DELUDERE le PERSONE non è un FALLIMENTO della LEADERSHIP. È il PREZZO per l’INNOVAZIONE

Viene ripetuto di continuo: il leader è colui che ispira, costruisce consenso, coinvolge. Luoghi comuni dietro cui si nasconde una verità decisamente più scomoda: la leadership ha molto più a che fare con la delusione. Non si può guidare un gruppo, un’organizzazione, un partito, se non si è capaci di gestire il sentimento di delusione. Più il nostro impatto aumenta, più cresce, anche, la nostra capacità di deludere gli altri.

I leader più efficaci più che evitare la delusione, imparano a gestirla in modo efficace.

Prendiamo quanto accaduto ad Apple quando, nel 2016, decise di rimuovere il jack per le cuffie dall’iPhone 7: la reazione fu immediata e feroce. I critici tecnologici la definirono “ostile agli utenti e stupida“. I clienti si infuriarono e i competitors pubblicarono annunci che deridevano la decisione. Eppure, oggi, gli auricolari wireless sono onnipresenti e la decisione appare lungimirante piuttosto che insensata.

Ciò di cui Apple era consapevole, è ciò che alla fine imparano la maggior parte dei leader orientati al futuro: per ottenere un’innovazione significativa è necessario deludere le persone in modo strategico.

IL SUCCESSO E LE ASPETTATIVE

Il successo è pieno di fallimenti, soprattutto perché le persone sono portare a chiedere qualcosa in cambio, vogliono qualcosa dal leader, e molte di loro vogliono più di quanto il leader potrà mai dare loro. Questo porta il decisore a vivere in un’atmosfera di pressione e di aspettative disattese costanti.

Accade ovunque. Anche se è particolarmente evidente nella leadership tecnologica, dove le decisioni devono spesso essere prese prima che il mercato sia pronto. Nel momento in cui si crea qualcosa di prezioso, le persone sviluppano aspettative su ciò che dovrebbe accadere in seguito, aspettative che spesso entrano in conflitto con l’innovazione stessa che ha reso prezioso il lavoro in sé.

Prendiamo il passaggio di Netflix dalla distribuzione di DVD allo streaming. Quando fu annunciato, nel 2011, l’azienda perse 800 mila abbonati e le sue azioni crollarono del 77%. Oggi, quella decisione deludente, dimostra che sia stata la mossa decisiva che ha garantito il futuro di Netflix.

FIDUCIA: QUANTA CONFUSIONE!

Il paradosso coinvolge i leader di tutti i settori. Parte della sfida è che fondamentalmente fraintendiamo la fiducia. Lo ha spiegato bene il premio Nobel Daniel Kahneman: “La fiducia soggettiva in un giudizio non è una valutazione ragionata della probabilità che quel giudizio sia corretto. La fiducia è una sensazione che riflette la coerenza delle informazioni e la facilità cognitiva di elaborarle“.

In altre parole, la nostra sensazione di sicurezza spesso dipende più dalla coerenza della nostra storia che dalla sua effettiva probabilità di essere corretta. Questo crea una dinamica pericolosa nella leadership, in cui decisioni apparentemente sicure possono semplicemente riflettere narrazioni coerenti ma imperfette, soprattutto quando tali narrazioni sono in linea con ciò che gli stakeholder vogliono sentire.

Questa dinamica si fa insidiosa nella leadership, dove la pressione ad apparire sicuri di sé alimenta la fretta di creare strategie attorno alle tecnologie emergenti anziché avere la sicurezza di mantenere le strategie aziendali fondamentali e incorporare sperimentalmente le nuove tecnologie.

A dettagliare questo schema, il concetto di “insecure overachievers” (insicuri super-performanti) è Tressie McMillan Cottom: “i leader che raggiungono risultati elevati pur cercando una convalida esterna spesso danno priorità all’apparire lungimiranti piuttosto che all’essere realmente determinati. Il risultato? Decision maker che inseguono le tecnologie anziché i risultati, perseguendo strategie che sembrano lungimiranti ma che in realtà potrebbero distogliere le organizzazioni dalla loro missione principale e dal loro impatto significativo”.

MATEMATICA E DECISIONI

In statistica, gli intervalli di confidenza non ci dicono solo se un effetto esiste, ma anche quanto possiamo essere certi di ciò che sappiamo, il che influisce direttamente sulla nostra sicurezza di agire. Il matematico Jordan Ellenberg lo spiega bene: un intervallo di confidenza ristretto (ad esempio tra -0,5% e 0,5%) significa che si hanno “prove sufficienti che l’intervento non ha alcun effetto“, il che dà la sicurezza di interrompere l’iniziativa. Un intervallo ampio (ad esempio tra -20% e 20%) significa che “non si ha idea se l’intervento abbia un effetto“, il che segnala la necessità di ulteriori dati prima di prendere una decisione definitiva.

In altre parole, questo principio offre un potente parallelo per le decisioni di leadership: la vera fiducia non deriva dall’eliminazione dell’incertezza, ma dal comprendere con precisione cosa sappiamo e cosa non sappiamo e dal (re)agire di conseguenza. Distinzione che offre un potente quadro di riferimento per la leadership, anche definita Matrice della Delusione Strategica:

Contenuto dell’articoloQuadrante 1: Alta certezza / Bassa delusione. Sono le vittorie facili: decisioni in cui i dati supportano fermamente un percorso a cui pochi si opporranno. Perseguitele con entusiasmo, pur riconoscendo che raramente portano a innovazioni rivoluzionarie.

Quadrante 2: Elevata Certezza / Elevata Delusione. Qui ci sono le delusioni necessarie: decisioni sul come abbandonare prodotti amati ma non sostenibili o implementare misure di sicurezza essenziali che creano attriti. L’evidenza dimostra che queste mosse sono necessarie, anche se creeranno delusione. Richiedono coraggio, ma una comunicazione chiara può ridurre al minimo le reazioni negative.

Quadrante 3: Bassa Certezza / Bassa Delusione. Spazi sperimentali in cui è possibile testare ipotesi con un rischio minimo. Questi esperimenti a basso rischio spesso producono “bankable foresights“: intuizioni sulle priorità future su cui è possibile investire con fiducia anche in assenza di certezza assoluta. Utilizzate questi spazi intenzionalmente per raccogliere dati che potrebbero influenzare decisioni più significative in altri quadranti.

Quadrante 4: Bassa certezza / Alta delusione. È dove si verificano le più grandi scoperte e i più grandi fallimenti. Quando Airbnb ha suggerito di affittare le proprie case a sconosciuti, o quando Amazon ha investito in AWS, queste decisioni hanno avuto esiti incerti, deludendo molti stakeholder. Queste decisioni richiedono il massimo livello di giudizio e spesso definiscono l’eredità di un leader.

Capire dove si collocano le tue decisioni in questa matrice non elimina l’incertezza, ma ti aiuta a reagire in modo appropriato.

SPERIMENTA LA DELUSIONE STRATEGICA

Sviluppare la capacità di sentirsi a proprio agio con le delusioni altrui è un’abilità fondamentale che vale la pena praticare consapevolmente. Stabilire l’intenzione di deludere almeno una persona, in modo concreto, nelle prossime 24 ore, osservando che più ci si sente a proprio agio con il rischio di deludere, meglio andranno le cose su tutti i fronti, può essere un buon test per capire realmente le capacità di leadership.

Questa pratica potrebbe includere:

  • Distinguere i tipi di delusione. Distinguere tra delusioni che stimolano le persone in modo produttivo e quelle che danneggiano inutilmente.
  • Creare quadri decisionali trasparenti. Sviluppare e comunicare chiare gerarchie di valori che indichino quali principi abbiano la precedenza quando si rendono necessari compromessi.
  • Esprimere il “perché è pronto per il futuro”. Esercitati a spiegare le decisioni impopolari in termini di orizzonte temporale più lungo, non solo i benefici immediati.
  • Sviluppare la resilienza alla delusione. Sviluppa pratiche personali che ti aiutino a sopportare il disagio di essere incompreso o criticato per le decisioni in cui credi.
  • Misurare l’impatto significativo. Crea parametri che monitorino la creazione di valore a lungo termine, non solo la soddisfazione o il coinvolgimento immediati.

NON C’E’ LEADERSHIP SENZA DELUSIONE STRATEGICA

Quando il CEO di Microsoft, Satya Nadella, decise di spostare l’attenzione dell’azienda da Windows al cloud computing e all’intelligenza artificiale, molti rimasero delusi. Windows era stato il fiore all’occhiello di Microsoft per decenni. Sviluppatori, partner e persino i team interni che avevano costruito la propria carriera attorno al sistema operativo si sentirono traditi.

Ma Nadella stava praticando la delusione strategica. Anziché cercare di accontentare tutti gli stakeholder a breve termine, ne deluse intenzionalmente alcuni per posizionare Microsoft in modo che acquisisse rilevanza a lungo termine.

I risultati parlano da soli. La capitalizzazione di mercato di Microsoft è aumentata da 300 miliardi di dollari, quando Nadella ne prese il controllo, a 3.000 miliardi, rendendola una delle aziende più preziose al mondo. Ancora più importante, questo cambiamento ha posizionato Microsoft come leader nell’intelligenza artificiale e nel cloud computing, le stesse tecnologie che plasmano il futuro.

La svolta strategica di Nadella dimostra una verità cruciale per i leader pronti per il futuro:

deludere le persone non è un fallimento della leadership. Spesso è il prezzo inevitabile di un’innovazione significativa.

La sicurezza di deludere strategicamente non consiste nell’essere certi di avere ragione. Si tratta di avere la lucidità di riconoscere quando l’approvazione immediata entra in conflitto con l’impatto a lungo termine, e il coraggio di scegliere l’impatto anche quando fa male.

In un mondo che si muove troppo velocemente per raggiungere la certezza assoluta, i leader più preziosi di domani non saranno coloro che hanno accontentato tutti oggi. Saranno coloro che hanno avuto il coraggio di deludere intenzionalmente quando necessario, navigando nell’incertezza e non evitandola, ma abbracciandola come terreno necessario per un cambiamento significativo.

SEI INCLUSIVO o stai facendo TOKENISMO?

Quante volte ci troviamo a fare concessioni simboliche per dare una parvenza di giustizia e inclusività? Per dimostrare di fare qualcosa che è visto come giusto e non perché crediamo davvero che sia la cosa giusta da fare?

Questo perché, probabilmente, siamo caduti nella trappola del #tokenismo, una forma di discriminazione subdola e pervasiva.

Entriamo nel merito.

COS’E’ IL TOKENISMO

Il fenomeno del tokenismo, o teoria della massa critica, è stato definito per la prima volta da Rosabeth Moss Kanter nel 1977. Secondo Kanter, è:

una pratica mediante la quale un gruppo di maggioranza accoglie una o più minoranze, al fine di sembrare inclusivo agli occhi degli altri.

Il tokenismo tocca ogni tipo di gruppo minoritario e si può trovare facilmente in diversi ambiti: dal mondo del lavoro alla televisione.

Non è un caso che negli ultimi anni – in particolare dopo il movimento femminista #metoo – sia facile trovare donne agli apici di aziende importanti. Tuttavia, il problema sorge dal momento in cui le donne presenti nelle aziende sono le uniche dell’intero ufficio, o quasi. Infatti, la presenza di una sola donna nell’intero team è un aspetto estremamente negativo: quella donna altro non è che un token: l’emblema della “donna forte e potente che può arrivare al vertice di una azienda”.

Agli occhi della società, l’azienda in questione diventerà simbolo di uguaglianza e apertura mentale, quando in realtà si tratta solo di tokenismo.

La vera inclusività sarà raggiunta solo quando il numero di donne aumenterà; lo stesso ragionamento è applicato al caso delle persone con disabilità all’interno dei board.

ESEMPI DI TOKENISMO

Dal 1991 esiste un termine che esprime perfettamente il concetto: the Smurfette Principle, “il Principio di Puffetta”: indica la presenza di una sola donna all’interno di un ampio gruppo di uomini, esattamente come nel cartone animato.

Il fenomeno del tokenismo è molto evidente in TV: è sempre più alto il numero di film e serie che raffigurano minoranze inserendo personaggi omosessuali, di colore, di religioni diverse e altre minoranze etniche, con il fine ultimo di dare una parvenza di inclusività, avendo, però, l’effetto opposto.

Questo perché i ruoli assegnati alle minoranze, rispecchiano gli stereotipi e i pregiudizi che solitamente vengono loro accomunati.

