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I MIGLIORI (AD) NON smettono MAI di IMPARARE

Laura, credo di essere quella lepre che, nel racconto di Esopo, ha fatto l’errore di sottovalutare una tartaruga. Dalla lentezza con la quale arrancava, mai avrei pensato mi potesse superare. Mi sa che sono caduto nella trappola dell’autocompiacimento”.

E’ facile che questo accada quando, in una posizione di comando e in breve tempo, si sono ottenuti grandi risultati; mentre colleghi in posizione analoga, in altre organizzazioni, non essendo riusciti ad avere risultati simili, nel peggiore dei casi sono stati estromessi dal ruolo o nella migliore delle ipotesi si sono trovati alle prese con la temuta sindrome dell’hockey stick: quella in cui un AD che prevede miglioramenti oltre misura ottiene, nel tempo, solo piccoli progressi.

Diventare AD di successo è impresa difficile, ma mantenere il ruolo lo è ancora di più. I dati lo confermano: più della metà delle società Fortune 500 nel 2000 sono fallite, sono state acquisite o hanno cessato di esistere nei successivi 15 anni.

Questo a causa dell’autocompiacimento: nessuno vuole essere il pugile che vince il massimo titolo, si ammorbidisce e lo perde senza tante cerimonie a favore di un altro pugile promettente ma più affamato.

Raro è incontrare un AD che dica: “Sto diventando autocompiacente“. Ne ho incontrati molti che riconoscono di esserne vittime solo quando vedono una tartaruga davanti a loro.

ANCHE SE HAI TUTTE LE RISPOSTE…

Uno degli AD più rispettati, influenti e di successo del 21° secolo, Jamie Dimon di JPMorgan Chase, nel suo primo mandato, ha navigato abilmente all’interno del colosso dei servizi finanziari durante la crisi finanziaria del 2008. Un anno dopo, è stato nominato AD della società di revisione Brendan Wood International. E così, avanti veloce fino al 2012, quando si è trovato ad affrontare una crisi dopo che la sua azienda ha subito una perdita commerciale di 6 miliardi di dollari. Quando gli è stato chiesto cosa fosse andato storto ha confessato: “La grande lezione che ho imparato è quella di non accontentarsi, nonostante un track record di successo“.

Negli anni centrali del percorso di un AD, è l’AD l’autore dello status quo dell’organizzazione. Ciò rende molto più difficile per lui giudicare l’attività in modo spassionato e interrompere o cambiare ciò che (non) funziona. Inoltre, con più successo arriva anche una maggiore #fiducia nel proprio giudizio e nelle proprie capacità. “Il problema di essere un AD da molto tempo”, afferma James Gorman, CEO di Morgan Stanley “è che tutti ti dicono che hai tutte le risposte. È confortante per l’ego ma anche molto pericoloso”.

Quando si riesce a sopraffare la concorrenza e pochi sono i competitor che possono intimorire, diventa via via più difficile definire cosa significhi #vincere. Nel frattempo, a meno che non si sia ancora il primo motore del cambiamento, anche l’organizzazione diventerà compiacente.

COME SOSTENERE PRESTAZIONI ELEVATE NEL TEMPO (a scapito dell’ego)

DEDICA TEMPO ALL’APPRENDIMENTO.

Nei primi anni da AD, hai imparato una quantità straordinaria di cose. Le conversazioni, i confronti con clienti, dipendenti, investitori, analisti, consiglieri e altre parti interessate ti hanno aiutato a plasmare la strategia che ha portato al successo che ti stai godendo oggi. Ora sei inondato di richieste per raccontare la tua storia e condividere le tue vittorie con gli altri. Sebbene queste richieste siano ben meritate, parimenti aumentano le distrazioni.

Puoi vincere premi; ottenere riconoscimenti. Tutte cose buone. Ma il tuo compito è fare ogni anno meglio di quello precedente”. Sono i pericoli su cui Flemming Ørnskov, CEO della società farmaceutica Galderma, punta il dito.

