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Le FATE NON esistono SE i BAMBINI NON battono le MANI

Era il 1999, avevo 18 anni, e quando mio nonno mi chiese quale regalo volessi per il compleanno risposi I versetti satanici di Salman Rushdie. Pur essendo un fervente e onnivoro lettore, mi guardò stranito. Per i miei “primi” 18 anni sicuramente si era aspettato qualcosa di più impegnativo, almeno economicamente.

E’ stata un’intervista di Antonio Monda su La Stampa allo scrittore indiano, a farmi tornare alla mente quell’episodio.

Irriverente, ma coraggioso, mi stimolava l’idea di leggere un libro censurato e di un autore che oltre alla condanna a morte decretata da Khomeyni, anche diversi traduttori avessero rischiato la vita (il traduttore italiano e quello svedese vennero feriti e il traduttore giapponese venne ucciso l’11 luglio 1991) per aver avuto a che fare con questa storia.

“Un uomo che decide di inventare se stesso, si assume il ruolo del Creatore, almeno secondo un certo modo di vedere le cose: è uno snaturato, un bestemmiatore, un abominio tra gli abomini. Da un altro punto di vista, potreste vedere pathos nella sua persona, eroismo nella sua lotta, nella sua disponibilità a rischiare: non tutti i mutanti sopravvivono. […] Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta”.

Ricordo lo smarrimento dopo aver divorato le 500 pagine del libro e la magia sognante di una storia di cui non si capisce il senso fino a quando una voce non ti illumina all’improvviso dall’alto e ti dice: Per rinascere si deve prima morire.

Un uomo che inventa se stesso ha bisogno di qualcuno che creda in lui, per dimostrare che ce l’ha fatta. Di recitare ancora la parte di Dio, potreste dire. Ma potreste anche scendere qualche gradino e pensare a Tinker Bell: le fate non esistono se i bambini non battono le mani. O potreste semplicemente dire: significa proprio questo essere un uomo. Non è solo il bisogno di esser creduti, ma quello di credere in un altro.

Rushdie mi aveva conquistata. Una storia dove uomini comuni precipitano da 6000 metri senza conseguenza alcuna, dove uomini comuni acquistano come per magia un’aureola luminosa o due corna da capra, dove uomini comuni scelgono di vivere una vita lontano dalla loro patria e si fanno sedurre dalle luci dell’Occidente, dove uomini comuni cercano un’integrazione in una cultura diversa dalla loro. Quello che mi ha insegnato Rushdie, è che ogni persona può sbagliare e avere debolezze, che la lotta tra il Bene e il Male è e sarà sempre parte importante della nostra vita, che l’Amore (per se stessi, per gli altri), è l’unico segreto da conoscere.

Mentre scorro l’articolo, le parole di Rushie, continuano a farmi riflettere: “Cos’è la libertà di espressione? Senza la libertà di offendere cessa di esistere”.

PERCHE’ PROVIAMO VERGOGNA?

“A volte è una sequenza, altre un’immagine, un fotogramma qualsiasi, un movimento spezzato, una smorfia (debolezza, forse vergogna), un gesto piccolissimo che non possiamo raccontare a nessuno (e non perché non vogliamo ma perché non sapremmo neanche come cominciare, e se pure ne fossimo capaci preferiremmo non farlo)”.

Rubo a Diego De Silva, l’incipit di Mancarsi, perché sebbene tutti la conoscano fin nelle viscere, fanno fatica a parlarne. A descriverla. Vogliono, vogliamo tutti solo che si dissolva presto ai ricordi. Sto parlando della vergogna: la nemica di tutti, l’amica di pochi, quei pochi che sanno scaltramente maneggiarla, sebbene sia un gioco a perdere. E’ solo questione di consapevolezza.

Mentre litigo con il tempo sul volo che da Madrid mi riporta a casa, non posso non interrogarmi sul perché è dell’uomo la prerogativa di provare vergogna… Un’onta? Una spina nel fianco? O semplicemente una perversa forma di protezione?

