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Il PRANZO è per CHI non ha NIENTE da FARE. Siamo sicuri che sia proprio così?

Molti di noi sono cresciuti con l’idea che lavorare fino a tardi, essere sempre super incasinati, avere orari folli, sia cool. Ci renda agli occhi degli altri, persone di valore, importanti. Degni di ammirazione.

Studi recenti lo confermano: sono considerati “moralmente ammirevoli” coloro che si impegnano molto indipendentemente dai risultati. Con la differenza, rispetto il passato, che “è il lavoro, non il tempo libero, il significante dello status sociale dominante”.

Benchè, l’essere indaffarati non è esattamene sinonimo di risultati, e nemmeno un indicatore affidabile per identificare i talenti, sono ancora molte le organizzazioni che premiano e promuovono chi fa l’alba alla scrivania. Nonostante i dati dimostrino che “quando si sovraccaricano i dipendenti, facendo dipendere gli incentivi dalla quantità di tempo lavorato, la produttività e l’efficienza diminuiscono”.

La busyness, la povertà di tempo, ha un impatto negativo molto forte sulle persone, in quanto incide sul coinvolgimento e aumenta l’assenteismo.

IL POTERE DELLA BUSYNESS

Ci sono tre ragioni dietro la nostra incessante ricerca di cose da fare:

1) Giustificazione allo sforzo. Più siamo impegnati a raggiungere un obiettivo, più lo apprezziamo. Anche per compiti privi di significato. Questo perché più un’attività è impegnativa, più ci sentiamo coinvolti. E questo finisce per spingerci a giustificare la fatica che facciamo, senza accorgersi che il burnout è dietro l’angolo.

Purtroppo, una volta che la cultura della busyness si è insediata in un contesto, tende a persistervi. Eradicarla diventa un’impresa titanica.

Pensateci: se fin dai primi giorni in una nuova realtà, ci viene mostrato che non c’è un preciso orario di inizio e fine, tenderemo a uniformarci agli altri per essere accettati, fino a che diventeremo parte integrante di quel sistema. Raramente lo metteremo in discussione. Vuoi perché aspiriamo a una promozione, un aumento di carriera o responsabilità o anche solo non vogliamo perdere il ruolo acquisito. Come in un circolo vizioso, a nostra volta imporremo ai nuovi arrivati, la medesima dedizione, dandola per normale.

2) Avversione all’ozio: preferiamo fare qualcosa che ci tenga occupati piuttosto che aspettare 15 minuti senza fare nulla, a patto di riuscire a trovare una giustificazione per agire in questo modo.

E’ la stessa cosa che avviene in aeroporto. Molte volte occorre seguire un percorso piuttosto lungo prima di arrivare alla zona di recupero bagagli: questo ha il solo scopo di tenerci occupati, far guadagnare tempo agli addetti allo scarico delle valigie e farci tollerare meglio il tempo di attesa della nostra borsa.

3) I clienti si comportano allo stesso modo. Tendiamo a credere che il valore di un prodotto sia direttamente proporzionale all’impegno profuso. Uno studio ha dimostrato che i partecipanti apprezzavano di più oggetti (un dipinto, una poesia, ecc) e li valutavano meglio in termini di qualità e valore quando pensavano fossero stati prodotti con uno sforzo maggiore. Una ricerca ha inoltre scoperto che i clienti di un bar apprezzavano di più il servizio quando un panino veniva preparto davanti a loro, quando cioè potevano osservare il lavoro che stava dietro il prodotto, rispetto a quando il panino veniva solo consegnato.

COME FERMARE LA BUSYNESS

–        Premiate i risultati

Pagare le persone per lo sforzo e non per i risultati, le spinge a incrementare lo sforzo ma non la produttività. Una ricerca ha dimostrato che quando le persone impegnate in un’attività collaborativa si differenziano solo per le abilità naturali e vengono pagate sulla base del tempo profuso, finiscono per lavorare più a lungo ma meno intensamente, ottenendo meno risultati. In parte perché percepiscono una sorta di ingiustizia in un incentivo economico uguale per tutti.