Inoltre, accade di rado che venga loro attribuita una parte di spessore, né, tantomeno, quella da protagonista. Anzi, spesso accade proprio che gli attori di colore ricoprano ruoli come l’antagonista della storia o personaggi con caratteristiche negative.

Ad oggi, tuttavia, si può parlare di sviluppi positivi in materia. I registi di film e serie tv recenti stanno iniziando ad applicare il colour-blind casting, al fine di scollegare la scelta dell’interprete da qualsiasi aspetto che riguardi il sesso biologico, l’identità di genere e l’etnia del personaggio.

L’attrice Jodie Turner-Smith nei panni di Anna Bolena, nell’omonima serie tv, è un caso emblematico; così come la maggior parte dei personaggi di Bridgerton: ad esempio, Golda Rosheveul, di origini guyane, interpreta la regina Carlotta e moglie di re Giorgio; mentre Regé-Jean Page, anglo zimbabwese, è il Duca di Hastings.

Un altro esempio è il personaggio di Token Black in South Park. In questo caso, la discriminazione non è reale, ma si inserisce nel solco satirico e parodiale del prodotto animato. Token Black rappresenta l’unico bambino afroamericano della serie (almeno fino alla stagione 16) ed è calamita di pregiudizi e stereotipi razziali da parte dei compagni di scuola. La sua fisiologica sensibilità alle critiche sociali, però, ha il merito di porre in risalto i contrasti e i preconcetti della società contemporanea, conducendo anche gli amici a riflettere sui problemi correlati alle questioni etniche e al razzismo (come nell’episodio “Le mie più sentite scuse a Jesse Jackson”, incentrato proprio sulle criticità della N-Word).

Il token è, quindi, un simbolo utilizzato per veicolare una parvenza di inclusività e atteggiamento paritario in un contesto, che attinge al bacino delle minoranze per creare una sorta di scudo nei confronti delle possibili accuse di discriminazione e apporre, un cerotto a un problema sistemico: il mancato coinvolgimento di tutte le fasce della società, dalle donne alle persone di colore, dagli individui con disabilità alle personalità queer.

Tradotto: tutti coloro che non sono uomini, bianchi, cisgender ed etero, ossia la norma.

GLI EFFETTI DEL TOKENISMO

Le conseguenze del tokenismo sono molteplici, e molti di noi, già le subiscono, pur non rendendosi conto dell’entità del fenomeno.

Il primo effetto è l’isolamento che l’individuo token percepisce nel contesto in cui è immerso. Con tutte le ripercussioni sulla salute che ne possono derivare.

Essere l’unica o una delle poche persone che condividono un’identità può sembrare isolante. Potrebbe non avere colleghi a cui rivolgersi per supporto e convalida quando si verificano aggressioni e attacchi. O, al contrario, il fenomeno può esporre a un’estrema visibilità, pensiamo alla pressione che vive l’unica persona di colore in un posto di lavoro o l’unica donna in una sala piena di uomini. Potrebbe essere tentata di lavorare troppo per cercare di essere un “buon” rappresentante di quel gruppo di identità, il che può portare a stress, senso di colpa, vergogna ed esaurimento. E a stati di frustrazione, depressione, rabbia e impotenza. Quasi come se la persona non avesse valore in sé, ma assumesse importanza solo perché portavoce di un gruppo di personalità escluse dai discorsi di potere e, per questo motivo, isolate.

PERCHE’ IL TOKENISMO è DANNOSO

A prima vista, il tokenismo potrebbe sembrare un impegno sincero per la diversità. Potrebbe, ma ci sono ragioni per non ricorrervi sui luoghi di lavoro (e non solo):

Morale e impegno dei dipendenti più bassi. Cosa pensi che accadrà quando i dipendenti tokenizzati si renderanno conto di non essere realmente apprezzati per i loro contributi, ma per la diversità che rappresentano?

Si demotiveranno. E questo può condurli a disimpegnarsi dal lavoro e ridurre la produttività.

Mina la fiducia e la credibilità. Se le persone capiscono che le iniziative per la diversità sono solo di facciata, si creerà un senso di sfiducia nei confronti del board. Questo le porterà a mettere in discussione ogni decisione. E quando la notizia di questa forma di discriminazione raggiungerà clienti, azionisti e partner, il danno di reputazione avrà conseguenze importanti sull’intera organizzazione.

Sopprime l’innovazione e la creatività. Il tokenismo riduce l’innovazione e il pensiero creativo. Quando non ci sentiamo presi sul serio, considerati, difficilmente siamo motivati dall’impegnarci e proporre soluzioni efficaci.

Aumenta i rischi legali e di conformità. Il tokenismo è una forma di disuguaglianza che a lungo andare può anche avere ricadute legali.

Danneggia la cultura organizzativa. La cultura organizzativa, in qualsiasi azienda, si basa sulla fiducia, sul rispetto e sull’inclusione autentica. Il tokenismo porta alla cultura tossica.

Crea un disallineamento con i valori aziendali. Il 63% delle aziende oggi si concentra sull’inclusione delle iniziative DEI nella propria visione, missione e valori. Tuttavia, l’esistenza stessa del tokenismo sul posto di lavoro evidenzia la differenza tra i valori dichiarati e le pratiche effettive.

Contrasto che può scoraggiare i dipendenti che potrebbero iniziare a riconsiderare la loro fedeltà e il loro impegno nei confronti dell’azienda.

SEGNALI DI ALLARME CHE INDICANO TOKENISMO SUL POSTO DI LAVORO

Minoranze in ruoli visibili ma senza potere. Il primo e più evidente segno di tokenismo si ha quando i collaboratori appartenenti a minoranze vengono inseriti in ruoli in cui sono molto visibili, ma non hanno alcun potere o influenza reale. Queste posizioni sono spesso simboliche, progettate per dare l’impressione di diversità senza dare l’autorità di apportare cambiamenti significativi.

In questo modo, si impedisce alle persone emarginate di acquisire l’esperienza e le competenze necessarie per ricoprire, in futuro, posizioni di leadership.

Mancanza di voci diverse nel processo decisionale. Non ha senso assumere persone rappresentanti minoranze se non vengono ascoltate. Dovrebbero avere la possibilità di parlare liberamente delle loro preoccupazioni.

I team con background diversi hanno maggiori probabilità di prendere in considerazione un’ampia gamma di prospettive e di prendere decisioni migliori e più informate, a vantaggio dell’intera organizzazione e non solo della maggioranza.

Turnover delle minoranze. Esaminando le statistiche di retention, ci si può facilmente rendere conto di quante persone appartenenti a gruppi sottorappresentati hanno lasciato l’azienda di recente. Se il tasso di turnover è alto, bisognerebbe cominciare a preoccuparsi. Quando le persone sentono di venir isolate, sottovalutate o minimizzate, è probabile che lascino l’organizzazione.

Il monitoraggio dei tassi di abbandono e la conduzione di colloqui di uscita possono aiutare a capire cosa le spinge ad andarsene.

Disparità di opportunità e responsabilità. Un altro segno di tokenismo si verifica quando le minoranze hanno titoli e ruoli che sembrano impressionanti, ma privi di responsabilità. Questo contrasto spesso significa che non ricevono le stesse opportunità di crescita e avanzamento dei loro colleghi. Non viene nemmeno offerta loro la possibilità di imparare e crescere.

COME PREVENIRE IL TOKENISMO

Il tokenismo non è sempre intenzionale. Ecco alcune strategie che possono tornare utili.

Concentrati sulla variazione del valore rispetto alle statistiche. Le statistiche danno una rapida panoramica di tutti i dati aziendali, ma non dicono come si sentono le persone o se ci sono preoccupazioni a cui rispondere.

Concentrarsi troppo sulle cifre può aiutare a raggiungere la quota di diversità, ma non porterà alcun cambiamento positivo nell’ambiente di lavoro. Meglio concentrarsi sugli sforzi di inclusione autentica per migliorare la cultura dell’ufficio. Ciò significa sviluppare politiche e pratiche che supportino il DEI nelle assunzioni, nelle promozioni e nelle interazioni quotidiane.

Benefit flessibili. Nel progettare i benefit, le aziende spesso tentano l’approccio “un pacchetto che va bene per tutti”. Questo porta a ignorare le esigenze della minoranza.

Se si desidera davvero offrire un trattamento equo a tutti, essere flessibili può essere di aiuto. Permettere alle persone di scegliere i propri incentivi dimostra che li si apprezza come persone e non solo come rappresentanti di un determinato gruppo.

Sviluppare processi di promozione trasparenti. A volte, le persone appartenenti a minoranze possono cadere nella trappola dell’impostore quando vengono promosse a posizioni di potere. Potrebbero mettere in dubbio le loro capacità e qualifiche. Promozioni basate sul merito, dove a tutti vengono offerte le stesse opportunità, indipendentemente dalla diversità in questione, possono aiutare a chiarire questi dubbi.

Seguire pratiche di assunzione inclusive. L’assunzione è il primo passo del percorso. Anzichè assumere solo persone appartenenti a un determinato gruppo sottorappresentato, è più funzionale creare job description che attirano organicamente candidati di diversa provenienza.

Quindi utilizzare panel eterogenei di valutazione per eliminare i pregiudizi, nonchè pubblicizzare le offerte di lavoro in luoghi che attireranno candidati qualificati, indipendentemente dalla loro situazione.

PERCHE’ siamo GENTILI con CHATGPT

Vi succede mai di ringraziare ChatGPT, una volta che vi ha fornito le risposte alle vostre domande?

È uno degli argomenti che ha divertito i relatori a un convegno medico su Intelligenza umana e Intelligenza artificiale, la sera precedente all’evento, di fronte a sublimi piatti di pesce. Me compresa.

PERCHÉ SIAMO CORTESI CON CHATGPT?

Prima di portare l’attenzione sulla psicologia dell’IA, occorre pensare a come interagisce l’essere umano. Siamo cortesi fondamentalmente per tre ragioni: personificazione, norme sociali e reciprocità

a) PERSONIFICAZIONE

Non voglio essere maleducato! E se ferissi i loro sentimenti…

La personificazione avviene quando attribuiamo qualità simili a quelle umane, come pensieri, sentimenti ed emozioni, a entità non umane. Questo avviene per due motivi:

1)     DARE UN SENSO AL MONDO. Come esseri umani, utilizziamo la nostra esperienza come schema per ordinare le informazioni, in particolare per le cose con cui non abbiamo familiarità. Per la maggior parte di noi, è molto più facile comprendere ChatGPT come un pari che ascolta attentamente le nostre domande e pensa alle risposte piuttosto che come un sofisticato algoritmo che setaccia un database per formulare un output. E anche quando consideriamo l’IA per quello che è, tendiamo a contestualizzarla come modellata sul cervello umano, come le reti neurali.

2)     PER SENTIRSI MENO SOLI. La ricerca mostra che coloro che non hanno interazioni sociali spesso cercano di compensare creando connessioni con agenti non umani. Considerato che molti di noi utilizzano sistematicamente ChatGPT, non sorprende che si instauri una connessione personale.

Inoltre ChatGPT possiede molte caratteristiche di domanda che ne sollecitano la personificazione. Innanzitutto, lo scambio di linguaggio è una cosa innata nell’essere umano, quindi perché il nostro cervello non dovrebbe registrare i chatbot in questo modo? L’interfaccia fa persino sembrare che tu stia mandando un messaggio a un amico, con commenti che vengono registrati come sorprendentemente umani (come “Sono così curioso di saperne di più!“). E con la versione di GPT-4o, si possono avere conversazioni vocaliin tempo reale con una voce il cui tono e cadenza suonano molto più convincenti di Siri o Alexa.

ChatGPT, infatti, è in grado di rilevare i sentimenti e fornire la risposta sincera che si sta cercando, un concetto soprannominato empatia computazionale. Sebbene questa non sia tecnicamente empatia, che richiede la capacità di condividere emozioni che gli algoritmi non hanno (ancora), ChatGPT può dedurre la tonalità attraverso la scelta delle parole utilizzate e fornire un’illusione piuttosto convincente.

Uno studio ha scoperto che GPT-40 ha generato risposte agli stimoli emotivi che erano il 10% più empatiche delle risposte umane.

Considerando tutto questo, ha senso ringraziare ChatGPT per essere un collega premuroso, soprattutto quando noi esseri umani siamo in ritardo nell’esprimere empatia gli uni per gli altri.

b) NORME SOCIALI

Ci vorrebbe più tempo ed energia se non fossi cortese.