Il punto non è ritirarsi dall’impegno esterno. Ma assicurarsi di passare il tempo ad ascoltare, imparare e collegare i punti invece di parlare (solo e semplicemente) dei #successi ottenuti.

Nel caso di Ørnskov, il suo successo all’inizio gli ha permesso di delegare maggiori responsabilità al team, il che significava che poteva trascorrere più tempo al di fuori dell’ufficio, ma solo su cose che avrebbero aiutato l’azienda a rimanere competitiva. “Conoscevo tutti i principali opinion leader. Ho passato tantissimo tempo a capire cosa stava succedendo, vedere pazienti, incontrare medici, andare a conferenze scientifiche per conoscere le ultime novità dalla ricerca e studiare i concorrenti sul campo[1].

Per l’ex CEO di LEGO Jørgen Vig Knudstorp, un improbabile gruppo di clienti è stato determinante: la community di adulti, fan del gioco. L’AD si unì a una delle loro conferenze, guadagnandone la fiducia, e loro lo aiutarono in alcune #scelte strategiche. I clienti adulti di LEGO ora ammontano a più di un milione in tutto il mondo, il 30% del business globale di LEGO.

Il CEO di Dupont, Ed Breen: “Mi incontro spesso con gli attivisti. Se sai ascoltare, spesso hanno buone idee. E quando non mi sono trovato d’accordo con loro, ho cercato soluzioni che potessero soddisfare entrambi. Il loro punto di vista è: se Ed ha un modo migliore per risolvere un problema, bene. Lo faccia. Con questo approccio, ho scoperto che spesso diventano tuoi alleati”.

Breen consiglia inoltre di unirsi fra pari e parlare liberamente di argomenti chiave. “Si impara molto ascoltando ciò che le persone vedono nei loro mercati, ed è a un livello che va più in profondità di quello che si legge sul Wall Street Journal. Ogni volta, trovo sempre nuove idee”.

L’ex CEO di Nestlé Peter Brabeck-Letmathe ha invece ricalcato la #strategia Disney: mentre progettava i film d’animazione, già pensava a come ottenere il massimo da quei film nei successivi dieci anni. “Invece di creare un solo ingrediente per un prodotto, che ha un valore limitato, mi sono messo a pensare a come trasformare un ingrediente nutrizionale in un marchio e come sfruttarlo nel successivo decennio” Le persone fanno cose in modi diversi, e puoi sempre imparare qualcosa e applicarlo nella tua organizzazione.

Si può apprendere molto anche dall’interno, come ha fatto Brad Smith, ex CEO del gigante del software finanziario Intuit: “solitamente dedicavo due incontri a settimana con persone di diversi livelli inferiori nell’organizzazione e a tutti ponevo tre domande:

–      Cosa sta migliorando rispetto a sei mesi fa?

–      Cosa non sta facendo abbastanza progressi o sta andando nella direzione sbagliata?

–      C’è qualcosa che temi e che nessuno mi sta dicendo ma credi che io abbia bisogno di sapere?’

Questo permette di accedere a ogni livello dell’organizzazione, eliminando ogni filtro.

PRENDI LA PROSPETTIVA DI UN ESTRANEO.

In uno degli esperimenti di Kahneman, un negozio di alimentari ha messo in vendita i prodotti Campbell Soup per 79 centesimi con un cartello che diceva “limite 12 barattoli per cliente“. Un altro negozio gestiva la stessa vendita ma senza limiti di acquisto. In media, nel primo punto vendita sono stati acquistati 7 barattoli, nel secondo 3.

L’esperimento mostra il potere dell’ancoraggio. Un’ancora è un’informazione su cui si fa affidamento per prendere una #decisione. Il cervello degli acquirenti si è ancorato al limite di acquisto di 12. Coloro che hanno acquistato solo tre barattoli non avevano in mente il numero 12, quindi hanno fatto un acquisto ancorato verso il basso (allo zero).

