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C’E’ IL PECCATO E C’E’ IL PERDONO. NON C’E’ NIENT’ALTRO. PANICO – L’ULTIMA CICATRICE DI ELLROY

Credo sia la maestria crudele, la capacità di raccontare il reale senza fronzoli, e proporre argomenti feroci a legarmi a scrittori quali Ellroy, Roth e Amis.

E Panico, l’ultima fatica di James Ellroy, non è da meno: ex tossico, ex alcolista, ex topo di appartamento ossessionato dalla morte della madre, assassinata quando lui aveva dieci anni, nel 1958. Tutto per il romanziere è fermo a quel giorno: tutte le vittime sono sua madre, l’America degli anni ‘50 è la scena del delitto.

Ho trascorso ventotto anni in questo buco infernale. Ora mi dicono che scrivendo le memorie delle mie disavventure potrei uscirne”.

A parlare è Freddy Otash, poliziotto corrotto, poi investigatore privato esperto in estorsione, che tiene in pugno mezza Hollywood. Freddy è un uomo morto. Morto nel ’92.

Faccio di tutto tranne l’omicidio. Lavoro per chiunque tranne i comunisti.”

Ellroy non è diverso da Philip Roth, capace di sbattere in faccia tragedia e speranza, attesa e dolore. Orrore e mostruosità. Niente di meno di ciò che accade, parole non edulcorate, non tramutate, non castigate per qualche pseudo sorta di moralismo o ignoranza. Non sopra o sotto, ma dentro la storia è dove Roth, parola dopo parola, conduce. Un orizzonte ristretto e dove paura e dramma dei protagonisti si fa cronaca semplice e diretta.

Ellroy non ha pc, non ha internet e neppure un cellulare e racconta i suoi personaggi con una vecchia macchina da scrivere: killer mafiosi, poliziotti corrotti, squillo, agenti della CIA, trafficanti di tutto. Ogni personaggio ha uno scopo preciso. Molti ritornano in un tempo che si perde fra il prima e il dopo. Se si ha pazienza di aspettare. E labile si fa il confine fra realtà e fantasia. Ed Ellroy ben sa che la gente è avida di notizie, segreti e vizi di politici, star del cinema, poliziotti e giornalisti.

L’America non è mai stata innocente

Otash spia, ricatta e spiffera tutto a Confidential. Nel tritacarne finiscono tra gli altri John Kennedy, Marlon Brando, Rock Hudson, James Dean.

C’è il Peccato e il Perdono. Non c’è nient’altro”,

è una delle mille frasi da ricordare.

Leggere Ellroy è complesso, faticoso: ritmo vertiginoso, frasi brevissime, molti punti, qualche virgola, innumerevoli personaggi che entrano ed escono dalla storia. Ancor più quest’ultima cicatrice, molto distante dal resto dei suoi libri, per lingua – oscena e tagliente, ma più colta, ricca di allitterazioni – e per ironia. E’ un viaggio nel purgatorio, dove il protagonista è un peccatore alla ricerca di redenzione.

E poi arriva il mio preferito Martin Amis, bocca alla Mick Jagger e fascino da vendere e l’inarrivabile incipit de L’informazione:

Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere”.

Panico non si dimentica. Anche se lo si capisce e accetta solo per metà. Come l’Informazione o Nemesi o il teatro di Sabbath. Forse è anche questo che unisce i tre scrittori.

«Sono cresciuto ignorato e inquieto. E ho sempre desiderato che la gente mi guardasse. Dopo la morte di mia madre attiravo l’attenzione degli amici ebrei gridando “Heil Hitler”: pura provocazione. Poi ho capito che sapevo far bene solo due cose nella vita: scrivere e parlare in pubblico. Far ridere, piangere, sospirare. Per iscritto o a parole. E allora vai! Ho sognato di diventare uno scrittore famoso da quando avevo otto anni. Perché leggere era ciò che amavo di più: mi consentiva di evadere da quell’infanzia di merda. Genitori che si odiavano, la casetta lercia di una madre alcolizzata, i weekend con un padre smidollato. Perfino quando dormivo in strada divoravo i libri della biblioteca pubblica. Ho smesso di bere e inghiottire anfetamine anche per quella fissa di scrivere. Per svettare. Per dare ad altri la possibilità di sfuggire alla realtà. Con libri che non finiscono mai”.

