DELUDERE le PERSONE non è un FALLIMENTO della LEADERSHIP. È il PREZZO per l’INNOVAZIONE

Viene ripetuto di continuo: il leader è colui che ispira, costruisce consenso, coinvolge. Luoghi comuni dietro cui si nasconde una verità decisamente più scomoda: la leadership ha molto più a che fare con la delusione. Non si può guidare un gruppo, un’organizzazione, un partito, se non si è capaci di gestire il sentimento di delusione. Più il nostro impatto aumenta, più cresce, anche, la nostra capacità di deludere gli altri.

I leader più efficaci più che evitare la delusione, imparano a gestirla in modo efficace.

Prendiamo quanto accaduto ad Apple quando, nel 2016, decise di rimuovere il jack per le cuffie dall’iPhone 7: la reazione fu immediata e feroce. I critici tecnologici la definirono “ostile agli utenti e stupida“. I clienti si infuriarono e i competitors pubblicarono annunci che deridevano la decisione. Eppure, oggi, gli auricolari wireless sono onnipresenti e la decisione appare lungimirante piuttosto che insensata.

Ciò di cui Apple era consapevole, è ciò che alla fine imparano la maggior parte dei leader orientati al futuro: per ottenere un’innovazione significativa è necessario deludere le persone in modo strategico.

IL SUCCESSO E LE ASPETTATIVE

Il successo è pieno di fallimenti, soprattutto perché le persone sono portare a chiedere qualcosa in cambio, vogliono qualcosa dal leader, e molte di loro vogliono più di quanto il leader potrà mai dare loro. Questo porta il decisore a vivere in un’atmosfera di pressione e di aspettative disattese costanti.

Accade ovunque. Anche se è particolarmente evidente nella leadership tecnologica, dove le decisioni devono spesso essere prese prima che il mercato sia pronto. Nel momento in cui si crea qualcosa di prezioso, le persone sviluppano aspettative su ciò che dovrebbe accadere in seguito, aspettative che spesso entrano in conflitto con l’innovazione stessa che ha reso prezioso il lavoro in sé.

Prendiamo il passaggio di Netflix dalla distribuzione di DVD allo streaming. Quando fu annunciato, nel 2011, l’azienda perse 800 mila abbonati e le sue azioni crollarono del 77%. Oggi, quella decisione deludente, dimostra che sia stata la mossa decisiva che ha garantito il futuro di Netflix.

FIDUCIA: QUANTA CONFUSIONE!

Il paradosso coinvolge i leader di tutti i settori. Parte della sfida è che fondamentalmente fraintendiamo la fiducia. Lo ha spiegato bene il premio Nobel Daniel Kahneman: “La fiducia soggettiva in un giudizio non è una valutazione ragionata della probabilità che quel giudizio sia corretto. La fiducia è una sensazione che riflette la coerenza delle informazioni e la facilità cognitiva di elaborarle“.

In altre parole, la nostra sensazione di sicurezza spesso dipende più dalla coerenza della nostra storia che dalla sua effettiva probabilità di essere corretta. Questo crea una dinamica pericolosa nella leadership, in cui decisioni apparentemente sicure possono semplicemente riflettere narrazioni coerenti ma imperfette, soprattutto quando tali narrazioni sono in linea con ciò che gli stakeholder vogliono sentire.

Questa dinamica si fa insidiosa nella leadership, dove la pressione ad apparire sicuri di sé alimenta la fretta di creare strategie attorno alle tecnologie emergenti anziché avere la sicurezza di mantenere le strategie aziendali fondamentali e incorporare sperimentalmente le nuove tecnologie.

A dettagliare questo schema, il concetto di “insecure overachievers” (insicuri super-performanti) è Tressie McMillan Cottom: “i leader che raggiungono risultati elevati pur cercando una convalida esterna spesso danno priorità all’apparire lungimiranti piuttosto che all’essere realmente determinati. Il risultato? Decision maker che inseguono le tecnologie anziché i risultati, perseguendo strategie che sembrano lungimiranti ma che in realtà potrebbero distogliere le organizzazioni dalla loro missione principale e dal loro impatto significativo”.

MATEMATICA E DECISIONI

In statistica, gli intervalli di confidenza non ci dicono solo se un effetto esiste, ma anche quanto possiamo essere certi di ciò che sappiamo, il che influisce direttamente sulla nostra sicurezza di agire. Il matematico Jordan Ellenberg lo spiega bene: un intervallo di confidenza ristretto (ad esempio tra -0,5% e 0,5%) significa che si hanno “prove sufficienti che l’intervento non ha alcun effetto“, il che dà la sicurezza di interrompere l’iniziativa. Un intervallo ampio (ad esempio tra -20% e 20%) significa che “non si ha idea se l’intervento abbia un effetto“, il che segnala la necessità di ulteriori dati prima di prendere una decisione definitiva.

In altre parole, questo principio offre un potente parallelo per le decisioni di leadership: la vera fiducia non deriva dall’eliminazione dell’incertezza, ma dal comprendere con precisione cosa sappiamo e cosa non sappiamo e dal (re)agire di conseguenza. Distinzione che offre un potente quadro di riferimento per la leadership, anche definita Matrice della Delusione Strategica:

Contenuto dell’articoloQuadrante 1: Alta certezza / Bassa delusione. Sono le vittorie facili: decisioni in cui i dati supportano fermamente un percorso a cui pochi si opporranno. Perseguitele con entusiasmo, pur riconoscendo che raramente portano a innovazioni rivoluzionarie.

Quadrante 2: Elevata Certezza / Elevata Delusione. Qui ci sono le delusioni necessarie: decisioni sul come abbandonare prodotti amati ma non sostenibili o implementare misure di sicurezza essenziali che creano attriti. L’evidenza dimostra che queste mosse sono necessarie, anche se creeranno delusione. Richiedono coraggio, ma una comunicazione chiara può ridurre al minimo le reazioni negative.

Quadrante 3: Bassa Certezza / Bassa Delusione. Spazi sperimentali in cui è possibile testare ipotesi con un rischio minimo. Questi esperimenti a basso rischio spesso producono “bankable foresights“: intuizioni sulle priorità future su cui è possibile investire con fiducia anche in assenza di certezza assoluta. Utilizzate questi spazi intenzionalmente per raccogliere dati che potrebbero influenzare decisioni più significative in altri quadranti.

Quadrante 4: Bassa certezza / Alta delusione. È dove si verificano le più grandi scoperte e i più grandi fallimenti. Quando Airbnb ha suggerito di affittare le proprie case a sconosciuti, o quando Amazon ha investito in AWS, queste decisioni hanno avuto esiti incerti, deludendo molti stakeholder. Queste decisioni richiedono il massimo livello di giudizio e spesso definiscono l’eredità di un leader.

Capire dove si collocano le tue decisioni in questa matrice non elimina l’incertezza, ma ti aiuta a reagire in modo appropriato.

SPERIMENTA LA DELUSIONE STRATEGICA

Sviluppare la capacità di sentirsi a proprio agio con le delusioni altrui è un’abilità fondamentale che vale la pena praticare consapevolmente. Stabilire l’intenzione di deludere almeno una persona, in modo concreto, nelle prossime 24 ore, osservando che più ci si sente a proprio agio con il rischio di deludere, meglio andranno le cose su tutti i fronti, può essere un buon test per capire realmente le capacità di leadership.

Questa pratica potrebbe includere:

  • Distinguere i tipi di delusione. Distinguere tra delusioni che stimolano le persone in modo produttivo e quelle che danneggiano inutilmente.
  • Creare quadri decisionali trasparenti. Sviluppare e comunicare chiare gerarchie di valori che indichino quali principi abbiano la precedenza quando si rendono necessari compromessi.
  • Esprimere il “perché è pronto per il futuro”. Esercitati a spiegare le decisioni impopolari in termini di orizzonte temporale più lungo, non solo i benefici immediati.
  • Sviluppare la resilienza alla delusione. Sviluppa pratiche personali che ti aiutino a sopportare il disagio di essere incompreso o criticato per le decisioni in cui credi.
  • Misurare l’impatto significativo. Crea parametri che monitorino la creazione di valore a lungo termine, non solo la soddisfazione o il coinvolgimento immediati.

