Le PAROLE SCRITTE sulla PELLE

Un taglio. Un altro ancora. Non c’è via d’uscita da quel dolore accecante e inespresso se non una lametta che tormenta la carne.

E poi le maniche lunghe, i pantaloni anche d’estate, a nascondere il corpo martoriato e parole tracciate come stigmatiche sulla pelle: sesso, verginità, perversione…

Non parla molto, fuma e beve vodka nascosta in bottiglie d’acqua Camille, reporter di un giornale di Saint Louis, reduce dal ricovero in un ospedale psichiatrico per abuso di alcol.

Camille che quando nella sua città natale, vengono ritrovati dei cadaveri di bambine, decide di partire per trovare una storia da raccontare.

Tempeste emotive che evocano ricordi, e i tagli si sommano. Necessari.

Nella casa di famiglia, ritrova la sorellastra, incarcerata in uno stretto dualismo fra il tentare di essere adulta e il rimanere bambina; la madre, instabile marionetta emotiva e tutti quei fantasmi infantili che si materializzano, come tessere scombinate di un misterioso puzzle. Traumi irrisolti che annegano nel sangue.

Camille è la protagonista di Sharp Objects, la miniserie tv, tratta dal romanzo Sulla pelle” di Gillian Flynn. Una storia di femminicidio da cui è esclusa la presenza maschile. Una storia originale, quello della violenza delle donne sulle donne.

Un libro da leggere e una serie da guardare….

Il CERVELLO dei RAZZISTI…

Una giovane mamma siede sull’autobus con il bambino in braccio, accanto a un anziano. Arriva la sua fermata. Chiede all’uomo di alzarsi, perché non riesce a passare. Si rivolge al figlio, in serbo, spiegandogli che devono scendere. L’anziano capisce che sono stranieri, non si vuole spostare, urla: “Voi non sapete fare altro che bambini”.

“Non si è mai vista una negra che prende 10 a Diritto”. La ragazzina è tra i primi della classe e questa dote è evidentemente stata giudicata da qualcuno incompatibile con il colore della sua pelle. Di qui gli insulti, gravissimi e prolungati nel tempo e lettere anonime in cui si legge “non esiste che una negra possa diventare avvocato”.

Niente di insolito. Solo storie di ordinario razzismo quotidiano.

COSA ACCADE NEL CERVELLO DEI RAZZISTI

Cosa accade nel cervello di chi ha bisogno di togliere ogni residuo di umanità alle genti che vengono da lontano?

A scoprirlo il direttore del Peace and Conflict Neuroscience Lab dell’Università della Pennsylvania, Emile Bruneau, osservando con la Risonanza Magnetica Funzionale, quel che accade nel cervello degli intervistati a cui è stato chiesto come si sentissero di fronte a persone considerate diverse.

Agli intervistati, in modo piuttosto diretto, sono state poste due domande: una relativa al livello di disumanizzazione chiedendo di indicare  dove sistemerebbero le persone in questione in una sorta di scala evolutiva della civiltà; l’altra relativa al senso di gradimento/disgusto che quegli esseri umani generavano loro.

I risultati, pubblicati sul Journal of Experimental Psychology, mostrano che la disumanizzazione e la mancanza di gradimento coinvolgono regioni diverse del cervello. «Quando mi riferisco a un altro essere umano come a un animale o a un essere inferiore in generale si attivano aree cerebrali diverse da quando semplicemente affermo che qualcuno non mi piace – ha spiegato lo scienziato -.

La disumanizzazione, ossia lo svuotamento della vita umana da ogni spiritualità e senso morale e quindi da ogni dignità, è un processo che porta: aggressività, torture, il rifiuto ad aiutare le vittime di violenza e soprusi,  il sostegno a atti razzisti e incivili e a conflitti armati.

Capire che disgusto e disumanizzazione sono due sentimenti molto diversi, che prendono strade ben distinte nel nostro cervello, può aiutare a trovare delle soluzioni. Molti interventi per ridurre i conflitti tra gruppi, per esempio fra palestinesi e israeliani, musulmani e occidentali, bianchi e neri, si focalizzano sul tentativo di portare gli uni e gli altri a “piacersi” di più. È però molto difficile riuscirci, potrebbe essere, grazie a queste scoperte, più semplice portare le persone a riconoscersi come esseri umani, cosa per’altro che già è.

I BAMBINI SONO SONO RAZZISTI

Una breve nota di fondo: i bambini non percepiscono un altro essere umano come diverso solo a partire dalla sua appartenenza etnica, almeno fino all’età adolescenziale.