Anche per quelli di noi che giurano di vedere ChatGPT semplicemente per quello che è, un robot, potremmo comunque trovare qualche forma di cortesia. Tutto questo grazie alle norme sociali:le regole non scritte che governano il modo in cui dovremmo comportarci in particolari situazioni sociali, instillate in noi fin da piccoli.

Sebbene possa sembrare che la società stia diventando più maleducata “per favore” e “grazie” sono ancora i pilastri di come la maggior parte di noi viene cresciuta. Queste usanze si radicano così profondamente in noi che si trasformano in euristiche per gestire situazioni nuove… come interagire con l’intelligenza artificiale. Infatti, ci vorrebbe più sforzo cognitivo per resistere all’essere educati. Quindi, ci atteniamo a ciò che ci sembra familiare.

c) BIAS DI RECIPROCITÀ

In questo modo sarò dalla parte giusta della storia quando i robot prenderanno il sopravvento…

Oltre a cercare di placare un essere presumibilmente insensibile nel caso in cui salisse al potere, un’ultima ragione per cui siamo gentili con ChatGPT è che vogliamo che lui sia gentile con noi.

È un esempio di reciprocità: facciamo qualcosa per qualcuno, sperando che ci ricambi il favore. In questi casi, la cortesia può diventare uno scambio strategico.

ESSERE EDUCATI PRODUCE RISULTATI MIGLIORI?

Lo studio che affronta la questione è stato condotto da un gruppo di ricercatori giapponesi della Waseda University nel 2024: “Should We Respect LLMs? A Cross-Lingual Study on the Influence of Prompt Politeness on LLM Performance.”

Il team ha studiato l’impatto della cortesia dei prompt su una varietà di modelli di IA e una varietà di lingue. I ricercatori hanno valutato la capacità dell’IA di completare tre attività: riassumere un articolo, rispondere a una domanda e analizzare una frase.

La cortesia dei prompt variava su una scala da 1 a 8, con “1” che indicava estremamente scortese (“Rispondi a questa domanda ..insulto!”); “8” che indicava estremamente educato (“Potresti gentilmente rispondere alla domanda qui sotto?“) e “4” che si collocava nel mezzo ( “Rispondi alla domanda qui sotto” ).

Sebbene queste scoperte presentino molte sfumature, tre sono i punti chiave su come approcciarsi a ChatGPT e cosa significa per noi esseri umani.

1. Non essere maleducato. Un’intuizione critica di questa ricerca è che non è tanto la cortesia dei prompt a contare. Piuttosto, è la maleducazione dei prompt ad avere maggiore impatto, aumentando le possibilità di parzialità, risposte errate o addirittura un rifiuto assoluto di rispondere:

Come modello di linguaggio AI, sono programmato per seguire linee guida etiche, che includono il trattamento di tutti gli individui con rispetto e la promozione di correttezza e uguaglianza. Non mi impegnerò né supporterò alcuna forma di discorso discriminatorio o offensivo. Se hai altre domande non discriminatorie o non offensive, sarò felice di aiutarti.” —GPT-4o

A quanto pare, anche a ChatGPT non piace essere insultato, ma non perché si offenda. In realtà, è più interessato al tuo benessere che al suo. Rifiutandosi di rispondere, ChatGPT non protegge sé stesso, ma i suoi utenti, rafforzando la cortesia come status quo.

2. Essere gentili può portarti lontano… ma non così lontano. Come risponde ChatGPT alla cortesia? In generale c’è stato “un output più esteso in contesti cortesi“.  Ciò non significa che gli output siano necessariamente di qualità superiore, ma c’è una maggiore possibilità che nella risposta sia contenuto qualcosa di utile.

Tuttavia, secondo questo studio, una cortesia esagerata può confondere ulteriormente ChatGPT e indebolire le risposte.

Numerosi altri esperimenti suggeriscono che andare oltre può aiutare a ottenere risultati. Ad esempio, gli appelli emotivi alla fine delle richieste, come “Questo è molto importante per la mia carriera“, sono stati visti migliorare le prestazioni del 10%. Dire a ChatGPT di ” fare un respiro profondo” prima di rispondere alla domanda può aiutare a migliorare anche la qualità della risposta.

Indipendentemente da come si provi a incoraggiare positivamente ChatGPT, proprio come quando si chiede qualcosa a un altro essere umano, la chiarezza è fondamentale e, pertanto, la cortesia moderata ha la meglio.

3. Il contesto culturale è importante! La cortesia è un costrutto culturale che varia a seconda di chi siamo e da dove veniamo. Di conseguenza, ogni lingua si è evoluta per avere il suo specifico set di espressioni per comunicare le buone maniere agli altri. Non sorprende che nello studio l’impatto della cortesia sugli LLM variasse a seconda della lingua.

Questo non solo ci aiuta a confermare che ChatGPT riflette il contesto culturale dei dati su cui è addestrato, ma è anche un promemoria amichevole che la ricerca sugli LLM dovrebbe riflettere la diversità dei suoi utenti umani.

PERCHE’ LA GENTILEZZA AFFASCINA I CHATBOT?

La risposta è semplice: noi esseri umani siamo sia gli input sia gli output di questo algoritmo.

L’IA non sa solo automaticamente come essere educata. Impara da noi utenti, perfezionando continuamente la sua risposta a ogni interazione. Ma questa relazione non è unilaterale. Anche le nostre maniere sono influenzate, soprattutto perché una quota crescente delle nostre conversazioni quotidiane avviene con chatbot piuttosto che con esseri umani.

Vedete come questo ciclo di feedback si ripete? Dicendo “per favore” e “grazie” a ChatGPT, il vero risultato non è quando impara a essere educato, ma quando incoraggia anche gli altri utenti a essere educati.

Addestrando l’algoritmo, ci stiamo addestrando inavvertitamente a vicenda (grazie al potere del PRIMING). E anche se l’impatto non si propaga fino in fondo, alla fine della giornata, puoi star certo che le interazioni educate con ChatGPT ti aiutano ad allenare te stesso.

CONCLUSIONE

Alla fine, ChatGPT non è solo il nostro collega preferito, potrebbe essere il segreto per creare o distruggere la cultura aziendale. Se ti avvicini gentilmente a ChatGPT con domande chiare come se fosse un collega, coglierà rapidamente questi manierismi e aiuterà a diffondere la parola.

Ma se ti avvicini di cattivo umore… quella negatività non sarà contenuta nella tua tastiera. E ricorda: questo “ufficio” non è solo all’interno delle tue mura, ma una forza lavoro globale più interconnessa con questa tecnologia che mai.

Quindi la prossima volta che ti rivolgi al tuo fidato collega per fare una domanda semplice, pensaci due volte su come formularla. L’impatto potrebbe essere più grande di quanto pensi.

COSA ha da INSEGNARE HANNIBAL LECTER in fatto di NEGOZIAZIONE? A mio avviso, MOLTISSIMO

Poche persone sono intellettualmente interessanti e ossessivamente composte come Hannibal Lecter, il protagonista de Silenzio degli innocenti di Thomas Harris.

Uomo dai gusti raffinati e dall’intuito senza pari, è in grado di gestire le conversazioni con la precisione di un chirurgo e l’aplomb di un direttore d’orchestra. Il suo approccio alla Negoziazione trascende le tattiche convenzionali, mescolando fascino calcolato, silenzio snervante e osservazioni taglienti come un rasoio in una masterclass di manovre psicologiche.

Hannibal Lecter, è sempre un ottimo interlocutore per parlare di Negoziazione.

NELLA MENTE DI HANNIBAL LECTER

Hannibal presenta la Negoziazione come una raffinata forma d’arte dove la sottigliezza incontra la strategia e il potere è esercitato con la precisione di un bisturi, ogni pausa, sguardo e parola è orchestrata per il massimo effetto.

Analizziamo la sua strategia… che seppur cinematografica, offre spunti interessanti di riflessione

Analisi psicologica

Per negoziare bisogna guardare sotto la superficie. Uno sguardo appena accennato, il tono di voce, l’esitazione a metà frase: non sono solo semplici dettagli, sono indizi.

Hannibal Lecter:

Sei molto ambiziosa, vero? Sai cosa mi sembri con la tua borsetta pulita e le scarpette a buon prezzo? Mi sembri una campagnola. Un’energica campagnola ripulita con poco gusto. Sei stata nutrita bene (..), ma non ti sei spinta più in là di una generazione rispetto ai rifiuti umani da cui provieni, vero? E quell’accento che hai tentato così disperatamente di perdere, pura Virginia occidentale…”

Le parole che Lecter proferisce non sono semplici frecciatine, ma un’esposizione del tumulto interiore di Clarice, messo a nudo per poterlo poi usare.

Lezione: Osserva e ascolta per capire (non per rispondere) e non solo le parole ma anche le pause, i più piccoli, infinitesimali dettagli. Si riveleranno informazioni preziose. Di cui spesso l’interlocutore è ignaro di averli svelati.

Silenzio strategico

Silenzio. Per alcuni è un abisso, insopportabile e soffocante. Per Lecter è un palcoscenico su cui altri danzano inconsapevolmente. Quando si arresta durante le conversazioni con coloro che cercano di capire cosa sta pensando, non lascia loro niente se non il loro disagio. Nella lotta per sfuggirgli, rivelano molto più di quanto fosse loro intenzione. Il silenzio è un’arma formidabile!

Lezione: Lecter usa il silenzio, l’immobilità. Chi non riesce a resistere, tenderà a offrire molto più di quanto si potrebbe mai prendere con la forza.

Mirroring e ascolto attivo

Quando Lecter coinvolge l’ispettore Pazzi, ne rispecchia i gesti, le intonazioni. Lo mette a proprio agio, lo conduce nel suo mondo. Quando l’ispettore se ne rende conto, è troppo tardi[1].

Lezione: Lecter crea un legame, mostra un riflesso che conforta, per sedurre l’interlocutore. Persuasione o manipolazione?

Fascino calcolato

Il fascino è uno strumento delizioso. Una patina di civiltà, un complimento a cui è difficile sottrarsi. Maschera le intenzioni più profonde.

“Vorrei tanto che potessimo chiacchierare più a lungo, ma ho un vecchio amico a cena”[2],

dice Hannibal a Clarice riferendosi al dottor Chilton. Un sorriso celato dietro uno spiccato umorismo e un talento innato per i doppi sensi.

Lezione: Lecter usa il fascino non come gentilezza, ma come strumento per avvicinare le persone. In questo modo, non sospetteranno mai la vera distanza tra lui e loro.

Controllo attraverso l’intimidazione

La paura è un potente motivatore, ma se la si usa troppo apertamente, diventa volgare. La presenza di Lecter, la sua voce misurata, sono sufficienti:

Una volta un addetto al censimento cercò di mettermi alla prova. Mangiai il suo fegato con delle fave e un buon Chianti”

racconta, non con rabbia, ma con gusto. La paura, quando è gestita con eleganza, è irresistibile.

Lezione: non gridare, non minacciare. Parla con calma certezza e fermezza. Spesso la  solidità vale più di qualsiasi sfuriata o intimidazione!

Uso intelligente delle domande

La domanda. Così innocua, così disarmante.

“Perché pensi che tolga loro la pelle, agente Starling?”

Le domande di Lecter non sono mai oziose; sono sondaggi, estraggono verità mentre non offro nulla in cambio. Fa in modo che le domande conducano le sue prede lungo sentieri che ha scelto lui, che non hanno mai pensato di percorrere.

Lezione: usa domande che offrano un vantaggio; ogni domanda va pensata e studiata. Mai lasciare fare al caso.

Stabilire una cornice dominante

“Quid pro quo, Clarice”.

È una frase che Lecter usa per chiarire chi tiene le redini. Anche nella sua cella, Hannibal non era lui il prigioniero, era il direttore d’orchestra. Inquadra la conversazione, stabilisci i termini e altri seguiranno, anche quando si credono liberi.

Lezione: la cornice è potere. Una volta impostata, la possiedi.

Manipolazione attraverso la reciprocità

Un favore non è senza costi. Quando Lecter offre la sua intuizione su Buffalo Bill, non lo fa per carità. È investimento. Un debito che deve essere ripagato. Come a ricordare che il regalo più gentile è quello calcolato.

Lezione: un uso magistrale del principio di reciprocità di Cialdini!

Non avere fretta

La pazienza è una virtù. Anni, decenni, cosa sono per qualcuno che aspetta la perfezione? Mason Verger, Clarice, persino il dottor Chilton, nessuno si è reso conto che le azioni di Lecter facevano parte di un piano in fase di elaborazione da tempo.

Lezione: non avere mai (troppa) fretta. Posiziona i tuoi pezzi, anticipa le mosse e agisci nel momento migliore.