Risultati simili si sono avuti con uno studio condotto nelle professioni legali. La tendenza degli studi legali a promuovere gli associati che hanno il maggior numero di ore fatturabili porta a una mentalità improntata alla competizione sfrenata e fa sì che gli avvocati lavorini troppe ore e siano inefficienti.

Per incentivare la produttività, una retribuzione più legata ai risultati può essere utile purchè non sia il solo indicatore preso in considerazione. Inseguire le ricompense può portare a superlavoro e burnout parimenti a considerare solo lo sforzo profuso slegato dai risultati.

Un mix fra i due è utile sia per incoraggiare l’innovazione e l’assunzione di rischi, sia per massimizzare la produttività. Così da trasmettere il messaggio che non si dà valore solo alla busyness.

–        Qualità del lavoro

Spesso ciò di cui vengono sovraccaricati i dipendenti sono attività che poco li coinvolgono, cosi da costringerli al multitasking, pur sapendo che il multitasking riduce la produttività fino al 40%.

Utile potrebbe essere chiedere alle persone di valutare le attività che svolgono su una scala da 1 a 5, indicando quanto la ritengono impegnativa dal punto di vista cognitivo. Così da poter eliminare le attività superficiali o demandarle.

  • Spingete le persone a prendersi una pausa

C’è la paura, in molti manager, che se ai dipendenti fossero date ferie illimitate questi ne approfitterebbero. Eppure, sono molti coloro che non esauriscono i giorni di vacanza retribuita annualmente e altrettanti lavorano anche quando sono in ferie.

Gli studi mostrano come la maggior parte dei dipendenti controlla la posta aziendale quando non è in ufficio, tant’è che questo ha spinto governi come Francia, Spagna e Portogallo ad approvare leggi che impongono alle organizzazioni di consentire ai lavoratori di disconnettersi fuori dall’orario di lavoro.

Nel 2014 la casa automobilistica tedesca Daimler (ora Mercedes Benz) ha consentito di utilizzare, quando erano fuori ufficio, un programma di posta elettronica che cancellava automaticamente le email in entrata e informava i mittenti che le loro mail erano state cancellate e che in caso di emergenza chi si poteva contattare.

  • Manager, date l’esempio!

Per incentivare il benessere a scapito del busyness dare il giusto esempio è sicuramente una delle strategie più efficaci. Se arriva dal vertice!

  • Allentare il tiro

Sebbene assumere più risorse è, a ragione, una scelta poco vantaggiosa sull’immediato, è in realtà una buona strategia soprattutto quando si tratta di gestire una crisi e si cerca di mantenere gestibile il carico di lavoro quotidiano nel tempo. Banale, ma come tutte le cose all’apparenza banali, sottovalutate. Accrescere le risorse è un costo ma non lo è meno perdere talenti.

In conclusione, attenzione a non confondere l’attività con i risultati. Non necessariamente chi è molto occupato è anche parimenti produttivo. Premiare chi si ferma fino a tardi, più di chi in un minor numero di ore porta maggiori risultati, accresce il rischio di creare un ambiente tossico dove non tutti vogliono lavorare o rimanere. In parte, le nuove generazioni ce lo stanno già dicendo, magari non nel modo che ci piace sentire e forse un po’ estremizzato. Ma rivedere collaudate abitudini, potrebbe prevenire impatti che oggi neanche riusciamo a immaginare. O forse sì, ma ci rifiutiamo di farlo.

NON ASPETTARE Godot. CERCALO. Se fosse la capacità di attendere a dirci chi (non) siamo?

Non so se ci avete mai fatto caso, ma…

… siamo in costante attesa.

Di qualcosa. Qualcuno.