Gli adolescenti, infatti, così come gli adulti, registrano  un’attivazione dell’amigdala diversa in presenza di volti stranieri. Ciò significa che, almeno in una certa misura, si riconosce l’altro come diverso da sé. Ciò non significa essere razzisti, ma è un dato molto interessante rispetto alla comprensione del fenomeno.

Il nostro cervello, per fortuna, è programmato per non essere razzista con i bambini e questo dato, nonostante tutto, infonde un pochino di speranza.

QUANTO siamo DISPOSTI a RISCHIARE?

C’era una volta a Venezia un mercante che guadagnava con il commercio marittimo.

Per prudenza, non impiegava mai tutte le sue imbarcazioni sulla stessa rotta, dirigendole invece verso quattro diverse destinazioni. Così facendo riduceva i rischi: la possibilità che le navi venissero colpite tutte simultaneamente da un evento avverso (pirati, tempeste, malattie, etc), perdendo il carico o finendo distrutte, si abbassava drasticamente.

Per essere precisi, ogni imbarcazione aveva 1 probabilità su 4 di non tornare dal viaggio; la probabilità che il mercante perdesse tutto e finisse nei guai con il banchiere che lo aveva finanziato, scendeva a 1 su 256.

Scomodando Shakespeare abbiamo introdotto il concetto di avversione e propensione al rischio: atteggiamento che cambia a seconda dei contesti e della persona. Si può infatti essere propensi a rischiare alla guida di un’auto, ma prudenti in Borsa, praticare sport estremi ma non apprezzare l’incertezza sentimentale, recarsi al casinò con frequenza ma sottoporsi meticolosamente a check up medici. La non propensione al rischio del mercante è ora di più facile comprensione.
Quale atteggiamento assumiamo di fronte al rischio? Dipende da molti fattori e la disciplina che se ne occupa è chiamata finanza comportamentale (branca degli studi economici che indaga i comportamenti dei mercati finanziari), fondata dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman e dal collega Amos Tversky.

In altre parole la perdita di una somma, qualunque essa sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, molto più della vincita di quella stessa somma.

Precisamente, il rapporto di avversione alla perdita oscilla tra 2,25 e 2,5: a fronte di una perdita di 100 euro, occorrerà guadagnare fra 225 e 250 euro perché il nostro cervello ritrovi serenità.

Traduciamo il tutto in un esempio. Immagina di essere convocato nell’ufficio del capo e di venir informato che avrai un aumento di 500 euro. Quanto valuteresti l’impatto psicologico positivo della notizia, su una scala da 1 a 10? Ora immagina che ti si comunichi non un aumento, ma una riduzione dello stipendio di 500 euro. Per la maggior parte delle persone l’impatto psicologico negativo di una notizia del genere, è maggiore rispetto a quello positivo collegato all’aumento.

Non tutti infatti sono avversi e propensi alle perdite nello stesso modo. Per esempio, coloro che per professione si assumono rischi nei mercati finanziari tollerano meglio le perdite: quando ai partecipanti a un esperimento venne detto di “pensare come trader”, essi diventarono meno avversi e la loro reazione emozionale alle perdite si ridusse sensibilmente.

Probabilmente, a questo punto dell’articolo, ti starai domandando qual è il tuo atteggiamento predominante fra avversione e propensione al rischio. Ti sottopongo alcuni quesiti proposti dallo stesso Kahneman nel suo famoso libro Pensieri lenti e veloci.

Concentrati solo sull’influenza soggettiva della possibile perdita o sul guadagno che ne deriva e rispondi sinceramente:
1) Considera un’opzione di rischio al 50-50 in cui perdi 10 euro. A partire da quale guadagno l’opzione ti sembra allettante?
2) Cosa pensi dell’eventualità di perdere 500 euro con il lancio di una moneta? Quale guadagno la compenserebbe?
3) E una perdita di 2.000 Euro?
Facendo questo esercizio avrai notato che il tuo coefficiente di avversione alla perdita tende ad aumentare, anche se non in misura enorme, a mano a mano che aumenta la posta in gioco. Nessuna scommessa sarebbe allettante se la potenziale perdita fosse rovinosa. In tali casi il coefficiente di avversione alla perdita è molto elevato: vi sono rischi che non accetteresti mai, indipendentemente da quanti milioni potresti vincere se fossi fortunato. O non è cosi?

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista di geopolitica e risk management Riskio Zero: http://www.riskiozero.com

ABBIAMO BISOGNO del FALLIMENTO… per FARE MEGLIO… (?)

Ci sono realtà che traggono vantaggio dagli scossoni, prosperano e crescono quando sono esposte al caso, al disordine, allo stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Se alcune cose sono fragili, e di fronte a un urto cedono, ce ne sono altre che sono solo robuste e reggono il colpo senza subire danni e poi ci sono le antifragili che migliorano in un contesto burrascoso e difficile.