LA VERGOGNA: PROBLEMA OD OPPORTUNITA’?

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Montreal e del Santa Barbara’s Center for Evolutionary Psychology (CEP) ha provato a dare una risposta ponendo il problema in chiave antropologica: per quale motivo la natura ha dotato l’uomo di una sensazione così maldestra?

Per svelare l’arcano sono stati costretti ad andare alle origini, ai tempi in cui l’uomo iniziava ad organizzarsi in comunità. Quando non c’erano organi istituzionali o addetti a controllare l’operato dei membri di un gruppo. Ecco che si può così intuire il significato della vergogna: limitare le azioni che potrebbero avere ripercussioni negative sulla socialità. L’uomo antico non rubava il cibo agli altri membri della sua stessa comunità.

E il cervello è in grado di prevedere le possibili conseguenze di un’azione negli altri. Quando capisce che il vantaggio che potrebbe derivare dalla riuscita delle intenzioni non vale quanto le ripercussioni che avrebbe un loro eventuale fallimento ecco che la volontà di agire viene inibita dal senso di vergogna.

L’uomo è attento a ciò che gli altri pensano di lui. La vergogna, come il dolore e la paura, avrebbe perciò una funzione protettiva. La vergogna è in grado di farci evitare i comportamenti che potrebbero ledere la nostra reputazione, tant’è che tali condotte sono quasi sempre mal viste dalla società. Difficilmente si ha vergogna di qualcosa che si sa essere comunemente accettato.

“La teoria che stiamo valutando è che l’intensità del sentimento di vergogna che si prova quando si considera se compiere una determinata azione non è solo una sensazione o una motivazione; comporta anche informazioni fondamentali che ti portano a compiere scelte valutando non solo costi e benefici personali dell’azione stessa ma anche costi e benefici sociali”, hanno spiegato gli antropologi coinvolti nello studio (per saperne di più https://www.news.ucsb.edu/2018/019174/universality-shame).

La vergogna non è, secondo i ricercatori, un sentimento indipendente dalla cultura e dalle credenze di un popolo, ma intrinseco dell’essere umano. Per dimostrarlo sono state indagate 15 differenti comunità di quattro continenti, appartenenti a differenti religioni e culture. La ricerca ha dimostrato che qualsiasi sia il modo di vivere, in tutti gli uomini è radicata la capacità di provare vergogna.

Non c’è dunque una motivazione culturale ma il perché proviamo vergogna va ricercato nell’evoluzione del cervello umano come proprio di un animale sociale. Quando pensiamo che un’azione (giusta o sbagliata che sia) verrà vista dagli altri come negativa, allora ecco che si innesca il meccanismo di vergogna.

A questo punto, la prossima volta che proviamo vergogna, sappiamo il perchè!

PORTATILE e DITA VELOCI: NON è COSI’ che si SCRIVE uno SPEECH

“Laura, ho bisogno che mi scrivi un altro di quei tuoi bellissimi discorsi. E’ un’occasione importante per l’azienda che rappresento, come ben sai”. Detto così sembra semplice. In fondo cosa ci vuole per scrivere uno speech: carta, penna, anzi portatile, dita veloci e qualche idea bene infiocchettata…

Se questa è la tua convinzione… non è l’articolo giusto per te!

Mentre mi informo sui contenuti che dovrò inserire nel discorso, leggo, analizzo la concorrenza, studio, mi confronto e cerco di lasciare il meno possibile al caso. Perché se è vero che occorre emozionare per attrarre il pubblico, per mettere dei contenuti di valore è essenziale conoscere ciò di cui si scrive. Il back di ogni scrittura è un lavoro enorme, spesso neanche minimante considerato. Da chi non sa di cosa si sta parlando…

I grandi oratori sono capaci di connettersi con il pubblico e rimuovere qualsiasi distrazione che ostacoli la comunicazione e il raggiungimento del loro obiettivo. Gli altri meno grandi, invece, sono focalizzati su ciò che vogliono dire e dimenticano di avere davanti un pubblico che ha delle specifiche esigenze. Un buon discorso deve tenere conto di quello che il pubblico si aspetta di sentire e capire quali parole sia meglio usare. E ipotizzare quali ostacoli potrebbero interferire sulla buona riuscita dello speech.