Aspettiamo per vivere, aspettiamo per morire. Aspettiamo in fila per comprare la più inutile delle cose. Aspettiamo in fila per il bancomat. E se non disponiamo di abbastanza denaro aspettiamo in file più lunghe. Aspettiamo per dormire e poi per svegliarci. Aspettiamo per sposarci e poi aspettiamo per divorziare. Aspettiamo la pioggia, e qualche sopravvissuto al romanticismo aspetta l’arcobaleno, tutti gli altri il sole. Aspettiamo l’ora del pranzo e poi della cena. Aspettiamo l’ennesimo treno insieme a un gregge di altri avventori, distratti e un po’ tristi, correndo dietro alla vita che però non ha fermate.

… aspettiamo per tutta la vita.

Quasi la vita si esprimesse nelle attese. E nonostante questo perpetuo esercizio, sono in pochi a saper trarre il meglio dall’ozio forzato. Io, non ci sono mai riuscita.

Probabilmente se da piccola mi avessero sottoposto al test dei marshmallow sarei inciampata miserevolmente.

DOLCI ATTESE, MICA TANTO

Verso la fine degli anni ’60 lo psicologo Walter Mischel docente a Stanford, mise a frutto uno degli esperimenti più famosi di sempre, con l’obiettivo di testare l’autocontrollo nei bambini.

È il test del marshmallow (o della gratificazione differita), che valuta la capacità di resistere a una tentazione per riceverne una più grande in un secondo momento.

Un bambino tra i tre e i sei anni riceve un dolcetto e deve resistere per 15 minuti senza mangiarlo. Se si trattiene riceverà un secondo biscotto.

Per superare il test i bambini, che rimangono da soli nella stanza, si sono inventati le strategie più disparate. C’è chi allontana il dolce, chi si gira dall’altra parte e chi trova qualcosa di divertente da fare per far passare gli interminabili minuti, come cantare una canzone.

Nei risultati ottenuti da Mischel, il comportamento durante il test sembra poterci darci un’idea di che tipo di adulti diventeranno i bambini.

Secondo studi più recenti, negli ormai adulti partecipanti, le capacità di svolgere un test di tipo go/no go (premere più rapidamente e accuratamente possibile un bottone di fronte a un colore ed evitare di farlo di fronte a un altro) era consistente con l’autocontrollo mostrato da bambini, sia dopo 10 che dopo 40 anni. Chi aveva atteso il secondo dolce da piccolo se la cavava meglio con il test una volta adulto.

E che dire dei bambini non interessati al cibo, quelli che a un dessert avrebbero preferito un gioco? Il test è stato adattato anche in questo senso, ha detto Mischel in un’intervista al The Atlantic, perché si tratta di capire cosa influenza un bambino quando fa la sua scelta e condurlo usando delle chip da poker al posto dei dolcetti ha portato ai medesimi risultati.

La personalità non è scolpita nella pietra – ha sottolineato Mischel – e non si può comunque pensare che il futuro di una persona stia tutto in un marshmallow”.

Eppure l’autocontrollo si può allenare come un muscolo, sfruttando tecniche come quella del se-allora. Imporsi di non esagerare con i dolci è generico, lo è meno formulare qualcosa come “se mi verrà voglia di un altro pezzo di torta, allora mangerò un frutto”.

Per Mischel la prima distinzione sta in quale regione del cervello si fa carico del test: se è il sistema limbico a prevalere sarà la gratificazione immediata, più fredda invece la risposta se entra in gioco la corteccia prefrontale.

Il test ha anche mostrato grosse differenze in base alla provenienza dei bambini: un confronto tra i bambini tedeschi e un gruppo di bambini dell’etnia Nso, in Camerun, ha mostrato che solo il 30% dei primi riusciva a resistere fino all’arrivo del secondo dolce. Nei secondi si arrivava al 70%: i bambini restavano seduti e alcuni si sono appisolati nell’attesa. Le mamme Nso dicono ai loro figli che non vogliono che piangano e che fin da piccoli si aspettano siano in grado di controllare le proprie emozioni, hanno spiegato gli autori del paper.