Gli occhi feroci e la parlata sciolta è quella di Ellroy, capace di esprimere tutte le emozioni possibili tranne il sorriso.

 

Le FATE NON esistono SE i BAMBINI NON battono le MANI

Era il 1999, avevo 18 anni, e quando mio nonno mi chiese quale regalo volessi per il compleanno risposi I versetti satanici di Salman Rushdie. Pur essendo un fervente e onnivoro lettore, mi guardò stranito. Per i miei “primi” 18 anni sicuramente si era aspettato qualcosa di più impegnativo, almeno economicamente.

E’ stata un’intervista di Antonio Monda su La Stampa allo scrittore indiano, a farmi tornare alla mente quell’episodio.

Irriverente, ma coraggioso, mi stimolava l’idea di leggere un libro censurato e di un autore che oltre alla condanna a morte decretata da Khomeyni, anche diversi traduttori avessero rischiato la vita (il traduttore italiano e quello svedese vennero feriti e il traduttore giapponese venne ucciso l’11 luglio 1991) per aver avuto a che fare con questa storia.

“Un uomo che decide di inventare se stesso, si assume il ruolo del Creatore, almeno secondo un certo modo di vedere le cose: è uno snaturato, un bestemmiatore, un abominio tra gli abomini. Da un altro punto di vista, potreste vedere pathos nella sua persona, eroismo nella sua lotta, nella sua disponibilità a rischiare: non tutti i mutanti sopravvivono. […] Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta”.

Ricordo lo smarrimento dopo aver divorato le 500 pagine del libro e la magia sognante di una storia di cui non si capisce il senso fino a quando una voce non ti illumina all’improvviso dall’alto e ti dice: Per rinascere si deve prima morire.

Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta. Di recitare ancora la parte di Dio, potreste dire. Ma potreste anche scendere qualche gradino e pensare a Tinker Bell: le fate non esistono se i bambini non battono le mani. O potreste semplicemente dire: significa proprio questo essere un uomo. Non è solo il bisogno di esser creduti, ma quello di credere in un altro.

Rushdie mi aveva conquistata. Una storia dove uomini comuni precipitano da 6000 metri senza conseguenza alcuna, dove uomini comuni acquistano come per magia un’aureola luminosa o due corna da capra, dove uomini comuni scelgono di vivere una vita lontano dalla loro patria e si fanno sedurre dalle luci dell’Occidente, dove uomini comuni cercano un’integrazione in una cultura diversa dalla loro. Quello che mi ha insegnato Rushdie, è che ogni persona può sbagliare e avere debolezze, che la lotta tra il Bene e il Male è e sarà sempre parte importante della nostra vita, che l’Amore (per se stessi, per gli altri), è l’unico segreto da conoscere.

Mentre scorro l’articolo, le parole di Rushie, continuano a farmi riflettere: “Cos’è la libertà di espressione? Senza la libertà di offendere cessa di esistere”.

RACCONTI STORIE o COSTRUISCI RACCONTI?

Tutti raccontiamo storie, attraverso i post, i video, le foto, i blog, i profili, le canzoni…

Raccontiamo storie, ma il raccontare storie non è fare storytelling.
Proprio così. Fare storytelling non vuol dire raccontare storie ma costruire racconti.

La storia è una cronologia, il racconto invece è una rappresentazione. Fare storytelling significa creare rappresentazioni testuali, visive, percettive, scegliendo gli strumenti giusti con cui porgere al pubblico giusto un racconto che a quel punto diventa la tua rappresentazione specifica”. A dirlo il più rilevante esperto di Corporate Storytelling in Italia, Andrea Fontana.

In altri termini… una cosa è raccontare la storia cronologica di Apple, un’altra è il racconto di Apple, che è fatto dal mito di Steve Jobs, dal comportamento dei suo manager, dalla estetica dei suoi store e dei suoi prodotti e le modalità di rappresentazione che come azienda decide di avere per raccontarsi.

Per diventare very Storyteller occorre essere strateghi del racconto. Non si racconta a caso, è tutto estremamente curato. Uno stratega cerca di capire chi è il suo lettore, che mercato frequenta, di cosa ha bisogno. Nel costruire un racconto c’è ispirazione e creatività, ma non senza tecnica e sistema.

