Tag Archivio per: #comportamenti

FALSO MITO N.1: per CAMBIARE ABITUDINI non ci vogliono 21 GIORNI

Il cambiamento non è un pulsante che aspetta di essere premuto. Non possiamo aspettarci che i comportamenti cambino solo perché lo si vuole, o perché siamo mossi dalle migliori intenzioni.

Cambiare abitudini è complesso, richiede sacrificio e per sfatare un mito, non è vero che bastano 21 giorni per consolidare un’azione in un’abitudine o per cambiarne una.

Le grandi abitudini si formano quotidianamente. Le buone abitudini richiedono impegno costante.

Per agire un cambiamento, quindi, non ci vogliono 21 giorni o una certa quantità di ore e nemmeno rimuovere le cattive abitudini. Anche se non sono pochi coloro che ancora tentano di vendere soluzioni facili propinando tecniche di vario tipo.

Chi dispensa tali consigli, semplicemente non conosce come funziona il cervello. Oltre al fatto che se mettere in atto nuove abitudini è abbastanza semplice, le vecchie sono comunque più veloci, più facili da eseguire e si attivano inconsciamente, anche al 22° giorno.

L’INVADENZA DELLE CATTIVE ABITUDINI

E’ un comportamento automatico, l’abitudine, che si forma in tre fasi:

   •   un segnale (trigger) dall’ambiente spinge il nostro cervello a dispiegare una sequenza di azioni associate a quel segnale (ad esempio, la sveglia che suona alle 7 del mattino);

   •   un’azione che viene eseguita di conseguenza (es. Indossare la tuta per andare a correre);

   •   una ricompensa che rafforza nel cervello l’idea che vale la pena ricordare quel particolare ciclo e utilizzarlo di nuovo in futuro (es: dopo la corsa si è premiati con un delizioso frullato).

Qualsiasi cosa, nel nostro ambiente, può diventare un fattore scatenante, inclusi annunci pubblicitari, l’odore dei biscotti appena sfornati, l’ora del giorno o le notifiche che riceviamo sul telefono.

COME ADOTTARE NUOVE ABITUDINI

Quando vogliamo cambiare un comportamento, sostituendone uno che non ci serve, con uno più funzionale, occorre definire il perché, la priorità o l’obiettivo che si vuole raggiungere.

Soprattutto se il cambiamento lo esigiamo negli altri. Uno dei modi più potenti per cambiare le priorità negli altri è aiutarli a rispondere alla domanda:

“Cosa ci guadagno io cambiando questa abitudine?“

Le abitudini sono estremamente potenti perché gestiscono le nostre vite e si attivano in modo automatico. E poiché l’obiettivo principale del nostro cervello è tenerci in vita, esercitando il minimo sforzo su cose che non sono immediatamente gratificanti o associate a un risultato prevedibile, attivare comportamenti più veloci e più facili da eseguire è la norma.

Oltre al perché, per creare un cambiamento su larga scala, è importante far leva sia sulla routine sia sulla responsabilità sociale. O, per usare le parole di Denzel Washington: “Senza impegno, non inizierai mai, ma soprattutto, senza coerenza, non finirai mai“.

La coerenza a livello personale è già abbastanza impegnativa, ma rimanere coerenti all’interno di un sistema complesso qual è un’organizzazione, lo è ancora di più poichè coinvolge dinamiche di gruppo non così semplici da decodificare.

Sebbene questo possa essere un potenziale ostacolo, può anche essere un catalizzatore.

IL GREGGE E LA RIPROVA SOCIALE

Tendiamo a seguire ciò che fa la maggioranza per mantenere la nostra posizione all’interno di un gruppo. Pertanto per attivare buone abitudini, l’esempio è sicuramente un’ottima strategia.

In questo modo, il comportamento attuato diverrà, a poco a poco, sempre più visibile fino a farsi contagioso.

Più il comportamento è visibile, frequente e condiviso, maggiori sono le possibilità che diventi un’abitudine collettiva. Ancor più se la buona abitudine viene agita dal leader dell’organizzazione.

E, poiché si è in una struttura gerarchica, si guarda al leader per indicare ciò che è accettabile. Quindi, come leader, è importante dimostrare che una certa abitudine non è solo una priorità, ma offre una chiara ricompensa alle persone se la adottano.

Per noi umani, le ricompense sociali sono molto significative, insieme alla necessità di venir accettati, compresi e al senso di appartenenza.

Tutti questi benefici sociali sono la forza trainante del nostro comportamento e il propulsore che ci avvia a cambiare e adattarci a quello che osserviamo a noi intorno.

Perché si crei un cambiamento, c’è bisogno, sia a livello individuale sia organizzativo, di guardare al cambiamento del comportamento come a un processo e non a un evento. Un continuo quotidiano, affinchè diventi, lui stesso, abitudine.

Insomma, il cambiamento non è necessariamente facile, ma non c’è motivo per cui debba essere complicato.

LEGGE di PARKINSON ed EFFICIENZA e perché un’attività di 2 minuti può richiedere un giorno intero

Apple è stata costretta a rimandare il  lancio dell’HomePod  poichè aveva bisogno di più tempo per perfezionarlo.

Windows ha ritardato l’installazione di una funzionalità per Windows 10 per poi eliminarla del tutto.

La costruzione della Sydney Opera House, che avrebbe dovuto richiedere quattro anni, alla fine ne ha necessitati 14.

L’autostrada Asti-Cuneo, i cui lavori sono iniziati nel 1998 al momento non sono ancora terminati, per fare un esempio più vicino a me/noi e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

Perché, talvolta, il tempo si dilata così tanto? Perché quando un progetto la cui scadenza è lontana, tendiamo a procrastinarlo o a complicarlo?  La spiegazione è nella legge di Parkinson, secondo cui:

Il lavoro si espande in modo da riempire il tempo a disposizione per il suo completamento.

Questo significa che se si ha a disposizione una settimana per portare a termine un’attività, questa richiederà una sola settimana per essere completata. Ma se per la stessa attività si hanno a disposizione due mesi, si potrebbero impiegare sessanta giorni per portarla a termine.

La pressione della scadenza spinge a completare un compito nel tempo dato. Se non ci sono tempistiche definite che vincolano lo svolgimento di un progetto, quel lavoro potrebbe richiedere un tempo molto più lungo.

Quindi, più tempo ti dai per finire un lavoro, più quel lavoro richiederà tempo per essere finito. Allo stesso tempo se aspetti fino all’ultimo minuto per fare qualcosa, probabilmente è perché ci vuole solo un minuto per farla questa cosa.

LE ORIGINI

Il termine è stato coniato da Cyril Northcote Parkinson, storico navale britannico, in un saggio per The Economist nel 1955. Narra la storia di una donna il cui unico compito, in un giorno, è inviare una cartolina. Attività che richiederebbe non più di cinque minuti. Ma la donna passa un’ora a selezionare la cartolina, un’altra mezz’ora a cercare gli occhiali, 90 minuti a scriverla, 20 minuti a decidere se portare o meno l’ombrello nel tragitto verso la cassetta della posta… e così via fino a quando la giornata giunge al termine.

Calata in contesto aziendale: con il team hai due settimane per completare una relazione che richiede appena un paio d’ore di lavoro. Sapendo di avere così tanto tempo a disposizione, la portata del progetto aumenta. Mentre ultimate la bozza, decidete di modificare alcune parti di quanto già scritto, l’ordine di alcuni paragrafi e così vita. Anche se alla fine queste modifiche possono rivelarsi utili, ti hanno allontanato dall’obiettivo e un’attività di qualche ora appena si è trasformata in un’attività di due settimane. Ecco la legge di Parkinson in azione.

Cyril, osservando la burocrazia governativa dell’epoca, aveva notato che più gli apparati burocratici si espandono, più tendono a diventare inefficienti. Applicando tale osservazione a un’ampia varietà di contesti, realizzò che quando le dimensioni di qualcosa aumentano, la sua efficienza diminuisce.

Scoprì inoltre come anche compiti molto semplici possono acquistare complessità nel caso il tempo a disposizione per il loro svolgimento viene prolungato. Quindi concluse che quando il tempo assegnato a un compito si riduce, quel compito diventa più semplice e più facile da risolvere.

SE CI SI METTE ANCHE LA PROCRASTINAZIONE

Ad alimentare la legge di Parkinson ci si mette anche la procrastinazione.

Sapere di avere molto più tempo di quello che è necessario per completare un’attività, spinge a procrastinare, ad aspettare l’ultimo minuto per farla ed è così che il tempo si espande inesorabilmente.

Come mai? Un’ipotesi è che le scadenze incombenti siano motivanti. La legge Yerkes-Dodson spiega che esiste un livello ottimale di eccitazione che migliora le prestazioni. Quindi, il termine di consegna che si avvicina rapidamente dà una spinta a concentrarci e fare bene.

COM SFRUTTARE la LEGGE di Parkinson in modo vantaggioso

Crea urgenza

La creazione di un falso senso di urgenza aiuta a combattere le distrazioni. Ad esempio, potresti lavorare al tuo portatile, senza alimentatore, e impegnarti a finire tutto quello che devi fare in un determinato lasso di tempo prima che la batteria si scarichi.

