PERCHE’ diventiamo IMMUNI alla SOFFERENZA (di MASSA)

“Più persone muoiono, meno ce ne importa”. Senza mezze parole lo psicologo americano Paul Slovic (che alla percezione del rischio e alla matematica della compassione ha dedicato decenni di studi), riassume la naturale reazione umana di fronte alle tragedie.

Poiché l’indifferenza e l’insofferenza rispetto alle tragedie delle masse è direttamente proporzionale all’aumentare dei numeri. E non perché siamo cattivi, ma, banalmente, perché siamo condizionati da distorsioni cognitive e errori di pensiero.

I numeri, per enormi che siano, anzi proprio quando sono enormi, non riescono a far scattare in noi una risposta emotiva. Per dirla con le parole di Paul Brodeurle statistiche sono esseri umani le cui lacrime sono state asciugate”.

Anziché causarci una risposta emotiva, determinano ciò che Slovic chiama “intorpidimento psichico”: quel distacco che si crea nel cervello di tutti noi, o per lo meno la maggioranza, quando leggiamo i numeri del fenomeno delle migrazioni e dei morti causati da guerre e carestie. Centinaia di migliaia di persone sotto le bombe costrette ad abbandonare le proprie case per colpa di tumulti, fame e siccità. Troppe. Ed è questo che fa scattare in noi il secondo perverso meccanismo: il falso senso di impotenza.

Quando i problemi sono così grandi, per il nostro cervello è difficile pensare di poter fare qualcosa, una qualunque differenza, così ci spinge a rinunciare a fare anche il poco che potremmo.

Il modo in cui razionalmente sappiamo che dovremmo considerare il valore di ogni vita umana, man mano che il numero di persone a rischio aumenta purtroppo non è lo stesso con cui effettivamente lo valutiamo”, spiega Slovic.

Ogni vita umana è di pari valore, più vite sono a rischio più l’importanza di fare qualcosa aumenta. In pratica però la reazione comune è che “la prima vita è la più importante da proteggere in assoluto. Due vite non valgono per noi esattamente il doppio di una, ma un po’ meno”. E il valore che attribuiamo a ogni singola vita diminuisce man mano mentre il numero totale sale. “Quando le potenziali vittime salgono, poniamo da 87 a 88, per non c’è più alcuna differenza, segno che si perde sensibilità man mano che quel numero aumenta”.

L’empatia consiste nel provare a mettersi nei panni dell’altro per capire come si sente, cosa prova. Ma se le persone sono due come si fa? Diventa più difficile e ancor più lo diventa quando sono tante.

Nei suoi esperimenti Slovic (i cui studi si sono incrociati con quelli sulla teoria del prospetto di Kahneman e Tversky) ha dimostrato proprio questo: siamo meno portati ad aiutare il singolo quando abbiamo la percezione che ci siano molte altre persone nelle sue stesse condizioni rispetto a quando non ne siamo consapevoli.

Eppure, anche se non possiamo aiutare tutti, non vuol dire che non dobbiamo aiutare nessuno.

Alla fine è la singola storia che ci commuove, la singola persona quella che vogliamo aiutare. Come la foto di un bimbo siriano di tre anni morto su una spiaggia turca, che ha fatto di più per la causa siriana, dei bollettini di guerra con il computo delle centinaia di morti quotidiane. Prima della pubblicazione della foto il fondo istituito per la Siria dalla Croce Rossa svedese riceveva donazioni per 8 mila dollari al giorno. Dopo la foto, sono diventati 430 mila. “I 250 mila morti in Siria fino a quel momento non avevano suscitato la stessa compassione”.  Le donazioni sono rimaste elevate per circa un mese, poi sono tornate ai livelli precedenti.

Le storie drammatiche su un singolo individuo riescono a regalare una finestra di opportunità in cui siamo improvvisamente svegli e non intorpiditi, e vogliamo, riusciamo a fare qualcosa. Ma poi, se non c’è nient’altro che possiamo fare, nel tempo, ci spegniamo nuovamente. Sono storie importanti e possono essere efficaci ma solo se c’è un’azione concreta che può essere intrapresa.

Al momento una soluzione all’intorpidimento psichico non esiste ancora. Ma essere consapevoli che esiste e degli effetti che causa è il primo passo. E, a mio avviso, non è così poco.

Cosa ne pensate? Anche voi siete caduti in questa trappola?

Le COSE veramente IMPORTANTI… sai quali sono?

Alcuni, io sono fra questi, hanno la tendenza a dire sempre sì. Consci che benché sul momento sembri la decisione più facile, non lo sarà nel tempo. Il rischio è di essere impegnati ma non produttivi e scambiare l’iperattività per produttività.

Dire no, nei momenti giusti, aiuta a concentrare l’attenzione e gli sforzi sulle cose realmente importanti e massimizzare il successo.

Un integralista del no è il consulente di gestione e redattore di HBR Greg McKeown. Nel best seller Essentialism: The Disciplined Pursuit of Less (Dritto al sodo. Come scegliere ciò che conta e vivere felici), espone una metodologia utile allo scopo e che è possibile concentrare in tre punti:

·        Meno è meglio;

·        Poche sono le cose veramente essenziali nella vita;

·        Creare una routine è importante per concentrarsi solo su ciò che è essenziale.

Detta così, suona semplice. In parte lo è ma, per far propria questa metodologia, occorre essere aperti al cambiamento. Non a caso è un ottimo esercizio di Change Management.

Per diventare essenziali, secondo Greg, occorre sostituire i falsi presupposti: “Ho bisogno di farlo”; “Questo è tutto importante” e “Posso fare entrambe le cose”, con:

1.  “Scelgo di fare”;

2. “Solo poche cose contano davvero”;

3. “Posso fare qualsiasi cosa, ma non posso fare tutto.”