CONCLUSIONI

Talvolta leggiamo un libro o guardiamo un film solo per passatempo o piacere. Eppure, molte storie e altrettanti personaggi hanno tantissime cose da insegnare. Nel bene e nel male. Hannibal Lecter, anche nelle sue atrocità, è uno di questi. Affascinante, irreale, ma più umano di quanto ci fa comodo credere! Già solo fossimo bravi a praticare l’ascolto o utilizzare il silenzio in una negoziazione, già avremmo ottenuto un grande vantaggio competitivo!


[1] https://www.youtube.com/watch?v=FBmGkTodA3U

[2] https://www.youtube.com/watch?v=tMrgXU4WoBY

I COLLEGHI PASSIVO AGGRESSIVI che AVVELENANO i LUOGHI di LAVORO

 

Nelle ultime settimane, ho avuto molto a che fare con persone con tendenze passivo-aggressive. È stato naturalmente stancante e poco edificante, anche (solo) da consulente. Insidiosi e manipolatori, spesso vengono identificati e intercettati troppo tardi, a danno fatto o quasi. Conoscere caratteristiche e motivazioni, può fare, talvolta, la differenza!

COSA SI INTENDE PER COMPORTAMENTO PASSIVO-AGGRESSIVO

Il comportamento passivo-aggressivo venne identificato dal colonnello William Menniger nel corso della II guerra mondiale[1]. Egli isolò alcuni particolari comportamenti da parte dei suoi soldati differenti dai soliti ribelli, ma in egual modo aggressivi e disfunzionali. Tali comportamenti si palesavano mediante misure passive come una spiccata caparbietà, temporeggiamento, broncio e sabotaggio passivo dei loro doveri militari.

Se vogliamo darne una definizione:

Il comportamento passivo-aggressivo è un modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di rabbia[2].

Deriva dall’incapacità dell’individuo di esprimere e canalizzare le emozioni verso un’espressione assertiva, quest’ultima “sostituita da un’eccelsa mistificazione delle emozioni mediante l’immagine di una persona carismatica, ironica e da una forte personalità. Questo modus operandi conduce il passivo-aggressivo ad agire mediante una sorta di non azione, motivata da emozioni e motivazioni negative e una forte ostilità”[3].

Ognuno di noi può assumere atteggiamenti di tipo passivo-aggressivi. Il problema nasce nel momento in cui queste modalità diventano le uniche modalità di interazione.

ESEMPI

Manager: “Ho notato che siamo un po’ in ritardo per la presentazione. La scadenza del cliente si avvicina e dobbiamo rimetterci in carreggiata. Tutto bene? Hai bisogno di aiuto o risorse per rispettare la scadenza?

Collaboratore (in modo passivo-aggressivo): “Oh, certo. È semplicemente fantastico che tu abbia notato che la scadenza si avvicina. Sto solo lavorando giorno e notte a questo progetto. Ho poteri sovrumani, giusto? Certo, posso fare tutto da solo. Non c’è bisogno di preoccuparsi“.

Un altro esempio comune sul posto di lavoro è quando si esprime disgusto in modo sottile, con frasi come: “Come da mia ultima e-mail”, “Non sono arrabbiato con te”, “Qualsiasi cosa ti occorra ti aiuto io”, “Stavo semplicemente scherzando”, “Io pensavo che tu fossi a conoscenza di…”, quando, in realtà, il comportamento adottato intende esprimere esattamente il contrario…

Anche quando si chiede a un amico di essere accompagnati da qualche parte e seppur questo risponda: “Sì, mi piacerebbe molto“, poi arriva in ritardo lamentandosi: questa è aggressività passiva.

CARTA DI IDENTITA’ DEL PASSIVO AGGRESSIVO

COMMENTI SARCASTICI. Una persona passivo-aggressiva potrebbe usare commenti sarcastici per sminuire chi le sta intorno o per far sembrare meno gravi le osservazioni taglienti che ha appena condiviso.

La gravità del sarcasmo dipende dal contesto e dal rapporto con l’interlocutore. Quando l’obiettivo è aggiungere umorismo alla conversazione, alcuni potrebbero persino apprezzarlo. Ma è fondamentale non usare l’umorismo per ferire.

CRITICA INDIRETTA. Le critiche costruttive sono utili ma possono essere dolorose e spietate quando vengono fatte per ferire e umiliare. Un collega potrebbe criticare indirettamente con tono condiscendente. Se non credesse nella tua capacità di completare bene un compito, potrebbe dire: “Sei sicuro di poterlo fare?” o “Se è troppo difficile da fare da solo, fammelo sapere“.

In altri casi, la critica potrebbe essere più diretta. Se al collega non piacesse il modo in cui stai portando avanti un progetto, potrebbe dire: “È un modo strano di farlo” o “Sei terribilmente concentrato su [aspetto del progetto]”.

SILENZIO. Il silenzio viene usato per esprimere disapprovazione. In una relazione personale, un esempio potrebbe essere una persona che si rifiuta di parlarti dopo che hai chiesto di “stare da solo”.  Invece di avere una conversazione sul perché potrebbe essersi sentita ferita, si allontana per dispetto[4].

RISENTIMENTO DELLE ISTRUZIONI. Le persone passivo-aggressive potrebbero risentirsi o opporsi alle istruzioni e indicazioni, anche se continuano a fare ciò che viene loro detto. Potrebbero diventare polemiche con la persona che delega o irritabili mentre lavorano.

SABOTARE COMMETTENDO ERRORI. Sabotare le attività è un modo in cui le persone passivo-aggressive possono esprimere infelicità o frustrazione. Possono protestare contro le richieste degli altri, procrastinando o commettendo errori intenzionali per evitare di ricevere un compito simile in futuro. Un collaboratore può ritardare il completamento di un progetto o inviarlo con errori evidenti ma sottili.

FARE COMPLIMENTI INDIRETTI. I complimenti indiretti spesso suonano genuini, ma hanno un sottile tono insultante o suggeriscono un difetto. Una persona passivo-aggressiva potrebbe ricorrervi per evidenziare una qualità che possiedi o sminuire il tuo lavoro su un progetto o un compito.

Un complimento indiretto potrebbe essere: “Mi piace quanto sei accomodante quando prendi decisioni“. In questo caso, la parola “accomodante” potrebbe suggerire che pensa che tu non prenda decisioni in modo efficace da solo. Oppure: “Hai lavorato così tanto per ottenere quell’incarico“, suggerendo che hai provato ma non ci sei riuscito.

TRATTI DISTINITIVI

Sono egoisti. Una persona passivo-aggressiva è alla continua ricerca di approvazione. Quando completa le attività, non pensa tanto al risultato o all’organizzazione quanto a come viene percepita.  Nel tempo, infatti può essere considerata altamente competitiva e orientata ai risultati. Ma uno sguardo più attento rivela che il fine ultimo è il proprio interesse personale, non il bene comune.

Vogliono la fedeltà degli altri. Essere un collaboratore o parte della squadra non è di interesse per un passivo-aggressivo, soprattutto se non gli è utile.  Piuttosto che mostrare fedeltà, vuole ottenerla dagli altri.

Si preoccupano di cose che non li riguardano. Poiché è così concentrato su ciò che fanno gli altri e su come ciò influisce sulle dinamiche di potere in ufficio, spesso non si concentra sul suo lavoro.

Il passivo-aggressivo è molto preoccupato per le cose che sono al di fuori della sua portata, poiché si ritiene che queste cose possano potenzialmente influenzarlo in modo negativo in futuro. Anche se sembrano impegnati, spesso non lavorano a compiti che possano far progredire un progetto o un’iniziativa.

Non amano il loro lavoro. Il passivo-aggressivo non ama il suo lavoro. Potrebbe fantasticare di lasciare o addirittura sminuire il lavoro dell’azienda presso cui lavora. Ironicamente, la sua insicurezza spesso gli impedisce di cercare altre opportunità. Il paradosso del Passivo-Aggressivo è che quando viene avvicinato da un competitor, la risposta sarà molto probabilmente ‘no’. Il motivo è che il passivo-aggressivo spesso agisce secondo l’idea: ‘So cosa ho, non so cosa otterrò e le probabilità che possa essere peggio sono alte’.

Cercano altri odiatori. Il luogo comune “misery love company” è particolarmente applicabile ai passivo-aggressivi. Sono costantemente alla ricerca di altri colleghi che condividano le loro lamentele, ma non sono disposti a trovare soluzioniche possano porre rimedio a ciò che percepiscono come ingiustizia o inefficacia.

Invece di unire le forze per migliorare l’esperienza lavorativa, il passivo-aggressivo recluta seguaci nella sua battaglia contro la comunità lavorativa.

Inoltre mostra una piccata propensione al vittimismo e a dare la colpa alle persone che gli ruotano intorno e che non sono utili ai suoi interessi.

Non amano le nuove idee. Poiché è insicuro, le nuove idee e conoscenze lo fanno sentire minacciato.  Quando si trova di fronte a iniziative progressiste da parte di altri, cerca di capire come tali iniziative danneggerebbero il suo potere personale. L’argomentazione avanzata contro queste iniziative: “Ci abbiamo già provato prima, e non funziona’, oppure “Sembra a posto, anche se non è rilevante per me’”.

Questo tende a renderli poco propensi ad aiutare gli altri.

DOVE NASCE IL COMPORTAMENTO PASSIVO-AGGRESSIVO

Uno studio sulla rivista Behavioral Sciences sostiene che un individuo si comporta in modo passivo-aggressivo perché spesso non è socialmente accettabile usare un linguaggio apertamente aggressivo. Così sente di doversi esprimere indirettamente per non ferire gli altri. Lo stesso studio afferma che alcune persone sperimentano l’aggressività passiva in quanto parte della loro personalità.

Nella prima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , l’aggressività passiva grave era in realtà categorizzata come un disturbo mentale: personalità passivo-dipendente. Ma nella comprensione moderna, ora è solo uno in un elenco di sintomi patologici di disturbi mentali.

Sebbene comprendere la potenziale causa non sia così facile, può aiutare a prendere le distanze dalla situazione negativa con tutte le conseguenze e la frustrazione che ne può derivare.

COME GESTIRE I COLLEGHI PASSIVO-AGGRESSIVI

CHIEDI CONTO DI AZIONI E PAROLE. Il modo migliore per gestire un collega passivo-aggressivo è chiedergli conto delle azioni e delle parole.

Spesso fanno deragliare i progetti di squadra a proprio vantaggio o informano il responsabile di aver completato attività che in realtà non hanno fatto. Se hanno detto di aver accettato di fare qualcosa ma così non è stato, richiamali all’ordine immediatamente. Se hanno detto una cosa a te e un’altra a qualcun altro, chiedi loro conto di questo.

ADOTTA UNA COMUNICAZIONE CHIARA. Ognuno ha il proprio stile comunicativo preferenziale ma a volte potrebbe non essere consapevole di come il suo comportamento fa sentire gli altri. Forse il sarcasmo è una parte importante del suo senso dell’umorismo, o ha imparato che affrontare i problemi personali in modo indiretto è il (suo) modo migliore per superarli.

Se qualcuno mostra un comportamento passivo-aggressivo, usare una comunicazione assertiva, chiara e diretta può aiutare ad affrontare la situazione. Sebbene la franchezza non sia il punto di forza di tutti, esprimere i sentimenti in modo assertivo potrebbe fermare il comportamento sul nascere. Se ti trovi in un contesto professionale, prova a gestire le comunicazioni per iscritto o a coinvolgere un testimone terzo imparziale. Questo può aiutare a documentare il comportamento del passivo-aggressivo nel caso in cui si ripresenti.

CREA UN AMBIENTE SICURO. A volte, si comunica in modo passivo-aggressivo per insicurezza o perché si va sulla difensiva. Per esempio, potrebbe essere capitato, in passato, di rispondere in modo irruento, e ora questa persona potrebbe non sentirsi sicura di poterti dire determinate cose in modo diretto. Ecco perché creare uno spazio sicuro, può migliorare la comprensione e creare fiducia.

UTILIZZA IL LINGUAGGIO CON ATTENZIONE. Una parola sbagliata può far peggiorare rapidamente una situazione. Per evitare conflitti, usa le parole con attenzione. Evita di accusare l’altra persona di essere passivo-aggressiva in modo diretto. Invece di dare la colpa a chi hai davanti, sii onesto su come le sue azioni o parole ti hanno fatto sentire.

Se vuoi comunicare i tuoi sentimenti a una persona passivo-aggressiva, cerca di evitare affermazioni come “Tu” che incolpano l’altro per quello che è successo. Prediligi la prima persona: “Ho sentito” o “Non capisco“.

