QUANTO siamo DISPOSTI a RISCHIARE?

C’era una volta a Venezia un mercante che guadagnava con il commercio marittimo.

Per prudenza, non impiegava mai tutte le sue imbarcazioni sulla stessa rotta, dirigendole invece verso quattro diverse destinazioni. Così facendo riduceva i rischi: la possibilità che le navi venissero colpite tutte simultaneamente da un evento avverso (pirati, tempeste, malattie, etc), perdendo il carico o finendo distrutte, si abbassava drasticamente.

Per essere precisi, ogni imbarcazione aveva 1 probabilità su 4 di non tornare dal viaggio; la probabilità che il mercante perdesse tutto e finisse nei guai con il banchiere che lo aveva finanziato, scendeva a 1 su 256.

Scomodando Shakespeare abbiamo introdotto il concetto di avversione e propensione al rischio: atteggiamento che cambia a seconda dei contesti e della persona. Si può infatti essere propensi a rischiare alla guida di un’auto, ma prudenti in Borsa, praticare sport estremi ma non apprezzare l’incertezza sentimentale, recarsi al casinò con frequenza ma sottoporsi meticolosamente a check up medici. La non propensione al rischio del mercante è ora di più facile comprensione.
Quale atteggiamento assumiamo di fronte al rischio? Dipende da molti fattori e la disciplina che se ne occupa è chiamata finanza comportamentale (branca degli studi economici che indaga i comportamenti dei mercati finanziari), fondata dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman e dal collega Amos Tversky.

In altre parole la perdita di una somma, qualunque essa sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, molto più della vincita di quella stessa somma.

Precisamente, il rapporto di avversione alla perdita oscilla tra 2,25 e 2,5: a fronte di una perdita di 100 euro, occorrerà guadagnare fra 225 e 250 euro perché il nostro cervello ritrovi serenità.

Traduciamo il tutto in un esempio. Immagina di essere convocato nell’ufficio del capo e di venir informato che avrai un aumento di 500 euro. Quanto valuteresti l’impatto psicologico positivo della notizia, su una scala da 1 a 10? Ora immagina che ti si comunichi non un aumento, ma una riduzione dello stipendio di 500 euro. Per la maggior parte delle persone l’impatto psicologico negativo di una notizia del genere, è maggiore rispetto a quello positivo collegato all’aumento.

Non tutti infatti sono avversi e propensi alle perdite nello stesso modo. Per esempio, coloro che per professione si assumono rischi nei mercati finanziari tollerano meglio le perdite: quando ai partecipanti a un esperimento venne detto di “pensare come trader”, essi diventarono meno avversi e la loro reazione emozionale alle perdite si ridusse sensibilmente.

Probabilmente, a questo punto dell’articolo, ti starai domandando qual è il tuo atteggiamento predominante fra avversione e propensione al rischio. Ti sottopongo alcuni quesiti proposti dallo stesso Kahneman nel suo famoso libro Pensieri lenti e veloci.

Concentrati solo sull’influenza soggettiva della possibile perdita o sul guadagno che ne deriva e rispondi sinceramente:
1) Considera un’opzione di rischio al 50-50 in cui perdi 10 euro. A partire da quale guadagno l’opzione ti sembra allettante?
2) Cosa pensi dell’eventualità di perdere 500 euro con il lancio di una moneta? Quale guadagno la compenserebbe?
3) E una perdita di 2.000 Euro?
Facendo questo esercizio avrai notato che il tuo coefficiente di avversione alla perdita tende ad aumentare, anche se non in misura enorme, a mano a mano che aumenta la posta in gioco. Nessuna scommessa sarebbe allettante se la potenziale perdita fosse rovinosa. In tali casi il coefficiente di avversione alla perdita è molto elevato: vi sono rischi che non accetteresti mai, indipendentemente da quanti milioni potresti vincere se fossi fortunato. O non è cosi?

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista di geopolitica e risk management Riskio Zero: http://www.riskiozero.com

ABBIAMO BISOGNO del FALLIMENTO… per FARE MEGLIO… (?)

Ci sono realtà che traggono vantaggio dagli scossoni, prosperano e crescono quando sono esposte al caso, al disordine, allo stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Se alcune cose sono fragili, e di fronte a un urto cedono, ce ne sono altre che sono solo robuste e reggono il colpo senza subire danni e poi ci sono le antifragili che migliorano in un contesto burrascoso e difficile.