Questo concetto è simile al modo in cui molti AD organizzano la loro strategia: aggiornandola annualmente sulla base dei presupposti dell’anno precedente, su cosa vale ancora e cosa no.

Al contrario, i migliori AD effettuano periodicamente analisi approfondite di tutti gli aspetti delle attività nello stesso modo in cui lo facevano quando si sono insediati, come se arrivassero dall’esterno con occhi nuovi. Non sono ancorati al passato, gravati da lealtà interne o disposti a piegarsi a pressioni a breve termine.

All’inizio degli anni ’80, quando i profitti di Intel crollarono da 198 milioni di dollari a 2 milioni l’anno successivo, l’allora presidente Andy Grove chiese a Gordon Moore, all’epoca CEO di Intel, che decisioni avrebbe preso un nuovo AD. Moore rispose che non si sarebbe più dedicato ai chip di memoria, ma avrebbe scommesso il proprio futuro su un nuovo prodotto: il microprocessore. E così fecero, contribuendo a inaugurare una serie di successi.

DEFINISCI la PROSSIMA CURVA a S in MODO COLLABORATIVO.

Visto che a nessuno piace il #cambiamento, si rende necessario creare un ritmo di cambiamento. E lo si può fare coinvolgendo le parti interessate.

Lo spiega bene l’ex CEO di Medtronic Bill George: “Le persone supportano ciò che aiutano a creare“. Ossia, non distruggono ciò che hanno costruito.

Per avere successo occorre adottare un approccio collaborativo nel definire la prossima curva a S. Nel 2015, Maurice Lévy, CEO di Publicis, si è reso conto che la sua strategia di crescita basata sulle acquisizioni si era conclusa. Era giunto il momento per un’altra curva a S. Anche se aveva una visione chiara di ciò che doveva essere fatto, ha coinvolto per diversi mesi, il suo team esecutivo e il livello dirigenziale, 300 leader veterani più 50 manager under 30 neo promossi, perchè comprendessero il punto di vista di Lévy e lo perfezionassero.

ORGANIZZAZIONI A PROVA DI FUTURO.

Quando le cose vanno bene, è difficile immaginare che possa incombere una #crisi. Sfortunatamente, non importa quanto bene sia gestita un’azienda, la domanda anche per i migliori AD non è se dovranno superare una crisi, ma quando.

Una crisi può nascere ovunque e in qualsiasi momento. E può porre fine al mandato altrimenti eccezionale di un CEO, o può essere abilmente sfruttata per spingere un’azienda a nuovi livelli di #prestazioni post-crisi.

Coloro che ottengono risultati positivi riconoscono che il momento migliore per prepararsi a una crisi non è il giorno della crisi e quindi sottopongono regolarmente a stress test la propria attività.

Un buon esercizio di stress test è quello a cui si sottopone Reed Hastings: “Sono trascorsi dieci anni e Netflix è un’azienda fallita. Stimiamo le probabilità delle diverse cause”. Hastings e il suo team esaminano l’elenco, valutando le rispettive probabilità. “A volte la discussione si sposta su cosa possiamo fare per alcuni di questi rischi, ma molte volte, solo definire quali rischi dobbiamo affrontare spingerà le persone ad adattare il comportamento in modi intelligenti che ci rendono più resilienti“.

Il segreto per gestire al meglio una crisi è riconoscere di essere in crisi.

Fonti

[1]  CEO Excellence: The Six Mindsets That Distinguish the Best Leaders from the Rest: Dewar, Carolyn, Keller, Scott, Malhotra, Vikram: 9781982179670: Amazon.com: Books


Dewar C., Keller S., Malhotra V., Strovink K., (2023) “Staying ahead: how the best CEOs continually improve performance”, McKinsey Quarterly.

IL COSTO DEI SEGRETI (nelle organizzazioni)

Abbiamo tutti dei segreti.

Potrebbe essere quello di sapere che la promozione promessa a un collaboratore sarà disattesa; il trasferimento in un altro dipartimento non sarà bloccato, il tempo determinato non sarà rinnovato, e via dicendo.