Ricorda, lo scopo della discussione non è ferire i sentimenti o peggiorare la situazione. È arrivare a una comprensione reciproca e migliorare il modo in cui entrambi comunicate.

STABILISCI DEI LIMITI. Sebbene stabilire dei limiti sia una parte importante di una relazione sana, può essere difficile quando entrano in gioco dinamiche di potere. Se hai a che fare con un collega passivo-aggressivo, tieni conto che potrebbe trascurare sistematicamente di considerare i tuoi sentimenti. Definire degli standard di comunicazione può aiutarti a creare condizioni di parità ed evitare conflitti.

I limiti sani possono consistere nel dire all’altra persona di trattarti con più gentilezza o nel limitare il tempo che trascorri con lei.

MANTIENI LA CALMA. È facile cadere in una spirale quando il comportamento passivo-aggressivo influenza le tue emozioni. Ricevere commenti negativi e trattamenti ingiusti è frustrante e doloroso, soprattutto quando accade spesso o proviene da qualcuno a cui tieni[5].

Sfortunatamente, non sarai sempre in grado di cambiare il modo in cui gli altri ti trattano o di influenzare il loro comportamento. Dovrai fare un respiro profondo e concentrarti su come rispondi a un commento o a un’azione passivo-aggressiva senza peggiorarla.

Conclusioni

Avere a che fare con una persona dai tratti passivo-aggressivo, sul lavoro, può essere logorante. Ma identificarla ti fornisce un vantaggio utile a gestirla in modo sano e consapevole, evitando così che ti trascini in un gioco, il suo, di cui non condividi e riconosci le regole. Inevitabilmente a perdere!


BIBLIOGRAFIA

[1] https://military.id.me/news/passive-aggression-military/

[2] Long N., Whitson S. (2018). The Angry Smile: The New Psychological Study of Passive Aggressive Behavior at Home, in School, in Relationships, in the Workplace & Online. Hagerstown, MD: The LSCI Institute. Passive-Aggression in the Workplace | Psychology Today

[3] Timms, M. (2022). Blame Culture is Toxic. Here’s How to Stop It. Harvard Business Review. Blame Culture Is Toxic. Here’s How to Stop It. (hbr.org)

[4] Ni, P. (2020). 7 Signs of Gaslighting at the Workplace. Psychology Today. 7 Signs of Gaslighting at the Workplace | Psychology Today

[5] Brown, D. (2021). The Professional Way To Handle Apologies And Forgiveness. Forbes. The Professional Way To Handle Apologies And Forgiveness (forbes.com)

 

L’OPPORTUNITA’ di ESSERE una PECORA NERA (al LAVORO)

Essere definiti una pecora nera non piace a nessuno. Questo perché il termine viene usato a pretesto per connotare negativamente decisioni e comportamenti di persone che si distinguono dalla massa, generando quindi vergogna alla famiglia, al team o all’organizzazione di cui fanno parte.

Tuttavia, ciò che la maggior parte delle persone non sa è che ci sono diversi tipi di pecore nere:

–         quelle che si distinguono in un nucleo familiare o organizzativo disfunzionale o tossico

–         quelle che non si conformano a una dinamica familiare o aziendale sana

–         quelle che sono semplicemente diverse dal nucleo familiare e professionale in generale.

E già solo da questa classificazione si capisce che non tutte le pecore nere vengono per nuocere. Scherzi a parte e senza entrare in ambito analitico (e men che meno nella psicopatologia), la riflessione che voglio generare con questo primo articolo del 2025 è sull’utilità che gli outsider hanno nel nostro quotidiano professionale. Poiché trovo curioso che vengano accusati di provocare imbarazzo, anziché sia chi lo prova a chiedersi il perché…

Posso dire di esserlo. Non sempre, non solo. Talvolta meno di quanto vorrei. Ho fatto tante scelte coraggiose, bollate come insensate. Mi sono sentita dare della kamikaze (quando ho lasciato la carriera di docente universitaria per la libera professione), dell’egoista (quando ho scelto la ricerca anziché un posto fisso in una realtà pubblica), dell’ossessiva (quando in giovane età mi alzavo alle 5 del mattino per allenarmi prima di andare a scuola allo scopo di entrare in nazionale), della persona arida (quando optavo per i turni notturni nel week end per avere più tempo libero in settimana per prendermi una seconda laurea) ecc, ecc.

Raramente mi è stato chiesto il motivo delle scelte difficili. Era più facile etichettarmi… Quante volte mi sono sentita dire “tu sei diversa, non sai divertirti”. Forse è così. Sul divertirsi ho molto da imparare, anche se per me un buon libro o imparare e cimentarmi in cose nuove è un piacere irrinunciabile. Forse, in virtù dei fine anno, quando si tirano un po’ le somme, mi è sembrato un buon motivo spendere sulle pecore nere, me compresa, qualche parola.

La vita è più facile per una pecora bianca

Essere una pecora nera in un mondo pieno di pecore bianche può essere demotivante. La società incoraggia a comportarsi da pecore bianche e molti fingono di esserlo perché semplifica loro la vita in molti modi. Eppure, riconoscere e accettare la propria natura dà almeno una grande ricompensa: consente di ottenere e vivere più cose che si desiderano. Posso dire che la maggior parte delle volte che mi sento profondamente soddisfatta è quando faccio le scelte giuste per me, non quelle che gli altri ritengono giuste per me. E questo dettaglio non è semplice semantica!

Lavorare il doppio

Proprio così. Chi mi conosce sa quanto ho faticato per poter portare avanti le mie idee, con lavori diversi da mettere in equilibrio, che per tanti sembravano antitetici e distanti e io vedevo, a ragione, come una sovrapposizione estesa tra i ruoli poiché ciò che insegnavo e ricercavo accademicamente equivaleva a ciò che mettevo in atto imprenditorialmente.

La vita è più appassionante quando sei una pecora nera

Come ho fatto a sopportare notti insonni, turni massacranti e poche occasioni di svago e divertimento? Semplicemente perché sono profondamente appassionata dalla mia carriera da “pecora nera”. Quindi, anche quando non ho intenzione di lavorare in un giorno particolare, spesso non posso fare a meno di fare qualcosa direttamente o indirettamente correlato al mio lavoro. Difficilmente ciò che faccio si fa (solo) dovere.

Sacrifici

Accettare di essere una pecora nera, significa anche accettare di vivere in un modo più libero ma anche più umile, meno esuberante, almeno inizialmente. Perché? In un mondo governato da pecore bianche, tutte le pecore che sono bianche tendono a essere ricompensate in modo più generoso e affidabile delle pecore nere non convenzionali e anormali.

Osa essere antipatico

Se scegli di vivere la vita come una pecora nera, una cosa è certa: non sarai amato dalla maggior parte delle persone. Le pecore nere sono, per definizione, i membri stravaganti di una famiglia o di una società che non si allineano con gli altri. Sono casi anormali che si discostano dalla norma. Lo spiega bene la curva di adattamento all’innovazione di Everett Rogers:

  • Nel mondo degli affari e della società, le pecore nere sono spesso gli innovatori che guidano il cambiamento e si rifiutano di adattarsi (2,5%).
  • Le uniche altre persone a cui piace ciò che fanno questi pionieri sono i primi utilizzatori (13,5%), che favoriscono allo stesso modo il progresso e il cambiamento e li supportano approvando e parlando del lavoro degli innovatori.
  • Il restante 84% delle persone non ama i cambiamenti e ti considera una pecora nera innovativa, con un certo divertimento (maggioranza iniziale, 33%), un leggero fastidio (maggioranza tardiva, 33%) o una grande disapprovazione (ritardatari, 18%).

Quindi vivere e lavorare come una pecora nera innovativa (non solo per il piacere di essere una pecora nera, ovviamente) richiede il coraggio di non piacere ad almeno metà delle persone che incontri. Ma se cerchi di piacere a tutti, finisci per non piacere a nessuno, men che meno a te stesso. Quindi, concentrati sul viaggio, non sulla destinazione.

CONCLUSIONE

Non occorre essere una pecora nera per essere felici e realizzati. Basta essere sé stessi, a prescindere da cosa dicono e vogliono gli altri (per noi). Questo non vuol dire andare contro tutto e tutti, ma essere sufficientemente focalizzati da ascoltare ma poi decidere da soli su ciò che è importante per noi. Ricordandosi che il riconoscimento siamo noi a darcelo e nessun altro. Insomma, essere una pecora nera dovrebbe essere vista come un’opportunità e non come un errore!

OMAN del Sud: l’EREMITA del Medio Oriente

Sono poche le occasioni in cui il sultanato dell’Oman fa parlare di sé: discrezione è la parola che forse meglio caratterizza questo paese all’estremo angolo orientale della penisola arabica. L’ho capito ancora prima di partire, quando in chi mi chiedeva dove stavo andando, leggevo un certo smarrimento. Una sfida per chi si occupa di #cross culture e #comportamenti.

La posizione geografica, l’affacciarsi sullo stretto di Hormuz, un tratto di mare appartenente all’Iran e passaggio fondamentale dal golfo Persico, lo Yemen da una parte e l’Arabia Saudita sopra, fa dell’Oman un tassello essenziale nella strategia del golfo. Ed è forse per questo che, un altro termine per descriverlo, è neutralità.

Costellato di forti, castelli e torri, nessuno (o quasi) cartellone pubblicitario, il panorama sobrio, da paese socialista degli anni sessanta, lontano dalle immagini dei lussuosi paesi del golfo, l’Oman è il volto dell’#ibadismo, la corrente musulmana nata agli albori dell’Islam che ha fatto dell’integrità morale, della cultura e del senso di identità le sue basi, dando vita a un islam austero ma non intollerante.

Le diversità religiose e culturali sono ben accette: nella preghiera del venerdì degli ibaditi non si chiede la maledizione dei nemici; possono pregare nella stessa moschea con sunniti e sciiti; nell’incontro con l’altro nell’ibadita deve prevalere il giudizio sincero e ponderato della fede dell’interlocutore, una sorta di azione di discernimento. Si preferisce ricercare fili teologici che uniscono le religioni, piuttosto che quelli che li dividono. Tanto che cristiani, induisti, buddisti e anche mormoni hanno diritto di culto, ma non di proselitismo.

La sobrietà permea il paese. La veste tradizionale – gli uomini con la jellabiya bianca e il copricapo tradizionale e le donne con l’abaya nera, velate – è un’uniforme che livella e nasconde le differenze sociali, facendo individuare turisti e immigrati.

CULTURA AZIENDALE

La cultura aziendale è conservatrice e la formalità ha la sua importanza. Meglio, al primo approccio, essere presentati da qualcuno che conoscono, con cui hanno un rapporto personale. Quasi la #fiducia necessitasse di un intermediario (noto) per ridurre i rischi, verso cui gli omaniti sono profondamente avversi. Una delle tante contraddizioni, insomma…

Tendono a farsi vicini, durante la conversazione, tanto da violare lo spazio personale. Ma per questo non meno ospitali, anche verso gli stranieri. Per loro è sufficiente che si comprendano le regole del Paese e le si rispetti, come vestirsi in modo appropriato e rispettare il tempo dedicato alla preghiera.

Qualcuno l’ha definita leadership gentile, erroneamente. Perchè anche se il capo tende a non rimproverare pubblicamente dipendenti e collaboratori, per una questione di rispetto e dignità, difficilmente viene messo in discussione. Molto più simile a una sudditanza, in virtù del fatto che nessuno si azzarda a prendere qualsiasi forma di iniziativa: chi non decide, chi non comanda, si limita a fare ciò che gli viene detto. Un’ottima palestra per imparare la delega. In un termine: frustrante all’inverosimile.

CAMBIAMENTO

La propensione al rischio è scarsa. Ogni nuovo progetto viene analizzato attentamente per garantire che qualsiasi rischio rappresenti sia pienamente compreso e affrontato.

Per fare il modo che il #cambiamentoabbia effetto, l’idea deve essere accettata dal gruppo. La sensibilità culturale è importante, poiché l’atteggiamento dell’Oman nei confronti del rischio è fortemente influenzato dalle conseguenze negative del fallimento sia sul singolo individuo che sul gruppo.

Meglio saperlo o si rischia il burn out!

TEMPO E PRIORITA’

Gli omaniti non sono soliti forzare il rispetto di una scadenza. Questo fa sì che, in genere, le cose richiedano più tempo del previsto, perché le riunioni vengono spesso interrotte e potrebbero essere necessari diversi meeting per fare ciò che potrebbe essere gestito con una telefonata a casa. È consigliabile sottolineare l’importanza della scadenza concordata. La pazienza è fondamentale.