Pianifica la giornata in modo creativo

Aggiungi pressione al punto 1, programmando la tua giornata in modo da creare naturalmente una certa pressione temporale. Dai un limite temporale a compiti come rispondere alle email, riducendolo, per esempio, a un’ora al giorno. Invece di agonizzante su ogni singola email man mano che arriva, stabilisci 30 minuti a inizio e fine giornata tutti dedicati alla risposta delle email ricevute. Scoprirai così che i compiti più piccoli richiedono molto meno tempo.

Imposta la cronologia

A un costruttore solitamente non dici: “Voglio una casa con le caratteristiche x, y e la voglio entro questa data“. Con il costruttore ti concentri invece su aspettative, materiali, capitolato e tenendo conto di una serie di informazioni negoziate le tempistiche di avanzamento lavori e una data approssimativa di completamento.

Questo serve a rendere il progetto gestibile e infonde un maggiore senso di urgenza: anche se la data di fine dell’intero progetto (la casa) non è immediata, la scadenza di un primo step, lo è sicuramente. Inoltre, questo consente di toccare con mano i passi avanti fatti ed è altamente motivante (principio di avanzamento ).

Mentre delinei la sequenza temporale, identifica le diverse scadenze. Meglio se anziché in anni, mesi o settimane, imposti scadenze in giorni, laddove possibile. Uno studio ha dimostrato che è un piccolo cambiamento mentale che può amplificare in modo non trascurabile il fattore di urgenza.

Crea dei forti incentivi per finire presto i compiti

Bilancia la tua maggiore produttività con una maggiore disponibilità di tempo libero, così potrai fare anche quelle attività che ti appassionano e ti divertono per rilassarti e ricaricarti.

Identifica i tuoi compromessi

Nonostante le migliori intenzioni, gli imprevisti accadono. Ecco perché è importante aver chiari quali sono i tuoi compromessi, laddove sia utile allargare lo spazio di manovra e dove non lo è.

Se in una data stabilita devi presentare un nuovo prodotto (un’applicazione, per esempio), la tempistica sarà la metrica più importante e quindi non è negoziabile. Ciò che invece è negoziabile e ragione di compromesso, potrebbero essere alcune funzioni, o altri aspetti che in quel momento non pregiudicano il valore del prodotto.

Non è facile delineare i compromessi, soprattutto a inizio progetto, ma è utile per quando i momenti critici, in cui è necessario prendere decisioni, si presenteranno.

È l’esatto opposto della legge di Parkinson: piuttosto che lavorare in espansione per adattarsi al tempo assegnato, potresti dover ridurre il lavoro o altre aspettative per adattarti alla finestra temporale.

Non lavorare fino a tardi

Sei abituato a lavorare fino a tardi tutti giorni o quasi? Sei convinto che così facendo mostrerai la tua dedizione, o semplicemente vuoi portare a termine più incarichi e l’unico modo che conosci e non staccare mai?

Lavorare di più non significa necessariamente fare di più, ma di certo significa che sei stato sotto stress più a lungo del necessario. Il pensiero divergente effettivamente funziona. Creare restrizioni artificiali sul lavoro portano ad avere più libertà.

A questo punto, se ti guardi indietro, riesci a identificare qualche esempio in cui sei stato vittima della legge di Parkinson?

QUESTA VOLTA è DIVERSO… Le 4 parole più costose di sempre

Questa volta è diverso. Lo avrete sentito dire spesso, immagino.

Quattro parole che possono rivelarsi le più costose di sempre. In realtà, non sono le parole a costare, quanto le conclusioni che questa frase ci spinge a trarre.

Pensiamo, sbagliando, che le differenze valgano più delle somiglianze. In fondo, tutti sono capaci di vedere le similitudini ma, per trovare le differenze, ci vuole intuizione, tempo, capacità di osservazione, spirito critico. Dimenticando, mentre ricerchiamo le differenze, di prestare attenzione a ciò che è uguale.

Come a quella riunione, in cui i partecipanti stanno per cadere nello stesso errore commesso l’anno precedente, e quello prima, in merito alla medesima decisione. E alla medesima persona.

“C’è quella manager che fa casino con i clienti, alcuni almeno, quando c’è da aggiornarli sulle tempistiche nella fornitura dei prodotti dell’azienda”.

È una brava persona, gentile con tutti quella manager. Non perde un compleanno, fa a ogni collega un regalo a Natale, e spesso delizia l’ufficio con torte e brioche a colazione. Ma

“…gli ultimi due anni, da quando ricopre quel ruolo, sono stati problematici”.

Potrebbe essere l’amico poco affidabile, la colf che nasconde la polvere sotto il tappeto, il datore di lavoro insofferente, il responsabile indeciso, il vicino di casa che ruba le riviste dalla nostra buca delle lettere… e nonostante tutto continui a ripeterti questa volta sarà diverso.

Così vai in riunione per esprimere il tuo disappunto e trovare una soluzione (una diversa collocazione per la manager, per esempio), quando un collega ti anticipa:

so che ha fatto alcuni errori, ma questa volta sarà diverso. Ne abbiamo parlato e mi sono assicurato che abbia compreso l’importanza dell’incarico”.

La riunione giunge al termine, tutti sono certi che questa volta sarà davvero diverso e non c’è prova, dubbio o soluzione che puoi addurre per convincerli del contrario: la manager rimane dov’è a fare quello che fa. Fine della storia.

Questo perché, quell’incarico, non interessa granchè a nessuno. I clienti sono difficili da gestire, ancor più quando ci sono variazioni o ritardi da comunicare e poi quella manager è davvero una brava persona…

Tutti vogliamo credere che questa volta sarà davvero diverso e poi preferiamo crogiolarci fra le prove a sostegno del nostro punto di vista (bias di conferma), sostenuti da una buona dose di ottimismo e overconfidence, che mettere tutto in discussione… O no?

LA STORIA è PIENA DI QUESTA VOLTA è DIVERSO

La storia, se ci pensiamo bene, è piena di questa volta è diverso, dove diverso alla fine, non è stato e ha incoraggiato a trarre conclusioni che si sono poi rivelate estremamente costose.

Siamo stati così presi da ciò che era diverso che ci siamo dimenticati di vedere cosa fosse lo stesso.

Non è un caso se gli economisti affermano che questa volta è diverso è probabilmente uno dei pregiudizi più pericolosi in finanza.

La convinzione che le crisi finanziarie siano cose che accadono ad altre persone… [e non] a noi, qui e adesso“. 

La storia suggerisce che non possiamo fare a meno di ricreare le stesse vulnerabilità che hanno innescato le crisi passate. Da quelle dei mutui, quando il rischio era considerato minimo perché “i prezzi delle case avrebbero continuano a salire per sempre” o la bolla delle Dotcom, insegnano.

Un tempo c’erano oltre 70 diverse aziende automobilistiche negli Stati Uniti. Solo 3 di loro sono sopravvissute…

Anche se questa volta può davvero sembrare diverso, solo uno sguardo più attento e un’analisi approfondita possono dirci se lo è effettivamente.

Il consiglio, se ti va di seguirlo, è molto semplice: se una situazione ti sembra diversa questa volta, chiediti cosa potrebbe accadere se questa volta non fosse diversa dalla precedente. Carta e penna alla mano, potresti vedere cose che non avevi considerato.

Talvolta, abbiamo bisogno di credere che sarà diverso, perché è più facile e meno faticoso rimanere nello status quo che cambiare approccio. Mettersi in discussione non è una passeggiata. Ma cambiare solo perché il costo economico e psicologico è diventato troppo alto per andare avanti allo stesso modo all’infinito, non è razionale. Non è nemmeno utile. Meglio tardi che mai… ma quando diventa tardi?

RIESCO A FARMI PAGARE PER QUELLO CHE VALGO?

A causa del budget limitato, il fee che possiamo corrisponderLe è…”. A cui segue un valore nettamente inferiore a quello che l’impegno meriterebbe.

Chi non ha mai ricevuto una e-mail (o una proposta) di questo tipo?

Cosa fai? Accetti o rifiuti?

Spesso, si accetta. Raccontandosi “quello specifico progetto mi servirà per fare esperienza, guadagnare qualcosa (meno è meglio di niente), e comunque mi farò pagare di più la prossima volta…”.

Purtroppo, essere un libero professionista non è facile e talvolta scendere a compromessi può avere i suoi vantaggi. Ma non li ha se accettare compensi ridotti è legato al fatto che non ci apprezziamo a sufficienza da chiedere ciò che noi e il nostro lavoro meritano.

Dietro scelte economicamente poco vantaggiose si possono celare alcuni miti che abbiamo su noi stessi quando si tratta di denaro. Difficoltà che abbiamo avuto tutti in una certa fase della vita, ma che si fanno passaggio obbligato se si vuole esprimersi al meglio professionalmente.