Occorre possedere lo script-writing narrativo. Che non consiste nella semplice abilità a scrivere. Scrivere in modo narrativo è la capacità di creare mondi di senso e di destino. Occorrono competenze visive e di costruzione di immaginari visuali.

E per finire occorre il design di esperienze narrative. Quando ho costruito un racconto devo curarmi anche di come gli altri vivranno il racconto. Se non sai fare questo, non sai nemmeno costruire un libro, un video, una storia…. Non solo non sai come costruirla, ma neanche come gli utenti la vivranno. In altre parole: sei tu che prepari le “regole del gioco” del (tuo) racconto che l’altro dovrà poi vivere.

Ricapitolando ecco le 3 qualità di un bravo storyteller:

  1. Ordine strategico: bisogna scegliere bene a chi raccontare cosa. La selezione del proprio target è fondamentale per avere uno storytelling efficace. Andare a caso, lasciare spazio solo alle emozioni, non paga.
  2. Saper scrivere e sapere ciò di cui si scrive: saper scrivere narrativamente è più difficile di quello che sembra. Non si improvvisa e richiede anni di pratica e studio.
  3. Aver chiaro come il cliente vivrà il racconto: l’user experience è essenziale e un bravo storyteller si domanda come gli altri vivranno il suo racconto e ne tiene conto.

L’errore che un bravo storyteller sa assolutamente evitare? Raccontarsi in modo eccessivo. Può sembrare un paradosso, ma bisogna raccontare la storia degli altri, non la propria. Quella in cui vi riconoscono e si riconoscono.

Il CONGIUNTIVO non è una MALATTIA…

Il primo di cui mi è data memoria è Fantozzi con “vadi contessa, vadi”, poi sono arrivati attraverso tweet e meme, claudicanti dichiarazioni pubbliche, fitte di indicativi fuori luogo. Il più recente è Di Maio “mi impegno a far votare in Parlamento a tutto il gruppo parlamentare che rappresento, una legge che dimezza (dimezzi) le indennità dei parlamentari e introduce (introduca) la rendicontazione puntuale dei rimborsi spesa (spese)”. Passando da Conte, Renzi e Zingaretti.

Insomma, cambiano i tempi, ma il congiuntivo continua a mietere vittime. Da un lato è tocco di raffinatezza, capitale culturale. Dall’altro è una trappola sempre pronta a colpire: sbagliandolo non si fa certo bella figura.

CONGIUNTIVO VS CONGIUNTIVITE

Chi non è avvezzo ad usarlo correttamente, si rifugia nell’ipercorrezione: l’estensione del congiuntivo a contesti in cui l’indicativo sarebbe dichiaratamente più naturale. Sono i casi che alcuni opinionisti, come Beppe Severgnini, chiamano “congiuntivite”.

Nel frattempo, chi il congiuntivo lo destreggia bene, ha visto svilupparsi una forma di irritazione verso l’interlocutore sgrammaticato con il risultato di fomentare polemiche e conflitti con chi, comunque, della propria congiuntivite verbale se ne fa vanto.

E’ pur vero che il congiuntivo non è facilissimo da coniugare, l’indicativo invece è prevedibile. Per questo, spinti dal risparmio energetico, la tendenza è quella di usare il secondo al posto del primo. È una spiegazione allettante, ma subdolamente denigratoria, perché implica che l’indicativo sia una sorta di congiuntivo for dummies, un surrogato che consente di esprimere la stessa idea con meno sforzo.

INDICATIVO VS CONGIUNTIVO

Peccato che i due modi non siano assolutamente interscambiabili. Alda Mari, ricercatrice italiana del CNRS a Parigi, suggerisce che c’è una sottile, cruciale differenza tra di loro: l’indicativo serve a esprimere una propria convinzione personale; il congiuntivo suggerisce invece che ci sia una verità oggettiva, e che chi parla si stia impegnando a ricercarla. Questo, secondo Mari, ci permette di imprimere diverse sfumature ai nostri messaggi, insulti compresi. Dire “credo che tu sei un cretino”, è meno offensivo del “credo che tu sia un cretino”: nel primo caso è pura opinione emotiva; nel secondo ha il sapore agghiacciante di un giudizio supportato da alacre ricerca empirica.