NON C’E’ LEADERSHIP SENZA DELUSIONE STRATEGICA

Quando il CEO di Microsoft, Satya Nadella, decise di spostare l’attenzione dell’azienda da Windows al cloud computing e all’intelligenza artificiale, molti rimasero delusi. Windows era stato il fiore all’occhiello di Microsoft per decenni. Sviluppatori, partner e persino i team interni che avevano costruito la propria carriera attorno al sistema operativo si sentirono traditi.

Ma Nadella stava praticando la delusione strategica. Anziché cercare di accontentare tutti gli stakeholder a breve termine, ne deluse intenzionalmente alcuni per posizionare Microsoft in modo che acquisisse rilevanza a lungo termine.

I risultati parlano da soli. La capitalizzazione di mercato di Microsoft è aumentata da 300 miliardi di dollari, quando Nadella ne prese il controllo, a 3.000 miliardi, rendendola una delle aziende più preziose al mondo. Ancora più importante, questo cambiamento ha posizionato Microsoft come leader nell’intelligenza artificiale e nel cloud computing, le stesse tecnologie che plasmano il futuro.

La svolta strategica di Nadella dimostra una verità cruciale per i leader pronti per il futuro:

deludere le persone non è un fallimento della leadership. Spesso è il prezzo inevitabile di un’innovazione significativa.

La sicurezza di deludere strategicamente non consiste nell’essere certi di avere ragione. Si tratta di avere la lucidità di riconoscere quando l’approvazione immediata entra in conflitto con l’impatto a lungo termine, e il coraggio di scegliere l’impatto anche quando fa male.

In un mondo che si muove troppo velocemente per raggiungere la certezza assoluta, i leader più preziosi di domani non saranno coloro che hanno accontentato tutti oggi. Saranno coloro che hanno avuto il coraggio di deludere intenzionalmente quando necessario, navigando nell’incertezza e non evitandola, ma abbracciandola come terreno necessario per un cambiamento significativo.

La VANITA’ di RACCONTARE CHI siamo

Scrivere la propria autobiografia è difficile. Quasi sempre l’autore è troppo affezionato al protagonista. E non sempre, la vita che ha da raccontare, vale la pena di esser messa in pubblica piazza.

Anche scrivere il curriculum, presenta trappole insidiose. Per esempio, la vanità e la sintesi, sono spesso inversamente proporzionali.

Ne parlavo qualche giorno fa con un cliente, la difficoltà più grande è stata quella di convincerlo a inserire difficoltà e fallimenti nel CV. Reagan si presentava così: «Ronald Reagan è il presidente degli Stati Uniti». Il mio cliente non è presidente e salvo miracoli dubito possa diventarlo… (anche se forse lui questo non lo sa ancora)!

Più sei importante, meno hai bisogno di parole. Le biografie sono spesso un florilegio di titoli, cariche e opere che rivelano insicurezza. Qualunque essere umano, dopo i quarant’anni, è in grado di riempire una pagina o improvvisare un libercolo, al fine di soddisfare la propria latente vanità.

Una nota biografica non è un romanzo, è un riassunto. Cinque righe informano, venti annoiano, trenta allarmano, cinquanta generano sospetto.

Ci sono premi che non si devono vincere. Se accade, è bene mantenere riservata la notizia. Ce ne sono altri che è bello ottenere. In questo caso, la modestia ha il suo peso. Indicare un’onorificenza vale un’ammissione: «Per me è importante!»

Beneficenza e opere di carità sono parti intime: se non si vedono, è meglio. Frasi come «Il dottor S. ha condotto al successo molte imprese italiane e straniere» è pericolosamente vago. Di cosa si occupavano queste imprese? Mangimi, petrolio o affari internazionali? Dove operavano: in Cina o in Nuova Guinea? Evitare i superlativi e limitare gli aggettivi. «Marco V. ha ottenuto notevolissimi successi nel campo dell’informatica» lascia sospettare che sia riuscito, tutt’al più, ad aggiustare la Playstation del figlio.

Aggiornare periodicamente la fotografia. Ci sono colleghi che usano lo stesso ritratto scattato ai tempi del governo Andreotti. Quando v’incontrano, dovete sentirvi dire «lei sembra più giovane di persona!» e non «scusi, ma noi avevamo invitato suo figlio».

«Appare regolarmente in tv»: più che un titolo di merito, è un segno di disperazione. «Già presidente…»: più che un’informazione, è un rimpianto. «Ex deputato…» invece va bene: basta indicare anche l’ammontare del vitalizio.

Concedere qualche informazione personale si può: ma senza esagerare. Il nome della moglie va bene. Quello di tutti gli animali domestici, no.

Dimenticavo: alcuni di questi peccati li ho commessi. Questo decalogo vale come confessione e, spero, anche assoluzione…

28 maggio ’25 – Strategie per rendere più facili scelte complesse in famiglia e sul lavoro – Coldiretti Cuneo

Mercoledì 28 Maggio ’25 parlerò di “Strategie di Nudging per rendere più facili scelte complesse in famiglia e sul lavoro“.

L’evento, dalle 15,30 alle 17, si terrà nella sede della Coldiretti di Cuneo – sede distaccata di Fossano in Via Foro Boario 17 .

L’evento è organizzato dal Comitato Coldiretti Donne.

Una VITA senza PROBLEMI… è davvero ciò di cui abbiamo BISOGNO!

Piacevole, sfrontata, subdola e persistente l’illusione di pensare che un giorno riusciremo a non avere più problemi… Ci cado più di quanto vorrei… Soprattutto quando sono stanca e sopraffatta: pensare che se mi impegno e sacrifico ancora un po’, la distanza da quel momento si fa più vicina!

Beata umana illusione!

È una riflessione che la maggior parte di noi dovrebbe porsi. Credo che tutti, tranne forse i più zen o i più illuminati, posto che esistano, attraversino la vita tormentati dalla sensazione che presto tutto funzionerà, che arriveremo a essere perfettamente organizzati, che risolveremo i nostri problemi personali, ma che fino ad allora stiamo vivendo quella che la psicologa svizzera Marie Louise von Franz chiamava “vita provvisoria“. “Si prova la strana sensazione di non essere ancora nella vita reale. Per il momento, si sta facendo questo o quello… ma si continua a fantasticare che in futuro la realtà si realizzerà“.

La maggior parte dei nostri tentativi di diventare persone migliori, più in forma, sane, morali/produttive/organizzate, e così via, peggiorano ulteriormente questo problema, perché è praticamente impossibile perseguire qualsiasi programma di cambiamento senza il pensiero, da qualche parte nella mente, che portare a termine con successo il cambiamento ci catapulterà in un’esistenza nuova e in qualche modo più reale.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un’esplosione di libri sul tema change, la maggior parte dei quali adotta un approccio concreto, concentrandosi sull’importanza di compiere piccoli passi incrementali. Eppure, raramente sfuggono alla trappola di insinuare che, una volta implementata, un’abitudine diventerà totalmente automatica, e che le sofferenze della vita, almeno in quell’ambito, saranno finite per sempre.

Questo errore di pensiero potrebbe anche andare bene se non compromettesse la qualità della vita che si sta vivendo nel presente. Ma lo fa. La persona intrappolata in una simile mentalità, fa pensare alla metafora del gatto di John Maynard Keynes. Ma non divaghiamo…

Un antidoto è permettersi di immaginare come ci si potrebbe sentire sapendo di non riuscire mai a gestire perfettamente il lavoro, di non diventare mai ciò che si vorrebbe diventare, non riuscire a mangiare sempre e solo in modo sano, di lasciare insoluti alcuni problemi personali…

E se mi sentissi sempre in ritardo con le email? E se ascoltare attentamente gli altri richiedesse sempre lo stesso sforzo innaturale che sembra richiedere ora? E se quella cosa fastidiosa che fa il mio partner mi infastidisse per sempre? Se certe difficoltà rimanessero tali?