Antifragile è questo il concetto elaborato, ormai qualche anno fa, da Nassim Taleb, immaginifico saggista, la cui filosofia ha perseguitato la mia attenzione fin dai primi libri  “Il cigno nero”, e “Giocati dal Caso”, al cui centro della riflessione: lo scarto esistente tra casualità, imprevedibilità, unicità di tanti fatti, e  la pretesa delle scienze sociali e dell’economia di ricondurre tutto a schemi, leggendo ogni cosa in termini di «regolarità»: nell’illusione che raccogliere dati del passato e «processarli» possa aiutare a predire il futuro.

Taleb ha un talento innato per i paradossi e uno humor affilato e intelligente. Per vent’anni ha fatto con successo il trader, per poi occuparsi di previsione e prevenzione dei rischi, ma è anche docente, saggista e scrittore.

TUTTO PUO’ ESSERE FRAGILE

… anche l’amore ossessivo. Nel romanzo di Buzzati “Un amore”, ricorda Taleb, lo scrittore si innamora di una ballerina della Scala. Quella fu una passione che crebbe nelle difficoltà e anche grazie ad esse: un mirabile esempio di antifragilità che, a quanto pare, ebbe pure il suo bel finale.

Anche chi sa trarre profitto dagli errori o perché li sfrutta (è il caso di una varietà di invenzioni a cui si è giunti per errore: penicillina, Viagra e nitroglicerina per fare qualche esempio), o perché li usa come occasioni di crescita e di apprendimento. Il segreto, secondo Taleb, è inventare un’impresa che non tema il fallimento, e che impari a fallire orgogliosamente, in fretta, tanto, su piccole cose, in ambiti in cui un solo grande successo possa sovra compensare tutti i piccoli fallimenti: il mantra che unisce la Silicon Valley e chiunque faccia ricerca.

IL MESSAGGIO

Il messaggio alla fine è semplice e corretto, ed è che abbiamo bisogno del fallimento (della sua possibilità, della sua minaccia) per essere indotti a dare il meglio di noi stessi. Dove si pretende di eliminare la fragilità con una falsa robustezza, l’intera società si espone al rischio di un collasso totale.

“Il vento può spegnere la candela e ravvivare il falò – scrive Taleb -. Lo stesso avviene con la casualità, l’incertezza e il caos: bisogna imparare a farne uso, anziché tenersene alla larga. Dobbiamo imparare a essere fuoco e a sperare che si alzi il vento.

A COSA serve ESSERE SAGGI in MANICOMIO e VIRTUOSI in un NIGHT?

“Può esistere un mondo di soli sapienti?”.

“Sarebbe ancora più ingovernabile di quello che già è: con un eccessivo numero di persone orgogliose della propria intelligenza, del proprio sapere e poco propense a collaborare”.

“L’ignoranza costringe a cooperare: ognuno è depositario di un sapere individuale e si affida agli altri per avere accesso ad altre conoscenze e sfruttarle”.

“Questo è anche ciò che distingue il selvaggio dall’uomo moderno: il primo sa usare gli attrezzi che gli tornano utili, il secondo quasi nulla senza però che questo sia un problema”

“Esatto, nessuno lamenterebbe l’ignoranza in campo medico di un architetto. Ognuno di noi non conosce qualcosa, ma può, se ha interesse, a porvi rimedio”.

“Purchè ci sia consapevolezza. Per colmare la propria ignoranza in un certo settore bisogna prima ammetterla: l’errore non deriva dalla difficoltà a trovare la corretta risposta ma dall’incapacità di porsi le giuste domande”.

“Infatti le campagne contro l’ignoranza non sembrano funzionare. Credo sia perché trascurano un dato: l’ignoranza non è il contrario della conoscenza ma ne è parte. Più si sa più ci si accorge di non sapere”.

“Più utile sarebbe educare ad arrendersi ai limiti del conoscibile e imparare il valore dell’incertezza, anche se oggi google ci regala l’impressione di poter accedere a qualsiasi contenuto”.