IL CONGIUNTIVO E’ UNA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTA’

In sostanza: trattare l’indicativo come surrogato del congiuntivo non è solo un torto nei confronti dell’indicativo. È anche una rappresentazione errata di ciò che succede nella lingua, la cui grammatica mette a nostra disposizione sofisticate risorse per comunicare, che noi possiamo modulare in base ai nostri scopi. Anche decidendo quale modo verbale usare.

Probabilmente nell’epoca del “chi l’ha detto” e del ribaltamento fra conoscere e ignorare, dove “saper parlare in pubblico”, pur non avendo contenuti o passandoli per tali e sbagliando i tempi verbali è considerato “cool”, qualcuno potrà non essere d’accordo. Purtroppo per lui, il congiuntivo non sta sparendo e prima o poi tornerà utile saperlo usare. In modo corretto.

TUTTO ciò che ABBIAMO REALIZZATO ARRIVA dalla LETTURA


Tutto ciò che apprezziamo nel mondo moderno ha le sue radici nella scrittura. Tutto ciò che abbiamo realizzato è venuto dalla lettura.

Dalla logica di Aristotele, all’astronomia di Keplero, passando attraverso la fisica di Newton, la biologia di Darwin e la filosofia di Kant: nessuno di loro è più in vita eppure, delle loro idee parliamo ancora. Allo stesso modo dei grandi della letteratura: non abbiamo più modo di dibattere con loro, ma i loro pensieri si sono fatti immortali e andiamo a ricercarli di tanto in tanto. Quando abbiamo bisogno di confrontarci con un maestro, un mentore. Un amico.

Senza libri, non saremmo mai sfuggiti ai confini dello spazio e del tempo. Uno dei modi più efficaci per conoscere il mondo è quello di immergersi nella saggezza del passato. Siamo – si dice – come spendiamo il tempo e diventiamo ciò che consumiamo.

NON SEMPRE SAPPIAMO LEGGERE NEL MODO GIUSTO

Spesso ci hanno insegnato a leggere solo per imparare a memoria una certa nozione. Ricordo ancora le tante frasi dei Promessi Sposi che la professoressa di italiano alle Medie ci costringeva a memorizzare. Una tortura sterile e poco utile a sviluppare il senso critico e la capacità di analisi di noi studenti. E così le ore passavano pesanti mentre ripetevo parti di un romanzo che difficilmente potrò mai apprezzare. Insomma quell’insegnante ci insegnava a memorizzare non per farci comprendere, ma per farci recitare e l’unico nostro obiettivo era quello di superare indenni “la recita” di turno. Qualunque cosa al di fuori di quell’obiettivo contava pochissimo per il risultato finale.

Per fortuna l’amore per la lettura (e la scrittura) ha superato questi maltrattamenti e sono andata oltre ma molti da quel metodo cieco, ne sono stati sedotti, e ogni qual volta che avvertono di non riuscire a ricordare o memorizzare tutto ciò che leggono, convinti di star perdendo tempo, si scoraggiano da ulteriori letture. E i libri che hanno comprato rimangono a prendere polvere su qualche tavolino.

LEGGERE SIGNIFICA SCOPRIRE NUOVE PROSPETTIVE

Leggere non significa passare al setaccio ogni parola, ma scoprire nuove prospettive, nuovi punti di vista. E per farlo al meglio occorre chiedersi il motivo per cui si legge… Che tu stia litigando con un classico russo, o una commedia, un volume di psicologia o il diario di un imperatore romano, in ogni caso stai cercando di guardare la realtà da una angolatura diversa. Per scoprire l’ignoto, anche in ciò che già credi di sapere.

Leggere non è solo un hobby, è soprattutto una virtù. Ogni parola, ogni frase e ogni paragrafo scritto bene hanno il potere di insegnare qualcosa. Anche chi sei, se sei pronto ad accettarlo.

RACCONTARE STORIE è una STRATEGIA di SOPRAVVIVENZA

Non sappiamo vivere senza storie.  Di continuo abbiamo bisogno di elaborare racconti, invenzioni e fantasie. E non solo quando siamo svegli. Una sorta di dipendenza che però ha qualcosa di necessario, di biologico, di vitale, di genetico.

Come dimostra Jonathan Gottschall, docente al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura. L’arte di creare storie è un istinto iscritto nei nostri geni. Da Sharazade, che riusciva a sospendere la condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni, alla politica. dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali), la psicoterapia dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita e talvolta anche la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica.