Questo potrebbe essere uno dei motivi, ma non l’unico. Secondo la neuroscienziata Celeste Kidd anche l’ambiente nel quale cresce un bambino può influenzare come si comporterà. Se vive in un contesto di incertezze e non si aspetta che le promesse, seppur fatte da un adulto, verranno mantenute, potrebbe decidere che aspettare il secondo dolce è troppo rischioso. E se non arrivasse mai? È possibile che quello che il marshmallow test misura non sia la capacità di autocontrollo ma la fiducia nell’autorità; quando i bambini hanno la certezza che il secondo dolce arriverà, attendono anche quattro volte più a lungo.

EFFETTO LAST NAME

Questo test mi ha sempre incuriosito, forse perchè non potendo più sottopormici, ho idealizzato l’esperimento ingrandendone le aspettative. Ciò che però mi è difficile credere è il fatto che la capacità di attendere sia allenabile. Le volte che provo a migliorare le mie performance in tal senso ne esco emotivamente distrutta, vittima di forte malumore e nervosismo.

Al contempo, non posso ignorare l’effetto last name: un bias che evidenzia quanto il nostro cognome possa influenzare i nostri comportamenti. Secondo gli studiosi, le persone che hanno un cognome che inizia con le lettere dell’alfabeto dalla R alla Z sono più propense ad afferrare un’opportunità al volo rispetto a coloro il cui cognome inizia con una lettera compresa fra A e I.

A spiegare tale teoria ci starebbe il fatto che durante l’infanzia i bambini con un cognome che inizia con le ultime lettere dell’alfabeto hanno sempre dovuto aspettare. Dall’asilo alla scuola superiore, la vita è spesso regolata dall’appello e dall’ordine alfabetico. Così, da adulti, quando una persona il cui cognome inizia con lettere dalla R in poi ha la possibilità di esercitare il controllo, vorrà finalmente essere fra le prime a cogliere una nuova opportunità. In pratica, si viene a creare una sorta di condizionamento ad agire rapidamente quanto si presenta l’opportunità.

Non tutto il male viene per nuocere. Ecco quindi che pur non sapendo aspettare, ho imparato a sfruttare ciò che accade a mio vantaggio.

Mentre sfoglio non poche ricerche che dicono cose simili, dissimili e contrarie, esercitando la mia pazienza certosina nel leggere l’impossibile, ma è sempre meglio che attendere con le mani in mano, sono consapevole del fatto che non sono l’unica a combattere l’impossibile battaglia dell’attesa. E da loro traggo aspirazione…

Per Kafka la vita era “un’attesa prima della nascita”, Beckett l’ha trasformata in un libro Aspettando Godot.

Michelangelo la considerava come “il futuro che si presenta a mani vuote”.

Simone Weil definiva l’attesa “il mendicante di Dio”. “La culla dondola sopra un abisso” scrisse Nabokov: a chi aspetta viene sempre in qualche modo ricordato questo abisso.

“La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”, scrive Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso.

Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile“, scriveva Pavese, non a caso ne Il mestiere di vivere.

Bukowski “Aspettavi nello studio di uno strizzacervelli con una masnada di psicopatici e ti chiedevi se lo fossi anche tu”.

Nel mondo dei folli, l’attesa non ha orologio, mi ritrovo a pensare mentre l’attesa è giunta a capolinea.

Quanto tempo è per sempre?” chiede Alice.

Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”.

E quanto tempo è un secondo?”;

Quando ami, un’eternità”.

LE RIUNIONI, quelle UTILI e che LE PERSONE AMANO (davvero)

A: sono esausto

B: cosa hai fatto oggi per essere tanto stanco?