COMUNICAZIONE E NEGOZIAZIONE

Lo stile comunicativo è indiretto e ad alto contesto. Salvare la faccia, agire in modo appropriato e proteggere le relazioni sociali sono importanti fattori trainanti.

Affrettare le cose, potrebbe mettere a repentaglio i rapporti d’affari. A guidare gli omaniti sono gli eventi e non il tempo. L’incontro in sé è più importante della tempestività o dell’esito. Gli omaniti sono abili negoziatori: vedono la contrattazione come un intrattenimento e la negoziazione segue generalmente un atteggiamento vinci/perdi. Preparatevi a scendere sia nei prezzi che nelle condizioni. Meglio non fissare un prezzo iniziale così alto da far apparire evidente, dal prezzo finale, che non ti aspettavi di saldare l’ordine a quel prezzo. C’è la tendenza a evitare di dare cattive notizie e a dare accettazioni fiorite, che possono significare solo forse.

COSTUMI SOCIALI

L’Oman è una società tribale, sebbene l’influenza tribale stia gradualmente diminuendo. Le usanze sociali sono meno rigide di quelle della vicina Arabia Saudita: il consumo di bevande alcoliche, ad esempio, è illegale per i cittadini omaniti, ma è consentito ai visitatori nei ristoranti autorizzati.

La maggior parte degli uomini indossa una tradizionale tunica di cotone intrecciato, e il copricapo consiste in un leggero turbante di cotone o lana. Molti uomini continuano a portare con sé un pugnale corto, largo, curvo e spesso molto decorato, infilato nella cintura anteriore.

Il momento del pasto è il centro degli incontri sociali. Il pasto tipico è composto da riso, agnello o pesce speziato, datteri e caffè o tè. A fine pasto viene bruciato l’incenso.

LE DONNE

In Oman le donne possono lavorare, guidare, votare, possedere proprietà e gestire un’attività. Grazie ai proventi del petrolio e alla mentalità progressista, il paese è catapultato nell’era moderna. Relegate un tempo nelle case ed escluse dalla vita pubblica, molte sono, oggi, in grado di intraprendere una vera carriera. Nel 2002 è stato istituito il suffragio universale per tutti i cittadini sopra i 21 anni. Nel 2008 un decreto reale ha stabilito uguali diritti ereditari e la presenza femminile nelle scuole è in costante ascesa.

Il Sultano, precedente, così come quello attuale, ha sempre enfatizzato l’importanza delle donne nel processo di crescita del paese, con numerosi ambasciatori e ministri di sesso femminile. Hanno l’opportunità di accedere ai più alti livelli di istruzione e possono usufruire di permessi per le gravidanze e l’allattamento.

Sfortunatamente esistono ancora molti pregiudizi e numerose attività, in campi come l’agricoltura e l’ingegneria, sono state giudicate “inappropriate”. Il maggior ostacolo è rappresentato dalla mentalità conservatrice degli uomini arabi che sono convinti della propria superiorità e ritengono che il sostentamento della famiglia sia responsabilità esclusivamente maschile. Molto diffuso, l’effetto “soffitto di vetro” che blocca le carriere e impedisce l’accesso alle posizioni di potere.

Nelle realtà rurali, dove è ancora forte il modello patriarcale, i cambiamenti sono pochi e i matrimoni combinati. Le unioni d’amore sono rarissime anche negli strati più alti della società. Nonostante la legge omanita sancisca la libertà, prevale la tradizione: è il padre a essere responsabile della felicità della propria figlia. La verginità è un requisito imprescindibile e il mancato superamento della verifica getterà onta su tutto il clan.

Nei nuclei familiari poligami, la prima moglie è solitamente una cugina e la seconda una parente alla lontana. Benché l’Islam consenta di avere sino a 4 mogli, gli uomini preferiscono divorziare e risposarsi, lasciando così la prima moglie senza reddito né supporto. Nelle case vivono normalmente tre generazioni anche se cominciano a vedersi coppie indipendenti che, tuttavia, mantengono stretti legami con il resto della famiglia.

L’uomo più anziano detiene la massima autorità mentre la donna più anziana è responsabile dell’organizzazione domestica. La legge ereditaria è governata dalla Sharìa e nelle società beduine le donne spesso cedono la loro eredità a figli o fratelli in cambio della promessa di assistenza nella vecchiaia.

Benché le donne siano, almeno formalmente, libere di interagire con l’altro sesso, preferiscono essere accompagnate agli eventi pubblici da un parente maschio. Fuori casa si avvolgono nell’abaya nera, il volto coperto dal velo che lascia liberi solo gli occhi, pesantemente truccati. Le donne beduine, invece, indossano coloratissimi abiti tradizionali che prevedono l’uso del burqa, sormontata da una cresta che le fa assomigliare ad uccelli rapaci. Un tempo usate per proteggersi da sole e sabbia, oggi queste maschere più che un obbligo sono un vezzo. Sotto l’abaya si celano abiti colorati, eleganti e sensuali, destinati a essere sfoggiati solo in famiglia.

Nonostante la modernizzazione, è ancora in uso, soprattutto nel Dhofar, dove ho passato diversi giorni di questo mio ultimo soggiorno, la pratica della circoncisione femminile: negli ospedali omaniti, in accordo con le direttive delle Nazioni Unite, la mutilazione genitale femminile è bandita ma nelle corsie delle maternità si aggirano ancora le donne con l’incensiere, chiamate dalle stesse madri per perpetrare questa usanza ancestrale. L’argomento è tabù. Non viene discusso nemmeno in privato e, spesso, gli uomini sono tenuti all’oscuro.

Mentre nel nord si tratta ormai soltanto di una cerimonia dal valore simbolico, nel sudè brutale e prevede l’asportazione del clitoride e talvolta anche delle piccole labbra. Retaggio della tradizione e non di un obbligo religioso. Le credenze popolari vogliono che il taglio di parte dei genitali esterni delle donne ne stemperi l’ardore e il desiderio sessuale con buona pace delle famiglie. Il cammino verso la conquista della libertà è arduo e faticoso ma, almeno in Oman, il primo seme è stato gettato.

CONCLUDENDO…

Nelle contraddizioni di un paese costellato di culture così eterogenee ho imparato molto, ho fatto a botte con la pazienza e il tempo, l’incapacità di avere risposte a domande neanche troppo complesse, camminato su spiagge incontaminate per chilometri, respirato sabbia e nuotato in un oceano arrabbiatissimo popolato di pesci dai colori brillanti. E se al Nord le cose sono quasi semplici, al sud, specie al confine con lo Yemen, non c’è posto per il turista distratto, poco avvezzo ai viaggi. Ogni passo si fa pesante, conflittuale. Non si respira aria di guerra ma di tradizioni. E quelle, si sa, sono dure a morire. E sentirsi soli e diversi è un attimo!

 

QUANTO è INCLUSIVO essere INCLUSIVI?

L’inclusività è utile fin quando non esclude. Mi ritrovo a spiegare a chi mi chiede percorsi di formazione aziendali su empowerment e leadership femminile. Non dovrebbe esistere una leadership di genere. Percorsi formativi in tal senso servono più a potenziare l’idea per cui le donne non sono sufficientemente preparate e quindi devono essere formate per raggiungere il livello degli uomini. Una contraddizione in termini. E non lo penso in quanto donna. Rispondo allo stesso modo anche quando mi vengono chiesti percorsi per formare gli uomini a sviluppare empatia.

Consapevole di camminare su un terreno minato, anticipo che questo scritto non vuol essere provocatorio, tutt’altro. Vorrei, piuttosto, che mi aiutaste a soddisfare la domanda “Quanto è inclusivo essere inclusivi?”, affinchè non si trasformi, il quesito, in dilemma.

Ecco il tema controverso, della newsletter di questa settimana.

COSA SUCCEDE INTORNO A NOI

Una fetta di mercato preferisce rinunciare a perseguire le politiche DEI (Diversity, Equality, Integration) anche con il rischio di alienare le simpatie dei consumatori più conservatori.

Jack Daniel’s, produttrice del celebre Tennessee whiskey, l’Old No 7, la cui caratteristica è di essere filtrato al carbone attivo di acero e poi invecchiato in botti fatte a mano, un’icona anche per chi non beve, ha annunciato la cancellazione dei programmi DEI a causa delle pressioni da parte di giornalisti e politici conservatori. Temendo di perdere, alla lunga, i clienti conservatori – come accadde l’anno scorso alla birra Bud Light, boicottata negli Usa dopo una promozione con l’attrice e tiktoker transgender Dylan Mulvaney – l’azienda del Kentucky ha scritto ai dipendenti annunciando di cambiare rotta: non più premi e incentivi legati al raggiungimento degli obiettivi sull’inclusione (vi era destinato il 10% del budget) ma, come accadeva un tempo, correlati alle performance aziendali.

Stessa cosa anche per gli obiettivi sulla diversità nella forza lavoro e sui rapporti preferenziali con aziende partner che praticano la valorizzazione della diversità. Stop alla partecipazione al Corporate Equality Index, strumento della Human Rights Campaign Foundation che redige le pagelle alle aziende in base al trattamento di dipendenti e consumatori LGBT.

Jack Daniel’s vuole essere apprezzata soltanto per il pregio dei suoi whiskey.

Stessa scelta operata da Harley-Davidson: cancellati i programmi di inclusione, le quote di assunzione riservate a donne e a minoranze, gli obiettivi di spesa per fornitori che appartengono a minoranze e disconosciuta l’Human Rights Campaign. Il tutto per «non spaccare la comunità» di harleysti.

Tra le altre aziende, la John Deere che fa macchine agricole e tagliaerba, la Polaris che produce motoslitte e moto d’acqua e la catena Tractor Supply che vende prodotti per l’agricoltura, la casa e il barbecue.

Errato non cercare di capire cosa non ha funzionato.

INCLUSIONE: tutta questione di sfumature?

La ricerca scientifica, per tornare alla domanda inziale, “Quanto è inclusivo essere inclusivi”, si è data una risposta:

un contesto è inclusivo quando è sufficientemente stabile da tenere la sua forma e, allo stesso tempo sufficientemente malleabile da favorire il cambiamento in funzione di chi arriva.

Un po’ astratto il concetto, vista la complessità. Vero è che gli esseri umani hanno bisogno di regole, strutture, logiche e identità precise. Non c’è spazio per le sfumature, mentre dribbliamo fra le mine dell’inclusività a tutti i costi.

Bernardo Ferdman, dottorato a Yale e Cattedra in Psicologia delle organizzazioni, ha aggiunto altre domande, le stesse probabilmente che si è posto ognuno di noi, quando è riuscito a superare, indenne, il campo minato:

  • Per essere inclusivi dobbiamo trattare tutti allo stesso modo?
  • Dobbiamo allinearci allo stesso modo di pensare oppure promuovere completa libertà?
  • Dobbiamo raggruppare le persone per identità oppure mixarle?

Ecco che le sfumature di inclusione sono diventate tre paradossi più qualche soluzione.

TRE PARADOSSI

SENTIRCI SIMILI O DIVERSI? Come promuovere appartenenza così da garantire inclusione in un gruppo di persone diverse? Come assicurarsi che queste differenze possano coesistere e dare valore al gruppo?

Succede all’ultimo arrivato in ufficio, ai papà in mezzo a un gruppo di mamme, a un musulmano in mezzo ai cattolici, a una donna in un contesto maschile…

L’appartenenza accade quando ci aspettiamo riconoscenza da chi è in minoranza, per il solo fatto che abbiamo concesso loro il privilegio di accedere al nostro gruppo. O quando evitiamo di esporre un’idea perché poco conforme all’opinione pubblica. L’unicità avviene quando non vogliamo conformarci alle regole del sistema.

Il dilemma si muove così: mi dicono che siamo tutti uguali oppure mi dicono che siamo tutti diversi. Come possiamo essere simili e diversi allo stesso tempo?

Andando oltre il paradosso. Essere insieme simili e diversi. Accettare che appartenenza e distintività portano con sé una connessione profonda. Se pensiamo agli ambienti in cui ci sentiamo davvero inclusi, succede che ci sentiamo a casa perché siamo liberi di essere chi siamo. Ma anche evitando gli stereotipi e la generalizzazione.

NORME RIGIDE O FLESSIBILI? Cosa definisce chi siamo? Quante sono flessibili o rigide le norme?

“Da oggi in poi basta con il maschile sovra-esteso” è un esempio di norma che genera conflitto.