NON AMIAMO LE STORIE A LIETO FINE

Tuttavia l’uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate: Edipo si acceca per l’orrore, Medea uccide i propri figli, i cadaveri che popolano i drammi di Shakespeare, le truculente fiabe dei Grimm… La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d’ogni genere e sul loro superamento finale, ricalcando l’interminabile viaggio dell’eroe che detta la trama di ogni racconto.

Ma perché la paura e l’orrore occupano una parte prevalente? “Perché – sostiene Gottschall – le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale”. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.

VIVIAMO LE STORIE CHE ASCOLTIAMO

“La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie”, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.

Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo. Gli uomini privilegiano l’irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l’inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano.

Insomma… è una strategia di sopravvivenza anche questa. Quella di raccontare storie per sopravvivere…

Una STRANA CORSA VERSO la LIBERTA’

Un uomo trova un dado da gioco, e prendendolo in mano sente la necessità di lanciarlo e di comportarsi in base al risultato. “Se esce il 3 faccio quello che farei comunque, mi lavo i denti e vado a dormire; se esce il 2 faccio ciò che vorrei realmente fare: busso alla mia vicina e se apre la porta, ci vado a letto…”

Un’opzione per ogni faccia del dado. Esce il 2 e l’uomo rallenta, sa di trovarsi di fronte un limite, se lo oltrepassa la sua vita rischia di cambiare… ma in fondo la decisione non è sua, è del dado e così asseconda questo destino un po’ forzato.

Quando torna a casa, qualche ora più tardi, si sente cambiato, un cambiamento percettibile ma inarrestabile. Ha fatto qualcosa che mai avrebbe fatto, si sente più coraggioso e più libero.

UNA DOMANDA, SEI SOLUZIONI

Passa il tempo e l’uomo si affida sempre di più al dado. Una domanda, sei soluzioni: tutto attraversa la coscienza del dado. La scelta del film da vedere, cosa mangiare, chi maltrattare o riverire… All’inizio le opzioni sono prudenti, poi si fanno più audaci e tutto ciò che mai aveva considerato, diventa opzione del gioco. Andare in un luogo in cui non andrebbe mai, provare a sedurre una donna pescata a caso sull’elenco telefonico, entrare in un locale per scambisti, andare a letto con un uomo… Anche con i suoi pazienti usa il dado: lui è uno psichiatra.

I risultati sono spaventosi, la moglie lo lascia, l’ordine dei medici lo espelle perchè incapaci di sostenere questa terapia rivoluzionaria, gli amici lo abbandonano.
Ma l’uomo prosegue in questa strana corsa verso la libertà, l’obiettivo è chiaro: non essere più prigionieri di se stessi, poter agire secondo l’umore e il capriccio del momento. “All’inizio, era come marijuana, piacevole e divertente, poi è diventato come l’acido una roba esaltante ma distruttiva”.

Via via che il racconto procede, la tentazione di ricorrere al dado, l’ho avuta anch’io. Lasciando all’inanimato seduttore di numeri, quello che in realtà affiora alla coscienza, senza portarne la colpa. Dire ciò che si pensa o fare ciò che le convenzioni non ci consentono di fare e poter sorridere tirando il dado, una volta di più.
Poi mi sono chiesta se questa apparente anarchia fosse solo un desiderio inespresso di deporre l’affannoso e crudele arbitrio che non abbiamo. Arrestare l’indicibile elenco di dettami che la vita che ci siamo costruiti, ci ha imposto. Ma chi è il dado? Chi rappresenta? La mia coscienza vulnerabile o il mio inconscio soggiogato che militarmente disarciona il cavaliere? Perdere la guida per perdere la strada.

LA LIBERTA’ CHE IL DADO REGALA A CARO PREZZO

Qualcuno nel tempo è morto per la scelleratezza del dado, altri sono rinsaviti, altri non hanno rotto la dipendenza pur ricorrendoci solo per scelte poco pericolose.
Il dado è un mezzo che regala a caro prezzo un sorso di libertà. Mi viene in mente la Merini, la poetessa che non aveva bisogno del dado per uscire dalle convenzioni. Era la prima a considerarsi folle.