“Il sapiente ha però un sostanziale svantaggio: quello di non essere compreso, come sosteneva oltre un secolo fa il saggista William Hazlitt che aggiunse: la vera felicità della vita consiste nel non essere né migliore né peggiore della media di quelli che si incontrano. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra, trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che ti interessa di più”.

“La più alta forma della  saggezza umana pare però troppo spesso consistere nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato: chiudendo gli occhi e cancellando i dubbi per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero. Quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie”.

“A cosa serve dunque essere dotti e sapienti?”.

“A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?”.

 

LEGGERE per SAPERE… LEGGERE per AVERE

11 libri in tre settimane, poco meno di 5 mila pagine. Questo è il piacere che mi sono regalata nelle vacanze estive, decisamente controcorrente rispetto i dati Istat, secondo cui il 53% degli italiani non ha letto neppure un libro in 12 mesi e il 15% ne ha letti una dozzina.

Eppure, esempi alla mano, chi ha un lavoro appagante e una vita di successo è mediamente un avido lettore.

Steve Jobs aveva un’ossessione per i poeti inglesi, in particolare per William Blake.

Phil Knight, fondatore della Nike, venera a tal punto la sua libreria, che gli ospiti sono costretti a visitarla scalzi.

David Rubenstein, co-fondatore di The Carlyle Group, un private equity che gestisce oltre 150 miliardi di dollari, ha l’abitudine di leggere una dozzina di libri… a settimana!

Winston Churchill, primo ministro inglese durante la II guerra mondiale, vinse il premio Nobel per la letteratura.

Warren Buffett, il più grande investitore di tutti i tempi, legge 500 pagine ogni giorno. Inizia la giornata leggendo dozzine di quotidiani e dedica un’ampia parte della sua giornata al suo consumo vorace di libri.

Il miliardario Mark Cuban trascorre fino a 3 ore delle sue giornate a leggere libri

Bill Gates, si sa, legge 50 libri all’anno.

E quando è stato chiesto come avesse imparato a costruire razzi, Elon Musk ha risposto semplicemente: “Leggo libri”.

1.200 DELLE PERSONE PIU’ RICCHE AL MONDO LEGGONO TUTTE MOLTISSIMO. MA COSA LEGGONO?

Secondo Thomas Corley, autore di Rich habits: The daily success habits of wealthy individuals, le persone con un reddito annuo superiore ai 160.000 dollari e un patrimonio netto liquido superiore ai 3 milioni di dollari leggono testi che parlano di auto-miglioramento, istruzione e successo. Le persone con un reddito annuo non superiore ai 35.000 dollari e un patrimonio netto liquido di 5.000 dollari leggono principalmente per essere intrattenute.

Se non siete dei lettori voraci, non dove iniziare con Roth, Musil o Proust a colpi di 500 pagine al giorno. Sono sufficienti una ventina di pagine purchè siano una ventina tutti i giorni.

Se per caso pensaste di non riuscire a trovare il tempo, considerate che per leggere 200 libri in un anno ci vogliono 417 ore. A fare il calcolo lo scrittore Charles Chu, che per 2 anni ha provato a tenere la media di Buffet: “Sembrano tante, ma se consideriamo che ne usiamo 608 sui social media e 1642 davanti alla tv capiamo bene che quelle ore ce le abbiamo”.

DIRE STRONZATE è SOCIALMENTE più ACCETTATO del MENTIRE

Dire stronzate è socialmente più accettato del mentire. Perdonate il francesismo, ma ogni tanto chiamare le cose con il loro nome, senza nascondersi nel politically correct è doveroso. Soprattutto quando a farlo è la scienza.

Proprio così.

C’è addirittura un libro, edito da Rizzoli, che si intitola Stronzate (On bullshit), scritto dal filosofo morale e di solida reputazione Harry Frankfurt, professore emerito a Princeton.

Uno dei tratti salienti della nostra cultura è che è pervasa da una gran quantità di stronzate. Tutti lo sanno. Ognuno di noi contribuisce con la propria quota. Eppure tendiamo a dare questa situazione per scontata. La maggior parte delle persone si fida della propria capacità di riconoscere una stronzata, quando la sente, e quindi evitare di crederci. Ragion per cui il fenomeno non solleva gran preoccupazione, né è stato finora oggetto di un serio approfondimento“.