Se faccio un buon lavoro, il cliente lo vedrà e mi pagherà di più la prossima volta…

L’approccio è sbagliato a priori, perché così facendo svalutiamo il lavoro che siamo chiamati a fare, ancor prima di farlo.

Se un cliente ci affida un incarico, vuol dire che disponiamo delle abilità e competenze che è importante e prezioso avere per soddisfare la sua richiesta. Farsi pagare un compenso adeguato, è il modo coerente per quantificare il valore di quelle abilità e competenze.

È importante considerare che le tariffe che accettiamo dai clienti finiscono per stabilire e influenzare il prezzo di mercato, impattando sugli standard di tutti i liberi professionisti che operano in quel dato settore. Se la maggior parte dei liberi professionisti accetta compensi inferiori alla media, sarà più difficile negoziare tariffe eque in futuro.

Per evitare che questo accada, occorre avere maggiore consapevolezza circa il proprio valore e al proprio grado di expertise rispetto a colleghi e competitor.

Ciò che è importante tenere a mente è che la partita non si gioca sul prezzo: si tratta di vendere la soluzione che si è in grado di generare per il cliente o il cambiamento di cui il cliente ha bisogno.

A questo punto, quanto vale il tuo lavoro?

Per avere lavoro sufficiente, dovrei accettare tutti gli incarichi che mi vengono offerti. Potrei anche fare alcuni lavori gratis, solo così posso fare l’esperienza…

Quando non si ha molto lavoro, accettare tutto ciò che arriva sembra la soluzione più saggia. Così come non ritenere di avere “abbastanza” esperienza, spinge ad accettare lavori sottopagati.

Ma quando saprai di avere “abbastanza” esperienza e lavori?

Il lavoro di un freelance dipende dalle sue capacità e conoscenze. Probabilmente hai impiegato molto tempo ed energia per padroneggiare il mestiere, ed è un’abilità di cui le aziende hanno bisogno.

Quindi, possiamo dire che “abbastanza” è quando hai a disposizione e sai gestire tutto quello che serve a soddisfare le esigenze di un cliente.

In parole semplici: se sei in grado di fare il lavoro, sei anche in grado di farti pagare. Anche se c’è sempre margine di miglioramento, il tuo lavoro merita, comunque, di essere retribuito in denaro e non in esperienza.

Di fatto, se qualcuno si rivolge a te, vuol dire che ti ha cercato. E questo è già un valore.

Non importa in che modo valuti le tue potenzialità, ma se gli altri ti chiedono aiuto per risolvere un problema significa che le tue capacità valgono.

Se voglio diventare un libero professionista, non posso essere troppo esigente: potrebbe danneggiare la mia reputazione. E poi, se rifiuto un lavoro perché non remunerativo, il cliente andrà da qualcun altro…

“Beggars can’t be choosers”, i mendicanti non possono scegliere, è un chiaro esempio di mindset sbagliato. Una sorta di “questo è quanto passa il convento”.

E’ importante saper distinguere quali progetti sono interessanti per te. Non dovresti cioè sentirti forzato ad accettare un lavoro che non vuoi fare o che va contro i tuoi valori e la tua etica solo perché sei preoccupato di apparire “difficile” o che “te la tiri”.

Accettare un lavoro che non è nelle nostre corde serve solo a generare rabbia e risentimento. Accettare opportunità che non ci soddisfano e/o sottopagate può portare a un circolo vizioso fatto di super lavoro e spreco di tempo dal quale può poi essere molto difficile uscire.

Se rifiuti un lavoro, non vuol necessariamente dire che non ti verranno offerte altre opportunità. Anzi, potrebbe essere un modo per differenziarti da chi non è ben posizionato e focalizzato su ciò che sa e sa fare bene.

Pensaci, tu vorresti un professionista che spazia da un ambito all’altro e accetta compromessi di ogni tipo, economicamente cheap, al limite del frustrato e stressato?

dr. Cini (Dikton) Intervista Laura Mondino a proposito di Recruiting e Nudge

Recruiting e Nudge: come le Neuroscienze possono supportare l’incontro tra Organizzazioni e Persone

 

Da alcune conversazioni con l’amica Laura Mondino – Consulente, Accademica ed autrice di “Nudge Revolution” – nasce questa “intervista”, che altro non è che una somma di spunti e riflessioni su uno dei temi più complessi – oggi – per la maggior parte delle aziende, ovverosia la capacità di comunicare al meglio con il mercato dei Candidati e, come conseguenza, attrarre e valorizzare i propri talenti e Persone, sin dal momento in cui “ci si sceglie” ed inizia una collaborazione professionale.

Ecco cosa è emerso da mie tre domande (e grazie nuovamente, Laura, per il tempo e l’attenzione delle tue risposte).

Per riferimenti e fonti, tutte le note complete in fondo al testo, augurandovi una buona lettura e di trarne spunti molto concreti ed utili per le vostre aziende e/o organizzazioni.

Alessio“I colloqui di selezione e la teoria di nudge: ci sono dei punti di connessione o delle buone pratiche che – se applicate – dal tuo punto di vista, possono rendere più efficace un iter, o anche solo un colloquio di selezione?”

Laura: “Assolutamente sì. Le evidenze scientifiche a sostegno sono molte questo perché i Nudge e più in generale le Neuroscienze (di cui i Nudge rappresentano uno strumento), partono dal fatto che pur credendoci decisori razionali, pecchiamo sistematicamente di soggettività. Le Neuroscienze aiutano a mitigare gli effetti della irrazionalità rendendo, in questo caso, il processo di selezione più analitico e anti-bias.

Entrando nel merito, basti pensare a come siano ancora molti coloro che tengono solo scarsamente in considerazione la mancata oggettività e tutti gli errori che ne conseguono. Quando nel processo di selezione si privilegia la velocità a discapito della qualità: ci si concentra sull’identificazione dei candidati con un buon potenziale, a prescindere dalla posizione ricercata, adattandola al candidato o creandone una ad hoc. Questo approccio riporta alla modalità blitzkrieg, il percorso fulmineo per costruire aziende di valore: la strategia della guerra lampo attuata dal generale nazista Heinz Guderian dove venne data priorità alla velocità rispetto all’efficienza, nonostante il rischio di una sconfitta potenzialmente disastrosa per massimizzare la velocità. Il blitzscaling, più che una ricetta per il successo è vista come il pregiudizio della sopravvivenza mascherato da strategia, benché per i Tech Giants sia stato proprio il blitzscaling a portarli dove sono oggi.

In termini di recruitment, anteporre la rapidità al valore significa assumersi il rischio di individuare velocemente delle risorse che però, nel tempo, potrebbero rivelarsi poco adatte in quel ruolo e in quel contesto.

In fatto di buone pratiche le Neuroscienze aiutano è far meglio percepire a coloro che sono coinvolti nel processo di selezione, a non sottostimare il potere che ha l’irrazionalità su scelte e decisioni. Uno dei suggerimenti più semplici è invitarli ad auto-porsi quesiti che comprendano la particella “se”: “Se il candidato fosse meno aggressivo, porrei più domande complesse?”; – “Se la risorsa non fosse stata presentata come esperta, avrei sollevato più dubbi sui suoi errori in un determinato contesto?”; – “Se il candidato non si fosse laureato nella mia stessa università, avrei ancora pensato che fosse parimenti preparato?”.

Le Neuroscienze si sono dimostrate efficaci anche nel portare l’attenzione sulle parole usate nella job description. Le evidenze scientifiche hanno evidenziato come il 44% delle donne sono dissuase dal candidarsi quando nella descrizione sono utilizzate parole tradizionalmente considerate “maschili” , e una donna su quattro sarebbe scoraggiata dal lavorare in un posto in cui compare la parola “esigente”, meglio utilizzare “diligente” in un contesto “frenetico” .

Stesso principio vale per le candidature interne alle aziende, ai fini di un avanzamento di carriera. Quando nella descrizione viene chiesto “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale”, la ricerca ha scoperto che donne e uomini interpretano la domanda in modo diverso. Le donne sono meno propense a candidarsi in quanto pensano che venga chiesto loro di intraprendere, fin da subito, frequenti viaggi all’estero; gli uomini sono invece più focalizzati sulla visione di insieme del ruolo che sono interessati a ottenere.

Riformulando la domanda da “Accetteresti di ricoprire un incarico internazionale” a “Prenderesti in considerazione un incarico internazionale in futuro”, le candidature inviate dalle donne sono aumentate del 25%.

Per sostenere l’imparzialità dei selezionatori un intervento di Nudging consiglia di rimuovere i fattori di identità demografica quali sesso, età, nome, indirizzo e foto dal CV. Suggerimento già noto, ma ancora poco utilizzato. Oltre a superare il gender bias, si è dimostrato utile a mitigare i bias di selezione, somiglianza e l’effetto alone. Molte persone hanno la tendenza inconsapevole ad assumere candidati che ricordino loro sé stessi: questo può favorire i candidati con caratteristiche in comune con chi li seleziona. L’effetto alone porta a generalizzare una singola caratteristica di una risorsa pensando sia valida anche per altre aree. Il bias di somiglianza porta a preferire candidati dello stesso sesso del recruiter, della sua stessa etnia e della stessa fascia d’età. Oscurare l’età, l’etnia e il genere potrebbe aiutare il recruiter ad aggirare tali pregiudizi.