Luke, l’uomo del dado, giorno dopo giorno continua ad affidarsi al fato che il dado sceglie in vece sua. Giocherà il gioco dello psicopatico, del debole, dell’aggressivo, del fanatico, dello stupido, del simpatico, dell’affabile, del romantico… fino a uccidere uno sconosciuto. Non verrà mai scoperto.

THE DICE MAN

Chissà chi ognuno di noi chiederebbe al dado di uccidere al posto nostro? Mi chiedo mentre l’ultima pagina consegna al libro la sua integrità. The dice man, l’uomo dei dadi… Sì, perchè l’uomo dei dadi è un racconto, e come nei racconti migliori, poco importa se ciò che vi è narrato sia accaduto veramente. È l’immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un’utopia negativa, più aperta alla distruzione, che alla creazione.

L’uomo dei dadi è un racconto antropologicamente affascinante, denso di psicologia e filosofia. Dove ad aver l’ultima parola è il diktat supremo: «Chiunque può essere chiunque». Se in Fu Mattia Pascal, c’è un annichilimento dell’identità e una ricerca di pura autenticità seppur nel fallimento, qui c’è un disperato bisogno di (auto)distruzione, è il nichilismo estremo il fondo più fondo di questo libro che si legge a strati. E che molto difficilmente si dimentica.

HANDWRITING IS GOOD FOR YOUR CREATIVITY AND MEMORY

Writing down information and appointments by hand (instead of using the keyboard) helps you to remember concepts and notions better.
In adults, because handwriting is slower than typing, it gives you more time  to reflect; whereas in children, it also facilitates the learning process: allowing them to  not only learn to read quicker, once having learned to write by hand, but also to  make them more capable of generating ideas and of conserving data.
In other words, it is not only what we write that counts, but how we do it.
SUPPORTING EVIDENCE
Several studies support this theory, including the one carried out on children by the psychologist of the University of  Washington, Virginia Berninger. The researcher demonstrated that when children write freehand , they not only produce more words more quickly than they do with a keyboard, but also express more ideas, showing greater fluidity of language and information (and neural activation in the areas associated to the work memory and to the networks of reading and writing of the brain), than similar aged children who do their writing with a keyboard.
THE BENEFITS OF HANDWRITING
The benefits of handwriting extend beyond childhood. Two psychologists, Pam Mueller of Princeton and Daniel Oppenheimer of the University of California, Los Angeles, have found that both under laboratory conditions and in the class, students learn better when taking handwritten notes. “Handwriting  – explain the researchers – allows the student to process the content and reformulate it: a process of reflection and handling that may lead to a better understanding and codification in the mind”
Put more simply writing things down on paper “teaches” us to read better, contributes to reinforcing the areas of the  brain where the shape of the letters is recognised or where the sounds are associated to words.
Further confirmation comes from China, where the “pinyin” transcription system of Chinese on QWERTY keyboards is increasingly used: abandoning the handwritten Chinese characters, diagnoses of dyslexia and other reading difficulties are undergoing continual growth. “Typing a letter does not let you really understand the shape and the possible variations that do not change its meaning, like what does actually happen when you learn to write it by hand”, explains Karin James of the University of Bloomington, in Indiana.
Basically: when writing something by hand or with a digital pen, several more parts of the brain “light up” than when we use the keyboard. And using the pen activates deeper areas of the brain and this has positive effects on both memory and on learning in children and in adults.

Annotare informazioni e appuntamenti a mano (anzichè con la tastiera) aiuta a fissare e memorizzare meglio concetti e nozioni.

Negli adulti la scrittura a mano permette, in quanto più lenta rispetto a quella su tastiera, un tempo di riflessione maggiore; mentre nei bambini facilita anche il percorso di apprendimento: permettendo loro non solo di imparare a leggere più velocemente una volta appresa la scrittura a mano, ma anche di renderli più capaci nel generare idee e conservare dati.
In altre parole, non è solo quello che scriviamo che conta, ma come lo facciamo.

EVIDENZE A SOSTEGNO

A sostegno numerosi studi, fra cui quello condotto, sui bambini, dalla psicologa dell’Università di Washington Virginia Berninger. La ricercatrice ha dimostrato che quando i bambini scrivono a mano libera, non solo producono più parole e più rapidamente di quanto facciano su una tastiera, ma esprimono anche più idee, mostrando maggiore fluidità di linguaggio e informazioni (e di attivazione neurale nelle aree associate alla memoria di lavoro e alle reti di lettura e scrittura del cervello), rispetto ai coetanei che affidano il contenuto dei loro scritti alla tastiera.