Qualunque sia la decisione, prima di poterla comunicare talvolta occorre tenerla segreta, autocensurarsi, far buon viso a cattivo gioco, adattarsi… E non tutti riescono ad accettarlo.

D’altra parte però, decenni di studi scientifici, dimostrano che spesso preferiamo non smascherarli i segreti, perché incrinerebbero (finchè durano) il nostro bisogno di falso controllo. Fintanto che fingo di non vedere, il problema non esiste, l’effetto struzzo nel pieno delle sue potenzialità.

L’IMPATTO SU BENESSERE E PRESTAZIONI

Celare la verità ha dei costi su prestazioni e benessere.

Il 97% delle persone coinvolte in uno studio, ha in media 13 segreti che riguardano il posto di lavoro, come licenziamenti o promozioni in sospeso, vita personale e famiglia[1].

Due sono i principali danni a cui si può andare incontro:

∑         Danneggia il benessere. L’energia per resistere, autocensurarsi, pensieri ossessivi e ansia nell’anticipare cosa sarebbe successo quando il segreto sarebbe stato rivelato non fanno bene alla salute.

∑         Danneggia la concentrazione e il processo decisionale: quando si è distratti da un segreto non si è completamente presenti, con la conseguenza che l’irrazionalità avrà vita più facile.

 

COSA SUCCEDE NEL CERVELLO DI CHI DEVE MANTENERE UN SEGRETO

∑         L’amigdala è super irritabile, pronta a mettersi in azione, con tutto ciò che ne consegue

∑         L’ippocampo, a causa dello stress da eccesso di cortisolo, è compromesso con una ripercussione su apprendimento, memoria e sistema immunitario,

∑         La corteccia prefrontale è offline a causa dell’iperattività della amigdala, quindi la capacità di comunicare, collaborare, innovare saranno limitate.

 

I DATI

Per molti, avere dei segreti, è utile. Una necessità che sovrasta ampiamente la difficoltà di dover mentire.

Una ricerca di Glassdoor, condotta nel Regno Unito, ha rivelato che il 44% degli intervistati dice di mentire per evitare di mettersi nei guai e il 34% per nascondere gli errori commessi[2].

Il 40% del campione, lo fa perché è “più facile essere d’accordo con la maggioranza” e il 24% perché al manager o ai colleghi non piace sentire opinioni diverse dalle loro.

Il 17% ha affermato di aver mentito perché si sentiva a disagio nel dare un feedback onesto ai colleghi.

Il 72% del campione ha detto che l’autenticità sul lavoro permette di creare una cultura solida e il 77% che questa favorisce le relazioni tra colleghi e clienti, ma solo il 51% crede che i loro CEO e manager siano autentici.

 

I COSTI ECONOMICI DEL MENTIRE

Scandagliando i dati scientifici, l’unica verità sembra essere che tutti mentano e celino segreti. Qualcuno ci riesce meglio di altri. D’altronde  viviamo in un tempo in cui la bugia e l’inganno sono sempre più tollerate e non rappresentano un’eccezione, anche se questo costa molti soldi.

Secondo i dati dell’Association of Certified Fraud Examiners, in media ogni società perde il 5% dei guadagni annuali a causa di frodi, per un totale di circa 3.5 trilioni di dollari ogni anno. Le ricerche hanno determinato che ogni giorno, ogni individuo può ricevere dalle 10 alle 200 informazioni false. Un americano su quattro ritiene ammissibile mentire a un assicuratore, un terzo dei curriculum sono “aggiustati”. Un lavoratore su cinque dice di essere a conoscenza di frodi nel suo ambiente professionale ma non le riporta ai superiori.