PREVIENI GLI OSTACOLI. Se chi scrive uno speech non si concentra abbastanza sul destinatario della comunicazione e sui desideri, bisogni e stile di vita che lo caratterizzano, potrebbe prendere involontariamente le distanze dalla platea. Bisogna trovare un linguaggio comune e rapportarsi in maniera spontanea e diretta. Un modo per evitare che il pubblico perda interesse o faccia resistenza è pensare alla natura delle possibili resistenze. Sforzarsi di pensare a diversi punti di vista, anche quelli apparentemente assurdi. Ogni punto di vista, per quanto possa sembrare ridicolo, potrebbe essere proprio quello di uno degli spettatori che è venuto apposta a sentirti parlare. Potresti non condividere affatto tale punto di vista ma è importante che l’ascoltatore sappia che tu l’hai considerato. Dimostra che hai approfondito il tuo lavoro fino in fondo.

LA STORIA NELLA STORIA. Dopo anni passati a studiare letteratura e discorsi celebri ho scoperto una struttura che i grandi comunicatori usano da secoli: la storia nella storia. La ragione per cui amiamo così tanto queste storie è dovuta all’alternarsi di tensione e rilascio, conflitto e risoluzione. Si può ottenere la medesima tensione giocando a muovere avanti e indietro il filo del discorso, alternandolo tra ciò che è la realtà adesso e ciò che potrebbe diventare. Attraverso il contrasto continuo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, il pubblico comincia a vedere una realtà molto più interessante di quella in cui si trova attualmente. Riuscire a modificare l’atteggiamento, e di conseguenza l’azione, del pubblico è difficile. Usare il contrasto è il modo migliore per aiutarlo a vedere la tua idea più chiaramente.

PAROLE E CAMBIAMENTO. Un grande discorso produce un cambiamento nel pubblico. Lo fa sentire migliore, gli conferisce nuove conoscenze e nuovi strumenti e lo spinge all’azione. Le migliori presentazioni producono esattamente questo cambiamento, spingono il pubblico a migliorarsi.
E’ noto che quando ascoltiamo una bella storia il nostro corpo reagisce involontariamente. Le pupille si dilatano, sentiamo i brividi lungo la schiena, ci protendiamo in avanti per ascoltare meglio il racconto. Ma quando è stata l’ultima volta che abbiamo provato delle sensazioni durante un discorso? Per questa ragione i presentatori spesso sono reticenti ad allegare materiale durante i loro discorsi, così da avere la possibilità di stupire il pubblico. La cosa migliore che si può sperare di ottenere dal pubblico è un riscontro di tipo emozionale.

QUANDO DEVE DURARE UNO SPEECH? Uno speech deve essere breve. Se hai un’ora a disposizione usa 40 minuti; una maggiore sintesi risulta difficile a chi non è allenato. La forza dei Ted ad esempio sta nella durata degli “speech”: fra i 15 e i 20 minuti, dietro i quali si nasconde un poderoso sforzo comunicativo volto a esprimere un punto di vista in poco tempo. Oggi viviamo nella società dell’impazienza, del tutto subito. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: ‘speriamo che la presentazione sia lunga!’. Quindi tagliare, accorciare e rileggere per rendere il tutto più asciutto possibile.

E INFINE…
Un ultimo consiglio: i discorsi non suonano credibili se le promesse che contengono non si realizzano. Questo vale per tutti!

Anche i MEDICI PIANGONO. NON è il TITOLO di una TELENOVELA

“Tu cosa preferisci? Un medico che ti tenga la mano mentre muori o un medico che ti ignori mentre migliori? Certo che sarebbe terribile un medico che ti ignora mentre muori!” chiedeva Gregory House, il medico poco convenzionale protagonista della serie omonima trasmessa fino a qualche anno fa in tv.