John Petrocelli, psicologo alla Wake Forest University ha invece condotto uno studio per capire in quali condizioni le persone si sentono più incoraggiate o autorizzate a dire stupidaggini. Stupidaggini, non bugie. Chi mente nasconde la verità, chi dice stronzate non necessariamente sa qual è la verità e può accadere che stia solo ripetendo cose sentite in giro o idee presentate da altri che sembravano credibili.

COSA DICE LA SCIENZA

E’ emerso che il dire stupidaggini è più accettato che mentire. Probabilmente perchè a volte chi le dice lo fa per favorire il senso di appartenenza al gruppo (cadendo nell’effetto gregge) e poco importa se questa idea è basata sui fatti.

La pericolosità della stronzata è che è impossibile sapere come stanno veramente le cose. Ne consegue che qualunque forma di argomentazione politica o analisi intellettuale è legittima, e vera, se è persuasiva. Tutto questo, secondo il filosofo di Princeton, è effetto di una forma di vita pubblica in cui le persone «sono sovente chiamate a parlare di argomenti di cui sanno poco o nulla».

Il «bullshit artist», l’artista della stronzata, infatti se ne infischia tanto della verità che della menzogna: «Gli sta a cuore solo farla franca con ciò che dice». Un politico, un pubblicitario o un conduttore di talk show che elargiscono «stronzate» non rifiutano l’autorità della verità come fa il bugiardo, che vi si oppone. «Semplicemente non vi badano».

COSA vuol dire ESSERE uno SCRITTORE? DISSERTAZIONI fra un GHOST (io) e un CLIENTE

“Cosa vuol dire essere uno scrittore?”, mi chiede un cliente per il quale sto scrivendo la biografia.

Bella domanda dalla risposta complessa. Il sole ci cuoce la pelle, tormentando i sensi.

Lascio la parola a Murakami: Quando si cerca di entrare in un campo che non è il proprio, qualunque esso sia, non si è visti di buon occhio dalle persone che vi appartengono, e che tendono a impedirne l’accesso, come i globuli bianchi cercano di eliminare dal corpo i microorganismi estranei. Poi queste stesse persone finiscono per accettare tacitamente chi insiste imperterrito e ammetterlo tra i propri ranghi con l’aria di dire – Cosa ci possiamo fare? – ma per lo meno all’inizio sono molto diffidenti. Più un campo è ristretto, specialistico e prestigioso , più l’orgoglio e l’esclusivismo sono forti e cresce al resistenza ad accogliere gente nuova. “

Essere uno scrittore è cosa ardua, ancora più difficile è rimanerlo. Nel tempo. Tutti possono scrivere un bel libro, ma pochi hanno le carte in regola per rimanere nel club esclusivo degli scrittori affermati. Un club che richiede un dazio molto alto e non tutti vogliono o possono pagarlo.

Le REGOLE di SCRITTURA di MURAKAMI

Murakami ha scritto il suo primo romanzo a 30 anni, e poi non ha più smesso, resistendo alle critiche, ai premi mancati, ai commenti distruttivi.  Ha puntato sull’originalità, sovvertendo il sistema: scrive in inglese, poi traduce in giapponese. Per questo i suoi libri sembrano scritti con uno stile da “lingua tradotta”…

E’ ossessivo. Cerca i dettagli, quelli inconsueti, interessanti, incoerenti e da lì parte per scrivere le sue storie.

Scrive ogni giorno, 4 o 5 ore senza sosta. Nella solitudine di una stanza, dinanzi a un foglio bianco. Percorrendo se stesso, nel bene e nel male. Conscio che è attraverso la propria nudità che si trovano le storie da  raccontare. La vulnerabilità, mi piace pensare sia, una faccia della creatività.

Non scrive per  commissione, per fama o per dimostrare qualcosa Murakami. Scrive perché ama farlo e lo sa fare bene. Giorno dopo giorno, anche quando nessuno ci crede.

Questo è soprattutto ciò che mi ha insegnato la scrittura: scoprire se stessi in se stessi, senza proclami, acclamazioni e palchi posticci e traballanti montati per far soldi e non per segnare la storia. Qualunque essa sia.