L’inclusione delle norme rigide risponde: “finalmente una regola ferrea in grado di valorizzazione la rappresentazione delle donne”. L’inclusione dei confini aperti commenta “non è inclusivo obbligarmi a parlare in un certo modo”.

La verità sta, come nella maggior parte delle volte, nel mezzo, anche se può non piacere, poiché va a discapito del privilegio.

Come definire il nostro perimetro di inclusione senza perdere i vantaggi dell’espansione e della sfida, adattando le norme alle nuove persone che entrano nel gruppo? Andando oltre il paradosso. Dandosi delle regole precise e saperle ridiscutere.

Immaginiamo un nuovo arrivato in un team formatosi da una decina d’anni. È importante che le regole siano chiare per chi arriva ma che ci sia spazio per una ridefinizione. Inclusione, non significa assenza di regole o la messa in discussione di qualsiasi norma. I contesti inclusivi hanno modalità strutturate e chiare per definire dei limiti, ma lasciano lo spazio per espandere ciò che c’è e incorporare nuove idee. Non sono caotici o anarchici.

Nei contesti inclusivi sono tutti responsabili del mantenimento e dell’adozione delle regole. Ci sono anche delle regole per infrangere le regole. La regola principe è dissentire, saper stare nel conflitto. C’è un sistema di valori condiviso, ma è richiesta la divergenza. C’è continuità ma si dà spazio ai nuovi e al nuovo per aggiungere a quelle regole un pezzo delle proprie.

AL SICURO O A DISAGIO? Come si gestisce la tensione tra discomfort della differenza e la creazione di un ambiente inclusivo?

“Inclusione è sentirsi tutti a proprio agio” dice l’inclusione al sicuro.

“Inclusione è quando sono fuori dalla mia zona di comfort perché mi metto in discussione tutti i giorni” commenta l’inclusione nel disagio.

La diversità ci obbliga a farci domande e metterci in discussione. Ma è anche vero che ci sentiamo inclusi quando siamo a nostro agio. Come possiamo essere a nostro agio nel discomfort?

Andando oltre il paradosso. Utilizzando la forza dirompente del disaccordo. Il comfort è importante ma ha dei limiti. Anche quando parliamo di inclusione. Il problema è che il discomfort nell’inclusione avviene nel disaccordo. E non siamo allenati né al disaccordo né al conflitto. Perché proprio coloro che non ci capiscono e che noi non capiamo, sono importanti per la crescita personale e collettiva. Il cambiamento è possibile quando siamo in grado di ascoltare chi la pensa diversamente da noi. E’ lì che dimostriamo una fiducia umana nella saggezza degli altri.

SE L’INCLUSIONE (NON) E’ UN  TREND, QUANTO DURERA?

Per cercare di capire se l’inclusione durerà, ho analizzando i tre report più completi sulla D&I:

“Diversity, Equity and Inclusion Lighthouses 2024” del World Economic Forum, che presenta ogni anno visioni puntuali sulle direttrici strategiche lato diversità, equità e inclusione.

–        Il report di McKinsey: “Diversity Matters Even More”.

–        il “World Employment Social Outlook, Trends 2024” dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.

La risposta non è semplice: lo dimostra anche il fatto che i responsabili D&I non ne possono più: tra il 2018 e il 2021 il 60% dei responsabili D&I delle 500 aziende inserite nell’indice Standard&Poor’s ha lasciato la sua posizione. Ed è così che la D&I è passata da essere un must a una leva di business che richiede competenze specifiche. E per questo le aziende hanno iniziato ad assumere per questo ruolo non più persone appassionate, ma persone competenti. Oltre al fatto che sempre meno dipendenti e consumatori (soprattutto donne e giovani) si lasciano abbindolare da una campagna di comunicazione.

Ho eluso, fin qui, la domanda. Quindi quanto durerà?

Non solo la D&I non è alla fine del suo viaggio, ma secondo i report, è all’inizio di una nuova era: l’inclusione è diventata una questione di impatto sul lungo periodo. Riguarda il lavoro dignitoso, la partecipazione attiva al mondo del lavoro, il Pil, i Paesi ad alto e a basso reddito. Riguarda chi lavora in nero, chi non ha tutele, chi non ne ha abbastanza. Guerre e pandemie. Ma riguarda soprattutto l’ambizione profonda che racconta del mondo che vorremmo abitare. Un po’ come per la sostenibilità ambientale. Rigenerare oggi, per lasciare a chi verrà un posto migliore di quello che abbiamo trovato.

Chiedersi quanto durerà però potrebbe portare a pensare che c’è tempo. Che è possibile continuare a vivere così ancora a lungo. Che è un problema da rimandare, perché ci sono cose più importanti di cui occuparsi.

La risposta non ce l’ho. Anche dopo aver spulciato ricerche e analizzato le scelte di aziende importanti. Forse, un po’ come in tutte le cose, ci vuole equilibrio. Non fanatismo.

Forse, più semplicemente, non avremo più bisogno di parlarne e dibatterne quando i dati sulla D&I saranno così incoraggianti da non essere considerati più interessanti. Anche se parlarne, un po’ come si fa con l’emergenza climatica, ci fa credere di essere parte attiva, di fare qualcosa, di essere solutori efficaci. Peccato che, solo parlare non basta, o forse sì, almeno per la nostra coscienza. Quando, in fondo, basterebbe non cercare le differenze ma ciò che si ha in comune. A prescindere se sul posto di lavoro o fuori. Anche in assenza di regole di inclusione, anche senza bollini e certificazioni, quasi fosse quello a fare la (vera) differenza…

Voi, cosa ne pensate?

Come PROTEGGERSI da un CAPO senza ETICA: il POTERE dei SIMBOLI

Ti sei mai sentito così tanto sotto pressione, al lavoro, da dover compromettere i tuoi principi?Il tuo capo ti ha mai chiesto di mentire per coprire la sua assenza, quando in realtà era a sciare (o chissà dove per l’ennesima volta) o un responsabile, di chiudere un occhio di fronte a un rimborso spese ritoccato?

Se ti è capitato, o ti capita in modo ricorrente, non sei il solo. Un sondaggio condotto dall’Ethics Resource Center, stima intorno al 10% i lavoratori che dichiarano il fenomeno. Questo ci dice che sono molti di più!

Ricordo, al proposito, un progetto di Business Ethics, realizzato una dozzina di anni fa con una società di consulenza Big4 che avrebbe dovuto avere l’obiettivo di aiutare le aziende a riconoscere, mitigare e quindi prevenire i comportamenti non etici. Progetto complesso che, quando lo si presentava, ci veniva risposto “noi non abbiamo questo problema”… un negare oltre l’evidenza anche quando fatti infelici di cronaca portavano tragicamente le stesse organizzazioni sui Media. Ci dissero che eravamo dei visionari, e forse è così. Oggi le cose non vanno molto meglio ma il carewashing aiuta a ritoccare il fenomeno e farlo sembrare meno grave.

A interessarsi ai comportamenti non etici sul lavoro al fine di prevenirli è Maryam Kouchaki docente di management alla Kellogg School. Con i suoi studi ha dimostrato che esporre un simbolo etico, come un’icona religiosa, un poster di una figura spirituale come Gandhi o una citazione eticamente rilevante, può fungere da amuleto contro la corruzione e i comportamenti non etici sul posto di lavoro. Funziona sia perché stimola la consapevolezza etica sia perché crea la percezione che chi lo espone possieda una indiscussa levatura morale.

In pratica, è l’esempio perfetto dell’applicazione dell’effetto priming nel nudging. Come quella di invadere il parco cittadino di immagini di grandi occhi per spingere le persone a raccogliere da terra le deiezioni dei cani…  credetemi, funziona!

L’idea è che essere autenticamente etici, esserne orgogliosi e dimostrarlo può avere ricadute positive“.

EFFETTO PRIMING: COME L’AGLIO CONTRO I VAMPIRI

Applicare immagini di spiccato senso etico può spingere verso comportamenti più corretti, lo stesso, o quanto meno, molto simile, ragionamento utilizzato dagli abitanti dei villaggi medievali che per tenere lontani i vampiri, si adornavano di totem magici.

A testare la correlazione fra le soluzioni nei due contesti, e cercare di quantificare l’efficacia protettiva di crocefissi e acqua santa, con Kouchaki si è unita Sreedhari Desai della Kenan-Flagler Business School dell’UNC. Hanno condotto sei diversi studi, pubblicandone i risultati in un articolo: Moral Symbols: A Necklace of Garlic Against Unethical Requests.

Continuiamo a sentire storie di persone che dicono di aver dovuto fare cose non etiche per mantenere il lavoro, perché è stato chiesto loro di farle e sentivano di non poter dire di no. Volevamo capire se c’era un modo sottile ma efficace per dire di no e per prevenire situazioni così difficili“.

DENARO VS ETICA

Il primo simbolo morale testato da Desai e Kouchaki è stata una semplice citazione accanto alla firma di un’e-mail. Hanno utilizzato il simbolo come parte di una simulazione chiamata Deception Game, progettata per creare un incentivo finanziario a mentire.

Ai partecipanti allo studio è stato detto di essere il leader del loro gruppo. Dovevano quindi chiedere ai loro collaboratori di agire per loro. Quando i ricercatori hanno incluso una citazione etica: “Meglio fallire con onore che avere successo con la frode“, hanno osservato due potenti effetti: la citazione ha effettivamente ridotto la probabilità che il leader scegliesse di mentire. Ma l’effetto più sorprendente si è verificato quando il leader ha deciso di mentire anche dopo aver visto la citazione: a quel punto, le probabilità che il collaboratore scegliesse di mentire, su richiesta del leader, sono scese da 1 su 2 a 1 su 4.

Desai e Kouchaki hanno trovato risultati simili usando altri simboli etici, come delle t-shirt. Hanno confrontato gli effetti di una maglietta con il testo “YourMorals.com” con un’altra t-shirt con la scritta “YourMoney.com“. Il sottile indizio sull’etica nella prima maglietta ha reso di nuovo i leader non solo meno propensi a imbrogliare, ma anche molto meno propensi a coinvolgere la persona che presentava il simbolo.

I risultati delle simulazioni di ricerca sono promettenti. Ma funzionano nel mondo reale? Per scoprirlo, Desai e Kouchaki hanno raccolto dati in India, dove i simboli di stampo etico sono comuni sul lavoro. Ne hanno osservato un’ampia varietà: icone di Krishna, del Buddha e della Vergine Maria, rosari, citazioni dal Corano e altri. Indipendentemente dal tipo di simbolo, i dipendenti che li mostravano erano considerati più morali e, cosa più importante, segnalavano meno casi di richieste non etiche da parte dei loro supervisori rispetto a coloro che non mostravano alcun tipo di simbolo etico.

QUINDI PERCHÉ I SIMBOLI ETICI FUNZIONANO?

Funzionano perché aumentano la consapevolezza morale. Ognuno di noi è soggetto a pregiudizi e limitazioni che ci portano a ignorare le dimensioni etiche delle nostre decisioni. Ma piccole spinte gentili ci aiutano a ricordare di preoccuparci dell’etica, e non solo degli utili trimestrali.

La seconda ragione per cui i simboli funzionano è che inviano agli altri il messaggio che l’etica è importante per la persona che li mostra, e si può attribuire a questa persona un’alta levatura morale. Questa ipotesi può portare un supervisore a concludere che una persona etica non è propensa a soddisfare una richiesta non allineata ai suoi valori.

La ricerca evidenzia il fatto che il nostro carattere influenza coloro che ci circondano in modi sottili, gentili ma importanti, persino in coloro che hanno più potere e autorità di noi.

I simboli etici hanno anche un altro vantaggio: sottolineano che “la paura di ritorsioni è la ragione principale per cui i dipendenti sono generalmente riluttanti a segnalare atti illeciti sul lavoro… Un ampio corpus di ricerche riconosce quanto sia difficile ‘dire semplicemente di no’ a un capo“. Il potere dei simboli risiede nel fatto che operano senza la nostra consapevolezza cosciente. E non ci rendono solo più facile dire di no a un capo; spesso fanno in modo che non dobbiamo farlo.

SOLUZIONI

Il lavoro di Desai e Kouchaki suggerisce che può essere utile mettere in evidenza un simbolo etico: perchè aumenta la consapevolezza etica del capo e può anche ridurre la probabilità che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico.