Oscurare i dati demografici ha però condotto all’effetto opposto nel pubblico impiego. Nel tentativo di eliminare il sessismo, è stato chiesto ai dipendenti pubblici di scegliere candidati ai quali erano stati tolti dal CV genere ed etnia. Il presupposto alla base del processo era che il management avrebbe assunto più donne se avesse considerato solo i meriti professionali dei candidati. Il professore di Harvard Michael Hiscox, supervisore del processo, sorpreso dei risultati, ha esortato alla cautela: “Avevamo previsto che ciò avrebbe avuto un impatto positivo sulla diversità, rendendo più probabile la selezione di candidate donne e di minoranze etniche. Abbiamo scoperto l’opposto, che l’anonimizzazione dei CV riduceva la probabilità che le donne venissero selezionate per il colloquio” . Si è così scoperto che assegnare un nome maschile a un candidato ha ridotto del 3,2% le probabilità di ottenere un colloquio di lavoro; vice versa l’aggiunta di un nome di donna a un CV aumentava le probabilità del 2,9%. I dati non permettono però di considerarla una sperimentazione rigorosa, in quanto oscurare i dati demografici ha portato all’effetto opposto solo nelle assunzioni nel pubblico impiego.

Una ricerca che ha portato a risultati promettenti è quella svolta dall’Institute for Gender Research della Stanford University. Dall’analisi di seimila interviste alla cieca condotte sulle piattaforme di diverse aziende è emerso che, quando i CV erano valutati con metodi tradizionali, solo il 17% delle donne candidate e il 28% delle minoranze venivano invitate a presentarsi ai colloqui formali; con le valutazioni alla cieca questi numeri sono saliti rispettivamente al 59 e al 67%. Nelle stesse aziende, le donne ricevono ora il 43% delle offerte di lavoro rispetto a solo il 26% con i metodi tradizionali. Le minoranze ora ricevono il 39% delle offerte di lavoro rispetto al precedente 19%.

Come ulteriore vantaggio, queste aziende hanno anche ridotto il tempo totale di reclutamento del 26% . In ogni caso, i candidati devono comunque affrontare i colloqui di selezione, in cui risulta complesso oscurare sesso, etnia o età, benché per specifiche posizioni, è possibile organizzare “colloqui alla cieca”. È ciò che avvenne negli anni ’70, quando le giurie delle orchestre statunitensi cambiarono il formato delle loro audizioni, in modo da non potere vedere chi si stesse esibendo: tutti i musicisti facevano l’audizione dietro uno schermo. A quel tempo, le donne costituivano solo il 5% dei musicisti nelle orchestre statunitensi: una volta istituite le audizioni alla cieca il numero iniziò a salire, fino a raggiungere il 46% .

Evidenze scientifiche sono disponibili anche per quanto riguarda le stress interview. L’obiettivo, in questi casi, è valutare come e quanto il candidato sia in grado di gestire la tensione. Il presupposto è che se la risorsa riesce a gestire lo stress durante il colloquio, sarà in automatico capace di gestire lo stress anche in azienda. Ma quello che abbiamo imparato sul cervello e su come risponde a situazioni stressanti è ben diverso: non è così che accade nella vita reale.

Se davvero si vuol capire quali sono le reali capacità di una persona, è meglio metterla in una condizione in cui il suo cervello funzioni al meglio, non al peggio! Stressare arbitrariamente gli intervistati solo per valutare come si comportano, potrebbe non rivelare ciò che quelle persone sono e sanno fare, ottenendo informazioni inaffidabili. Molto più utile è inserirli nel contesto in cui sono richiesti e vedere come reagiscono alle sollecitazioni e alla pressione che quella realtà richiede loro”.

 

Alessio: “Molti processi di selezione, a tutti i livelli di seniority dei candidati, si stanno spostando sul digitale – abbandonando sempre di più il tempo dedicato da specialisti in carne ed ossa soprattutto nelle prime fasi dei processi di recruiting. È un trend efficiente? Le neuroscienze potrebbero aiutare in questo senso? Se sì, come?”

Laura: “La pandemia ha accelerato i processi di digitalizzazione aziendale e questo ha avuto un impatto anche sui processi di selezione. Ricordiamo che già nel 2017 Boston Consulting Group utilizzava un videogioco nel processo di selezione per giovani ad alto potenziale. Il gioco metteva alla prova capacità di problem solving, leadership, intelligenza emotiva, learning agility e team playing, unitamente all’analisi del curriculum e i colloqui.

Il gioco faceva parte della suite Knack Analytics ideata a Yale e Harvard e testata su Royal Dutch Shell ed era capace di restituire profili allineati alle valutazioni dei selezionatori, ma basati su Data Analytics. Oggi, il tool è sostituito da Arctic Shores, un gioco che segue gli standard della British Psychological Society. Tutti sistemi, questi, che uniscono logiche di Gamification e teoria dei Nudge, il cui scopo è tenere alta l’attenzione e l’engagement creando un circolo virtuoso.

Esperienza simile è quella fatta da Unilever che utilizza sistemi digitali di Gamification e Nudging utili a intercettare alcune soft skill meglio dei tradizionali test psicoattitudinali, come la propensione al rischio, l’attitudine a sperimentare e a sviluppare idee in situazioni di discomfort e darebbero dei feedback costanti lungo le fasi del gioco, basate su criteri oggettivi.

UBI Banca non è da meno, gaming App in collaborazione con Open Knowledge, scaricabile gratuitamente, è risultata un buon mezzo per attirare potenziali candidati da sottoporre a una preselezione con un videogioco divertente ambientato nello spazio galattico. Lasciando da parte la gamification che richiede competenze specifiche e un discorso a sè, Linkedin ha implementato la possibilità di allegare un video-curriculum , per far fronte alle necessità legate alla pandemia.

L’apice del processo di digitalizzazione è rappresentato dall’implementazione dell’intelligenza artificiale al percorso di selezione del personale, tema anticipato nel 2018 da Peter Cappelli della Wharton School, in cui evidenziava gli elementi che avrebbero permesso a questo algoritmo, un giorno, di funzionare e l’enorme beneficio che ne sarebbe derivato. “Il tempo medio per l’assunzione di un candidato può essere ridotto da quattro mesi a quattro settimane” .

In Italia, la start up Speechannel ha di recente lanciato il suo algoritmo per analizzare i video-curricula. Non sono però immuni dai bias, nemmeno gli algoritmi: Amazon, nel 2018, ha ammesso di non poter implementare il proprio algoritmo di analisi automatizzata dei curricula, in quanto sessista. L’AI di Amazon era stata basata su un set di dati che erano essi stessi “biased”, cioè parziali, influenzati da anni di cultura tech di stampo maschilista.

Se neppure l’intelligenza artificiale è immune dai pregiudizi, le possibilità di essere vittime dei bias durante i colloqui di selezione digitali è un elemento che sarebbe davvero pericoloso sottovalutare. Se da un lato le videochiamate hanno il vantaggio di celare o mettere solo scarsamente in evidenza attributi fisici, come peso e altezza, che possono rappresentare loro stessi un pregiudizio, l’ambiente virtuale potrebbe fare da bilanciamento per le persone con disabilità fisiche.

Un altro aspetto che viene mitigato nelle videochiamate è la gestualità. Se nelle culture occidentali, una stretta di mano debole può generare una cattiva prima impressione, per quanto banale possa sembrare, può fare la differenza in molti contesti. L’impossibilità di stringere la mano durante i colloqui virtuali elimina i pregiudizi e le contraddizioni che potrebbero nascere da tale semplice gesto.

Il colloquio online ha lo svantaggio di svolgersi in luoghi virtuali differenti (e dunque parziali) che potrebbero influenzare il giudizio del recruiter, difficile non rimanere condizionati dal contesto, soprattutto se rumoroso o disordinato. E la scelta del candidato potrebbe ricadere su colui che vanta uno sfondo più allettante, ma non necessariamente è la persona più preparata. Il rischio che il contesto influenzi l’impressione generale sul candidato.

Senza contare che i colloqui virtuali non favoriscono chi non ha dimestichezza con la tecnologia, anche quando non è una skill richiesta: si hanno maggiori probabilità di giudicare negativamente una persona semplicemente a causa di un problema tecnologico riscontrato durante una videochiamata.  Il mondo digitale è sicuramente di ausilio purchè sia chiaro l’obiettivo e si tenga conto del contesto, perché come abbiamo visto non esula da errori umani, proprio perché progettato dall’uomo”.

 

Alessio: “Per molti non è ancora chiaro se le neuroscienze possano o meno dare un aiuto – concreto ed in tempi ragionevoli – all’ottimizzazione dei processi aziendali: hai qualche considerazione da condividere al riguardo?”