 

A QUALI BUGIE PIACE CREDERE

Secondo Marcus Buckingham[3] e Ashley Goodall[4], NOVE sono le bugie a cui tutti, indistintamente, piace credere[5]:

∑         Alle persone importa per quale azienda lavorano

∑         A vincere è la migliore pianificazione

∑         Le migliori aziende lavorano su obiettivi

∑         I migliori talenti hanno un profilo completo

∑         Le persone hanno bisogno di feedback

∑         Le persone possono valutare altre persone in modo affidabile

∑         Le persone hanno un potenziale

∑         La cosa più importante è il work-life balance

∑         La leadership ha caratteristiche precise

 

L’esperienza di una persona in un’azienda è influenzata soprattutto dalle relazioni individuali. Per questo, è più importante il comportamento del proprio referente rispetto a un’astratta cultura aziendale che non si può verificare sulla propria pelle. La cultura aziendale è, secondo gli autori, un’utile convinzione condivisa che serve a orientare il comportamento di tutti.

Riguardo al talento, la convinzione è che chi ce l’ha sia concentrato su uno o due punti di forza. Il miglior nuotatore, il miglior calciatore o il miglior manager, sono coloro che hanno alcuni talenti precisi limitati a un’area specifica. Prendiamo Messi, che fa tutto con il piede sinistro. Chissà, forse con il destro sarebbe solo uno dei tanti.

Per capire i punti di forza di una persona? Non affidatevi alle review tra colleghi perché le persone semplicemente non sanno giudicare altre persone: troppi pregiudizi, troppi punti di vista parziali e poca chiarezza su cosa c’è da valutare. Per non parlare dei feedback: evitateli perché fanno cascare nell’errore di cercare di cambiare le persone invece di cambiare le situazioni e i contesti che portano problemi.

Lapidari i due ricercatori, mi piace credere che gli esseri umani siano meglio di così. Che sia, il mio, un bisogno di celare a me stessa la verità?

 

LE (NON) SOLUZIONI

∑    Comunicare che nella propria sfera di influenze non c’è spazio per la menzogna è un buon modo, un nudge che diventa un impegno, se fatto nel modo giusto. A cui si aggiunge dare il buon esempio.

∑    Non confondere il segreto con la bugia. Il costo dei segreti ha un prezzo emozionale e psicologico, tutti paghiamo per gli inganni, direttamente o indirettamente.

∑    Ricordarsi che ci si può proteggere tenendo a mente che una bugia non ha potere. Ne acquista nel momento in cui qualcuno decide di crederci. E se fossi tu a volerci credere a tutti i costi, quale bisogno credi così di soddisfare (e problema procrastinare)?

 

Queste ti sembrano soluzioni a basso impatto e magari anche banali? Forse, ma essere consapevoli di cosa spinge a mentire o a tenere un segreto è qualcosa che non trascurerei.

Quali (s)vantaggi ha sulla mia serenità e benessere, sul mio lavoro e sulla mia carriera? Cosa penso di ottenere o di evitare?  Cosa rispondi?

 

Tutto ha un prezzo. Spetta a ognuno di noi dargli un valore e tenerlo a mente quando saremo di fronte a una scelta.

 

FONTI

[1] Slepian ML, Chun JS, Mason MF. The experience of secrecy. J Pers Soc Psychol. 2017 Jul;113(1):1-33.

[2] http://hrnews.co.uk/half-of-employees-have-lied-at-work/

[3] https://www.marcusbuckingham.com

[4] https://www.ashleygoodall.com

[5] https://www.amazon.it/Nine-Lies-about-Work-Freethinking-ebook/dp/B07C3ZT28C

DIO ESISTE, MA NON SEI TU

Tutti ne abbiamo incontrato uno. Almeno una volta. Con il complesso di Dio.
All’inizio, ci può anche essere sembrato divertente… all’inizio…
Poi, più il tempo passava e più quel bisogno di erigersi al di sopra di tutto e tutti, ha cominciato a erodere la nostra pazienza.
Ma a quel punto, talvolta, è troppo tardi…

 

FAUST, HITLER E TANTI ALTRI

Faust vendette l’anima al diavolo per appropriarsi dell’onnipotenza, il potere infinito negato agli esseri umani.
E da lì, i posteri, affamati dello stesso male e desiderosi di superare ogni limite terreno, ne hanno modellato il profilo, questo è infatti il processo evolutivo del nazismo e del suo capo Hitler.
Nei tempi moderni si aggiunge anche l’insoddisfazione di chi non è pago di nulla, vittima dei miraggi del suo desiderio.
Un desiderio che ossessiona l’umanità dalle origini e che ha il suo campione iniziale in Lucifero, che sfida Dio e induce ognuno di noi, a fare altrettanto.
Per alcuni elevarsi al di sopra di tutti si fa necessità, spinti dalla convinzione assolutamente schiacciante che la propria soluzione sia infallibilmente esatta.