Alla base del successo di tale filosofia, c’è la necessità di riconoscere di avere una scelta. Se lo dimentichiamo, cadiamo facili prede delle scelte altrui.

Un essenzialista è colui che apprezza il potere di scelta

Molte persone non riescono a performare poiché credono che tutto sia importante. Quindi è essenziale investire del tempo per valutare le diverse opzioni. Con questa valutazione, un essenzialista è in grado di separare ciò che è vitale (di solito poche cose) da ciò che è banale. Spesso l’errore deriva dal fatto che confondiamo iperattività con produttività.

Inconsciamente associamo più lavoro a più risultati. Crediamo che più ore impieghiamo, migliore sarà la nostra produzione. Questo atteggiamento è intrinsecamente imperfetto. Cercando di fare il più possibile, non ottimizziamo i nostri sforzi.

Prendiamo l’esempio della lettura.

Sei libri contengono più conoscenza di uno. Di conseguenza, un approccio iperattivo sarebbe quello di leggerli tutti e sei il più rapidamente possibile. In questo modo, saremo sicuri di assorbire tutta la saggezza e ottenere più valore dalla nostra attività di lettura. Tuttavia, cercando di leggere i sei libri in un breve periodo, non abbiamo l’attenzione alla lettura necessaria per digerire le lezioni dei libri. Leggere uno dei sei è la soluzione essenzialista. Prendendo il tempo necessario per leggere correttamente quel libro, consentiremo al nostro cervello di metabolizzare ciò che serve e usarlo al meglio. Nel tempo, trarremo maggiori benefici da aver letto correttamente un unico libro che aver sfogliato tanti libri: una perfetta manifestazione della regola di Pareto . 

Trade-off

Parliamo di compromesso quando dobbiamo operare una scelta tra due cose che desideriamo. Di solito, il nostro desiderio è fare entrambe le cose, tenere entrambe le opzioni. Raramente è una buona decisione. In questa situazione, un essenzialista non si chiede come fare entrambe le cose, ma decide quale può coltivare di più. E meglio. Con questa riflessione, è in grado di giudicare ciò che gli darà la maggiore opportunità e concentrarsi su quello, cioè concentrarsi solo sull’essenziale.

Regola del 90%

Il funzionamento è semplice: va valutata ogni opzione con un punteggio fra 0 e 100. Quelle sotto 90, sono da eliminare. In questo modo, si evita di rimanere bloccati con le opzioni medie.

1.  Annota su un foglio quale opportunità ti viene offerta (ad esempio, tenere un discorso a un evento);

2. Di seguito, decidi 3 criteri in base ai quali deve essere approvata l’opportunità per iniziare a prenderla in considerazione (Es .: pubblico di oltre mille persone; spese di trasporto pagate, possibilità di vendere il proprio libro);

3. Infine, scrivi i criteri ideali per l’opportunità di essere approvato. (Es. 5000 persone parteciperanno alla conferenza e riceverai un bonus).

Ottimale è accettare solo un’opportunità, quella che soddisfatta tutti i criteri iniziali e almeno due ideali. In questo modo, puoi separare le opportunità che porteranno grandi benefici e sono essenziali da tutte le altre.

“Applicare criteri più severi alle grandi decisioni consente di attingere meglio al sofisticato motore di ricerca del nostro cervello. Pensala come la differenza tra la ricerca su Google di “buon ristorante a New York City” e “la migliore fetta di pizza nel centro di Brooklyn”.

Anche in questo caso per prendere la corretta decisione, occorre porsi e porre domande pertinenti.

Modello di proprietà e budget a base zero

L’approccio essenzialista di McKeown funziona bene nel contesto del minimalismo grazie al suo modello di proprietà e budget a base zero.

Il concetto è semplice.

·        Se non possedessi già un oggetto, lo compreresti comunque?

·        Se non avessi già investito denaro ed energie in un progetto, continueresti comunque?

·        Se non avessi già trascorso del tempo in una relazione, riavvieresti la stessa relazione oggi?

·        Questo modello a base zero ci consente di fare un passo indietro e analizzare con chiarezza le sfide della vita.

·        Se vuoi spendere in modo più razionale, chiediti se ti libereresti di un articolo se non lo avessi già pagato.

Applicando criteri di consumo a base zero, impari a stabilire regole di acquisto.

Stabilisci confini chiari nella tua vita

L’essenzialismo va di pari passo con confini ben definiti. Un essenzialista non è un egoista o un individualista, ma i suoi confini sono chiari. Che sia al lavoro, nella vita sociale o nel tempo libero, dire di no non è una debolezza. È una parte cruciale per liberarti dalle cose che non ti interessano. C’è sempre quel collega che mette tutto sulla tua scrivania e si aspetta che tu sia disponibile 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

Se non fissi mai dei limiti e dici sempre , agirai secondo le priorità di qualcun altro, non le tue. Credendo (erroneamente) che questo verrà a tuo vantaggio, che accumuli crediti e via dicendo. Purtroppo, le persone non faranno altro che approfittarne e arrabbiarsi per quell’unica volta che non hai potuto far altro che dire no.

L’approccio di McKeown consiste nello stabilire in anticipo dei confini chiari per eliminare la necessità di un no diretto, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Predefinendo le priorità e i limiti sul lavoro e nella vita personale, il tuo approccio essenzialista sarà evidente ed eviterai i conflitti quando i tuoi confini cambiano nel tempo.

Fai meno cose meglio

Prendi come esempio la tua vita professionale.

· A quanti progetti stai lavorando in questo momento?

· Quante persone dipendono da te?

· Quanto ti impegni in ogni parte del tuo lavoro?