Laura: “Le Neuroscienze si sono dimostrate utili nell’aiutare le organizzazioni in tema di decision making, change management, leadership e risk management. Prendere decisioni o intervenire nei processi aziendali guidati da prove scientifiche fa una grande differenza poiché permette di attuare soluzioni già collaudate in realtà similari e di cui sono note le possibilità di successo e di insuccesso. Utilizzare soluzioni a matrice può quindi abbassare i costi, ridurre i tempi e prevenire gli errori.

I leader trascorrono molto tempo analizzando i dati, pro e contro di diverse alternative e via dicendo, per trarre le giuste conclusioni sulla direzione corretta da seguire. Quindi riuniscono collaboratori e dipendenti per informarli sul da farsi, senza lasciare loro il tempo di capire il perché della decisione. Lamentandosi, spesso di riflesso, che i dipendenti resistono al cambiamento.

È normale resistere a ciò che ci viene imposto dall’alto e senza una spiegazione che faciliti la comprensione della strategia messa in atto. Non dimentichiamo che le persone non distruggono quello che hanno costruito. È più facile che distruggano ciò che non capiscono e pensano possa danneggiarli. Non dimentichiamo che non siamo econi, esseri prettamente razionali, ma persone irrazionali e facili prede dell’emotività.

Le Neuroscienze ci insegnano che le persone non resistono al cambiamento, ma resistono a essere cambiate. Ecco perché tutto ciò che ci viene imposto viene visto con sospetto. Se si conosce come funziona il cervello in fatto di novità e cambiamenti, sarà più facile far accettare nuove idee, progetti e processi.

Il cambiamento è percepito dal cervello come una minaccia. E poco importa che non viviamo più nella giungla e non ci sia alcuna tigre dai denti a sciabola da cui proteggersi. L’incertezza e la novità che derivano da un processo di change management, dall’arrivo di un capo difficile, da scadenze e stress sono interpretate dal cervello come minacce al pari della tigre che tanto faceva paura ai nostri antenati. Le minacce si presentano in modi diversi, ma il modo in cui il cervello risponde è più o meno lo stesso di sempre.

Le Neuroscienze, in tal senso, ci danno il perché di quello che sta succedendo: se capisco il perchè, è più probabile che agisca in modo più informato e razionale e utile al contesto in cui la novità viene attuata.

Conoscere il cervello ci aiuta ad essere più empatici verso gli altri e noi stessi.

Le Neuroscienze, senza perdersi in innumerevoli esempi, permettono di trasformare studi ed evidenze in soluzioni utili e pratiche e fruibili da tutti. E non è poco di questi tempi incerti”

Note:

[1] Nielsen T.C., Kepinski L., (2020). Inclusion Nudges for talent selection, Action Guide, pp. 94-100

[2] https://business.linkedin.com/content/dam/me/business/en-us/talent-solutions-lodestone/body/pdf/Linkedin-Language-Matters-Report-FINAL-02.08-1.pdf

[3] h t t p s : / / p m c . g o v . a u / n e w s – c e n t r e / d o m e s t i c – p o l i c y / b e t a -report-going-blind-see-more-clearly

[4] https://gender.stanford.edu/news-publications/gender-news/ leveling-playing-field

[5] Goldin C., Rouse C., (2000). Orchestrating Impartiality: The Impact of Blind Auditions on Female Musicians “Blind” orchestra auditions reduce sex-biased hiring and increase the number of female musicians, Harvard Kennedy School, Women and public policy program

[6] https://youmark.it/ym-interactive/linkedin-sta-testando-la-nuova-funzione-video-presentazione-per-aiutare-i-recruiter-nella-scelta-dei-candidati/

[7] Cappelli P., Tambe P., Yakubovich V., (2018). Artificial Intelligence in Human Resources Management: Challenges and a Path Forward, SSRN Electronic Journal

[8] https://codetiburon.com/machine-learning-changing-hr-industry/

[9] https://www.speechannel.com/index.php

Sono INTROVERSO e all’OCCORRENZA ESTROVERSO. Come contesto e obiettivi spingono fuori dalla zona di comfort

Ci sono due uomini:

  • il primo è un professore che ha l’abitudine di cantare, volteggiare sul palco, ed enfatizzare consonanti e vocali. 
  • il secondo vive con la moglie in una casa isolata in oltre due acri di boschi canadesi, dove occasionalmente riceve le visite di figli e nipoti, ma per il resto del tempo frequenta nessuno.

Due personalità distinte e riconoscibili. Peccato però che la prima persona vaudevilliana e la seconda solitaria, siano lo stesso uomo, l’ex professore di psicologia ad Harvard, Brian Little, a cui si deve la Free Trait theory. La teoria secondo cui ogni persona è incline ad attare la propria personalità in base al contesto e a ciò che vuole raggiungere.

LA TEORIA DEI TRATTI LIBERI

Little è il padre della teoria dei tratti liberi o Free Trait Theory in inglese. Secondo questa teoria gli individui esibiscono, allo stesso tempo, tratti caratteriali fissi e tratti liberi. Per la Free Trait Theory, siamo nati e culturalmente dotati di certi tratti di personalità – l’introversione, per esempio, ma possiamo agire diversamente per realizzare progetti personali fondamentali.

Per questo motivo un introverso può essere un appassionato conferenziere, e questo è un esempio di come gli introversi possono dire la loro in un mondo che dà tanta (troppa?) importanza agli estroversi. Little ritiene che ci siano molti individui pseudo-estroversi: persone pronte ad adattare la loro personalità nell’interesse di un progetto personale molto importante come, ad esempio, un lavoro che amano.

OBIETTIVO: SVILUPPO DI CARRIERA

Non è così semplice fingere di essere diversi da come si è anche quando si è molto ambiziosi.

Little crede infatti che abbiamo tratti caratteriali fissi che rimangono costanti per tutta la vita e ci influenzano profondamente. Quindi, come possono molti introversi agire fuori dal loro carattere? Secondo la teoria di Little, i progetti personali fondamentali, ovvero quegli obiettivi che contano davvero per noi, possono spingerci a comportamenti lontani dal nostro stesso modo di essere.

Per esempio, un introverso potrebbe essere un insegnante appassionato pur di condividere il suo entusiasmo per la sua materia. Attenzione però: non riuscirai ad agire fuori dal tuo tratto per portare avanti un progetto che non ti interessa abbastanza o a veramente. Tuttavia, gli introversi possono avere difficoltà a identificare i loro progetti personali fondamentali perché sono abituati a ignorare le proprie preferenze perchè il sentirsi a disagio in molte situazioni è un freno non da poco.

COME RICONOSCERE UN PROGETTO PERSONALE

1. Identifica i tuoi progetti personali principali

– Ripensa a quando da bambino, ti chiedevano cosa avresti voluto fare da grande. Qual era l’impulso dietro la tua risposta? Se volevi fare il medico, per esempio, cosa significava per te? Aiutare le persone che soffrivano?

– Quale lavoro hai poi scelto di fare? Quali caratteristiche di quel lavoro alimentano la tua passione?

– Cosa invidi? Sebbene la gelosia sia un’emozione che tendiamo a nascondere, indica spesso la verità su chi invidi e su ciò che ha e tu non hai.

Capire cosa ti motiva può aiutarti a determinare i tuoi interessi principali per i quali saresti e sei disposto a superare i limiti del tuo carattere.

 

2. Identifica la tua nicchia riparatrice

Una nicchia riparatrice è un posto importante e necessario in cui andare quando vuoi tornare al tuo vero io. Può essere fisico, come un bosco dove fare una passeggiata in tranquillità o semplicemente una poltrona in ufficio dove recuperare energia fra una riunione e l’altra.

La nicchia riparatrice è utile, ad esempio, quando si deve scegliere un nuovo lavoro.

Per gli introversi: chiediti se avrai la possibilità di dedicarti ad attività solitarie nell’arco della giornata lavorativa. L’area di lavoro è un open space o avrai il tuo ufficio?

Per gli estroversi: il lavoro implica l’interazione sociale, l’incontro con nuove persone e i viaggi? Il nuovo lavoro e il team saranno abbastanza stimolanti?

 

3. Utilizza gli accordi sui tratti gratuiti

Trovare nicchie riparative non è facile, ed è qui che arriva l’ultimo pezzo della teoria: gli accordi che dovrai fare con te stesso.

Gli accordi richiedono che tu sia consapevole che “agirai in modo diverso per una parte del tempo, in cambio dell’essere te stesso per la maggior parte del resto del tempo”. 

Ad esempio, una moglie estroversa e un marito introverso potrebbero concordare sul fatto che metà delle volte usciranno e l’altra metà rimarranno a casa. Oppure che l’uomo parteciperà alla festa di addio al celibato di un amico ma non al matrimonio.

Gli accordi sono più facili da definire nella vita personale, ma anche nella vita lavorativa vanno delineati e seguiti.

La persona più importante con cui avere un accordo sei tu. Più sei consapevole e hai chiari gli spazi di manovra e i confini, più ti sarà facile gestire contesti che poco ti appartengono.