I BENEFICI DELLA SCRITTURA A MANO

I benefici della scrittura a mano si estendono oltre l’infanzia. Due psicologi, Pam Mueller di Princeton e Daniel Oppenheimer dell’University of California, Los Angeles, hanno riferito che sia nella condizione di laboratorio sia in classe, gli studenti imparano meglio quando prendono appunti a mano. “La scrittura a mano – spiegano i ricercatori – permette allo studente di elaborare i contenuti e riformularli: un processo di riflessione e di manipolazione che può portare a una migliore comprensione e codifica in memoria”
In parole semplici la scrittura su foglio “insegna” a leggere meglio, contribuisce a rinforzare le aree del cervello dove si riconosce la forma delle lettere o in cui si associano i suoni alle parole.
Conferma ulteriore arriva dalla Cina, dove si utilizza sempre di più il sistema “pinyin” di trascrizione del cinese sulle tastiere QWERTY: abbandonando gli ideogrammi scritti a mano, le diagnosi di dislessia e altre difficoltà di lettura sono in continua crescita. «Digitare una lettera non permette di comprenderne davvero la forma e le possibili variazioni che non ne alterano il significato, come invece accade quando si impara a scriverla a mano», spiega Karin James dell’Università di Bloomington, nell’Indiana.
In sintesi: quando scriviamo a mano o con la penna digitale si “accendono” più parti del cervello rispetto a quando utilizziamo la tastiera. E l’utilizzo della penna attiva aree del cervello più profonde e questo ha effetti positivi sia sulla memoria sia sull’apprendimento nei bambini e negli adulti.

Le TRAPPOLE della (MALA) SCRITTURA

Non è facile far percepire il valore dello scrittore (professionista). Che si tratti di scrivere un articolo, un libro, una Newsletter o post per blog e social. Tutti sanno costruire frasi, ecco perché è facile improvvisarsi copy, ghostwriter e scrittori e millantare capacità letterarie poi non coerenti con i risultati portati a casa e sostenibili nel tempo.

Scrivere male è infatti assai più facile e più frequente dello scrivere bene. Per appropriarti dell’arte della scrittura l’unico modo è leggere tanto e scrivere di più. Migliorarsi è possibile ma non è nè facile nè rapido.

Inoltre ogni volta che ci si cimenta nella stesura di un libro o di un articolo alcune trappole mentali si materializzano come d’incanto per rendere l’impresa ancor più ardua. Quali?

LA TRAPPOLA DELL’AUTOCOMPIACIMENTO

E’ la credenza di avere la verità in tasca, di pensarsi migliori di tutti. E questo porta a una scrittura pessima, autoreferenziale, cieca ai bisogni di chi legge e di chi cerca risposte e soluzioni. Questo stile può funzionare quando si tratta di tomi universitari o di temi complessi, in tutti gli altri casi è un suicidio. La scrittura è ben altro: è la capacità di aprirsi agli altri, di confrontarsi e ascoltare le idee del mondo. Non c’è peggior scrittore di chi crede di essere Tim Roth, Martin Amis o Umberto Eco e di poter dire la sua senza ascoltare nessuno. In questi casi è meglio limitarsi a scrivere un diario da tenersi rigorosamente in un cassetto.

LA TRAPPOLA DELL’INSICUREZZA

Chi è insicuro o costellato di dubbi tende a scrivere male in quanto non vuole esporsi, vuole rimanere al sicuro nella propria zona di comfort. E finisce con trattare tematiche in modo superficiale e asettico, facendo di tutto per nascondere il proprio tratto distintivo, la propria firma, il proprio stile. Senza emozioni non c’è storia che vale la pena essere vissuta.

LA TRAPPOLA DELLA MONOTONIA

Come nella vita di tutti i giorni, anche nella scrittura tendiamo a proporre i soliti schemi, le nostre rassicuranti ed automatiche routine.

Nel caso della scrittura il rischio è di appiattire la trama, risultando noiosi e poco emozionali. Scontati. Confrontarsi con altri stili e leggere molto è sempre il miglior consiglio per appropriarsi di più stili e di una leggerezza narrativa raramente innata.