Come dargli torto…

Frustrazione e amore sono due sentimenti con cui tutti abbiamo a che fare, anche i medici che troppo spesso ci paiono imperturbabili dietro le loro diagnosi asettiche e glaciali. Maschere perfette nelle quali nascondere le emozioni.

Sfatiamo un altro mito: anche i medici piangono. E se lì per lì, potrebbe sembrare il titolo di una telenovela da quattro soldi, è ahimè cruda realtà.

Piangono per stress, per la frustrazione di non riuscire a salvare un paziente, per la compassione che li lega a chi da mesi dimora in un letto, dopo aver perso tutto, anche la dignità.

Pochi lo ammettono. Spesso paragonati a Dio, perché capaci (talvolta) di dare e di togliere la vita, sono molto più umani di quanto ognuno di loro ha il coraggio di ammettere.

“Sono arrivato in reparto dove c’erano diversi parenti di un paziente appena deceduto ad attendermi. Uno ha iniziato a urlarmi contro, accusando l’ospedale di aver appena ucciso il fratello. Capivo il loro dolore, dato che avevo perso due fratelli più giovani anch’io. Una parte di me voleva davvero scoppiare in lacrime, ma in quel momento non sarebbe stato possibile. Dopo aver fatto quello che dovevo fare, mi sono preparato una tazza di tè e ho pianto in un angolo tranquillo prima di tornare al lavoro”. Storie di medici, molto comuni, raccontate dal British Medical Journal (https://www.bmj.com/content/364/bmj.l690)

Difficile illudersi di poter affrontare la carriera medica senza doversi confrontare con le proprie emozioni: un paziente potrebbe avere caratteristiche simili a quelle di un vecchio fidanzato, un bambino potrebbe avere la stessa età del proprio figlio, cosi che all’improvviso quel paziente morente diventa tuo figlio, nella tua testa.

Ane Haaland, scienziata sociale all’Università di Oslo, sostiene l’importanza per i camici bianchi di poter piangere sul lavoro, ma in modo controllato “Lo chiamo pianto della consapevolezza ed è incentrato sull’aiutare il paziente, non sul farti aiutare dal paziente, c’è un’enorme differenza e i medici devono saperlo”.

Ho spesso avuto modo di confrontarmi su questi temi, con i medici. Ho tenuto non pochi corsi in università e ospedali, insegnando loro come comunicare cattive notizie senza farsi del male. Aiutandoli a riconoscere e gestire piuttosto che ignorare i sentimenti, a stabilire sani confini e vedere la vulnerabilità come una risorsa piuttosto che come un segno di debolezza.

Quando vorresti piangere e te lo neghi, non fai un torto all’altro ma a una parte vitale di te.

Una STRANA CORSA VERSO la LIBERTA’

Un uomo trova un dado da gioco, e prendendolo in mano sente la necessità di lanciarlo e di comportarsi in base al risultato. “Se esce il 3 faccio quello che farei comunque, mi lavo i denti e vado a dormire; se esce il 2 faccio ciò che vorrei realmente fare: busso alla mia vicina e se apre la porta, ci vado a letto…”

Un’opzione per ogni faccia del dado. Esce il 2 e l’uomo rallenta, sa di trovarsi di fronte un limite, se lo oltrepassa la sua vita rischia di cambiare… ma in fondo la decisione non è sua, è del dado e così asseconda questo destino un po’ forzato.

Quando torna a casa, qualche ora più tardi, si sente cambiato, un cambiamento percettibile ma inarrestabile. Ha fatto qualcosa che mai avrebbe fatto, si sente più coraggioso e più libero.

UNA DOMANDA, SEI SOLUZIONI

Passa il tempo e l’uomo si affida sempre di più al dado. Una domanda, sei soluzioni: tutto attraversa la coscienza del dado. La scelta del film da vedere, cosa mangiare, chi maltrattare o riverire… All’inizio le opzioni sono prudenti, poi si fanno più audaci e tutto ciò che mai aveva considerato, diventa opzione del gioco. Andare in un luogo in cui non andrebbe mai, provare a sedurre una donna pescata a caso sull’elenco telefonico, entrare in un locale per scambisti, andare a letto con un uomo… Anche con i suoi pazienti usa il dado: lui è uno psichiatra.

