inespresso se non una lametta che tormenta la carne.

E poi le maniche lunghe, i pantaloni anche d’estate, a nascondere il corpo martoriato e parole tracciate come stigmatiche sulla pelle: sesso, verginità, perversione…

Non parla molto, fuma e beve vodka nascosta in bottiglie d’acqua Camille, reporter di un giornale di Saint Louis, reduce dal ricovero in un ospedale psichiatrico per abuso di alcol.

Camille che quando nella sua città natale, vengono ritrovati dei cadaveri di bambine, decide di partire per trovare una storia da raccontare.

Tempeste emotive che evocano ricordi, e i tagli si sommano. Necessari.

Nella casa di famiglia, ritrova la sorellastra, incarcerata in uno stretto dualismo fra il tentare di essere adulta e il rimanere bambina; la madre, instabile marionetta emotiva e tutti quei fantasmi infantili che si materializzano, come tessere scombinate di un misterioso puzzle. Traumi irrisolti che annegano nel sangue.

Camille è la protagonista di Sharp Objects, la miniserie tv, tratta dal romanzo Sulla pelle” di Gillian Flynn. Una storia di femminicidio da cui è esclusa la presenza maschile. Una storia originale, quello della violenza delle donne sulle donne.

Un libro da leggere e una serie da guardare….

La SOLITUDINE di SCRITTORI e NUOTATORI

La SOLITUDINE del NUOTATORE

Ore seguendo una linea scura disegnata sul fondo, macinando chilometri, virata dopo virata, vasca dopo vasca e sfidando un cronometro impietoso.

Ci vuole resistenza e resilienza per nuotare. Sport solitario per eccellenza, l’unico limite che ti pone, non è l’acqua ma se stessi. Con i propri pensieri, le fragilità che vengono a galla e sono incapaci di perdonarti.

Senti il tuo respiro mentre nuoti, nient’altro che questo. E nessuno può dire se stai andando bene, devi saperlo da solo: si suppone che tu sappia, ogni minuto, ogni secondo, cosa stai facendo e se lo stai facendo nel modo giusto.

Nel momento stesso che metti piede in piscina, tutto svanisce.

Stress, paura e debolezze non possono entrare in acqua con te, devi essere più leggero che puoi, più veloce che puoi, più perfetto che puoi.  Sei semplicemente solo con te stesso. E all’improvviso neppure te ne accorgi della profonda solitudine in cui sei immerso. Quando nuoti. E quando scrivi.

La SOLITUDINE dello SCRITTORE

«La solitudine della scrittura – scriveva Marguerite Duras – è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora”.

Ci vuole separazione dagli altri quando si scrive. E la solitudine reale del corpo diventa presto quella, inviolabile, dello scritto.

Penna alla mano, mi domando quanto la solitudine affogata nell’acqua, mi abbia portato alla solitudine della scrittura. Così affine, perversa, necessaria.

Forse è per questo che non tutti sono scrittori… Non tutti sanno stare soli, nell’immensità vuota che forse, si farà libro. Non tutti sanno rendere la solitudine una necessità.

EGO, INDIPENDENZA e LAVORO INDIVIDUALE

Mi rendo conto che non si può essere nuotatore o scrittore se non si ama la solitudine e l’indipendenza violenta e inesprimibile che ne deriva. Glaciale e silenziosa eppure così accogliente e protettiva. Un gioco che da un lato coccola l’ego, dello scrittore e del nuotatore professionista, dall’altra il lavoro individuale della scrittura, il trauma e lo schiaffo della pagina bianca e delle vasche ancora, incessantemente, da nuotare.

SOLITUDINE: ANTICAMERA della CREATIVITA’ e della INNOVAZIONE

Se ne parla molto, di questi tempi. Di solitudine.
Affibbiandole i mali più diversi, dalle cardiopatie, all’insonnia, dalla depressione, all’obesità, fino alla morte prematura.

Eppure la sana solitudine è l’anticamera della creatività e dell’innovazione. Non a caso Schopenhauer scriveva: “i veri grandi spiriti costruiscono, come le aquile, i loro nidi a grandi altezze, nelle solitudine”.

Un tempo l’isolamento poteva risultare pericoloso, ma oggi senza amici, in città, non c’è il rischio di morire di fame o venir sbranati da animali feroci, come poteva invece accadere a un cacciatore, senza amici, nella preistoria.

“Hanno sempre detto che dovrei mostrami più aperta, ma ho capito che essere introversi non è cosa negativa – spiega Susan Cain, nel libro Quiet, the power of introverts in a world that can’t stop talking – Così per anni sono andata in bar affollati, come molti introversi fanno, con una perdita di creatività e di leadership che la nostra società non può permettersi. La solitudine è l’ingrediente fondamentale della creatività. Darwin faceva lunghe passeggiate nei boschi e decisamente respingeva gli inviti ai party. Steve Wozniak ha inventato il computer Apple bloccato nel suo Hewlett Packard. Le società occidentali hanno dimenticato la potenza della vita contemplativa. Fermiamo la follia della ricerca costante del lavoro di squadra. Andate nel deserto per avere intuizioni vincenti”.

La solitudine fa bene anche all’empatia. Studi condotti da Erin Cornwell, della Cornell University (New York) hanno dimostrato che le persone anziane che vivono da sole hanno una rete sociale molto ampia.

Le capacità che però hanno più giovamento dalla solitudine sono la creatività e l’innovazione. Gli esseri umani sono esseri sociali, ma dopo aver trascorso la giornata circondati da persone, passando da una riunione all’altra, attenti ai social, agli smartphone, iperattivi, la solitudine fornisce uno spazio per il riposo ristoratore.

Uno dei risultati più sorprendenti infatti è che la solitudine è alla base della creatività, dell’innovazione e della buona leadership. Uno studio condotto da Mihaly Csikszentmihalyi (lo psicologo della felicità) ha rilevato che gli adolescenti che non sopportano la solitudine non sono in grado di sviluppare talento creativo.

Ammettere di essere soli è una delle cose più difficili, ma oggi sapendo cosa ci guadagniamo accogliendola in modo sano, forse non le saremo più tanto ostili.