A: sono stato in riunione tutto il giorno

B: Sì, ma cosa hai fatto?

A (esasperato): Te l’ho appena detto, sono stato in riunione tutto il giorno!

B: E io ti ho chiesto: cosa hai fatto?!

 

Questo è uno stralcio di conversazione avuta con un cliente. Gli ci è voluto un momento per capire dove volevo arrivare, stanco e frustrato per le ore di riunione che ha dovuto sostenere perché per lui, il lavoro, è ciò che accade tra una riunione e l’altra.

Nel peggiore dei casi, le riunioni sono simili a brevi prigionie che costringono a contare i minuti/ore che mancano al rilascio. Per fortuna, ci sono anche incontri utili, produttivi e divertenti.

Nel mio lavoro, ho trovato tre tipi di riunioni che vale la pena elencare.

 

I meeting a colazione

Il successo è legato alla capacità del team di condividere informazioni, e capire le giuste connessioni fra persone ed eventi. È utile, questa tipologia di incontri, per porre domande difficili e offrire feedback schietti e diretti. Oltre al fatto che incontrarsi fuori ufficio alimenta lo spirito di gruppo, il cameratismo, che va oltre il tempo del breakfast e fa sembrare le informazioni più preziose.

 

La mischia

L’ Economist ha  pubblicato un resoconto degli incontri editoriali del lunedì mattina in cui vengono presentate le storie, viene pianificata la copertina e discussa la posizione del settimanale sugli eventi globali.

Ciò che rende le riunioni dell’Economist così produttive è la loro natura egualitaria. Grado e ruolo viene messo da parte e tutti sono incoraggiati a contribuire.

“L’intero giornale si riunisce e chiunque, dallo stagista all’editor più anziano, può proporre e scrivere un articolo. Ciò che conta non è l’anzianità di un collaboratore, ma la forza e la qualità delle sue argomentazioni”.

Immagina se altre organizzazioni seguissero questa pratica. Il coinvolgimento aumenterebbe perché investirebbero nella discussione. I pregiudizi potrebbero essere mitigati e le opinioni divergenti palesate e dibattute. Le persone avrebbero la possibilità di affinare il loro pensiero critico e la capacità di argomentazione costruttiva. La qualità delle decisioni migliorerebbe.

 

Il focus

Ogni mattina dal 12 settembre 2001, le persone interessate alla sicurezza e alla protezione all’aeroporto internazionale di Boston Logan si incontrano per condividere informazioni sui probabili eventi della giornata. Scossi dagli attacchi dell’11 settembre, i funzionari hanno deciso che ottimizzare la collaborazione e il coordinamento tra le varie agenzie e società afferenti all’aeroporto, fosse fondamentale per migliorare la sicurezza. A differenza della maggior parte di tante nobili iniziative, questa dura sette giorni alla settimana da allora. Non è un incontro obbligatorio. Le persone continuano a partecipare perché lo trovano prezioso e utile.

L’incontro è incentrato su tutto ciò che potrebbe avere un impatto sull’aeroporto quel giorno o nell’immediato futuro: il ritorno a casa di una squadra sportiva, un temporale, i lavori in corso o un allarme dell’intelligence.  Tutto ciò che è rilevante per il gruppo è il benvenuto. Anche “oggi niente” è un contributo accettabile, e riduce al minimo la tentazione di riempire il tempo in modo infruttuoso. L’incontro dura non un minuto in meno o più del necessario, ma mai più di un’ora.

È un modo efficiente per connettersi, condividere, ricevere informazioni e porre domande. L’incontro è una componente chiave della costruzione di una cultura duratura in cui la collaborazione e il coordinamento attraverso i confini organizzativi sono la norma, eliminando la rete di canali secondari che può portare a lacune informative e incomprensioni.

 

4 CONSIGLI PER MIGLIORARE LE RIUNIONI AL LAVORO

Sebbene questi tre tipi di incontri siano molto diversi fra loro, ci sono alcuni concetti essenziali di facile applicazione.