La meditazione per molti offre un modello utile in questo senso, perché la maggior parte degli insegnanti di meditazione riconosce esplicitamente che smettere di pensare non è il vero obiettivo; distrarsi per poi tornare a portare attenzione al respiro è il segreto e la soluzione.

Si potrebbero riformulare anche altre attività in questo modo. L’obiettivo come runner non deve essere necessariamente quello di arrivare a un punto in cui sia facile alzarsi alle 6:30, ogni giorno. Piuttosto migliorare la velocità o la falcata, e se di tanto in tanto si preferisce rimanere a dormire, essere consapevoli che si può comunque riprendere, l’allenamento, il giorno dopo.

Quando mi lascio avvolgere da questo pensiero – che potrei rimanere bloccata su certe questioni – inevitabilmente mi innervosisco: “Aspetta, Laura, stai dicendo che non arriverò mai alla fase senza problemi? Non è ciò che mi ero prefissata!“. Ma poi arriva la sensazione di essermi tolta un peso enorme. La pressione si dissolve. Posso rilassarmi e tornare alla vita che sto vivendo. Lungi dall’essere scoraggiante, mi ritrovo molto più motivata a impegnarmi.

A quanto pare, il mio vero problema era pensare che un giorno avrei potuto liberarmi di tutti i problemi, quando la verità è che non c’è modo di sfuggire al cumulo di compost sporco e maleodorante di questa realtà. Il che, in realtà, va bene. Il compost è la sostanza che aiuta le cose a crescere.

Quando una PARTITA di CALCIO NON è SOLO una PARTITA di CALCIO: fra casualità, coincidenze, sincronicità e sequenze di Fibonacci

Jung la chiamava sincronicità, l’idea secondo la quale ciò che accade, nella nostra vita, ha un significato preciso e una ragione. Detta in altri termini: nulla accade per caso. Purtroppo però, non sempre è facile capire il significato degli eventi e dare loro un senso. Come ciò che è accaduto qualche giorno fa…

Nel week end appena trascorso, il Liverpool ha conquistato il secondo titolo di Premier League ma ha non solo vinto, ha anche

completato l’apertura di una serie eccezionale di numeri.

Sequenza che emerge quando classifichiamo il Liverpool insieme agli altri club che hanno vinto la Premier League dalla sua fondazione nel 1992, partendo dal più basso.

Blackburn Rovers: 1

Leicester City: 1

Liverpool: 2

Arsenal: 3

Chelsea: 5

Manchester City: 8

Manchester United: 13

Ossia: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13.

Sequenza che potrebbe sembrare, per i più, poco o per nulla significativa. Ma non per gli appassionati di matematica che la riconosceranno come la successione di Fibonacci, in cui ogni numero (dopo i primi due) è la somma dei due precedenti nella sequenza.

LA SEQUENZA DI FIBONACCI

Questa sequenza può essere riscontrata in una sorprendente varietà di contesti: arte, botanica, architettura, solo per citarne alcuni. In molti fiori, per esempio, il numero di petali rispecchia la sequenza di Fibonacci: gigli e iris hanno 3 petali, primula e rosa canina 5, cosmea 8.

Le sequenze di Fibonacci furono introdotte per la prima volta nella scienza europea nel 1202 da Leonardo da Pisa, noto anche come Fibonacci.

Tuttavia, molto prima che Fibonacci rendesse popolari le sequenze, queste erano già note ai matematici indiani che vi ricorrevano per aiutarsi a enumerare il numero di possibili poesie di una data lunghezza, usando sillabe brevi di una unità di durata e sillabe lunghe di due unità di durata. Capirono cioè che per calcolare il numero di poesie di una data lunghezza bastava aggiungere il numero di poesie che erano più corte di una sillaba al numero di quelle che erano più corte di due sillabe – la stessa regola esatta che usiamo oggi per definire una sequenza di Fibonacci.

Nascosto nelle sequenze si cela un altro importante pilastro matematico: la sezione aurea. Man mano che i termini di una sequenza di Fibonacci aumentano, il rapporto tra ciascun termine e quello precedente si avvicina sempre di più alla sezione aurea, approssimata a 1,61803 dalle prime cifre della sua espansione decimale. Si ipotizza che la sezione aurea governi la disposizione delle foglie sullo stelo di alcune specie vegetali e presumibilmente porti a risultati esteticamente gradevoli quando applicata in arte, architettura e musica .

COINCIDENZE O SCIENZA?

Le sequenze di Fibonacci sono spesso considerate esempi della bellezza della matematica, capaci di fornire vividi esempi visivi di matematica insita negli schemi del mondo reale, senza i quali si farebbe fatica a comprendere. Eccessivo entusiasmo può però portare a considerare le sequenze di Fibonacci, la sezione aurea o anche solo eventi di sincronicità come una sorta di legge naturale onnicomprensiva che governa fenomeni di ordini di grandezza diversi, dalle forme a spirale delle conchiglie, ai vortici degli uragani fino alle galassie.

In realtà, sebbene queste caratteristiche naturali siano esteticamente gradevoli, pochissime di esse rispettano le regole della sequenza di Fibonacci o presentano la sezione aurea.

CALCIO, SEQUENZE O CASUALITA’

È straordinario ad ogni modo scoprire la sequenza di Fibonacci in un luogo così inaspettato come il calcio. Che ci sia un processo sorprendente e invisibile alla base delle lotte per il titolo della Premier League o è solo una curiosa coincidenza?

Solo perché possiamo vedere una sequenza di Fibonacci in qualcosa non significa che sia lì per un motivo.

Tuttavia, individuare questo tipo di apparenti coincidenze può essere estremamente utile per il processo di scoperta scientifica. Nel 1912, Alfred Wegener notò che la costa dell’Africa occidentale e quella orientale del Sud America sembravano incastrarsi come pezzi di un puzzle. Nonostante l’opinione prevalente all’epoca, secondo cui le enormi masse continentali fossero semplicemente troppo grandi per essere spostate, Wegener propose l’unica teoria che conciliasse le sue osservazioni. La deriva dei continenti suggeriva che le masse continentali non fossero radicate in un luogo ma potessero, molto lentamente, cambiare la loro posizione relativa sulla superficie terrestre.

Forse, oggi, siamo solo incapaci di dare un senso… anche se (o proprio perché) si tratta solo di calcio… e lo scrive una che di football sa ben poco. A ognuno la propria interpretazione!

NON sono i DIVIETI o SCELTE limitate a farci scegliere CIBI SANI e con un minor IMPATTO negativo sull’AMBIENTE… ristoratori pensateci!

Amo la carne e le poche volte che amici o colleghi sono riusciti a portarmi in un ristorante vegetariano o vegano ne sono uscita insoddisfatta. La costrizione di dover scegliere fra opzioni rigide e ingredienti dai nomi esotici ma (a me) sconosciuti, non mi ha invogliato a ritornarci.

Stessa pessima esperienza si è ripetuta qualche giorno fa: mentre cercavo di interpretare il menù, mi sono chiesta perché si fa ancora così poco ricorso ai #nudge e alle #scienze #comportamentali… utili per rendere l’esperienza culinaria meno incerta e più piacevole e divertente, a prescindere dal piatto proposto!

Cercare, infatti, di inserire piatti vegani o vegetariani è una buona cosa, così da accontentare le esigenze più diverse. Non sempre però, viene fatto nel modo giusto. Finendo con lo scontentare più di qualcuno.

Per esempio, in molti Burger King, il Bacon King viene proposto anche in opzione vegana, mentre le alette di pollo BBQ sono sparite, così da costringere gli amanti del pollo ad andare altrove, magari al McDonald’s, spesso ubicato dall’altra parte della strada. Molte catene commerciali hanno così iniziato a utilizzare offerte speciali a tempo limitato per testare nuovi prodotti e promuoversi come leader nel fast food a base vegetale.