 

E questi alcuni sono facili da riconoscere: sono coloro che di fronte a un mondo incredibilmente complicato, sono intimamente convinti di capire come funziona. Tutto.

 

IL COMPLESSO DI DIO

Il Complesso di Dio. E’ questo il nome che veste chi non accetta di sbagliare, di essere fallibile. Eppure è la realtà e difficilmente siamo disposti a concedere potere e credibilità a chi dice di non sapere, nonostante da millenni siano prove ed errori ad aver permesso evoluzione e scoperte scientifiche. Edison con il suo filamento per la lampadina ne è l’emblema. Ma lui aveva quella sensibilità paradigmatica che molti hanno perso: l’umiltà.
In ogni sistema complesso i dati hanno preso il sopravvento sulla sensibilità. Ti mostrano grafici che dovrebbero inquadrare meglio un problema, ma ogni grafico è solo un trucco, l’incapacità di schematizzare il tutto.

 

LA VERA STORIA DI COCHRANE

Prendiamo la storia del medico Archie Cochrane.
Voleva compiere un esperimento:  si chiese se le persone infartuate avessero migliori possibilità di guarigione post infarto, in ospedale o a casa.
Tutti i cardiologi tentano di farlo tacere. Loro sapevano che il posto migliore era l’ospedale, in virtù del complesso di Dio.
Cochrane a conclusione dell’esperimento, convocò i colleghi:
Ho i risultati preliminari che non sono significativi statisticamente. Ma qualcosa abbiamo. Ho scoperto che voi avete ragione e io ho torto. E’ pericoloso per i pazienti riabilitarsi a casa. Dovrebbero rimanere in ospedale”.
I medici cominciarono a lanciare commenti di giubilo.
Te lo avevamo detto che eri immorale, uccidi le persone per fare esperimenti clinici. Ora devi stare zitto”.
Cochrane aspettò che l’ambiente si calmasse e poi:
“E’ molto interessante signori, perchè quando vi ho dato le due tabelle ho invertito i risultati. Ho scoperto che i vostri ospedali stanno uccidendo le persone, e che i pazienti dovrebbero stare a casa. Volete sospendere gli esperimenti adesso o volete aspettare di avere risultati più significativi?”.
Cochrane faceva quel genere di cose. E il motivo per cui faceva quel genere di cose è perché aveva capito che ci si sente molto meglio a dire:
“Qui nel mio piccolo mondo, sono un Dio, capisco tutto. Non voglio che le mie opinioni vengano sfidate. Non voglio che le mie conclusioni siano messe alla prova”.
E’ rassicurante.
Cochrane capì che l’incertezza, la fallibilità, l’essere sfidati, è doloroso. E qualche volta bisognerebbe affrontare la realtà.
Così come è dolorosa la vita di Bucky Cantor in Nemesi di Roth, forte di una idea delirante di onnipotenza. Segnato, per tutta la vita, dalla tragica perdita della madre, morta mettendolo alla luce. Rimarrà per sempre interiormente legato alla convinzione di essere l’autore, insieme a Dio, della malvagità onnipotente e di quella assurda morte.