Tutti possiamo trovare modi per fare meno cose meglio. Fare meno cose permette di comunicare meglio e potenziare sé stessi e gli altri.

Se sei il leader, avrai più tempo per comunicare correttamente la tua strategia e questo, a sua volta, consentirà ad altre persone di assumersi maggiori responsabilità. Questa migliore comunicazione porterà anche a una maggiore responsabilità per il leader e i suoi collaboratori.

Infine, fare meno cose nella vita ti aiuterà a ottenere risultati migliori. Poiché un approccio essenzialista garantisce uno sforzo unitario verso un obiettivo ben definito, i risultati saranno più soddisfacenti.

Trasliamo il tutto in un esempio sportivo.

Se stai cercando di allenarti per una maratona e un’esperienza di arrampicata allo stesso tempo, è probabile che non otterrai né l’una né l’altra. Farai progressi in entrambe le direzioni, ma mai abbastanza per raggiungere l’obiettivo finale. Almeno questo è ciò che succede alla maggior parte delle persone.

23 aprile 2024 – Evento “Spazi virtuosi: illuminare il futuro delle risorse umane con l’Intelligenza Artificiale – Altec e Thales Space

23 aprile ’24 – Evento “Spazi virtuosi: illuminare il futuro delle risorse umane con l’Intelligenza Artificiale“, presso ALTEC SPA e THALES ALENIA SPACE ITALIA SPA – Corso MARCHE, 79 – TORINO

Organizzato dalla sezione regionale AIDP Piemonte e Valle d’Aosta e dal gruppo Hr Tech AIDP

L’intelligenza artificiale (IA) sta rivoluzionando radicalmente il modo in cui lavoriamo e questa trasformazione impone una necessaria riflessione sulle competenze richieste e sugli impatti che essa ha sui processi di gestione delle risorse umane.

Stiamo esplorando un mondo nuovo e più che avere risposte risulta importante farsi delle domande per comprendere quali saranno gli impatti per il nostro lavoro e per la nostra Azienda e attivarsi per i cambiamenti necessari.

Attraverso questo evento cerchiamo di comprendere la tecnologia partendo dalle applicazioni in campo aerospace, scopriremo l’innovazione tecnologia applicata nel contesto della fabbrica 4.0, fino a poi comprenderne l’impatto generale su attività e competenze e definire il ruolo della Direzione HR nel supportare questa trasformazione.

 

Quanto puoi ESSERE TU, sui social Media?

Qualche anno fa, la giornalista del Guardian, Elle Hunt, decise, a seguito di una conversazione con amici su film e generi cinematografici, di aprire un sondaggio su Twitter. L’obiettivo era capire se il film Alien, potesse o meno essere considerato un horror.

La sua posizione era chiara: «no, perché un horror non può essere ambientato nello Spazio».

Il giorno dopo, la giornalista trovò decine di email da parte di sconosciuti arrabbiati e di amici preoccupati: il sondaggio aveva ottenuto 120 mila voti e la sua opinione era stata citata da migliaia di persone che se la prendevano con lei per quanto affermato. Molti volevano delle scuse. La ragione di tante attenzioni era che quel sondaggio era finito tra gli argomenti “di tendenza” su Twitter.

La spiacevole esperienza vissuta dalla Hunt è uno dei numerosi esempi di interazioni sui Social in cui un pubblico eccessivamente esteso elabora – in modi solitamente poco indulgenti – un’informazione inizialmente concepita per un pubblico ristretto. Questo fenomeno, molto comune sulle piattaforme social, è noto come “collasso del contesto”.

COLLASSO DEL CONTESTO: NEI DETTAGLI

Il collasso del contesto è dunque l’effetto prodotto dalla coesistenza di molteplici gruppi sociali in un unico spazio, in un unico #contesto.

Dove sta il problema?

Nel mondo reale abbiamo un range di relazioni, che va dai confidenti intimi agli amici, fino ai conoscenti. E, a seconda dei momenti e delle circostanze, mostriamo facce diverse e diciamo bugie per mantenere inalterata l’immagine che gli altri hanno di noi. Nel mondo virtuale, dei social media, questi confini sono sfumati, se non addirittura inesistenti.

Facebook è stato inizialmente impostato per avere un solo tipo di “amico”, in modo che ogni persona che hai accettato come amico avrebbe visto tutti i tuoi post. Negli anni, ha ampliato le sue opzioni per l’ordinamento in base ad “amici intimi”, “conoscenti” e altri gruppi, in modo che gli utenti possano modellare i loro feeddi notizie e pubblicare post mirati.

L’etnografa Danah Boyd, una delle prime ricercatrici della vita sociale online, fa riferimento alla “convergenza sociale” nei siti di social networking. La convergenza sociale, si verifica quando più mondi sociali si fondono. Ciò si traduce in un “collasso del contesto“, il che significa che i social media riuniscono contemporaneamente diversi contesti sociali. È come cercare di chattare comodamente con tua madre, un tuo amico, la tua collega e il tuo ex allo stesso tempo.

Alcuni nuovi problemi sociali sono emersi come risultato di questi circoli sociali che si sono fusi. Devo taggare la mia amica Maria in una foto che pubblico su un socialanche se so che non farà piacere all’altra mia amica Barbara? Se non la taggo, si offenderà? Anche se non pubblico, devo comunque chiedere a Maria di non taggarmi in uno dei suoi post perché sono preoccupato per la possibile reazione di Barbara…

Chi non si è trovato in situazioni simili?

In uno studio del 2012, i ricercatori hanno utilizzato i dati dei focus group per elaborare 36 “regole” dell’amicizia su Facebook. Per molti versi l’amicizia su Facebook è la stessa cosa dell’amicizia nel mondo reale.