SCRIVERE E’ UN LAVORO PER POCHI

Scrivere è dunque un lavoro per pochi. Coloro che si mettono in gioco. Che conoscono la grammatica, la sintassi, le regole della leggibilità. Scrivere in modo errato “qual è” o “anch’io” sono errori che si possono correggere, più difficile è il rapporto con se stessi e il proprio pubblico. Non per nulla molti abbandonano o continuano a scrivere male, schermandosi dietro scuse e l’arroganza di chiamare stile personale, una schizofrenia di parole buttate a caso come tessere di un puzzle su un foglio bianco.

Scrivere è un lavoro. E come tale non può essere improvvisato.

LEGGO per LEGITTIMA DIFESA

Leggiamo poco, quasi nulla. E scriviamo tanto. Con le conseguenze che ognuno può immaginare.

Secondo il rapporto dell’Istat 23 milioni di persone dichiarano di aver letto appena un libro in 12 mesi: il che vuol dire che 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno. Inoltre queste statistiche si basano sulla quantità, non sulla qualità della lettura. Per quanto possa essere soggettivo il valore di un libro, è giusto ricordare che in tali dati il libro di ricette di Benedetta Parodi e Guerra e Pace di Tolstoj hanno la stessa incidenza.

Se si vuole fare un confronto con gli altri paesi europei: la percentuale dei lettori è superiore al 75 per cento nella maggior parte dei paesi del centro e del nord dell’Europa occidentale: Svezia (89 per cento, il dato più alto), Danimarca, Finlandia, Estonia, Olanda, Lussemburgo, Germania, Regno Unito. Mentre è inferiore al 60 per cento in Portogallo, Cipro, Romania, Ungheria, Grecia. E Italia.

IL DISPREGIO DELLA CULTURA

Un soggetto competente viene definito un “professorone”, con tono dispregiativo; un uomo di cultura viene additato come nemico del popolo perché non vive sulla propria pelle la difficoltà di arrivare a fine del mese. Come se uno come Pier Paolo Pasolini non avesse avuto diritto di parlare dei “ragazzi di vita”, solo perché era benestante.

Nel 2018, ai politici italiani non conviene mostrare un alto lignaggio culturale: è preferibile immedesimarsi con “la gente”, sbagliare qualche congiuntivo e riallacciarsi a una certa cultura popolare che preferisce citare Massimo Boldi piuttosto che Petrarca.
Nel 1987, durante il discorso per il premio Nobel, Iosif Brodskij commentò: “Per me non c’è dubbio che, se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro esperienza di lettori e non sulla base dei loro programmi politici, ci sarebbe meno sofferenza sulla Terra. Credo che a un potenziale padrone dei nostri destini si dovrebbe domandare, prima d’ogni altra cosa, non già quali siano le sue idee in fatto di politica estera, bensì cosa ne pensi di Dostoevskij, Dickens, Stendhal”. Più di 30 anni sono passati da quel discorso, eppure è ancora attuale.

La lettura da molti viene ancora vista come un mero esercizio cerebrale o un passatempo per coloro che non devono dedicarsi a occupazioni più urgenti o necessarie, e invece, bisognerebbe leggere per “legittima difesa”, per ampliare i propri orizzonti e formare uno spirito critico in grado di permetterci di comprendere il mondo e agire con cognizione di causa, seguendo i nostri valori, non imposti da altri.

LA STORIA INSEGNA

La storia ci insegna che i libri hanno sempre rappresentato un pericolo per le dittature. Il popolo doveva restare ignorante per essere controllabile e gestibile, e la cultura veniva proposta come il nemico unico e assoluto. Pensiamo ai Bücherverbrennungen durante il nazismo: i roghi nei quali venivano bruciati tutti i libri distanti dall’ideologia totalitaria, oppure ai libri bruciati in Cile sotto Pinochet, o ancora a quelli più recenti dati alle fiamme dall’Isis. Senza dimenticare la Santa Inquisizione. La stessa letteratura distopica ha creato allegorie che si riallacciano a questo contesto. Tra queste spicca Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, con i pompieri che bruciano i libri in una società dove leggere è reato. Adesso, per lo meno in Italia, non è più necessario bruciare i libri però, semplicemente perché nessuno li compra e tanto meno li legge.