 

SOCRATE DOCET

Forse andrebbe ricordato a chi vende l’anima al Diavolo per sostituirsi a Dio (e ce ne sono tanti, basta accendere la tv), che il male non ha nulla di sovrannaturale.
Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata, perchè il degrado sembra sempre irreversibile.
Non è neppure questione religiosa. In realtà sono sufficienti umiltà e cultura. Le performance incredibili sono, di fatto, il risultato di tentativi e di errori.
Perché ci sono problemi che non hanno una risposta giusta. Sapere di non sapere… insomma… ma Socrate non sentì il bisogno di vendere l’anima al diavolo…

SCRIVERE per PUBBLICARE è una cosa SERIA

Tutti scrivono. Tutti hanno sempre scritto. Eppure saper scrivere una email o un tema, non è esattamente uguale a scrivere un libro. Tanto è vero che nel campo editoriale si dice spesso “Scrivere è per tutti, pubblicare no”.

Scrivere per pubblicare è cosa seria, è un lavoro. Ecco perché tanti, troppi, scelgono di pagare per vedere il proprio pensiero trasformato in libro. Ma non è la stessa cosa.

SCRIVO SOLO QUANDO HO L’ISPIRAZIONE”, mi racconta Dario alla prima sessione di writing coaching, frustrato dal fatto che il suo romanzo è fermo, dopo tre anni, al secondo capitolo.

Purtroppo scrivere non è una illuminazione che arriva benevolente dal cielo, scordatevelo. Tutti i grandi scrittori scrivono ore ogni giorno e ogni giorno cestinano interi capitoli. Ciò in cui  va cercata l’ispirazione è il modo di raccontare una storia che già è stata raccontata in mille altri modi. Tutto è già stato scritto, solo che ne ignoriamo l’esistere.

VOGLIO SCRIVERE, NON LEGGERE”, è invece il rimprovero che mi ha fatto Roberta, quando le ho detto che non si diventa scrittori senza aver macinato un bel po’ di classici, contemporanei e scritti di ogni genere. Inutile dire che ha deciso di cambiare passione.

Stephen King, non a caso ha detto «Se non hai tempo per leggere, non hai tempo (né gli strumenti) per scrivere».

Se lo dice lui… fate bene a credergli.

VALE LA PRIMA”, niente affatto ho replicato a Giulia. Se non hai voglia di rileggere all’infinito ogni parola che scrivi, cambia passione. Non esiste un buon libro che non sia stato vittima di una profonda riscrittura.

«Non esiste una grande scrittura, solo una grande riscrittura». (Justice Brandeis)

VOGLIO AVERE SUCCESSO”, anche in questo caso hai sbagliato passione. Un libro vero non si scrive in una settimana o in un mese. Un libro può richiedere anche anni e spesso è stato rifiutato e rifiutato ancora e scritto e riscritto, prima di iniziare a scalare le classifiche.

E CHE NESSUNO MI CRITICHI”, so io quanto vale il mio scritto.

Pubblicare un libro vuol dire renderlo pubblico e quindi inevitabilmente cadrà vittima di complimenti e critiche. Non necessariamente deve piacere a tutti e come tu hai il diritto di pubblicare, il lettore ha il diritto di dire ciò che pensa.

Se non accetti questo, ecco un altro buon motivo per non scrivere un libro.

“SCRIVERE MI RICHIEDE UNO SFORZO CHE SPESSO RASENTA LA FRUSTRAZIONE”, mi dice avvilito Marco, che pensava di diventare famoso scrivendo libri. Scrivere è uno dei mestieri più solitari e introspettivi che esistano, l’eventuale successo arriva solo dopo, molto dopo e non necessariamente dura nel tempo. Mai scrivere per fare soldi, diventare famosi, far innamorare la diva del cinema del momento. Scrivere deve rendere felici.

MI HANNO SEMPRE DETTO CHE DOVREI FARE LA SCRITTRICE PERCHE SCRIVO BENISSIMO”, mi dice Amalia, quando mi sottopone le bozze del suo manoscritto.

Purtroppo per fare della scrittura una professione, saper scrivere bene è solo una delle tante condizioni, ma non basta. Ci vuole pazienza, meticolosità, determinazione e umiltà. Una viscerale umiltà. Scrivere un libro è qualcosa di totalmente diverso dal mettere in fila qualche frase.