Ma sui social, il peso elevato attribuito alla presentazione di un’immagine positiva è portato all’estremo. L’amicizia nel mondo offline è più complessa e comporta doveri più seri. Ci aspettiamo che gli amici ascoltino seriamente le nostre preoccupazioni, che ci sostengano e capiscano quando facciamo cose che non sono educate, simpatiche o interessanti. Online, essere un “buon amico” significa più comunemente mantenere il costrutto di “persona felice” di qualcuno.

Bernie Hogan, ricercatore presso l’Oxford Internet Institute, ci esorta a considerare le amicizie sui siti di social networking come relazioni di accesso, non di intimità, affetto o attaccamento emotivo. Diventare amici su Facebook, significa ottenere i diritti di visualizzazione e pubblicazione delle “performance” identitarie di qualcuno.

Nei contesti vis à vis, spesso abbiamo un maggiore controllo sulla nostra identità perché possiamo personalizzare il modo in cui ci presentiamo in una determinata situazione sociale. Se abbiamo amici con noi, anche loro regolano le informazioni che condividono in base a chi è presente. E, proprio come noi, sono consapevoli delle ripercussioni sociali di rivelare qualcosa che è inappropriato per un pubblico specifico. Ma online, un’amica potrebbe pubblicare una foto di te in una situazione compromettente che diventa immediatamente visibile a tua madre e al tuo capo. È raro che un amico mostri intenzionalmente una foto del genere a un pubblico inadatto nella vita reale. L’equivalente digitale di “un lapsus” – come pubblicare una foto di una coppia e rovinare il loro alibi socialmente accettabile – accade facilmente e spesso. Ed è meno probabile che passi inosservato in un formato in cui tutto viene scritto e trasmesso a una rete convergente.

Quando si accetta una richiesta di amicizia online, occorre ricordare che si sta fondendo il mondo di questa nuova persona con il nostro. Si sta concedendo al nuovo “amico” i diritti di pubblicazione della nostra identità sociale.

Ps…

Non è un caso se molti utenti, per mitigare gli effetti del collasso del contesto, ricorrano a strategie le più diverse, come autocensurarsi, creare identità multiple o utilizzare le impostazioni per la privacy.

E voi? Avete mai fatto caso a questo fenomeno? Vi trovate a vostro agio o avete adottato strategie utili che volete condividere?

E se NON fosse un PLAGIO? ..Ma solo CRIPTOMNESIA!

Una serata come tante, un gruppo di amici che cenano insieme, chiacchiere che si mescolano e confondono in un’unica trama senza né strappi o fronzoli. Ad un tratto, il discorso piega sulla difficoltà celata nel cucire racconti, di libri incompiuti, manoscritti lasciati ammuffire in un cassetto e di pensieri annotati nel cuore della notte che si sgretolano alle prime luci dell’alba. Di quelle storie appena abbozzate, ne avevo non poche, e va a finire che, fra un piatto e l’altro, ne parlo con un’amica.

Passano le settimane e poi qualche mese, e rivedo quell’amica che, con leggerezza e spensieratezza, interrompe i convenevoli per mettermi al corrente di una novità che la riguarda: “Sto scrivendo un libro”. Sapevo che subiva da tempo il blocco dello scrittore, e fui felice per lei, fino a che, ascoltandone i contenuti, mi sono resa conto che era esattamente il tema di cui avevo parlato quella sera a cena.

Non volendo rovinare la nostra amicizia, ho taciuto. Mi era difficile credere che lo stesse facendo di proposito, visto che me lo stava raccontando. Impossibile credere che mi avesse deliberatamente rubato un’idea. Mi rannicchiai fra la tristezza e la delusione, la rabbia e lo stupore fino a che mi ricordai che ciò che avevo appena sperimentato, non era nient’altro che una dinamica piuttosto diffusa, e dal nome inusuale: criptomnesia[1].

COSA È LA CRIPTOMNESIA

La criptomnesia è un disturbo della memoria[2] che ci porta a ricordare un’informazione, ma non il contesto in cui l’abbiamo appresa. Trasformando quel ricordo, che affiora alla mente in un secondo tempo, come idee e intuizioni originali.

Qualcuno etichetta il fenomeno come furto inconsapevole, tanto per delimitare un verdetto di innocenza, ma seminare comunque il dubbio. Ricordare quel fenomeno, mi ha permesso di preservare l’amicizia. E, anche, di portare alla memoria molti altri casi più o meno noti.

JUNG, MELVILLE, BALZAC, WILDE

Jung parla di criptomnesia nei suoi scritti, riferendola anche a sé stesso. Nel corso degli anni, venne a scoprire che molte cose, che lui attribuiva al suo intuito e alla sua creatività, già esistevano, in qualche libro o in qualche credenza.

Ricordate Ishmael, il naufrago caro a Melville? E’ il 1851 quando, negli Stati Uniti, viene pubblicato il libro. Nel 1719, un altro naufrago, Robinson Crusoe, si rivela al mondo. Melville aveva forse letto Crusoe? Ha forse ripescato Ishmael dal mare di Defoe? Chissà se il ricordo è diventato opportunità…

Balzac, ne “Le chef d’oevre inconnu”, racconta di un grande pittore che sta lavorando al ritratto di una donna, così intenso da suscitare in lui una passione smisurata. Finirà tutto in tragedia nel momento in cui il pittore mostrerà il dipinto, morendo dopo aver dato fuoco a tutti i suoi dipinti. Oltre la Manica, Oscar Wilde invece era intento a scrivere “Il ritratto di Dorian Gray”, un racconto inverso rispetto a quello dello scrittore francese. Un uomo, innamorato di sé stesso, vuole trasformare la sua vita in un’opera d’arte e ucciderà, fra gli altri, il pittore che lo ha ritratto.