  • Coinvolgi le giuste persone

Invita solo le persone utili. Sii chiaro sullo scopo, il formato, le decisioni necessarie da prendere e il risultato desiderato. Crea e definisci norme sociali che si allineino con quei parametri. Sii puntuale e mantieni la rotta.

 

  • Stabilisci le tempistiche

Le informazioni pertinenti devono fluire alle persone giuste al momento giusto. Le riunioni utili riducono al minimo le speculazioni e migliorano la coesione del gruppo.

 

  • Non tutto è per tutti

Non mettere tutte o tante persone in una stanza se è più utile agire per piccoli gruppi. Cerca di capire quando e che tipo di informazioni vanno condivise e come, e quale modo è più efficace.

 

  • Conosci il ROI

Anche le riunioni hanno dei costi. Calcola l’equivalente di stipendio approssimativo per le ore in cui le persone sono presenti e stima il ritorno su tale investimento, per ciascun partecipante. Qual è il contributo di ogni persona e cosa riceve in cambio? Qual è il ritorno per l’organizzazione? Un modo per scoprire se le persone ritengono che un incontro valga la pena è renderlo facoltativo e vedere chi si presenta.

Le riunioni scandiscono il ritmo della nostra vita organizzativa; in alcuni casi, sembrano essere fine a sé stesse. Ma gli incontri sopra descritti sono un utile investimento di tempo, talento ed energia. I partecipanti ricevono e danno valore. È così che crei incontri che le persone abbracciano con entusiasmo.

BIKESHEDDING: la TENDENZA a CONCENTRARSI su cose BANALI (a scapito di quelle IMPORTANTI)

Di fronte a due decisioni, una importante e una irrilevante, abbiamo la tendenza a dare la precedenza a quella banale credendo che ci vorrà meno tempo a processarla.

Sbagliando…

BIKESHEDDING

La tendenza a dedicare troppo tempo a questioni banali, spesso sorvolando su quelle importanti, ha un nome insolito: bikeshedding.

Il bikeshedding ci rende miopi nella allocazione del tempo, portandoci a dedicarci prima ai compiti semplici pensando che ci vorrà meno tempo per espletarli.

Se l’odg di una riunione include decidere se aprire a nuovo mercato oltreoceano e l’acquisto di nuove scrivanie, la tendenza è spesso quella di dedicarsi prima agli arredi, poiché ritenuta una decisione più semplice e veloce ma così facendo quando si arriva a analizzare i dati per una eventuale espansione si avrà a malapena il tempo sufficiente per aprire il confronto.

PERCHE’ SUCCEDE

A spiegarlo è lo storico navale Cyril Northcote Parkinson:

La quantità di tempo trascorso a discutere un problema, in una organizzazione, è inversamente correlata alla sua effettiva importanza nello schema delle cose”.

Ciò significa che meno un problema è importante, più tempo viene dedicato ad esso. O per dirla in un altro modo, se assegni un’ora a un compito che richiede solo 30 minuti, psicologicamente, il compito finisce per acquisire la complessità di un compito della durata di un’ora.

Per illustrare l’assunto, lo storico chiese di immaginare una riunione del comitato finanziario con un ordine del giorno in tre punti:

  1. Una proposta per una centrale nucleare da 10 milioni di sterline
  2. Una proposta per un capanno per biciclette da £ 350
  3. Una proposta per un budget annuale di £ 21 per il caffè

Cosa accadde?

Il comitato finì per esaminare il primo punto in un tempo non sufficiente a prendere una decisione informata. La decisione era, per la maggior parte dei membri, eccessivamente complessa e poco sapevano sull’argomento e chi era preparato, non sapendo come spiegare i dettagli al resto del gruppo, ha finito con il complicare ulteriormente la decisione.