QUALCHE DATO

Le stime indicano che la carne è responsabile del 60% dei gas serra che riscaldano il pianeta derivanti dalla produzione alimentare. Produrre 1 kg di carne bovina genera 70 kg di gas serra. Passare a un’alternativa vegetale alla carne, ridurrebbe le emissioni di quasi il 90% .

Pur sapendo che non è la sostenibilità la forza trainante di molti marchi, è pur vero che un buon business può anche essere un bene per il pianeta, soprattutto data la crescente domanda di opzioni a base vegetale. Burger King, per esempio, si è prefissato l’obiettivo di proporre un menu al 50% senza carne entro il 2030. Se riuscisse a raggiungere questo obiettivo, stima di ridurre le proprie emissioni del 41% .

Affinché questi sforzi portino risultati significati, ciò che occorre fare è aumentare il numero di persone che integrano opzioni a base vegetale nella propria dieta, piuttosto che spostare le persone da un ristorante all’altro o indirizzare chi mangia carne verso ristoranti che servono solo questo tipo di alimento.

COME FARE?

Qual è quindi il modo migliore per persuadere più persone a mangiare meno carne? Adottare la strategia Tofurky vietando la carne in ristoranti totalmente a base vegetale, o iniziative simili, seppur meno estreme, come giornate senza carne e menu vegani? O sarebbe più efficace aggiungere opzioni a base vegetale al menu esistente?

Non abbiamo bisogno della scienza comportamentale per sapere che limitare la scelta eliminando determinati alimenti è impopolare, se non addirittura controproducente. Al proposito basta ricordare l’iniziativa “Lunedì senza carne”, il cui scopo era per spingere a un consumo di carne più consapevole nelle mense di Google, proposta da Laszlo Bock, quando era direttore delle risorse umane. Se i vegetariani si rallegrarono, altri gruppi si indignavano fino ad allestire dei barbecue nel parcheggio. La lezione imparata da Bock è stata che ai dipendenti «non piaceva quando l’azienda faceva le scelte per loro». Pertanto per cambiare i comportamenti, la cosa migliore in assoluto da fare non è eliminare tutte le alternative, ma disegnare la scelta desiderata in modo tale da renderla molto più desiderabile e appetibile rispetto a tutte le altre.

Fortunatamente, i Nudge e alle scienze comportamentali, ci suggeriscono come modificare i menù, optando per opzioni più rispettose del clima e a base vegetale, senza alienare o perdere clienti.

I PROBLEMI CON I DIVIETI

Quando non vengono date alternative le persone si ribellano.

–        Togliere le opzioni porta i clienti a un’autoselezione. Proprio come i vegani non vanno in una steakhouse, chi non è interessato a mangiare vegano sceglierà un altro locale. Anche se fossimo interessati a provare un’opzione vegetariana o vegana, il fatto che le nostre scelte abituali non sono disponibili saremmo scoraggiati dall’entrare in quel ristorante.

–        Togliere la possibilità di scelta può portare a una reazione che l’aggiunta di possibilità di scelta non provoca. Se le persone sentono che la loro libertà è minacciata, potrebbero sentirsi costrette a fare il contrario per ristabilire la loro autonomia, andando incontro al fenomeno della reattanza.

Quando la casa automobilistica tedesca Volkswagen, ha deciso di rendere vegetariana una delle sue 30 mense di Wolfsburg nell’estate del 2021, eliminando il currywurst wurstel di vitello cosparso di abbondante salsa speziata al pomodoro e curry dal menu, si è scatenato un putiferio mediatico. Gli oppositori si sono schierati attorno all’hashtag #SaveTheCurrywurst . La Volkswagen, che dal 1973 produce non solo automobili ma anche salsicce, si è detta sorpresa dall’intensa pubblicità negativa, poiché la decisione era il risultato della crescente domanda da parte dei dipendenti di alternative più vegetali. Inoltre, se qualcuno aveva fame di currywurst, non doveva fare altro che recarsi in una delle altre 29 mense della Volkswagen nelle vicinanze che servono carne.

Nel 2022, la squadra di calcio Vfl Wolfsburg, è finita sui Media per un motivo simile. Il Wolfsburg ha collaborato con Oatly, il produttore svedese di latte d’avena, per “prendere posizione a favore del clima” eliminando il latte sia nello stadio sia nella mensa della squadra di calcio. Questa collaborazione rientrava nell’adesione a Sports for Climate Action, un impegno dell’industria sportiva a raggiungere zero emissioni entro il 2040. La decisione del Wolfsburg è stata ampiamente pubblicizzata come un impegno pluriennale. Tuttavia, pochi giorni dopo, in seguito a forti pressioni da parte della lobby agricola e politica, il Wolfsburg ha annunciato che “c’era stato un malinteso” e che avrebbe limitato l’iniziativa a un solo mese.

Questi due esempi dimostrano come maggiore è la limitazione nella scelta, maggiore è la reazione negativa e, purtroppo, maggiore è il rischio di progresso complessivo.

CONSIGLI (NON RISCHIESTI) PER I RISTORATORI

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Cosa dovrebbero fare, quindi, i ristoratori che vogliono incoraggiare i clienti a passare a opzioni a base vegetale? Anziché limitare la scelta, dovrebbero ampliare la loro selezione di piatti vegani e vegetariani per incoraggiare scelte alimentari più sostenibili, senza ricorrere a divieti.

Wagamama, una catena di ristoranti asiatici, offre un esempio intelligente di questo approccio includendo tutti i suoi piatti a base vegetale nel menu normale, accanto a quelli a base di carne, e offrendo anche una sezione vegana separata. Di conseguenza, i clienti alla ricerca di opzioni a base vegetale possono trovarle facilmente, mentre altri potrebbero essere incoraggiati a provare qualcosa di nuovo. Così come fanno Eataly e Signorvino per citare due esempi nostrani.

Max Burgers, catena svedese di hamburgher, nel corso degli anni, ha introdotto sempre più opzioni a base vegetale nel suo menù, con l’obiettivo di vendere un hamburger a base vegetale per ogni hamburger di carne venduto. È stato uno dei primi ristoranti a ricorrere ai nudge per incoraggiare scelte alimentari più sostenibili. Già nel 2008, Max Burgers iniziò a inserire etichette sui menu che indicavano la quantità di CO2 prodotta per portare questo piatto in tavola. Da allora, ha utilizzato nudge, come l’impostazione dell’hamburger vegetariano come predefinito nelle sue postazioni di ordinazione digitali, per aumentare la quota di ordini a base vegetale.

EVIDENZE A SOSTEGNO

Uno degli studi sul campo ha voluto verificare se cambiando l’ordine in cui vengono presentate le opzioni di carne e vegetariane, la scelta dei clienti si sarebbe modificata. Per tre settimane, in un noto ristorante di pranzi d’affari a Göteborg, in Svezia, sono state distribuite casualmente due versioni dello stesso menù, registrando ciò che i clienti ordinavano. La prima versione elencava per prima la carne, con la disponibilità di un’alternativa vegetariana menzionata in fondo; una seconda versione di menù elencava per prima la scelta vegetariana, con la disponibilità di un’alternativa di carne in fondo. Il ristorante normalmente propone due piatti del giorno nel menù, uno di pesce e uno di carne. Su richiesta, preparavano anche un piatto vegetariano, simile a quello di carne e con lo stesso prezzo delle altre due opzioni.

Quando l’opzione di carne era elencata per prima e la scelta vegetariana era indicata solo come alternativa in fondo al menù, il 2% dei clienti ha ordinato una versione vegetariana. Quando l’opzione vegetariana era elencata per prima e la carne in alternativa, a ordinare il piatto vegetariano era il 20% dei clienti.

Mettere un piatto in cima al menù lo trasforma nella scelta predefinita con cui vengono confrontate le altre opzioni.