… e OLIVER SACKS

A raccontare un caso personale di criptomnesia è Oliver Sacks, ne “Il fiume della coscienza”, una raccolta postuma di inediti, e dove in uno dei saggi, narra di un suo falso ricordo: i bombardamenti subiti da Londra durante la seconda guerra mondiale. Sacks ha descritto l’esplosione di una bomba incendiaria vicino a casa, per poi scoprire, a pubblicazione avvenuta, che quel ricordo non era suo, ma di suo fratello maggiore, che gliel’aveva descritto in modo dettagliato in una lettera. Negli anni, Oliver aveva ricreato nella propria mente l’immagine evocata da quella lettera, rendendola man mano sempre più sua: fino a sovrapporre la linea di demarcazione tra racconto e ricordo.

Ho il sospetto che molti degli entusiasmi e degli impulsi, che mi sembrano in tutto e per tutto miei, possano essere scaturiti da suggerimenti altrui dei quali ho subito, in modo più o meno consapevole, la forte influenza, e che ho poi dimenticato. […] In qualche caso queste dimenticanze possono estendersi all’autoplagio, e mi trovo a riprodurre intere frasi ed espressioni trattandole come nuove. […] Ho il sospetto che tutti incappino in tali dimenticanze, forse comuni soprattutto in chi scrive, dipinge o compone, giacché è probabile che la creatività ne abbia bisogno per riportare alla luce ricordi e idee, e osservarli in contesti e prospettive nuovi”.

GEORGE HARRISON, STEVENSON E UMBERTO ECO

Un altro caso eclatante è quello che ha protagonista George Harrison, che nel 1970 incise una canzone, My sweet lord, che conteneva parti sovrapponibili a quelle di un brano di Ronald Mack di otto anni prima (He’s so fine). Il plagio fu così palese che Harrison al proposito disse che era stupito lui stesso che non fosse riuscito a notarlo. Questo errore gli costò 587 mila dollari[3].

Robert Louis Stevenson, riprendendo in mano “Racconti di un viaggiatore” di Washington Irving, si rese conto di aver inavvertitamente sottratto diverse frasi dallo scritto dell’autore statunitense per comporre “L’Isola del tesoro”.

Umberto Eco, confessò di aver scoperto che alcuni dettagli che aveva letto da un antico volume erano affondati nei meandri della memoria per poi riemergere ne “Il nome della rosa”[4].

I BRAVI ARTISTI TRASFORMANO IN MEGLIO CIO’ CHE PRENDONO IN PRESTITO

Il fenomeno è piuttosto diffuso. E nonostante sia facile pensare male, è sufficiente conoscere almeno un po’ cosa sta dietro l’attitudine creativa, per capire che molti plagi sono stati fatti in buona fede[5].

C’è un esperimento, del 1989, che lo dimostra: è stato chiesto a gruppi di quattro studenti di produrre un certo numero di voci per una data categoria; conclusa questa fase, agli stessi studenti veniva richiesto di ricordare quali tra le varie voci appartenessero a ciascun soggetto; in una terza fase, infine, veniva chiesto di generare nuove voci per le stesse categorie: alla fine, il 70% dei partecipanti si ritrovava a segnare come nuova voce una di quelle prodotte dai compagni di gruppo.

Ciò che ci impedisce di ricordare la fonte e l’origine di ogni informazionein nostro possesso, è in realtà un punto di forza: se così fosse saremmo sopraffatti da informazioni spesso irrilevanti.

Il disinteresse per le fonti ci consente di assimilare quello che leggiamo, quello che ci viene raccontato, quello che altri dicono, pensano, scrivono e dipingono, con la stessa intensità e ricchezza di un’esperienza primaria. Questo ci permette di assimilare l’arte, la scienza e la religione attingendo alla cultura nella sua totalità, di penetrare e contribuire alla mente collettiva”.

Alla mia amica, non ho mai fatto notare il plagio. Chissà se ne è resa conto da sola, o se è ancora convinta della bontà della sua intuizione. E chissà, se di quell’idea, alla fine io ci avrei fatto qualcosa. Come scrisse Philip Massinger: “I cattivi poeti deturpano ciò che prendono in prestito, i buoni poeti lo trasformano in qualcosa di migliore, o se non altro in qualcosa di diverso”.

E poi, chissà quante idee che considero mie, le ho in realtà sottratte ad altri… Quante delle narrazioni[6] che reputo mie per intero, sono travestimenti più o meno simili dall’originale.

E voi, avete in mente qualche plagio innocente a cui avete assistito, di cui siete stati vittime o inconsapevoli carnefici?

FONTI

[1]  Brown A.S., Murphy D.R., (1989). Cryptomnesia: delineating inadvertent plagiarism. Journal of Experimental psychology: learning, memory and cognition, 15(3), 432-442

[2]  Macrae C.N., Bodenhausen G.V., Calvini G., (1999), Context of cryptomnesia; may the source be with you, Social Cognition 17, 273-297

[3] Criptomnesia: you’ve never had an original thought, feb. 3, 2023

[4]  Eco U., (1992), Interpretaion and overinterpretation. Cambridge University Press

[5]  Tenpenny P.L., Keriazakos M.S., Lew G.S., Phelan T.P., (1998), In search of inadvertent plagiarism. The American journal of psychology, 111(4); 529-559

[6] Gorvett Z., (2023, March 26), Why your colleagues can’t help stealing your ideas, BBC Worklife

Legge di FALKLAND: se NON vuoi prendere una DECISIONE, NON prenderla

Ci sono situazioni durante le quali tutto ciò che vorremmo fare è posticipare la presa di una decisione. Non decidere ci sembra, in quel frangente, l’unica cosa da fare. In fondo, ce lo consiglia anche la legge di Falkland che recita: “Se non vuoi prendere una decisione, non prenderla”.