 

 

 

FERRAGOSTO: OGGI come ALLORA… TUTTO un SORPASSO

“Scusi, ma lei che fa a Ferragosto?”

Per l’ennesima volta mi sento porre questa assurda domanda. Fare qualcosa, con qualcuno, il 15 di agosto è diventato un imperativo, come a Natale e Capodanno.
Insomma, la solitudine a Ferragosto è un peccato da evitarsi ad ogni costo.
Non ho mai amato le ricorrenze, è forse il mio un ammutinamento all’effetto gregge, che vorrebbe tutti in fila, a timbrare i cartellini delle festività, come punti da raccogliere per vincere il premio dell’omologazione.

Il SORPASSO di FERRAGOSTO

Nelle riflessioni di prima mattina, mi viene alla mente che quel “scusi, lei che fa a Ferragosto”, in realtà è la domanda di avvio di un capolavoro “Il Sorpasso” di Dino Risi con un Vittorio Gassman e un Jean Louis Trintignant spettacolari.

Un film epico, benchè probabilmente nato con l’intenzione di fare semplicemente un film brillante e buono per i botteghini.
E’ il ritratto di un’Italia bighellona e assolata come mai era stato prima, è un’immagine perfetta, come i quadri marini di Monet: i “tipi” nazionali ci sono tutti, il riccone del boom, la bella ragazzina, la famigliola contadina, la campagna dell’alto Lazio, il mare quasi versiliano, la Roma agostana e rilucente dell’inizio del film, la leggendaria Aurelia B24, le sigarette e lo sci nautico, l’ignoranza, la solidarietà, il “rimorchio”, l’innocenza, la rissa al night club e la zuppa di pesce.
Insomma, la magia di un Ferragosto di altri tempi, passato troppo in fretta che ci impedisce, ogni anno, di diventare adulti. Insomma, allora come oggi, siamo sempre noi, alla ricerca di qualcuno, di qualcosa…

Buon Ferragosto a tutti, soli e in compagnia!

La SOLITUDINE di SCRITTORI e NUOTATORI

La SOLITUDINE del NUOTATORE

Ore seguendo una linea scura disegnata sul fondo, macinando chilometri, virata dopo virata, vasca dopo vasca e sfidando un cronometro impietoso.

Ci vuole resistenza e resilienza per nuotare. Sport solitario per eccellenza, l’unico limite che ti pone, non è l’acqua ma se stessi. Con i propri pensieri, le fragilità che vengono a galla e sono incapaci di perdonarti.

Senti il tuo respiro mentre nuoti, nient’altro che questo. E nessuno può dire se stai andando bene, devi saperlo da solo: si suppone che tu sappia, ogni minuto, ogni secondo, cosa stai facendo e se lo stai facendo nel modo giusto.

Nel momento stesso che metti piede in piscina, tutto svanisce.

Stress, paura e debolezze non possono entrare in acqua con te, devi essere più leggero che puoi, più veloce che puoi, più perfetto che puoi.  Sei semplicemente solo con te stesso. E all’improvviso neppure te ne accorgi della profonda solitudine in cui sei immerso. Quando nuoti. E quando scrivi.

La SOLITUDINE dello SCRITTORE

«La solitudine della scrittura – scriveva Marguerite Duras – è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora”.

Ci vuole separazione dagli altri quando si scrive. E la solitudine reale del corpo diventa presto quella, inviolabile, dello scritto.

Penna alla mano, mi domando quanto la solitudine affogata nell’acqua, mi abbia portato alla solitudine della scrittura. Così affine, perversa, necessaria.

Forse è per questo che non tutti sono scrittori… Non tutti sanno stare soli, nell’immensità vuota che forse, si farà libro. Non tutti sanno rendere la solitudine una necessità.

EGO, INDIPENDENZA e LAVORO INDIVIDUALE

Mi rendo conto che non si può essere nuotatore o scrittore se non si ama la solitudine e l’indipendenza violenta e inesprimibile che ne deriva. Glaciale e silenziosa eppure così accogliente e protettiva. Un gioco che da un lato coccola l’ego, dello scrittore e del nuotatore professionista, dall’altra il lavoro individuale della scrittura, il trauma e lo schiaffo della pagina bianca e delle vasche ancora, incessantemente, da nuotare.