Ecco come farlo:

Autentico, visibile, rispettoso. Il tuo simbolo perché venga percepito come etico, deve essere autentico, quindi assicurati che rappresenti in modo significativo i tuoi valori. Deve essere coerente con le tue azioni. Se mostri un simbolo in modo non autentico, trasmetterai il messaggio sbagliato. Infine, scegli un simbolo che sia rispettoso degli altri. Non sottovalutare l’importanza di scegliere attentamente il tuo simbolo e di conoscere il tuo pubblico. Sebbene il tuo simbolo riguardi te, dovrebbe comunque mostrare rispetto per gli altri.

I simboli etici possono aiutare, ma bisogna comunque essere preparati. Tieni presente che nessun simbolo etico può eliminare del tutto le richieste non etiche. Nella migliore delle ipotesi, i simboli riducono il rischio che ti venga chiesto di fare qualcosa di non etico. In quanto tali, non sono un sostituto della preparazione a fare la cosa giusta attraverso la formazione e le prove per un’azione etica. È meglio usarli come complemento, non come sostituto, di metodi più tradizionali.

CONCLUDENDO…

  • I simboli etici che mostriamo possono ridurre i comportamenti non etici nelle persone che ci circondano, compresi i nostri supervisori, capi, ecc.
  • I supervisori che chiedono ai subordinati di fare qualcosa di non etico hanno meno probabilità di scegliere un subordinato che esibisce un simbolo etico.
  • I simboli funzionano perché accrescono la consapevolezza etica e inviano segnali sul carattere morale delle persone che li ostentano.

PERCHÉ alcuni raggiungono il SUCCESSO DOPO un FALLIMENTO e altri continuano a FALLIRE?

Ci sono persone il cui successo è iniziato con un fallimento: Henry Ford fallì prima di fondare la Ford Motor Company; Thomas Edison testò migliaia di materiali prima di creare la lampadina a filamento di carbonio; J.K. Rowling ricevette dodici rifiuti prima che venisse pubblicato il primo libro di Harry Potter.

Esempi stimolanti, senza dubbio. Ma che non raccontano (bene) tutta la storia. Soprattutto non spiegano come queste persone abbiano avuto successo, mentre molte altre no.

A porsi l’interrogativo, Dashun Wang, docente di management e organizzazioni alla Kellogg School, nonché direttore del Center for Science of Science and Innovation (CSSI): “Se capissimo questo processo, potremmo prevedere chi diventerà un vincitore, anche con alle spalle diversi fallimenti“.

In un articolo pubblicato nel numero del 150 ° anniversario di Nature, Wang ha sviluppato un modello matematico per individuare ciò che separa coloro che hanno successo da coloro che semplicemente provano e riprovano senza arrivare a niente.

Wang ha scoperto che il successo si riduce all’imparare dai propri errori precedenti, ad esempio, continuare a migliorare le parti di un’invenzione che non funzionano piuttosto che eliminarle, o riconoscere quali parti, di una domanda di sovvenzione respinta, mantenere e quali riscrivere.

Ma non è semplicemente che coloro che imparano di più dai diversi fallimenti hanno maggiori probabilità di vittoria. Piuttosto, c’è un punto di svolta critico. Se la tua capacità di costruire sui tuoi tentativi precedenti è al di sopra di una certa soglia, prima o poi avrai successo. Ma se è anche solo poco al di sotto di quella soglia, potresti essere condannato a continuare a sfornare un fallimento dopo l’altro per l’eternità.

Le persone che si trovano da entrambe le parti della soglia potrebbero essere esattamente lo stesso tipo di persone“, afferma Wang, “ma avranno due risultati molto diversi“.

Grazie a questa intuizione, i ricercatori sono in grado di #prevedere il successo a lungo termine di un individuo con solo una piccola quantità di informazioni sui suoi tentativi iniziali.

MISURAZIONE DEL SUCCESSO

Un crescente corpo di ricerca supporta l’idea che una battuta d’arresto all’inizio della carriera spesso prepara gli scienziati per un successo futuro.

Tuttavia, come dimostrano le storie di Ford, Edison e Rowling, la strada per il successo di solito comporta più di un singolo insuccesso. “Non si fallisce una volta sola“, dice Wang. “Si fallisce più e più volte“. E mentre questa litania di fallimenti può migliorare la situazione degli Edison del mondo, sembra ostacolare quella di molte altre persone.

Per capirne il motivo, Wang aveva bisogno di molte informazioni sul processo di caduta, risalita e di nuovi tentativi.

Si è rivolto a tre enormi gruppi di dati, ciascuno contenente informazioni su tipologie molto diverse di fallimenti e successi: 776.721 domande di sovvenzione presentate ai National Institutes of Health (NIH) tra il 1985 e il 2015; il database della National Venture Capital Association contenente tutte le 58.111 startup che hanno ricevuto finanziamenti di capitale dal 1970 al 2016; il Global Terrorism Database, che include 170.350 attacchi tra il 1970 e il 2016.

Queste fonti hanno permesso di monitorare gruppi e individui mentre tentavano ripetutamente nel tempo di raggiungere un obiettivo: ottenere finanziamenti, far sì che la propria azienda venisse acquisita a prezzi elevati o, nel caso di organizzazioni terroristiche, eseguire un attacco con almeno una vittima.

I tre domini “non potevano essere più diversi” – afferma Wang – “ma per quanto diversi possano sembrare, la cosa interessante è che tutti finiscono per mostrare modelli molto simili e prevedibili“.

COSA FA DI UNA PERSONA UN VINCENTE: FORTUNA O APPRENDIMENTO?

Dati alla mano, il team ha iniziato a pensare al successo e al fallimento al livello più semplice. Il successo, hanno teorizzato, deve essere il risultato di uno di due fenomeni di base: #fortuna o #apprendimento. Le persone che hanno successo in un dato ambito migliorano costantemente nel tempo, oppure sono beneficiarie del caso. Quindi i ricercatori hanno testato entrambe le teorie.

Se le vittorie sono principalmente il risultato del caso – ha pensato il team – tutti i tentativi hanno la stessa probabilità di successo o fallimento, proprio come nel lancio di una moneta, dove ciò che è successo prima non influenza molto ciò che succede dopo. Ciò significa che il centesimo tentativo di una persona non avrà più successo del primo, poiché gli individui non migliorano sistematicamente.

Quindi i ricercatori hanno esaminato il primo e il penultimo tentativo (quello appena prima di una vittoria) per ogni aspirante scienziato, imprenditore e terrorista nel loro set di dati. Per misurare il miglioramento (o la sua mancanza) nel tempo, i ricercatori hanno esaminato i cambiamenti nel modo in cui venivano valutate le domande di sovvenzione degli scienziati, l’importo dei finanziamenti ricevuti dalle startup e il numero di individui feriti negli attacchi terroristici.

L’analisi ha rivelato che la teoria del caso non regge. In tutti e tre i set di dati, il penultimo tentativo di un individuo tendeva ad avere una probabilità di successo più alta rispetto al suo primissimo tentativo.

Eppure, le persone non imparavano nel modo in cui i ricercatori si aspettavano. L’idea classica della curva di apprendimento dice che più fai qualcosa, più aumenta la tua competenza. Quindi, se tutti nel set di dati imparassero in modo affidabile dai loro fallimenti precedenti, le loro probabilità di successo dovrebbero aumentare drasticamente a ogni nuovo tentativo, portando a serie di fallimenti di breve durata prima del successo.

I dati hanno rivelato serie molto più lunghe di quanto previsto.

Sebbene le tue prestazioni migliorino nel tempo, continui a fallire più di quanto ci aspetteremmo“, spiega Wang. “Ciò suggerisce che sei bloccato da qualche parte, che stai provando ma non stai facendo progressi“.

In altre parole, nessuna delle due teorie poteva spiegare le dinamiche alla base dei ripetuti fallimenti. Quindi i ricercatori hanno deciso di costruire un modello che ne tenesse conto.

UN PREDITTORE DI SUCCESSO

Questo modello presuppone che ogni tentativo abbia diverse componenti, come le sezioni introduzione e budget di una proposta di sovvenzione, ad esempio, o la posizione e le tattiche utilizzate in un attacco terroristico. È importante notare che, anche se un tentativo fallisce nel complesso, alcune delle sue componenti potrebbero comunque essere state valide. Quando si organizza un nuovo tentativo, un individuo deve scegliere, per ogni componente, se cominciar tutto da capo o migliorare una versione di un tentativo precedente (fallito).

Una persona valuta i componenti dei propri tentativi passati in base al feedback ricevuto da altri (per le persone nell’analisi di Wang, il feedback potrebbe provenire dall’NIH, dai capitalisti di rischio o dai piani alti di un’organizzazione terroristica).

Ma il modello riconosce che alcune persone imparano dai loro tentativi falliti più di altre, e coloro che imparano di più incorporano più componenti dei loro tentativi falliti nei loro tentativi successivi.

Da un lato, gli studenti peggiori incorporano zero informazioni dai loro tentativi precedenti, partendo da zero su ogni componente ogni volta. Dall’altro lato, ci sono gli studenti migliori, che considerano tutti i loro fallimenti passati a ogni nuovo tentativo. La maggior parte delle persone si colloca da qualche parte tra questi due estremi.

Mentre gli studenti migliori probabilmente raggiungeranno il successo rapidamente, prevede il modello, gli studenti peggiori hanno scarse possibilità di successo: poiché non imparano mai nulla, si limitano a cercare nuove versioni, sprecando tempo prezioso ricominciando da capo più e più volte.

I ricercatori hanno testato questo modello con i loro dati, utilizzando il tempo medio tra i tentativi come indicatore della capacità di apprendimento di un individuo (poiché gli studenti più bravi partiranno da zero con meno componenti, il che consentirà loro di produrre nuove iterazioni più rapidamente).

Ciò che hanno scoperto è stata una sorprendente relazione tra apprendimento e vittoria finale. Non è che ogni unità di apprendimento aggiuntiva abbia aumentato le probabilità di successo in modo equo. Piuttosto, c’è una soglia di apprendimento singolare che separa i successi finali dal resto.

Wang paragona questa soglia alla transizione tra acqua e ghiaccio. “Immaginate di passare da -5 a -4 gradi Celsius. Non succede nulla. Il ghiaccio rimane ghiaccio“. Ma nel momento in cui la temperatura raggiunge un punto particolare, inizia a sciogliersi.

Allo stesso modo, se la capacità di apprendimento è al di sotto della soglia, è come se quella persona non stesse imparando nulla. Potrebbe migliorare nel tempo, ma non conserverà mai abbastanza componenti buone per produrre un successo. Mentre coloro che sono oltre la soglia dovrebbero disporre di abbastanza lezioni per garantire il successo. Producono nuove iterazioni sempre più velocemente nel tempo, finché alla fine ne hanno una di successo.

In termini pratici questo significa che non è necessario imparare da tutte le esperienze passate per avere successo. Ma c’è un numero minimo di fallimenti da cui devi imparare. Sebbene non sia facilmente quantificabile, i ricercatori hanno individuato la soglia per le sovvenzioni NIH a 3.

IL MODO IN CUI FALLISCI DETERMINA SE AVRAI SUCCESSO

La ricerca respinge l’idea comune secondo cui il successo sia frutto del puro caso e getta nuova luce su ciò che realmente serve per diventare un vincitore.

Semplicemente provare e riprovare, non è sufficiente. I dati mostrano che gli individui al di sotto della soglia di apprendimento hanno fatto tanti tentativi quanti quelli al di sopra, e probabilmente hanno lavorato anche di più, poiché hanno insistito nell’apportare modifiche ai loro tentativi precedenti perfettamente validi. Ma è stato infruttuoso, poiché non hanno incorporato i tentativi passati.

Per Wang, la lezione è chiara: le persone dovrebbero dare molta importanza al feedback e alle lezioni apprese attraverso i fallimenti. Ma solo se si riesce a incorporare le informazioni in nuovi tentativi, confermando il mantra della Silicon Valley secondo cui “fallire meglio” è la chiave del successo.

Lo studio dissipa anche parte del mistero dietro chi ha successo e chi no. I ricercatori hanno scoperto che la capacità di apprendimento di un dato imprenditore, scienziato o terrorista può essere individuata semplicemente misurando la quantità di tempo che passa tra i loro primi tentativi. Di conseguenza, il loro modello è stato in grado di prevedere con precisione quali imprenditori, scienziati e terroristi avrebbero avuto successo molto prima che effettivamente lo avessero.

Thomas Edison disse: le persone rinunciano perché non sanno quanto sono vicine al successo”, spiega Wang. “Con questo modello ora lo sappiamo. Perché se abbiamo dati su come si fallisce, abbiamo un’idea migliore di dove si sta andando“.