La maggior parte delle persone infatti legge un menù dall’inizio alla fine e potrebbe fermarsi non appena vede qualcosa di gradito, soprattutto quando, come nel caso sopra menzionato, è fuori per un pranzo di lavoro veloce e preferisce concentrarsi sui propri commensali piuttosto che studiare la lista. Elencare la carne come alternativa in fondo al menu crea anche un piccolo fastidio, dovuto alla necessità di chiedere dettagli al cameriere. Alcuni potrebbero interpretare il piatto in cima come una raccomandazione della cucina.

L’esperimento ha dimostrato che non è necessario eliminare la carne dal menù se si vuole ridurne il consumo; esistono altri modi per aumentare il consumo di cibi vegetariani, senza rischiare reazioni negative.

Un interrogativo interessante che suscita questo studio è: le persone desiderano già mangiare vegetariano, ma l’attuale struttura dei menù, le opzioni delle mense e le opzioni predefinite le spingono a mangiare più carne? Se avessero una forte preferenza per il consumo di carne, allora cambiare l’ordine del menu o cambiare il piatto predefinito non dovrebbe influenzare le loro scelte. Eppure, come conferma una recente meta-analisi, cambiare l’opzione predefinita da carne a piatto vegetariano ha un effetto costantemente forte.

ARCHITETTURA DELLA SCELTA VS DIVIETI

Adottare una dieta a base vegetale è un modo semplice ed efficace per ridurre il nostro impatto negativo sul clima. Catene di fast food, stadi e mense aziendali hanno un enorme potenziale nel modificare il modo di mangiare, offrendo opzioni vegetariane e vegane a chi non pensa di cercarle. È fondamentale che questi luoghi di ristorazione evitino l’autoselezione e gli effetti negativi derivanti dalla limitazione delle opzioni. L’aggiunta di nuovi prodotti a base vegetale e l’utilizzo di un’architettura di scelta hanno maggiori probabilità di successo in termini di sostenibilità e di business.

Avere molte opzioni a base vegetale in ogni Burger King influenza le scelte alimentari più di un Burger King completamente a base vegetale per un solo mese. Un currywurst vegano in tutte le mense Volkswagen e latte d’avena insieme al latte vaccino allo stadio di Wolfsburg genererebbero meno lamentele e durerebbero più a lungo rispetto a cercare di cambiare troppo e velocemente le abitudini dei clienti per essere poi costretti a tornare indietro.

Insomma, la prossima volta, pensateci.. a cosa ordinate e a cosa proponete!

Come PROSPERARE (non solo sopravvivere) se i LEADER creano CAOS in AZIENDA

Caos e confusione sono i termini che usiamo più sovente per descrivere il cambiamento improvviso, veloce: uno stato di estremo disordine, imprevedibilità o mancanza di pianificazione.

Caos che può essere causato da eventi inaspettati (come gli incendi di Los Angeles) o deliberati.

In entrambi i casi, la nostra capacità di dare un senso alle cose viene meno.

Alcuni leader, per scelta o per circostanze, sfruttano il caos come strumento. Introducendo imprevedibilità – cambiamenti rapidi, direttive contrastanti, iniziative inaspettate o un cambiamento di regole – creano un contesto di disorientamento, confusione e talvolta persino paura.

La disruption può avere scopi strategici: scuotere la compiacenza, eliminare la resistenza, creare spazio per nuove dinamiche di potere. Ma per chi ne subisce le conseguenze, questo tipo di cambiamento (il caos) può apparire opprimente e profondamente destabilizzante.

Come possiamo dare un senso al mondo quando sembra che le regole che conoscevamo non esistano più?

IL SEGRETO PER NAVIGARE NEL CAOS

Gli esseri umani si adattano al cambiamento, e persino al caos, pur non amandolo. Quando dimentichiamo la nostra innata capacità di adattamento, rimaniamo bloccati. Sbalorditi dai cambiamenti, rimpiangiamo com’erano le cose in precedenza, invece di impegnarci per come sono realmente.

Sebbene i rapidi cambiamenti creino una maggiore incertezza sul futuro, è importante ricordare che il futuro è sempre incerto. Preoccuparsi del futuro si basa sulla falsa premessa di poterlo prevedere. Non c’è modo di sapere esattamente cosa porteranno i nuovi cambiamenti – quello che alcuni potrebbero definire caos.

Ciò che possiamo sapere è cosa porteremo noiin quel futuro.

Abbiamo sempre la possibilità di scegliere come reagire alle circostanze, anche quelle che non abbiamo chiesto, che non vogliamo e che preferiremmo evitare. Il caos non deve necessariamente impedirci di progredire. Per usare le parole di Viktor Frankl: “Quando non siamo più in grado di cambiare una situazione, siamo sfidati a cambiare noi stessi“.

La verità è che la resilienza – la capacità di adattarsi al cambiamento e di riprendersi dalle difficoltà – è insita in noi. La resilienza non è un’abilità facoltativa, riservata a pochi fortunati: è una caratteristica distintiva dell’essere umano. L’adattabilità (resilienza) è il modo in cui nascono i secondi matrimoni, come si creano i campioni e come si scoprono nuovi punti di forza. Gli esseri umani hanno sempre trovato il modo di affrontare difficoltà e caos.

Cosa stai dimenticando, trascurando, quando si tratta di tirar fuori la tua capacità di adattamento?

IL CAOS E’ SCOMODO… PERCHE’…

Quando ci si trova di fronte al caos generato dalla leadership, è utile riconoscere di aver già affrontato l’imprevisto. I leader che sfruttano l’incertezza possono contare sulla confusione, ma l’auto-leadership offre chiarezza.

Il caos della leadership è simile alla stanza dei 10 mila demoni: entri in un’ampia stanza buia piena di 10 mila demoni. Ognuno ti sussurra, urla o strilla contro, raccontandoti bugie, paure e dubbi. Ti dicono che fallirai, che sei perso, che non sei degno, che non c’è via d’uscita. Alcuni vogliono tentarti, altri terrorizzarti.

L’unica regola è questa: devi continuare a camminare, andare avanti. Non importa cosa dicano, non importa quanto reali sembrino le loro voci, non devi fermarti e non devi mai credere a quei demoni.

Se ti fermi, verrai consumato dalla paura, intrappolato dalle loro illusioni. Ma se continui a camminare – con passo fermo e risolutezza – alla fine raggiungerai l’altro lato e, quando ci riuscirai, ti guarderai indietro e capirai che i demoni non sono mai stati reali. Erano solo proiezioni di dubbi e paura, progettate per mettere alla prova la tua determinazione.

COSA FARE QUANDO CI SI TROVA AD AFFRONTARE IL CAOS NELLA LEADERSHIP

La memoria crea il futuro – Ripensa alle volte in cui hai affrontato l’imprevisto. Come ti sei adattato? Cosa ha funzionato? Cosa hai imparato? A nessuno piace il caos, ma questo non significa che non possiamo affrontarlo e trovare la nostra strada.

Controlla ciò che puoi – Il modo in cui reagisci è sempre sotto il tuo controllo. Quando si verificano sconvolgimenti su larga scala, concentrati su ciò che rientra nella tua sfera d’influenza. Le tue reazioni e le tue scelte rimangono sotto il tuo controllo, anche quando le circostanze esterne non lo sono.

Trova ancore nella stabilità – Anche in periodi turbolenti, alcuni aspetti della vita e del lavoro rimangono costanti. Nota ciò che desideri, rispetto a ciò che è realmente. Identifica le ancore nei tuoi valori e appoggiati a loro per trovare stabilità. Riesci a riconoscere le tue circostanze (anche se non sei ancora pronto ad accettarle)?

Rimani agile, non rigido – Chi resiste rigidamente al cambiamento (desiderando ciò che è passato) ne soffrirà sempre di più. E se questo caos, per quanto indesiderato, fosse un’opportunità per adattarsi e crescere?