In questo modo non ti sentirai in colpa o prigioniero di scelte che non sono dipese da te. L’agire prolungato in un modo che non fa parte di come sei, può avere effetti collaterali importanti quali stress, malattie cardiovascolari e aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo, che possono compromettere il funzionamento immunitario.

UN AVVERTIMENTO

I consigli mediati da Little non hanno lo scopo di cambiare il nostro carattere. Per quanto un estroverso si impegni non potrà mai diventare un introverso e viceversa.

L’esposizione prolungata in un tratto che non è il nostro, richiede un prezzo da pagare, ancor più se non si ha una nicchia riparatrice dove assecondare la propria prima natura.

Ciò che questa teoria insegna è che usciamo dalla nostra zona di comfort molto più di quello che pensiamo e ciò che ci spinge a farlo sono contesto e obiettivi. E’ una sorta di compromesso, non sempre facile da accettare, ma spesso necessario per ciò che per noi è importante. E spesso è così naturale che nemmeno ce ne rendiamo conto.

Stasera, a giornata conclusa, prova a pensare alle cose che ti hanno portato fuori dal tuo tratto naturale. Quanto ti è costato farlo e dove hai trovato la tua nicchia riparatrice, la tua zona di recupero. Potresti scoprire che “veleggi” fuori dalla tua zona di comfort molto più di quello che credevi.

Spesso professionisti e non, di tutti i tipi, cercano di venderci a peso d’oro percorsi, sessioni e corsi su come uscire dalla zona di comfort, sei ancora sicuro di averne bisogno?

QUATTRO CONSIGLI per MEGLIO GESTIRE i CONFLITTI sul LAVORO

 

Noi, dobbiamo parlare…

Non è sempre facile mantenere la calma di fronte a un collega che con sguardo accigliato, le braccia incrociate e una richiesta perentoria, entra con violenza nel nostro ufficio. Eppure essere in grado di calmare la situazione e gestire il conflitto può fare la differenza. In termini di performance ma soprattutto di benessere.  Anche perchè un luogo di lavoro privo di conflitti non esiste. Per fortuna. Il confronto e talvolta anche lo scontro, se finalizzati, possono essere un modo per migliorare e crescere.

Occupandomi di emozioni, decisioni e comportamenti sono spesso chiamata a risolvere conflitti interni ai team e attraverso microinterventi aiuto le persone a gestire situazioni stressanti e complesse.

Ecco riassunte quattro strategie scientificamente supportate che possono tornare utili.

 

ASCOLTA

Chi è arrabbiato, di solito, ha un problema che deve risolvere. La cosa migliore da fare è ascoltare attentamente e cercare di comprendere la situazione, lasciando pregiudizi e giudizi al di fuori del contesto. Anche se ti rendi conto che non è un problema che si può risolvere sull’immediato, ascoltare è il modo migliore per andare avanti.

Le persone si sfogano perché vogliono sentirsi ascoltate o perché cercano empatia. In uno studio che ha analizzato la rabbia dei clienti nei confronti di alcuni prodotti, la semplice ricezione di una risposta da parte della azienda in questione, anche se non risolveva il problema, aumentava la fedeltà del cliente al brand[1]. Questo vale anche per te. Resisti alla tentazione di intervenire, alzare i toni o avviare un dibattito e fai del tuo meglio per essere presente. Nella maggior parte dei casi, il contenuto della tua risposta è meno importante del tuo semplice ascolto.

 

RICONOSCI COME SI SENTE L’ALTRA PERSONA

Per aiutare l’altro a sentirsi ascoltato, fai capire di aver compreso il suo punto di vista. Usa un linguaggio che rifletta ciò che ti è stato detto e fai attenzione a non minimizzare le emozioni. Sottovalutare i sentimenti è molto più costoso che sopravvalutarli[2].

Se il tuo collega è turbato, non dire: “Capisco che ti senti a disagio“. È meglio esagerare: “Capisco che sei devastato“.

Se anche tu sei contrariato per il problema in questione, riconosci apertamente i tuoi sentimenti: “Capisco perfettamente che sei arrabbiato. Sono ugualmente frustrato e condivido la tua preoccupazione“. Sopprimere le emozioni non aiuta: quando cerchiamo di nascondere come ci sentiamo, gli altri lo percepiscono e il rischio è che si sentiranno meno a loro agio con noi[3].

 

CONCENTRATI SUI FATTI

Anziché soccombere in pensieri negativi o sentirti in colpa (“Sono un collega orribile, ho commesso un errore enorme e questo ha fatto arrabbiare il collega”) prova a mappare i suoi sentimenti. Cerca di capire perché è frustato, adirato, ecc. C’è qualcosa che puoi fare per cambiare la situazione?

Focalizza quindi la tua attenzione sul bisogno che sta dietro le emozioni. Questo ti permetterà di essere più obiettivo e distaccato dalla situazione e proteggere[4] il tuo benessere emotivo.

Ciò che devi tenere a mente è di non prendere sul personale i commenti pungenti. È probabile che la persona si stia semplicemente sfogando e non pensi assolutamente ciò che sta dicendo preso dalla foga del momento.

 

IMPARA DALL’ESPERIENZA E POI VAI OLTRE

Una volta compreso il problema, pensa a come potresti risolverlo. O, se ti rendi conto che hai commesso un errore, chiedi scusa in modo semplice e diretto.

Quando sarai da solo, prenditi qualche minuto per scrivere ogni feedback ricevuto o le lezioni che hai imparato in quel contesto. Può essere difficile elaborare un feedback critico nel momento in cui le emozioni sono alle stelle, quindi impegnati a rivisitare gli appunti a distanza di qualche giorno[5].

Una volta che hai risolto il problema, volta pagina. Tornare sull’argomento e sulla lite può portarti a rimuginare e a nuovi scontri con quegli stessi colleghi proprio a causa delle parole che sono seguite nel momento di crisi.

 

FONTI

[1] https://hbr.org/2018/01/how-customer-service-can-turn-angry-customers-into-loyal-ones

[2] Klein N., Better to overestimate than to underestimate others’ feelings: Asymmetric cost of errors in affective perspective-taking, Organizational Behavior and Human Decision Processes, Vol 151, 2019: 1-15.

[3] Butler E.A., Egloff B., Wilhelm F.H., Smith N.C., Erickson E.A., Gross J.J. The social consequences of expressive suppression. Emotion. 2003 Mar;3(1):48-67.

[4] Shiota M.N., Levenson R.W., Turn down the volume or change the channel? Emotional effects of detached versus positive reappraisal. J Pers Soc Psychol. 2012;103(3):416-429.

[5] Fredrickson B.L., Branigan C., Positive emotions broaden the scope of attention and thought-action repertoires. Cogn Emot. 2005;19(3):313-332.

FALSO MITO: NON è il LEADER a DOVER MOTIVARE i COLLABORATORI (piuttosto aiutarli a trovare il perchè in ciò che fanno!)

 

In un supermercato americano il responsabile, per spingere i dipendenti a rispettare le disposizioni legate alla sicurezza, ha messo al collo, di coloro che venivano sorpresi a violare le procedure, un pollo di gomma, da indossare anche di fronte ai clienti. Per sbarazzarsi del pollo, lo sfortunato o poco attento mal capitato di turno, doveva scovare un altro collega che veniva meno alle regole. Puoi immaginare come sia andato a finire l’esperimento, con le persone che si rincorrevano fra le corsie del supermercato, alla ricerca della minima violazione pur di sbarazzarsi del pollo[1].

Quello di attaccare un pollo di gomma al collo non è sicuramente un buon modo per motivare le persone. Sebbene, fortunatamente, pochi ricorrano a questi bizzarri escamotage, non necessariamente promozioni, bonus, premi e discorsi di incoraggiamento danno risultati migliori. Secondo uno studio Gallup, il 60-80% dei lavoratori non è ingaggiato e motivato rispetto il lavoro che sta facendo. Sentono poca lealtà, passione o motivazione. Mettono il tempo, ma non lo utilizzano in modo produttivo e di certo non sono felici!

 

I QUATTRO TIPI DI MOTIVAZIONE

Quattro sono i tipi di motivazione:

  1. Intrinseca
  2. Estrinseca
  3. Positiva
  4. Negativa

 

La motivazione intrinseca si verifica quando agiamo senza il bisogno di ottenere ricompense esterneCi piace eseguire un’attività, un compito, ecc., o la vediamo come un’opportunità per esplorare, apprendere e agire i nostri potenziali. Quando siamo mossi da motivazione intrinseca, portiamo a termine i nostri compiti perché li troviamo intrinsecamente divertenti e interessanti: per rendere al meglio non abbiamo bisogno né di incentivi esterni, né di sentirci sotto pressione.

La motivazione estrinseca nasce dall’esterno, da qualcuno o qualcosa che ci spinge a fare o non fare qualcosa che non avremmo fatto di nostra iniziativa.