Non fa una piega.

Forse.

In realtà, anche non decidere, è di fatto una decisione.

Spesso, procedere a una scelta è difficile per diverse ragioni. Per citarne un paio, una è legata al timore di non fare la scelta migliore. Avrai sentito, al riguardo, parlare di FOBO (fear of a better option), la paura che scatta quando si deve scegliere fra diverse opzioni all’apparenza ugualmente valide.

Quando le informazioni sono troppe si genera un sopraccarico cognitivo che porta, in molti casi, a procrastinare la decisione o lasciare che siano altri a scegliere per noi.

Un altro fattore che può minare il processo decisionale è la paura di dover fare i conti con effetti e conseguenze irreversibili e negative causati da una decisione errata. Si tratta, di fatto, di fare una valutazione fra guadagno e perdita. Il costo di una scelta, in questa ottica, corrisponde al valore della migliore alternativa scartata. E proprio l’alternativa scartata torna con le sue caratteristiche attraenti e positive quando abbiamo operato la nostra scelta, dandoci la percezione di essere vicini al fallimento. Come canta Passenger, nel brano Let her go: “Only know you love her when you let her go”, ovvero: “Capisci di amarla solo quando l’hai persa”.

COSA HA A CHE FARE LA LEGGE DI FALKLAND IN TUTTO QUESTO?

L’utilità della legge di Falkland è quella di spingerci a pensare in modo più critico prima di decidere. Spesso, per toglierci un problema, decidiamo senza riflettere sulle conseguenze o non decidiamo affatto ma prima o poi la nostra immobilità ci porterà il conto.

La legge di Falkland inoltre ci esorta ad ascoltare l’istinto soprattutto se ti invia segnali. Anche perché l’istinto non è magia ma l’esperienza che si fa voce. E poi, per quanto banale: una decisione andrebbe presa quando si ritiene che sia corretta. Così facendo, anche se si rivelerà sbagliata, non avremo rimpianti e saremo in grado di imparare dall’errore.

Ma se né Kidlin, di cui ho scritto nella scorsa newsletter, né Falkland ti sono di aiuto, ecco qualche consiglio che può comunque tornarti utile.

E ALTRI 8 CONSIGLI

Scegli sempre, anche non scegliere è una scelta. Come già scritto, non decidere è una decisione che ti porta a stare dove sei. Chiediti: È quello che voglio? L’importante è che tu ne sia consapevole.

Riduci le possibilità di scelta. Esplicita il problema e procedi a delineare pro e contro per ogni alternativa, eliminando quelle che non ti soddisfano o non sono strategiche rispetto all’obiettivo che vuoi raggiungere. Non sempre e non tutte le opzioni sono utili.

Chiediti: «Cosa succederebbe se sbagliassi?». Quale potrebbe essere lo scenario peggiore? È davvero così drammatico? Di solito quando ti fai questa domanda trovi anche le possibili soluzioni a un eventuale errore. «Se sbaglio farò così…». Pensare un’alternativa fa sentire più sicuri.

Non rimandare. Procrastinare ti fa sentire meglio solo all’inizio perché pensi che prima o poi prenderai una decisione, ma non ora e intanto speri che le cambino. Di solito succede nelle relazioni, e si sta in attesa che qualcosa accada. Se a volte dormirci su può aiutare a prendere una buona decisione, ci sono situazioni in cui rimandare equivale a non vivere il presente.

Non aspettare che tutto sia perfetto. A volte le soluzioni sono intermedie, richiedono molto impegno, ma ti consentono di fare delle scelte.

Si può spesso tornare indietro. Sii sincero con te stesso e cerca di capire se la scelta che dovrai operare ti permetterà o meno di rettificare, modificare delle azioni strada facendo o se una volta presa non ti sarà più possibile tornare indietro. Raramente qualcosa è definitivo.

Immagina di aver già scelto. E guarda che effetto e che conseguenze potrebbe avere l’alternativa che hai scelto. Annota le tue sensazioni, cogli le tue perplessità, usa carta e penna e pondera le opzioni.

Non farti condizionare dagli altri. Più una scelta è importante per te meno persone devi coinvolgere. Confrontati solo con cui può dare del reale valore aggiunto, altrimenti assumiti la tua responsabilità decisionale.

Per quanto difficile sia decidere, è una fatica che vale la pena fare. O per usare le pare di Jean Paul Sarte: “La cosa essenziale nella vita è scegliere. Se ti tolgono la possibilità di farlo è come se ti togliessero la libertà”.

Legge di KIDLIN: per trovare una SOLUZIONE a un PROBLEMA troppo difficile da RISOLVERE

Ti sei mai trovato nella situazione di avere un problema che sembrava troppo difficile da risolvere?

La domanda è retorica. Un po’ tutti ci siamo trovati a dover gestire un problema che, a prescindere dalle soluzioni, dal tempo e dalle energie profuse, non siamo riusciti a risolvere.

Quando ci si trova bloccati su un problema o quando quest’ultimo è vago, sfaccettato e poco chiaro, ricorrere alla legge di Kidlin può essere utile.

La legge di Kidlin è un principio di risoluzione dei problemi che dice: “Se scrivi chiaramente il problema, la questione è risolta a metà”.

Questa legge prende il nome da Kidlin, un personaggio immaginario in un romanzo di James Clavell che utilizzò questa tecnica in diverse sue sfide.