La discussione si sposta così sul secondo punto. Qui, i membri del comitato si sentono più a loro agio nell’esprimere opinioni. Sanno tutti cos’è un capanno per biciclette e che aspetto ha. Molti avviano così un dibattito sul miglior materiale possibile da utilizzarsi, valutando le opzioni che potrebbero consentire risparmi modesti. E finiscono con il discutere del capanno delle biciclette molto più a lungo della centrale nucleare.

Infine, la commissione passa al punto tre: il budget del caffè. Improvvisamente, tutti sono esperti. Prima che qualcuno si renda conto di cosa sta succedendo, trascorrono più tempo a discutere del budget di £ 21 per il caffè rispetto alla centrale nucleare e al capanno delle biciclette messi insieme! Alla fine, terminando il tempo a disposizione, il comitato decise di riunirsi di nuovo per completare la analisi. Tutti se ne andarono soddisfatti, avendo contribuito alla conversazione.

LA SFERA DI COMPETENZA

Parlare di biciclette è semplice, tutti hanno un’opinione al riguardo e quindi più cose da dire. Quando qualcosa è al di fuori della nostra sfera di competenza, come una centrale nucleare, non proviamo nemmeno ad articolare un’opinione. Ma quando qualcosa è appena comprensibile, anche se non abbiamo nulla di valore da aggiungere, ci sentiamo obbligati a dire qualcosa per non sembrare stupidi. Chi non ha niente da dire su una rimessa per biciclette? Tutti vogliono dimostrare di conoscere l’argomento in questione.

Qualunque sia la decisione, non dovremmo dare uguale importanza a ogni opinione. Vanno enfatizzati gli input di coloro che hanno esperienza in merito. E se siamo noi a voler intervenire, dovremmo chiederci se ciò che vogliamo dire è davvero utile e prezioso ai fini della decisione.

STRATEGIE ANTI-BIKESHEDDING

Avere uno scopo e un obiettivo chiaro impedisce di cadere vittime del bikeshedding.

La specificità è un ingrediente cruciale. Così facendo sarà facile rendersi conto che non è una grande idea discutere la costruzione di una centrale nucleare e di un capanno per biciclette nella stessa riunione. Non c’è abbastanza specificità.

Le opinioni più informate sono le più rilevanti. Questo è uno dei motivi per cui non è strategico invitare alle riunioni un numero eccessivo di persone presenti, se non portano valore aggiunto alla discussione. Tutti vogliono partecipare, ma non tutti hanno qualcosa di significativo da contribuire. Evita di invitare coloro che difficilmente hanno conoscenze ed esperienza pertinenti. Ottenere il risultato desiderato, una discussione ponderata e informata sulla centrale elettrica, dipende dall’avere le persone giuste nella stanza.

Utile è organizzare riunioni specifiche per tipologia di decisione da prendere. Se un problema complesso viene portato in una riunione con un lungo ordine del giorno, può perdersi tra questioni banali. Se è l’unico punto all’odg,  sarà difficile evitare di parlarne.

Esempio – Zoom come soluzione

A causa del COVID-19, le riunioni Zoom sono diventate la nuova normalità e potrebbero essere di supporto nel contrastare il bikeshedding.

Zoom versione base infatti consente riunioni gratis di 45 minuti: questo è un antidoto perfetto. Sapere che si ha solo 45 minuti per la riunione può aiutarci a rimanere concentrati sulle questioni importanti. Zoom ci dà anche promemoria di quanto tempo è rimasto, il che significa che se la discussione è andata fuori strada, questi promemoria possono aiutare a riportare il gruppo sulla questione importante.

Riepilogo

Il bikeshedding descrive la nostra tendenza a passare troppo tempo a discutere di questioni banali e, di conseguenza, troppo poco tempo a discutere di questioni importanti. Descrive la relazione inversa tra il tempo trascorso e l’importanza di un problema.