La motivazione positiva è un metodo di incoraggiamento basato sulla ricompensa, una spinta verso un obiettivo. Potrebbe essere un premio in denaro o il sorriso sul volto di un indigente. Indipendentemente dall’obiettivo o l’attività, l’aspettativa di qualsiasi forma di ricompensa è l’impulso della motivazione positiva.

La motivazione negativa è un metodo di potenziamento basato sulla punizione e dalla spinta ad allontanarsi da qualcosa che si vuole evitare.

La motivazione su cui occorre puntare è quella positiva intrinseca. Vediamo perché le altre non hanno la stessa efficacia.

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA NON FUNZIONA

In laboratorio, per spingere i topi a fare qualcosa, viene dato loro del cibo. In classe gli studenti migliori ottengono voti alti, e in fabbrica o in ufficio i lavoratori che raggiungono gli obiettivi meglio e/o prima di altri, ottengono aumenti e avanzamenti di carriera. Siamo spinti a credere che le ricompense promuovono prestazioni migliori[2]. Ma un numero crescente di ricerche suggerisce che non è così… (non da sola). Se una ricompensa – denaro, premi, lodi o vincere una gara – viene vista come la ragione per cui si sta intraprendendo un’attività, quella l’attività sarà considerata di per sé meno piacevole[3].

 La motivazione estrinseca ha alcuni seri inconvenienti:

  1. Non è sostenibile. Non appena ritiri la punizione o la ricompensa, la motivazione scompare.
  2. Ottieni rendimenti decrescenti. Se la punizione o le ricompense rimangono agli stessi livelli, la motivazione diminuisce lentamente. Ottenere la stessa motivazione la prossima volta richiede una ricompensa più grande.
  3. Fa male alla motivazione intrinseca. Punire o premiare le persone per aver fatto qualcosa rimuove il loro desiderio innato di farlo da soli. E per convincere i collaboratori a fare o non fare qualcosa, ogni volta si è costretti a punirli/ricompensarli.

In un esperimento, a dei bambini sono stati dati punti per ogni libro preso in prestito dalla biblioteca durante le vacanze estive. I punti potevano essere riscattati per avere in cambio una pizza in omaggio, questo nel tentativo di incoraggiare i piccoli, alla lettura. Alla fine, i bambini hanno effettivamente letto più libri degli altri compagni che non sono stati premiati con una pizza. Ma quando la lettura non è più stata ripagata con la pizza, quei bambini leggevano molti meno libri degli altri loro coetanei. Il desiderio intrinseco di leggere libri era stato sostituito dalla ricompensa estrinseca, e la motivazione se n’è andata con la pizza.

 

PERCHE’ LA MOTIVAZIONE NEGATIVA NON FUNZIONA

I cardiopatici che hanno subito operazioni di bypass devono fare una scelta molto semplice: smettere di mangiare grasso, fumare, bere e lavorare troppo o questo può essere letale. Indovina quanti riescono effettivamente a cambiare stile di vita in modo sostenibile? A distanza di due anni dall’operazione, quanti di questi cardiopatici sono riusciti a mantenere le loro nuove abitudini?

10%. 9 su 10 non sono stati in grado di apportare semplici cambiamenti allo stile di vita, nonostante questo fosse vitale per loro.

Possiamo quindi dire che la motivazione negativa non funziona (almeno nel medio/lungo periodo).

Dean Ornish ha creato un programma in cui ai malati di cuore veniva insegnato ad apprezzare la vita (piuttosto che a temere la morte). Praticavano yoga, meditavano, ricevevano consulenze antistress e seguivano una dieta sana. Il risultato: 2 anni dopo, il 70% dei pazienti ha mantenuto il nuovo stile di vita. Quando nemmeno la paura della morte può far cambiare lo stile di vita in modo sostenibile, diventa chiaro che la motivazione basata sull’evitare qualcosa non è efficace quanto la motivazione basata sul raggiungimento di qualcosa. Almeno non nel medio/lungo termine. Nel breve periodo, la motivazione negativa può essere uno stimolo all’azione, ma si esaurisce in fretta poichè è fisicamente e psicologicamente poco sostenibile.

 

COSA FUNZIONA?

Ci comportiamo come se le persone non fossero intrinsecamente motivate, e vadano a lavorare ogni giorno aspettando che qualcun altro accenda il fuoco per loro. Questa convinzione è piuttosto comune.  È giusto e umano che i manager si preoccupino della motivazione e del morale delle loro persone, è solo che non ne sono la causa[4].

Quindi il manager anziché essere la fonte della motivazione, deve aiutare i dipendenti a trovare la propria motivazione intrinseca.

Il leader non è colui che motiva, il vero leader è colui che aiuta i collaboratori a trovare il loro perchè in ciò che fanno.

 

Cosa migliora la motivazione intrinseca?

  • Sfida: essere in grado di sfidare te stesso e portare a termine nuovi compiti.
  • Controllo: avere la possibilità di scegliere cosa fare.
  • Cooperazione: essere in grado di lavorare e aiutare gli altri.
  • Riconoscimento: ottenere un riconoscimento significativo e positivo per il tuo lavoro.
  • Felicità sul lavoro: le persone a cui piace il proprio lavoro e il proprio posto di lavoro hanno molte più probabilità di trovare una motivazione intrinseca.
  • Fiducia: quando ti fidi delle persone con cui lavori, la motivazione intrinseca è molto più forte.

Ciò che va fatto è spingere i collaboratori a scoprire il loro personale purpose, e sviluppare abilità sul lavoro.  Crea un ambiente di lavoro felice, positivo e le persone saranno naturalmente motivate. Ancora meglio: motivano sé stessi e gli altri, alimentando un circolo virtuoso. Questo sicuramente batte, nel medio-lungo termine, punizioni e ricompense.

 

Fonti

[1] workingamerica.com’s MyBadBoss contest

[2] http://naggum.no/motivation.html

[3] https://www.alfiekohn.org/

[4] Koestenbaum P., Block P., Freedom and accountability at work: applying philosophic insight to the real world, 2001.

 

NON mi PIACE più questo LAVORO, ma LASCIARLO SAREBBE un FALLIMENTO. 5 MITI da SFATARE

 

“Sono infelice. Il lavoro ha smesso di entusiasmarmi e non trovo più il perché nella maggior parte delle attività che svolgo. Voglio andarmene ma ogni volta che ne parlo in famiglia, ottengo le stesse reazioni: sei sicuro che sia la cosa giusta da fare? Tanti invidiano la tua posizione, o guadagnano meno di te. Non puoi essere così sprovveduto”.

Talvolta, quando opero progetti di change management incontro manager che in quello specifico contesto lavorativo non stanno bene, ma hanno paura a guardarsi intorno: “dopo la fatica che ho fatto per ottenere quest’incarico, tutti questi anni nella stessa azienda, andarmene sarebbe fallimento”.

Lasciare un posto solido e ben retribuito ma che non motiva più, non è una decisione facile da prendere. Ci sono molte variabili che occorre analizzare e ponderare.  Spesso però a rendere la scelta più complessa, non sono tanto le incertezze legate al cambiamento, ma alcuni pregiudizi che ci incollano allo status quo.

Ecco 5 miti da cui guardarsi.

 

Mito N. 5. Lasciare = fallire

  • “Non mollare.”
  • “Non piace a nessuno chi si arrende”.
  • “I vincenti non mollano mai e chi molla è un perdente.”

Alcune di queste frasi ti suonano familiari? Come alcuni bias insegnano, una volta che hai iniziato qualcosa non dovresti mai smettere fino a che non lo hai concluso, e se lo fai è un chiaro segno di fallimento. Ma se quella cosa non potesse mai dirsi conclusa… magari fino alla pensione?

A volte cambiare è esattamente la cosa giusta da fare.

Da bambina Tina Kiberg era una violinista di belle speranze che passava il tempo libero a esercitarsi. Un giorno, partecipando a un concorso, si rese conto che non sarebbe mai stata più che una violista mediocre. Però le piaceva cantare. Così abbandonò il violino e iniziò a cantare. E’ diventata una cantante d’opera internazionale di altissimo livello.

Prova a indovinare cosa hanno in comune Larry Page, Sergey Brin, Tiger Woods, Reese Witherspoon, John McEnroe e John Steinbeck? Hanno tutte lasciato Stanford.

 

Mito n. 4. È l’opzione più facile

  • Hai lasciato il lavoro? 
  • Immagino che tu non abbia ciò che serve per avere successo. 
  • Peccato, hai scelto l’opzione più facile.

Alcune persone vedono il cambiamento come un segno di debolezza.

Cambiare richiede coraggio. Lasciare un posto di lavoro tossico o allontanarsi da un capo incompetente o da un’attività che non regala soddisfazioni, può essere una scelta dolorosa e con strascichi emotivi non indifferenti. Sicuramente è tutt’altro che facile e comodo.

 

Mito n. 3. È un comportamento egoista

  • Come puoi essere così egoista da lasciare il lavoro? 
  • Stai deludendo clienti, colleghi, amici e tutti coloro che credono in te. Inoltre, pensa alla tua famiglia: come se la caveranno se te ne andrai?
  • Cosa penseranno i tuoi figli…

Se non ti piace il lavoro, non stai facendo un favore a nessuno rimanendo. Quando si è infelici, si tende a contagiare tutti coloro che stanno intorno. Per quanto riguarda la famiglia, forse sarebbero più contenti se non tornassi a casa ogni giorno stanco e frustrato.