COME APPLICARE IL PRINCIPIO DI KIDLIN

Definisci il problema: il primo passo è riconoscere un problema esistente o l’incapacità di raggiungere l’obiettivo desiderato. È importante avere consapevolezza sulla natura e sulla portata del problema, nonché necessario rispondere al motivo per cui il problema è percepito tale.  Quindi occorre descriverlo in modo semplice e chiaro, evitando affermazioni vaghe o generiche, come “Sono infelice” o “Ho bisogno di più soldi”. Cerca invece di essere specifico e concreto: “Non sono soddisfatto del mio lavoro attuale perché non corrisponde alle mie capacità e ai miei interessi” oppure “Ho bisogno di più soldi per saldare i debiti e risparmiare per comprarmi un appartamento”.

Analizza il problema e determina le cause: il passo successivo è scomporre il problema in parti più piccole e semplici così da trovare la causa principale. Poniti domande del tipo: “Quali sono le cause del problema?”; “Quali sono gli effetti del problema?”; “Quali sono i vincoli o i limiti del problema?”; “Quali sono le ipotesi o le convinzioni alla base del problema?”; “Quali sono gli obiettivi o i risultati desiderati per risolvere il problema?”; “Da dove viene esattamente questo problema?”; Quali sono le sue dimensioni e il grado di impatto, qual è il livello di priorità?”.

Definisci gli obiettivi.Cosa si otterrà una volta risolto il problema? Che tipo di risultato ti aspetterà una volta raggiunto l’obiettivo? Immagina la sensazione che proverai quando il problema sarà risolto. Per natura, programmiamo la nostra vita in base a ciò che ci aspetta alla fine della giornata. Agiamo in base al rapporto profitti-perdite.

Genera soluzioni. A questo punto occorre fare il brainstorming delle possibili soluzioni per ciascuna parte del problema. Non giudicare o valutare le tue idee in questa fase; ma scrivine il maggior numero possibile. Sii creativo e aperto.  Prova a guardare il contesto da diverse angolazioni e prospettive.

Valuta le soluzioni. Valuta le risposte e scegli quella migliore per ciascuna parte del problema. Considerare fattibilità, efficacia, efficienza, costi, rischi e fattori di impatto.

Implementa le soluzioni. Verifica se la soluzione è fattibile. Ci sono domande a cui è necessario rispondere per garantire la fattibilità: “Può essere implementata entro un lasso di tempo accettabile?”; “Si adatta a un piano scalabile?”; “È efficace, affidabile e realistica?”; “E’ tecnicamente possibile?”.

Dopo aver trovato una risposta alle domande, scegli la soluzione. Imposta scadenze e traguardi per ogni azione per misurare i progressi. Uno degli elementi più importanti è avviare un rigoroso processo di follow-up.

Affinché il processo sia applicabile in modo sano è necessario procedere costruendo un meccanismo di feedback.

Scrivere il problema aiuta a chiarire il pensiero, focalizzare l’attenzione, organizzare le informazioni e comunicare le idee. Consente inoltre di ridurre lo stress, aumentare la fiducia e motivare l’azione.

A questo punto, non ti rimane che applicare la legge di Kidling ogni qual volta un problema è troppo complesso o non riesci a trovare la soluzione.

7 marzo 2024 – Workshop “Strategie per rendere più facili scelte complesse in famiglia e sul lavoro” – Coldiretti Cuneo

7 marzo 2024 – Workshop “Strategie per rendere più facili scelte complesse in famiglia e sul lavoro” – presso la sede provinciale della Coldiretti Cuneo

BOSS in INCOGNITO NON è la SOLUZIONE ai PROBLEMI (in AZIENDA)

Facendo zapping, mi sono accorta che Boss in incognito – un reality game che mette a confronto il capo di una fabbrica con i dipendenti – è ripartito sui canali Rai. Più nello specifico, al capo di una importante realtà imprenditoriale, viene camuffato l’aspetto e fatta assumere una identità fittizia così da mescolarsi ai dipendenti e scoprire cosa pensano dell’azienda.

Il successo di un programma televisivo però non sempre è proporzionale alla sua utilità nel risolvere problemi. Per risolvere un problema occorre capire qual è il problema.

Se informazioni e tempo scarseggiano, si diventa vittime di decisioni irrazionali, una tra tutte l’euristica della disponibilitàche fa considerare eventi con una forte componente emotiva, più decisivi e probabili.

Eppure…

Segretezza: elemento chiave di Boss in incognito. È necessaria?

Mere observation effect: la semplice osservazione di un fenomeno lo modifica. Se sappiamo esserci un vigile modereremo la velocità alla guida. Ma l’effetto induce una modifica esclusivamente in quei comportamenti che sappiamo essere osservati e per i quali ci saranno conseguenze. Non è questo a rendere un comportamento, virtuoso e sostenibile nel tempo.

Campionamento sporadico, basato sulla ricerca di eventi eclatanti. L’approccio non è dettato da una scelta metodologica ma dall’esigenza di segretezza; se vogliamo mantenere l’incognito, dobbiamo prevedere che uno stesso “agente” non possa osservare una situazione più di una volta.

L’unico approccio utile è mantenere il senso della prospettiva e basare le decisioni su evidenze certe e numericamente rappresentative. Nonché cercare comportamenti positivi da estendere a tutti e non additare ciò che è negativo.

Soprattutto perché se ciò che è considerato negativo non lo è in percentuale maggioritaria, evidenziarlo servirà solo a farlo percepire come “la norma” e quindi invoglierà a uniformarsi. Questa è anche una delle ragioni che spiega il fallimento di tante campagne sociali, come dimostra l’economia comportamentale.

Cosa ne pensate?

Ehm, Um, Uh… Perchè è DIFFICILE farne a meno quando PARLIAMO?

Un paio di sere fa stavo ascoltando un’intervista in TV a una nota attrice italiana quando sono stata costretta a cambiare canale. Ogni sua risposta era costellata da fastidiosi ehm, eh, um, uh.