Si verifica perché è molto più facile discutere questioni semplici che comprendiamo adeguatamente. Nei contesti di gruppo, spesso cerchiamo di esprimere le nostre opinioni come un segno di partecipazione e abbiamo maggiori probabilità di parlare di un problema relativamente semplice perché è scoraggiante discutere di un argomento complicato, anche se è più importante.

Il bikeshedding può essere evitato cercando di rimanere in tema. Per rimanere concentrati su questioni importanti, possiamo optare per riunioni con un unico punto all’odg; questo rende meno probabile che si vada fuori strada, o ancora, assegnare una persona specifica che tenga conto del tempo a disposizione. Un altro modo è limitare la partecipazione alla riunione alle persone strettamente necessarie.

 

Fonti
  1. https://effectiviology.com/bikeshedding-law-of-triviality/
  2. https://www.lifehack.org/articles/featured/how-to-use-parkinsons-law-to-your-advantage.html
  3. https://fs.blog/2020/04/bikeshed-effect/
  4. https://www.safaribooksonline.com/library/view/perspectives-on-data/9780128042618/
  5. Schachter, H. (2020, July 18). Explaining ‘bikeshedding’: When trivial things waste meeting time: Bikeshedding, or the law of triviality, can often eat up precious minutes in meetings as attendees get caught up with trivial topics. The Globe and Mail

L’IMPAZIENZA NON PAGA. PIU’ CERCHI di SBRIGARTI, MENO TEMPO RISPARMI

In auto, costretto nel traffico, Jonathan Boreyko, un ingegnere americano, nota che ai semafori rossi e agli stop, gli automobilisti tendono a fermarsi in estrema prossimità del veicolo che li precede. Motivo: pensano di avere più probabilità di attraversare l’incrocio prima che scatti nuovamente il rosso, di arrivare a destino in tempi ridotti, anche se così aumenta sensibilmente il rischio di tamponamento.

Convinzione errata.

Ricreando la scena del semaforo su una pista di prova Boreyko, ha scoperto che gli automobilisti che si attaccavano al paraurti del veicolo davanti al loro, non procedevano più rapidamente. Pur essendo appena più vicini al semaforo, in realtà impiegavano più tempo a ripartire e i due fattori di fatto, si annullavano a vicenda. In altri termini: più cerchi di sbrigarti, meno tempo risparmi. E più il rischio di incidenti si alza.

Allo stesso modo degli automobilisti, anche quando si ha a che fare con scrittura e attività creative, gli addendi non cambiano: l’impazienza non paga (quasi mai). Compresa quella delle persone che quando hanno un obiettivo diventano inarrestabili. Anche se all’apparenza pare producano molto di più.

A sostenerlo è lo psicologo Robert Boice. Per lui l’impazienza è una delle principali cause della sofferenza che si prova mentre si scrive. “Quando finisce il tempo che un determinato giorno avete destinato alla scrittura, smettete immediatamente, anche se avete l’ispirazione – si legge in How writers journey to comfort and fluency. – Il bisogno di continuare contiene già una forte componente di impazienza per non aver ancora finito, per non aver prodotto abbastanza, perché forse non si troverà mai più un momento tanto perfetto. Quando si stabilisce un orario per scrivere, è fondamentale rispettarne l’inizio e la fine, sempre”.

Affrettarsi a finire qualcosa ha un costo che bilancia o supera i benefici: si rischia di metterci più tempo, farlo peggio, essere più stanchi, o danneggiare ciò che già è stato fatto. Smettete quando il tempo scade e imparerete l’autodisciplina, continuate e asseconderete la vostra insicurezza.

Inevitabilmente mi tornano in mente gli insegnamenti del prof. Nardone: partire dopo per arrivare prima. La spontaneità, qualcuno potrebbe ribattere, in questo modo viene meno. “Ciò che viene definita spontaneità altro non è che una serie di apprendimenti divenuti acquisizioni”.