Se vai al lavoro giorno dopo giorno, anno dopo anno, e odi davvero il tuo lavoro e torni a casa arrabbiato, cosa stai insegnando ai tuoi figli?

 

Mito n. 2. È rischioso per la carriera

  • Se lasci il tuo lavoro, il tuo CV ne risentirà e la tua carriera subirà un duro colpo.

Mentre rimanere per anni in un luogo di lavoro che odi e che ti sta lentamente logorando sarà FANTASTICO per la tua carriera! Più a lungo rimani, più perdi energia, motivazione e fiducia in te stesso di cui hai bisogno per avanzare nella carriera.

 

Mito n. 1. È l’ultima risorsa

  • Certo, puoi considerare di smettere, ma dovresti prima esaurire tutte le altre opzioni. 
  • Ti fermi solo quando non ce la fai più.

Per le persone che credono a questo mito, smettere è l’ultima opzione. È quello che fai una volta che sei distrutto ed esausto per continuare a svolgere il tuo lavoro attuale. Ciò lo rende il più pericoloso dei miti qui elencati, perché significa che le persone rimangono in lavori scadenti fino a (o oltre) i loro punti di rottura. Talvolta però è troppo tardi.

 

La tua opinione

Ci sono altri miti che ti vengono in mente? Hai incontrato qualcuno di questi nella tua vita lavorativa? Come reagisci quando qualcuno vicino a te valuta la possibilità di cambiare lavoro?

3 TIPI di RESISTENZA al CAMBIAMENTO (in azienda) e COME SUPERARLI

 

Solo il 30% dei progetti di change management va a buon fine, 1 su tre.

La causa? La resistenza al cambiamento. Non la mancanza di competenze o risorse tecniche, ma a causa di una reazione umana.

Cosa crea resistenza al cambiamento

La resistenza è negli occhi di chi guarda. Le persone che resistono non vedono quello che fanno, spesso è più un atto di sopravvivenza.

La resistenza al cambiamento è una reazione al modo in cui viene condotto un cambiamento.  Le persone resistono in risposta a qualcosa.

La resistenza serve a proteggere le persone. Se sono uno sciatore alle prime armi, è la resistenza a impedirmi di prendere la seggiovia per raggiungere la cima di una pista nera.

In un’organizzazione, la resistenza impedisce di dire “sì” a un incarico che penso metterà a rischio la mia carriera.

Quanto meglio riusciamo a vedere cosa causa resistenza, tanto più facile sarà creare le giuste condizioni per abbracciare il cambiamento. In altre parole, se comprendiamo la resistenza, comprendiamo anche l’altra faccia della medaglia: la spinta al cambiamento.

Tre sono i livelli di resistenza

1 – Non capisco

Riguarda le informazioni: fatti, cifre, idee. È il mondo del pensiero e dell’azione razionale. È il mondo delle presentazioni, dei diagrammi e degli argomenti logici.

Il livello 1 deriva da:

  • Mancanza di informazioni
  • Disaccordo con i dati
  • Mancanza di esposizione a informazioni critiche
  • Confusione su cosa significhi

Molti commettono l’errore di trattare tutte le resistenze come se fossero di Livello 1. I leader danno alle persone più informazioni – tengono più riunioni e fanno più presentazioni PowerPoint – quando, in realtà, sarebbe necessario qualcosa di completamente diverso. Ed è qui che entrano in gioco i livelli 2 e 3.

 

2 – Non mi piace

Il livello 2 è una reazione emotiva al cambiamento. La pressione sanguigna aumenta, l’adrenalina scorre, il cuore accelera. Si basa sulla paura: le persone hanno paura che questo cambiamento faccia perdere loro lo status, il controllo, forse anche il lavoro. Come ben esplicitato nel film Governance, che ha anche ispirato questo post.

Il livello 2 non è facile da gestire. Non basta dire “stai tranquillo” e aspettarti che il soggetto reagisca di conseguenza. Qui è in gioco la nostra stessa sopravvivenza.

Quando il Livello 2 è attivo, rende molto difficile comunicare il cambiamento. Quando l’adrenalina è in circolo, passiamo alla modalità di combattimento o fuga (o rimaniamo immobilizzati, come un cervo sotto i fari in mezzo a una strada la notte). E smettiamo di ascoltare. Quindi, non importa quanto sia eccezionale la tua presentazione, una volta che si è attivato il livello 2, la risposta è incontrollabile. A questo punto le persone non scelgono di ignorarti, è solo che hanno cose più importanti per la testa, come pensare alla loro sopravvivenza.

Le organizzazioni di solito non incoraggiano le persone a rispondere emotivamente; quindi, i dipendenti limitano domande e commenti ai problemi di Livello 1. Fanno domande educate su budget e tempistiche. Quindi può sembrare che siano con te, ma non lo sono. Fanno domande di livello 1 sperando che tu legga tra le righe e parli delle loro paure. E qui c’è una cosa difficile che va tenuta in considerazione: potrebbero non essere consapevoli di operare a un livello emotivo così elementare.

 

3 – Non mi piaci

Forse gli piaci, ma non si fidano di te o non hanno fiducia nella tua leadership.

La mancanza di attenzione a livello 3, è una delle ragioni principali per cui la resistenza aumenta e i cambiamenti falliscono. E se ne parla raramente. I libri sul cambiamento parlano di strategie e piani ma la maggior parte di questi consigli non riesce a riconoscere una delle ragioni principali per cui il cambiamento fallisce.

Nella resistenza di livello 3, le persone non stanno resistendo all’idea – in effetti, potrebbero amare il cambiamento che stai presentando – ti stanno resistendo. Forse sei tu che le rendi diffidenti, per decisioni prese in passato, magari.

O forse non sei tu a non piacergli. Le persone possono resistere a chi rappresenti. L’affermazione “Ciao, vengo da una riunione con il board, sono qui per aiutarvi”, spesso lascia le persone scettiche. Se ti capita di essere quella persona, avrai difficoltà a farti ascoltare.

Qualunque siano le ragioni di questa resistenza profondamente radicata, non puoi permetterti di ignorarla.

Le persone possono capire l’idea che stai suggerendo (Livello 1) e possono anche pensare che questo cambiamento possa essere utile (Livello 2), ma non diventeranno cooperative se non si fidano di te.

 

Come trasformare la resistenza in supporto

Ecco alcune idee per iniziare ad affrontare i vari livelli di resistenza. Ps. Tieni conto che tutti e tre i livelli potrebbero agire contemporaneamente.

 

Livello 1 – Crea il tuo caso

  • Assicurati che le persone sappiano perché è necessario un cambiamento. Prima di parlare di come vuoi fare le cose, spiega perché qualcosa deve essere fatto.
  • Presenta il cambiamento usando un linguaggio comprensibile a tutti. Se il tuo pubblico non è composto da specialisti finanziari, i grafici che mostrano analisi sofisticate, non avranno alcuna presa.
  • Trova modi diversi per sostenere il tuo caso. Le persone acquisiscono le informazioni in modi diversi. Ad alcuni piace ascoltare. Ad altri vedere. Qualcuno predilige le immagini, altri il testo.  Maggiore è la varietà dei canali di comunicazione a cui ricorri, maggiori sono le possibilità che le persone capiscano ciò che hai da dire.

 

Livello 2 – Sottolinea gli aspetti positivi

  • Sottolinea i lati positivi. Le persone devono credere che il cambiamento servirà loro: il lavoro sarà più semplice, le relazioni miglioreranno, si apriranno opportunità di carriera o aumenterà la sicurezza sul posto di lavoro…
  • Coinvolgili nel processo. Le persone tendono a proteggere e sostenere ciò che costruiscono.
  • Sii onesto. Se un cambiamento li danneggerà, ad esempio il ridimensionamento, allora dì loro la verità. È la cosa giusta da fare e impedisce che circolino storie su ciò che potrebbe accadere. Inoltre, l’onestà rafforza la loro fiducia in te (un problema di livello 3).

 

Livello 3 – Sii responsabile

  • Colpa mia. Assumiti la responsabilità delle cose che potrebbero aver portato alle attuali relazioni tese.
  • Mantieni gli impegni. Dimostra di essere affidabile.
  • Trova dei modi per trascorrere del tempo insieme in modo che conoscano te (e il tuo team). Ciò è particolarmente utile se la resistenza deriva da “chi rappresenti” e non solo dalla tua storia personale.
  • Lasciati influenzare dalle persone che ti resistono. Questo non significa che cedi a ogni richiesta, ma che puoi ammettere che potresti aver sbagliato e che potrebbero essere idee degne di considerazione.

Lo statista israeliano Abba Eban ha scritto:

Gli uomini e le nazioni si comportano saggiamente, una volta esaurite tutte le altre alternative“.

Quindi non demordere…