E infine un ultimo consiglio: commettere errori fa parte della natura umana, ma perseverare nei propri sbagli, pensando che smettere di scrivere sia un fallimento, non può che diventare diabolico e dannatamente presuntuoso.

NON MERITO il SUCCESSO. L’ERRATA CONVINZIONE delle PERSONE di VALORE

“Se ci sono riuscito io può farcela chiunque. Prima o poi si accorgeranno che non sono bravo come pensano, e che in realtà li ho imbrogliati tutti. Il mio successo? Questione di fortuna, nulla di più”.

Ci sono persone convinte di non meritare il successo, nemmeno quando è la conseguenza di un grande impegno, tanto che continuano a sentirsi indegne del proprio valore nonostante evidenti ed oggettive prove dicano il contrario.

Un esempio è la storia di Nina, studentessa di matematica: ‘‘Ottimo esame. Vorrebbe scriverci una tesi di dottorato? Passi in ufficio nei prossimi giorni, ne parleremo», si complimenta così la docente. La neo laureata in matematica, però, non riesce a rallegrarsi per il complimento. Nella sua testa mulinano pensieri del tipo: «Davvero buona, l’esaminatrice, mi ha chiesto solo cose facili. Sono stata fortunata. Adesso mi guarderò bene dal discutere con lei questioni professionali. Altrimenti si accorgerà che ho bluffato e scoprirà tutto quello che non so». Nina insiste con questi pensieri finché nella sua mente matura una certezza: nonostante l’ottimo esame, non accetterà mai l’offerta di dottorato della docente.

Si chiama “Sindrome dell’impostore” e nessuno ne è immune, colpisce in egual misura studenti, professionisti affermati, dive del cinema, scrittori, musicisti, anche se a soffrirne di più sono le donne (soprattutto quelle che ottengono buoni risultati in ambienti di lavoro a predominanza maschile). Per citare alcuni nomi, ne sarebbero (stati) affetti Jodie Foster, Kate Winslet, Denzel Washington, Emma Watson, la musicista Amanda Palmer, le scrittrici Maya Angelou e probabilmente anche Natalia Ginzburg.

Chi lamenta tale sindrome ha sentimenti specifici, ben descritti dalla consulente del lavoro per l’amministrazione Obama, Alexandra Levit: “senti di non meritare il successo ottenuto, che i traguardi raggiunti sono il frutto della fortuna o della situazione nel posto giusto al momento giusto, invece che del proprio talento, oppure ci si sente un imbroglione che alla fine si rivelerà essere incompetente“.

Fatto curioso è che la sindrome dell’impostore insorge nelle persone effettivamente competenti e brave nel proprio lavoro: “quando uno è un impostore, non si percepisce come tale“. Infatti gli incompetenti, proprio perché sono incompetenti, non si rendono conto dei propri limiti ed errori né delle effettive capacità degli altri, e dunque tendono costantemente a sovrastimare le proprie prestazioni; scomodando Shakespeare “il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio”.

Cosa fare per superare l’empasse dell’impostore?
• fare una lista di tutti i risultati raggiunti e delle motivazioni per cui si è effettivamente qualificati per un determinato lavoro e appenderla in bella vista
• Auto-premiarsi per ogni successo e dire grazie quando si riceve un complimento abbandonando frasi come “figurati, non era importante”; “ma il merito non è (solo) mio”.
• chiedere una seconda opinione. In questo caso è necessario il supporto di un mentore che possa aiutare a vedere i successi sotto una luce obiettiva.
• Scrivere a caratteri cubitali l’insegnamento di Michelangelo: “Se le persone sapessero quanto duramente ho lavorato per ottenere la mia maestria, questa non sembrerebbe così meravigliosa, dopotutto”, abbandonando di fatto la convinzione che solo il talento naturale porta al successo e/o di non possederne affatto.
• Ripetersi e ripetersi ancora “Non sono stato fortunato. Tutto quello che ho ottenuto me lo sono meritato”.