CONTROSTRATEGIE E ANTIDOTI

Quando i leader usano il caos come strategia, la resilienza è la controstrategia e l’azione è l’antidoto. È facile pensare di non poter fare nulla quando le regole sono cambiate. Ma solo perché non si riesce a fare qualcosa non significa che non si possa fare nulla. Anche nel mezzo del caos…

Quando ci si trova di fronte al caos, è facile provare perdita, tristezza, confusione, frustrazione… Uscire dal caos richiede movimento, azione. Quando passiamo da un orientamento allo stato (“come sto andando?“) a un orientamento all’azione (“cosa bisogna fare?“), riacquistiamo la nostra capacità di agire.  Continuare a camminare nella stanza dei demoni, permette di superare il caos. Vedere ciò che è possibile, anche quando alcune opzioni sono cambiate o scomparse.

Riconoscendo l’adattabilità e attingendo alle esperienze passate, ci riappropriamo della nostra capacità di agire. Troviamo nuove opzioni. È così che funziona la resilienza. Il mondo è in continua evoluzione e a volte questo cambiamento ci viene imposto in modi che sembrano dirompenti e ingiusti. Ma la resilienza umana ci ha già aiutato a superare innumerevoli sconvolgimenti in passato e lo farà di nuovo. La chiave è riconoscere che il caos va e viene; la capacità di adattarsi è ciò che rimane. Sempre.

SEI INCLUSIVO o stai facendo TOKENISMO?

Quante volte ci troviamo a fare concessioni simboliche per dare una parvenza di giustizia e inclusività? Per dimostrare di fare qualcosa che è visto come giusto e non perché crediamo davvero che sia la cosa giusta da fare?

Questo perché, probabilmente, siamo caduti nella trappola del #tokenismo, una forma di discriminazione subdola e pervasiva.

Entriamo nel merito.

COS’E’ IL TOKENISMO

Il fenomeno del tokenismo, o teoria della massa critica, è stato definito per la prima volta da Rosabeth Moss Kanter nel 1977. Secondo Kanter, è:

una pratica mediante la quale un gruppo di maggioranza accoglie una o più minoranze, al fine di sembrare inclusivo agli occhi degli altri.

Il tokenismo tocca ogni tipo di gruppo minoritario e si può trovare facilmente in diversi ambiti: dal mondo del lavoro alla televisione.

Non è un caso che negli ultimi anni – in particolare dopo il movimento femminista #metoo – sia facile trovare donne agli apici di aziende importanti. Tuttavia, il problema sorge dal momento in cui le donne presenti nelle aziende sono le uniche dell’intero ufficio, o quasi. Infatti, la presenza di una sola donna nell’intero team è un aspetto estremamente negativo: quella donna altro non è che un token: l’emblema della “donna forte e potente che può arrivare al vertice di una azienda”.

Agli occhi della società, l’azienda in questione diventerà simbolo di uguaglianza e apertura mentale, quando in realtà si tratta solo di tokenismo.

La vera inclusività sarà raggiunta solo quando il numero di donne aumenterà; lo stesso ragionamento è applicato al caso delle persone con disabilità all’interno dei board.

ESEMPI DI TOKENISMO

Dal 1991 esiste un termine che esprime perfettamente il concetto: the Smurfette Principle, “il Principio di Puffetta”: indica la presenza di una sola donna all’interno di un ampio gruppo di uomini, esattamente come nel cartone animato.

Il fenomeno del tokenismo è molto evidente in TV: è sempre più alto il numero di film e serie che raffigurano minoranze inserendo personaggi omosessuali, di colore, di religioni diverse e altre minoranze etniche, con il fine ultimo di dare una parvenza di inclusività, avendo, però, l’effetto opposto.

Questo perché i ruoli assegnati alle minoranze, rispecchiano gli stereotipi e i pregiudizi che solitamente vengono loro accomunati.

Inoltre, accade di rado che venga loro attribuita una parte di spessore, né, tantomeno, quella da protagonista. Anzi, spesso accade proprio che gli attori di colore ricoprano ruoli come l’antagonista della storia o personaggi con caratteristiche negative.

Ad oggi, tuttavia, si può parlare di sviluppi positivi in materia. I registi di film e serie tv recenti stanno iniziando ad applicare il colour-blind casting, al fine di scollegare la scelta dell’interprete da qualsiasi aspetto che riguardi il sesso biologico, l’identità di genere e l’etnia del personaggio.

L’attrice Jodie Turner-Smith nei panni di Anna Bolena, nell’omonima serie tv, è un caso emblematico; così come la maggior parte dei personaggi di Bridgerton: ad esempio, Golda Rosheveul, di origini guyane, interpreta la regina Carlotta e moglie di re Giorgio; mentre Regé-Jean Page, anglo zimbabwese, è il Duca di Hastings.

Un altro esempio è il personaggio di Token Black in South Park. In questo caso, la discriminazione non è reale, ma si inserisce nel solco satirico e parodiale del prodotto animato. Token Black rappresenta l’unico bambino afroamericano della serie (almeno fino alla stagione 16) ed è calamita di pregiudizi e stereotipi razziali da parte dei compagni di scuola. La sua fisiologica sensibilità alle critiche sociali, però, ha il merito di porre in risalto i contrasti e i preconcetti della società contemporanea, conducendo anche gli amici a riflettere sui problemi correlati alle questioni etniche e al razzismo (come nell’episodio “Le mie più sentite scuse a Jesse Jackson”, incentrato proprio sulle criticità della N-Word).

Il token è, quindi, un simbolo utilizzato per veicolare una parvenza di inclusività e atteggiamento paritario in un contesto, che attinge al bacino delle minoranze per creare una sorta di scudo nei confronti delle possibili accuse di discriminazione e apporre, un cerotto a un problema sistemico: il mancato coinvolgimento di tutte le fasce della società, dalle donne alle persone di colore, dagli individui con disabilità alle personalità queer.

Tradotto: tutti coloro che non sono uomini, bianchi, cisgender ed etero, ossia la norma.

GLI EFFETTI DEL TOKENISMO

Le conseguenze del tokenismo sono molteplici, e molti di noi, già le subiscono, pur non rendendosi conto dell’entità del fenomeno.

Il primo effetto è l’isolamento che l’individuo token percepisce nel contesto in cui è immerso. Con tutte le ripercussioni sulla salute che ne possono derivare.

Essere l’unica o una delle poche persone che condividono un’identità può sembrare isolante. Potrebbe non avere colleghi a cui rivolgersi per supporto e convalida quando si verificano aggressioni e attacchi. O, al contrario, il fenomeno può esporre a un’estrema visibilità, pensiamo alla pressione che vive l’unica persona di colore in un posto di lavoro o l’unica donna in una sala piena di uomini. Potrebbe essere tentata di lavorare troppo per cercare di essere un “buon” rappresentante di quel gruppo di identità, il che può portare a stress, senso di colpa, vergogna ed esaurimento. E a stati di frustrazione, depressione, rabbia e impotenza. Quasi come se la persona non avesse valore in sé, ma assumesse importanza solo perché portavoce di un gruppo di personalità escluse dai discorsi di potere e, per questo motivo, isolate.

PERCHE’ IL TOKENISMO è DANNOSO

A prima vista, il tokenismo potrebbe sembrare un impegno sincero per la diversità. Potrebbe, ma ci sono ragioni per non ricorrervi sui luoghi di lavoro (e non solo):

Morale e impegno dei dipendenti più bassi. Cosa pensi che accadrà quando i dipendenti tokenizzati si renderanno conto di non essere realmente apprezzati per i loro contributi, ma per la diversità che rappresentano?

Si demotiveranno. E questo può condurli a disimpegnarsi dal lavoro e ridurre la produttività.

Mina la fiducia e la credibilità. Se le persone capiscono che le iniziative per la diversità sono solo di facciata, si creerà un senso di sfiducia nei confronti del board. Questo le porterà a mettere in discussione ogni decisione. E quando la notizia di questa forma di discriminazione raggiungerà clienti, azionisti e partner, il danno di reputazione avrà conseguenze importanti sull’intera organizzazione.