Antifragile è questo il concetto elaborato, ormai qualche anno fa, da Nassim Taleb, immaginifico saggista, la cui filosofia ha perseguitato la mia attenzione fin dai primi libri  “Il cigno nero”, e “Giocati dal Caso”, al cui centro della riflessione: lo scarto esistente tra casualità, imprevedibilità, unicità di tanti fatti, e  la pretesa delle scienze sociali e dell’economia di ricondurre tutto a schemi, leggendo ogni cosa in termini di «regolarità»: nell’illusione che raccogliere dati del passato e «processarli» possa aiutare a predire il futuro.

Taleb ha un talento innato per i paradossi e uno humor affilato e intelligente. Per vent’anni ha fatto con successo il trader, per poi occuparsi di previsione e prevenzione dei rischi, ma è anche docente, saggista e scrittore.

TUTTO PUO’ ESSERE FRAGILE

… anche l’amore ossessivo. Nel romanzo di Buzzati “Un amore”, ricorda Taleb, lo scrittore si innamora di una ballerina della Scala. Quella fu una passione che crebbe nelle difficoltà e anche grazie ad esse: un mirabile esempio di antifragilità che, a quanto pare, ebbe pure il suo bel finale.

Anche chi sa trarre profitto dagli errori o perché li sfrutta (è il caso di una varietà di invenzioni a cui si è giunti per errore: penicillina, Viagra e nitroglicerina per fare qualche esempio), o perché li usa come occasioni di crescita e di apprendimento. Il segreto, secondo Taleb, è inventare un’impresa che non tema il fallimento, e che impari a fallire orgogliosamente, in fretta, tanto, su piccole cose, in ambiti in cui un solo grande successo possa sovra compensare tutti i piccoli fallimenti: il mantra che unisce la Silicon Valley e chiunque faccia ricerca.

IL MESSAGGIO

Il messaggio alla fine è semplice e corretto, ed è che abbiamo bisogno del fallimento (della sua possibilità, della sua minaccia) per essere indotti a dare il meglio di noi stessi. Dove si pretende di eliminare la fragilità con una falsa robustezza, l’intera società si espone al rischio di un collasso totale.

“Il vento può spegnere la candela e ravvivare il falò – scrive Taleb -. Lo stesso avviene con la casualità, l’incertezza e il caos: bisogna imparare a farne uso, anziché tenersene alla larga. Dobbiamo imparare a essere fuoco e a sperare che si alzi il vento.

A COSA serve ESSERE SAGGI in MANICOMIO e VIRTUOSI in un NIGHT?

“Può esistere un mondo di soli sapienti?”.

“Sarebbe ancora più ingovernabile di quello che già è: con un eccessivo numero di persone orgogliose della propria intelligenza, del proprio sapere e poco propense a collaborare”.

“L’ignoranza costringe a cooperare: ognuno è depositario di un sapere individuale e si affida agli altri per avere accesso ad altre conoscenze e sfruttarle”.

“Questo è anche ciò che distingue il selvaggio dall’uomo moderno: il primo sa usare gli attrezzi che gli tornano utili, il secondo quasi nulla senza però che questo sia un problema”

“Esatto, nessuno lamenterebbe l’ignoranza in campo medico di un architetto. Ognuno di noi non conosce qualcosa, ma può, se ha interesse, a porvi rimedio”.

“Purchè ci sia consapevolezza. Per colmare la propria ignoranza in un certo settore bisogna prima ammetterla: l’errore non deriva dalla difficoltà a trovare la corretta risposta ma dall’incapacità di porsi le giuste domande”.

“Infatti le campagne contro l’ignoranza non sembrano funzionare. Credo sia perché trascurano un dato: l’ignoranza non è il contrario della conoscenza ma ne è parte. Più si sa più ci si accorge di non sapere”.

“Più utile sarebbe educare ad arrendersi ai limiti del conoscibile e imparare il valore dell’incertezza, anche se oggi google ci regala l’impressione di poter accedere a qualsiasi contenuto”.

“Il sapiente ha però un sostanziale svantaggio: quello di non essere compreso, come sosteneva oltre un secolo fa il saggista William Hazlitt che aggiunse: la vera felicità della vita consiste nel non essere né migliore né peggiore della media di quelli che si incontrano. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra, trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che ti interessa di più”.

“La più alta forma della  saggezza umana pare però troppo spesso consistere nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato: chiudendo gli occhi e cancellando i dubbi per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero. Quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie”.

“A cosa serve dunque essere dotti e sapienti?”.

“A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?”.