Nonostante l’argomento trattato fosse di mio interesse, l’esitazione continua rendeva difficoltoso l’ascolto. E questo mi ha portato a domandarmi se anch’io fossi solita ricorrervi. Mi sono così resa conto che tutti usiamo dei riempitivi, soprattutto quando parliamo in pubblico o non abbiamo avuto modo di prepararci prima un discorso.

Più l’opportunità di parlare è improvvisata, più riempitivi utilizziamo. Dovendo pensare a cosa dire mentre parliamo, gli ehm, eh, um, uh, ci vengono in soccorso per guadagnare tempo e trovare le parole giuste. Condizione che colpisce tutti, anche gli oratori esperti.

In uno studio, il linguista Mark Liberman ha analizzato un enorme database di lingue parlate e ha scoperto che una parola su 60 pronunciata è um o uh. A seconda della velocità con cui si parla, si inseriscono da due a tre di questi riempitivi al minuto.

Perché lo facciamo?

Una risposta ovvia è che li usiamo quando non siamo momentaneamente in grado di dire quello che vogliamo dire. Potremmo avere difficoltà a ricordare una parola o un nome, o a formulare i nostri pensieri, oppure potremmo avere motivo di esitare. Riguardo a questo ultimo punto, per la maggior parte delle persone, è più semplice ricorrere a riempitivi che restare in silenzio.

Il motivo per cui diciamo ehm, eh, um, uh è che, nell’alta velocità della conversazione, tacere non funziona. Nel parlato quotidiano non esiste un copione. Non sappiamo chi parlerà, quando e per quanto tempo, cosa dirà e se quando qualcun altro interverrà, soprattutto perché in una conversazione civile si tende a rispettare la regola di “parlare uno alla volta”. Le regole cooperative della conversazione ci impongono quindi di utilizzare dei segnali che regolino il flusso dell’interazione sociale.

Supponiamo di avere difficoltà a esprimere un pensiero: se rimaniamo in silenzio, l’interlocutore potrebbe credere che abbiamo esaurito ciò che avevamo da dire e prendere lui in mano il filo della conversazione. Se ciò accade, potenzialmente abbiamo perso la nostra occasione per dire ciò che volevamo esprimere, anche perchè la conversazione potrebbe velocemente virare su altri temi.

Pertanto, se sei claudicante ma non hai ancora finito di palesare il tuo punto di vista, utilizzare un riempitivo come ehm, eh, um, uhpermette di guadagnare tempo e non perdere una chance.

Il riempitivo è, a tutti gli effetti, un segnale che spiega il tuo ritardo: “per favore aspetta un attimo, non ho ancora finito“. Se l’altra persona collabora, si asterrà dal prendere la parola.

Nonostante i riempitivi abbiano funzioni chiare nella conversazione, spesso ci viene consigliato di evitarli. Il problema è che, almeno nelle conversazioni informali, se li eliminassimo tutti, troveremmo persone che inizierebbero a parlare prima di darci il tempo di concludere. L’unico modo per liberarsi dei riempitivi è essere sempre pronti a dire ciò che vogliamo dire nella frazione di un secondo di tempo che abbiamo a disposizione prima che l’altro prenda, a sua volta, la parola.

In una conversazione fluida, è inevitabile sperimentare dei ritardi e, se non si ricorre a quei fastidiosi ehm, eh, um, uh il rischio è passare per persone noiose e banali.

In che modo parlare in pubblico è diverso

Nessuno parla sempre in modo perfetto. Tendiamo però a essere più fluidi in determinate condizioni, ad esempio quando trattiamo un argomento che conosciamo bene, quando diciamo cose che abbiamo già detto e quando non abbiamo fretta. Queste condizioni non possono essere garantite in una conversazione a flusso libero. Di solito non sappiamo in anticipo cosa diremo esattamente. Non possiamo esercitarci e nemmeno avere sempre il controllo sull’argomento della conversazione per ogni contesto in cui andremo a trovarci. Questo perché ogni conversazione è un progetto congiunto, costruito al volo, e in modo collaborativo, dalle due o più persone coinvolte nella conversazione.

Nel parlare in pubblico la situazione è diversa. Quando parliamo di fronte a una platea, possiamo decidere (e provare) in anticipo cosa diremo. Quindi, con una buona pianificazione possiamo garantire che le parole e le idee che articoliamo siano facilmente accessibili, il che significa che possiamo essere più fluenti ed evitare i riempitivi.

In secondo luogo, nel parlare in pubblico, una delle funzioni principali svolte dai riempitivi, vale a dire far sapere all’altra persona di non iniziare ancora il proprio turno, non è rilevante. La parola è tutta nostra, almeno fino al Q.A. Quindi, se stiamo in silenzio qualche secondo non rischiamo, come nel dialogo informale, di vederci togliere la parola.

In terzo luogo, quando parliamo in pubblico non siamo impegnati nel frenetico andirivieni della conversazione, e quindi siamo liberi di determinare il ritmo temporale del nostro discorso.

La migliore strategia? Rallentare

La migliore strategia per eliminare le parole di riempimento quando si parla in pubblico è rallentare. Rallentando consapevolmente, ci concediamo più tempo per formulare ciò che stiamo dicendo (e il nostro pubblico ha più tempo per elaborarlo), e quindi riduciamo la probabilità delle pressioni cognitive che portano a ritardi, e di conseguenza agli ehm, eh, um, uh.

Rallentare ha anche altri vantaggi: quando parliamo più lentamente, ci sentiamo più autorevoli e rilassati. Se vogliamo ridurre al minimo l’uso dei riempitivi e trarre vantaggio dall’impressione di controllo e autorità che ciò dà, dovremmo comprendere le buone ragioni per cui questi riempitivi conversazionali esistono.

E voi, quanto siete consapevoli dei riempitivi a cui ricorrete?