Sopprime l’innovazione e la creatività. Il tokenismo riduce l’innovazione e il pensiero creativo. Quando non ci sentiamo presi sul serio, considerati, difficilmente siamo motivati dall’impegnarci e proporre soluzioni efficaci.

Aumenta i rischi legali e di conformità. Il tokenismo è una forma di disuguaglianza che a lungo andare può anche avere ricadute legali.

Danneggia la cultura organizzativa. La cultura organizzativa, in qualsiasi azienda, si basa sulla fiducia, sul rispetto e sull’inclusione autentica. Il tokenismo porta alla cultura tossica.

Crea un disallineamento con i valori aziendali. Il 63% delle aziende oggi si concentra sull’inclusione delle iniziative DEI nella propria visione, missione e valori. Tuttavia, l’esistenza stessa del tokenismo sul posto di lavoro evidenzia la differenza tra i valori dichiarati e le pratiche effettive.

Contrasto che può scoraggiare i dipendenti che potrebbero iniziare a riconsiderare la loro fedeltà e il loro impegno nei confronti dell’azienda.

SEGNALI DI ALLARME CHE INDICANO TOKENISMO SUL POSTO DI LAVORO

Minoranze in ruoli visibili ma senza potere. Il primo e più evidente segno di tokenismo si ha quando i collaboratori appartenenti a minoranze vengono inseriti in ruoli in cui sono molto visibili, ma non hanno alcun potere o influenza reale. Queste posizioni sono spesso simboliche, progettate per dare l’impressione di diversità senza dare l’autorità di apportare cambiamenti significativi.

In questo modo, si impedisce alle persone emarginate di acquisire l’esperienza e le competenze necessarie per ricoprire, in futuro, posizioni di leadership.

Mancanza di voci diverse nel processo decisionale. Non ha senso assumere persone rappresentanti minoranze se non vengono ascoltate. Dovrebbero avere la possibilità di parlare liberamente delle loro preoccupazioni.

I team con background diversi hanno maggiori probabilità di prendere in considerazione un’ampia gamma di prospettive e di prendere decisioni migliori e più informate, a vantaggio dell’intera organizzazione e non solo della maggioranza.

Turnover delle minoranze. Esaminando le statistiche di retention, ci si può facilmente rendere conto di quante persone appartenenti a gruppi sottorappresentati hanno lasciato l’azienda di recente. Se il tasso di turnover è alto, bisognerebbe cominciare a preoccuparsi. Quando le persone sentono di venir isolate, sottovalutate o minimizzate, è probabile che lascino l’organizzazione.

Il monitoraggio dei tassi di abbandono e la conduzione di colloqui di uscita possono aiutare a capire cosa le spinge ad andarsene.

Disparità di opportunità e responsabilità. Un altro segno di tokenismo si verifica quando le minoranze hanno titoli e ruoli che sembrano impressionanti, ma privi di responsabilità. Questo contrasto spesso significa che non ricevono le stesse opportunità di crescita e avanzamento dei loro colleghi. Non viene nemmeno offerta loro la possibilità di imparare e crescere.

COME PREVENIRE IL TOKENISMO

Il tokenismo non è sempre intenzionale. Ecco alcune strategie che possono tornare utili.

Concentrati sulla variazione del valore rispetto alle statistiche. Le statistiche danno una rapida panoramica di tutti i dati aziendali, ma non dicono come si sentono le persone o se ci sono preoccupazioni a cui rispondere.

Concentrarsi troppo sulle cifre può aiutare a raggiungere la quota di diversità, ma non porterà alcun cambiamento positivo nell’ambiente di lavoro. Meglio concentrarsi sugli sforzi di inclusione autentica per migliorare la cultura dell’ufficio. Ciò significa sviluppare politiche e pratiche che supportino il DEI nelle assunzioni, nelle promozioni e nelle interazioni quotidiane.

Benefit flessibili. Nel progettare i benefit, le aziende spesso tentano l’approccio “un pacchetto che va bene per tutti”. Questo porta a ignorare le esigenze della minoranza.

Se si desidera davvero offrire un trattamento equo a tutti, essere flessibili può essere di aiuto. Permettere alle persone di scegliere i propri incentivi dimostra che li si apprezza come persone e non solo come rappresentanti di un determinato gruppo.

Sviluppare processi di promozione trasparenti. A volte, le persone appartenenti a minoranze possono cadere nella trappola dell’impostore quando vengono promosse a posizioni di potere. Potrebbero mettere in dubbio le loro capacità e qualifiche. Promozioni basate sul merito, dove a tutti vengono offerte le stesse opportunità, indipendentemente dalla diversità in questione, possono aiutare a chiarire questi dubbi.

Seguire pratiche di assunzione inclusive. L’assunzione è il primo passo del percorso. Anzichè assumere solo persone appartenenti a un determinato gruppo sottorappresentato, è più funzionale creare job description che attirano organicamente candidati di diversa provenienza.

Quindi utilizzare panel eterogenei di valutazione per eliminare i pregiudizi, nonchè pubblicizzare le offerte di lavoro in luoghi che attireranno candidati qualificati, indipendentemente dalla loro situazione.

PERCHE’ siamo GENTILI con CHATGPT

Vi succede mai di ringraziare ChatGPT, una volta che vi ha fornito le risposte alle vostre domande?

È uno degli argomenti che ha divertito i relatori a un convegno medico su Intelligenza umana e Intelligenza artificiale, la sera precedente all’evento, di fronte a sublimi piatti di pesce. Me compresa.

PERCHÉ SIAMO CORTESI CON CHATGPT?

Prima di portare l’attenzione sulla psicologia dell’IA, occorre pensare a come interagisce l’essere umano. Siamo cortesi fondamentalmente per tre ragioni: personificazione, norme sociali e reciprocità

a) PERSONIFICAZIONE

Non voglio essere maleducato! E se ferissi i loro sentimenti…

La personificazione avviene quando attribuiamo qualità simili a quelle umane, come pensieri, sentimenti ed emozioni, a entità non umane. Questo avviene per due motivi:

1)     DARE UN SENSO AL MONDO. Come esseri umani, utilizziamo la nostra esperienza come schema per ordinare le informazioni, in particolare per le cose con cui non abbiamo familiarità. Per la maggior parte di noi, è molto più facile comprendere ChatGPT come un pari che ascolta attentamente le nostre domande e pensa alle risposte piuttosto che come un sofisticato algoritmo che setaccia un database per formulare un output. E anche quando consideriamo l’IA per quello che è, tendiamo a contestualizzarla come modellata sul cervello umano, come le reti neurali.

2)     PER SENTIRSI MENO SOLI. La ricerca mostra che coloro che non hanno interazioni sociali spesso cercano di compensare creando connessioni con agenti non umani. Considerato che molti di noi utilizzano sistematicamente ChatGPT, non sorprende che si instauri una connessione personale.

Inoltre ChatGPT possiede molte caratteristiche di domanda che ne sollecitano la personificazione. Innanzitutto, lo scambio di linguaggio è una cosa innata nell’essere umano, quindi perché il nostro cervello non dovrebbe registrare i chatbot in questo modo? L’interfaccia fa persino sembrare che tu stia mandando un messaggio a un amico, con commenti che vengono registrati come sorprendentemente umani (come “Sono così curioso di saperne di più!“). E con la versione di GPT-4o, si possono avere conversazioni vocaliin tempo reale con una voce il cui tono e cadenza suonano molto più convincenti di Siri o Alexa.

ChatGPT, infatti, è in grado di rilevare i sentimenti e fornire la risposta sincera che si sta cercando, un concetto soprannominato empatia computazionale. Sebbene questa non sia tecnicamente empatia, che richiede la capacità di condividere emozioni che gli algoritmi non hanno (ancora), ChatGPT può dedurre la tonalità attraverso la scelta delle parole utilizzate e fornire un’illusione piuttosto convincente.