BUSINESS WRITER: ultima SPERANZA dei DISPERATI o VEZZO per INTELLETTUALI?

Pagare per scrivere testi?”.

“Sì, scrivere è un lavoro. E neanche troppo semplice”.

“Quindi lei mi sta dicendo che io dovrei pagare qualcuno perchè mi scriva gli articoli per il sito”.

“Se non ha il tempo per farlo lei personalmente o non ha dimestichezza con lo scrivere…”.

“Li farò scrivere dalla segretaria, tanto è pagata per  fare ciò che le dico. Così risparmio… e poi non c’è molto da ingegnarsi, basta copiare due note tecniche, i miei prodotti si vendono da soli”.

CREDENZE E SCRITTURA

I clienti non sono tutti uguali. Per fortuna.

E di fronte alla monolitica credenza di alcuni per cui “tutti sanno scrivere”, molti altri sanno benissimo che saper scrivere richiede competenze specifiche e conoscenze trasversali.

Congedo il cliente, sempre più irritato dal mio sorriso. Eppure non posso farne a meno. Di sorridere. La sua azienda si fa sempre più piccola,  mentre dallo specchietto retrovisore della mia auto, mi allontano verso lidi più assennati.

IL PASSATO RITORNA SEMPRE

E poi mi viene in mente una conversazione di oltre 25 anni fa con un giornalista di carta stampata molto noto. “Quando passai l’esame per diventare giornalista professionista – mi raccontò – mio padre mi chiese: ma quando inizi a lavorare per davvero?”.

Questo cliente non è lontano, per età, dal padre del mio collega. Convinto che scrivere sia un diletto borghese o l’ultimo sogno dei disperati poeti maledetti.

Chissà, mi chiedo, se fra qualche anno questa azienda ci sarà ancora. Ed ecco, che il mio sorriso, si arrende alla tristezza. Abdicare non è mai facile, e forse non è solo di un business writer che questo imprenditore avrebbe bisogno…

RAZZISMO: FENOMENO DILAGANTE o INUTILE ALLARMISMO?

Il pregiudizio razziale è quella cosa per cui oggi se vedi due arabi che consultano freneticamente una mappa di Roma in treno ti domandi se non stiano preparando un attentato a Piazza di Spagna, mentre se incroci due norvegesi, su un treno, che consultano la stessa mappa e sono ugualmente agitati, dai per scontato che cerchino la strada per l’hotel nel quale soggiorneranno.

Se ne fa un gran parlare, in queste ultime settimane, di razzismo e reati contro gli immigrati. E non c’è giorno che qualche giornale e qualche politico snocciolino pro o contro, dati schizofrenici. Capirci qualcosa è complesso, così nel disordine di un indiscriminato overloading di dati, l’unica cosa a cui possiamo appellarci sono le scienze.

SCHELLING e i MODELLI sulla SEGREGAZIONE RAZIALE

“Perché una società sia segregazionista è necessario che le persone siano razziste non al 100% ma al 33%”, dimostrò l’economista americano Thomas Schelling, premio Nobel nel 2005 “per aver fatto avanzare la comprensione del conflitto e della cooperazione tramite la Teoria dei Giochi”.

Per usare le parole di Lucio Biggiero, docente di Organizzazione aziendale all’Aquila “se vogliamo evitare di finire in una società segregazionista, dobbiamo essere fortemente anti razzisti. La domanda da porsi quindi non è se non siamo razzisti, ma se siamo abbastanza anti-razzisti”.

Studi successivi a quelli di Schelling dimostrano che la segregazione raziale si genera già con livelli di intolleranza piuttosto bassi a cui si sommano sentimenti ed emozioni individuali.

L’ODIO: MIELE delle MASSE

I fanatici assolutisti non sono mai stati tanti, è piuttosto l’appartenere a un gruppo di tanti individui mediamente intolleranti che genera mostri, come ci ricorda la storia. Neanche troppo lontana.

L’odio, non dimentichiamolo, lega all’avversario, persino più di un sentimento amoroso. L’odio regala una specie di identità, una ragione sociale, un terreno di lotta. Sindrome, che il più grande scrittore di horror, Stephen King ha così magistralmente sintetizzato: “Forse è solo lo spirito della massa. Dare addosso all’individuo”.