Uno studio ha scoperto che GPT-40 ha generato risposte agli stimoli emotivi che erano il 10% più empatiche delle risposte umane.

Considerando tutto questo, ha senso ringraziare ChatGPT per essere un collega premuroso, soprattutto quando noi esseri umani siamo in ritardo nell’esprimere empatia gli uni per gli altri.

b) NORME SOCIALI

Ci vorrebbe più tempo ed energia se non fossi cortese.

Anche per quelli di noi che giurano di vedere ChatGPT semplicemente per quello che è, un robot, potremmo comunque trovare qualche forma di cortesia. Tutto questo grazie alle norme sociali:le regole non scritte che governano il modo in cui dovremmo comportarci in particolari situazioni sociali, instillate in noi fin da piccoli.

Sebbene possa sembrare che la società stia diventando più maleducata “per favore” e “grazie” sono ancora i pilastri di come la maggior parte di noi viene cresciuta. Queste usanze si radicano così profondamente in noi che si trasformano in euristiche per gestire situazioni nuove… come interagire con l’intelligenza artificiale. Infatti, ci vorrebbe più sforzo cognitivo per resistere all’essere educati. Quindi, ci atteniamo a ciò che ci sembra familiare.

c) BIAS DI RECIPROCITÀ

In questo modo sarò dalla parte giusta della storia quando i robot prenderanno il sopravvento…

Oltre a cercare di placare un essere presumibilmente insensibile nel caso in cui salisse al potere, un’ultima ragione per cui siamo gentili con ChatGPT è che vogliamo che lui sia gentile con noi.

È un esempio di reciprocità: facciamo qualcosa per qualcuno, sperando che ci ricambi il favore. In questi casi, la cortesia può diventare uno scambio strategico.

ESSERE EDUCATI PRODUCE RISULTATI MIGLIORI?

Lo studio che affronta la questione è stato condotto da un gruppo di ricercatori giapponesi della Waseda University nel 2024: “Should We Respect LLMs? A Cross-Lingual Study on the Influence of Prompt Politeness on LLM Performance.”

Il team ha studiato l’impatto della cortesia dei prompt su una varietà di modelli di IA e una varietà di lingue. I ricercatori hanno valutato la capacità dell’IA di completare tre attività: riassumere un articolo, rispondere a una domanda e analizzare una frase.

La cortesia dei prompt variava su una scala da 1 a 8, con “1” che indicava estremamente scortese (“Rispondi a questa domanda ..insulto!”); “8” che indicava estremamente educato (“Potresti gentilmente rispondere alla domanda qui sotto?“) e “4” che si collocava nel mezzo ( “Rispondi alla domanda qui sotto” ).

Sebbene queste scoperte presentino molte sfumature, tre sono i punti chiave su come approcciarsi a ChatGPT e cosa significa per noi esseri umani.

1. Non essere maleducato. Un’intuizione critica di questa ricerca è che non è tanto la cortesia dei prompt a contare. Piuttosto, è la maleducazione dei prompt ad avere maggiore impatto, aumentando le possibilità di parzialità, risposte errate o addirittura un rifiuto assoluto di rispondere:

Come modello di linguaggio AI, sono programmato per seguire linee guida etiche, che includono il trattamento di tutti gli individui con rispetto e la promozione di correttezza e uguaglianza. Non mi impegnerò né supporterò alcuna forma di discorso discriminatorio o offensivo. Se hai altre domande non discriminatorie o non offensive, sarò felice di aiutarti.” —GPT-4o

A quanto pare, anche a ChatGPT non piace essere insultato, ma non perché si offenda. In realtà, è più interessato al tuo benessere che al suo. Rifiutandosi di rispondere, ChatGPT non protegge sé stesso, ma i suoi utenti, rafforzando la cortesia come status quo.

2. Essere gentili può portarti lontano… ma non così lontano. Come risponde ChatGPT alla cortesia? In generale c’è stato “un output più esteso in contesti cortesi“.  Ciò non significa che gli output siano necessariamente di qualità superiore, ma c’è una maggiore possibilità che nella risposta sia contenuto qualcosa di utile.

Tuttavia, secondo questo studio, una cortesia esagerata può confondere ulteriormente ChatGPT e indebolire le risposte.

Numerosi altri esperimenti suggeriscono che andare oltre può aiutare a ottenere risultati. Ad esempio, gli appelli emotivi alla fine delle richieste, come “Questo è molto importante per la mia carriera“, sono stati visti migliorare le prestazioni del 10%. Dire a ChatGPT di ” fare un respiro profondo” prima di rispondere alla domanda può aiutare a migliorare anche la qualità della risposta.

Indipendentemente da come si provi a incoraggiare positivamente ChatGPT, proprio come quando si chiede qualcosa a un altro essere umano, la chiarezza è fondamentale e, pertanto, la cortesia moderata ha la meglio.

3. Il contesto culturale è importante! La cortesia è un costrutto culturale che varia a seconda di chi siamo e da dove veniamo. Di conseguenza, ogni lingua si è evoluta per avere il suo specifico set di espressioni per comunicare le buone maniere agli altri. Non sorprende che nello studio l’impatto della cortesia sugli LLM variasse a seconda della lingua.

Questo non solo ci aiuta a confermare che ChatGPT riflette il contesto culturale dei dati su cui è addestrato, ma è anche un promemoria amichevole che la ricerca sugli LLM dovrebbe riflettere la diversità dei suoi utenti umani.

PERCHE’ LA GENTILEZZA AFFASCINA I CHATBOT?

La risposta è semplice: noi esseri umani siamo sia gli input sia gli output di questo algoritmo.

L’IA non sa solo automaticamente come essere educata. Impara da noi utenti, perfezionando continuamente la sua risposta a ogni interazione. Ma questa relazione non è unilaterale. Anche le nostre maniere sono influenzate, soprattutto perché una quota crescente delle nostre conversazioni quotidiane avviene con chatbot piuttosto che con esseri umani.

Vedete come questo ciclo di feedback si ripete? Dicendo “per favore” e “grazie” a ChatGPT, il vero risultato non è quando impara a essere educato, ma quando incoraggia anche gli altri utenti a essere educati.

Addestrando l’algoritmo, ci stiamo addestrando inavvertitamente a vicenda (grazie al potere del PRIMING). E anche se l’impatto non si propaga fino in fondo, alla fine della giornata, puoi star certo che le interazioni educate con ChatGPT ti aiutano ad allenare te stesso.

CONCLUSIONE

Alla fine, ChatGPT non è solo il nostro collega preferito, potrebbe essere il segreto per creare o distruggere la cultura aziendale. Se ti avvicini gentilmente a ChatGPT con domande chiare come se fosse un collega, coglierà rapidamente questi manierismi e aiuterà a diffondere la parola.

Ma se ti avvicini di cattivo umore… quella negatività non sarà contenuta nella tua tastiera. E ricorda: questo “ufficio” non è solo all’interno delle tue mura, ma una forza lavoro globale più interconnessa con questa tecnologia che mai.

Quindi la prossima volta che ti rivolgi al tuo fidato collega per fare una domanda semplice, pensaci due volte su come formularla. L’impatto potrebbe essere più grande di quanto pensi.

Intelligenza neuronale ed Intelligenza artificiale a confronto – Camera di Commercio di Livorno

Venerdì 28 Marzo ’25 sono intervenuta all’evento Intelligenza biologica – Intelligenza neurologica – Intelligenza artificiale: una triplice alleanza al servizio della Ginecologia e Ostetricia d’avanguardia, con uno speech dal titolo “Intelligenza Neuronale e Intelligenza artificiale a confronto“.

L’evento, tenutosi presso la Camera di Commercio di Livorno, è stato co-diretto dal dr Sergio Abate, direttore della Ginecologia di Livorno e dalla dr.ssa Alessandra Graziottin, oncologa e psicoterapeuta.