I risultati sono spaventosi, la moglie lo lascia, l’ordine dei medici lo espelle perchè incapaci di sostenere questa terapia rivoluzionaria, gli amici lo abbandonano.
Ma l’uomo prosegue in questa strana corsa verso la libertà, l’obiettivo è chiaro: non essere più prigionieri di se stessi, poter agire secondo l’umore e il capriccio del momento. “All’inizio, era come marijuana, piacevole e divertente, poi è diventato come l’acido una roba esaltante ma distruttiva”.

Via via che il racconto procede, la tentazione di ricorrere al dado, l’ho avuta anch’io. Lasciando all’inanimato seduttore di numeri, quello che in realtà affiora alla coscienza, senza portarne la colpa. Dire ciò che si pensa o fare ciò che le convenzioni non ci consentono di fare e poter sorridere tirando il dado, una volta di più.
Poi mi sono chiesta se questa apparente anarchia fosse solo un desiderio inespresso di deporre l’affannoso e crudele arbitrio che non abbiamo. Arrestare l’indicibile elenco di dettami che la vita che ci siamo costruiti, ci ha imposto. Ma chi è il dado? Chi rappresenta? La mia coscienza vulnerabile o il mio inconscio soggiogato che militarmente disarciona il cavaliere? Perdere la guida per perdere la strada.

LA LIBERTA’ CHE IL DADO REGALA A CARO PREZZO

Qualcuno nel tempo è morto per la scelleratezza del dado, altri sono rinsaviti, altri non hanno rotto la dipendenza pur ricorrendoci solo per scelte poco pericolose.
Il dado è un mezzo che regala a caro prezzo un sorso di libertà. Mi viene in mente la Merini, la poetessa che non aveva bisogno del dado per uscire dalle convenzioni. Era la prima a considerarsi folle.

Luke, l’uomo del dado, giorno dopo giorno continua ad affidarsi al fato che il dado sceglie in vece sua. Giocherà il gioco dello psicopatico, del debole, dell’aggressivo, del fanatico, dello stupido, del simpatico, dell’affabile, del romantico… fino a uccidere uno sconosciuto. Non verrà mai scoperto.

THE DICE MAN

Chissà chi ognuno di noi chiederebbe al dado di uccidere al posto nostro? Mi chiedo mentre l’ultima pagina consegna al libro la sua integrità. The dice man, l’uomo dei dadi… Sì, perchè l’uomo dei dadi è un racconto, e come nei racconti migliori, poco importa se ciò che vi è narrato sia accaduto veramente. È l’immaginare una follia del genere che la rende già possibile. Un’utopia negativa, più aperta alla distruzione, che alla creazione.

L’uomo dei dadi è un racconto antropologicamente affascinante, denso di psicologia e filosofia. Dove ad aver l’ultima parola è il diktat supremo: «Chiunque può essere chiunque». Se in Fu Mattia Pascal, c’è un annichilimento dell’identità e una ricerca di pura autenticità seppur nel fallimento, qui c’è un disperato bisogno di (auto)distruzione, è il nichilismo estremo il fondo più fondo di questo libro che si legge a strati. E che molto difficilmente si dimentica.

Il FASCINO della SUPERFICIALITA’ e la NUOVA IGNORANZA

Il Presidente del Consiglio Conte ha esaltato l’8 settembre 1943, confondendolo con il 25 aprile 1945: data fondamentale per la rinascita dell’Italia, quando invece fu una catastrofe storica; Di Maio non solo ha spostato Matera dalla Basilicata alla Puglia ma ha anche audacemente dichiarato che il corpo umano è fatto al 90% di acqua.

E mi fermo qui.

Fino a non troppi anni fa, di fronte a tali affermazioni, ci si scandalizzava, additando l’autore di ignoranza. Oggi invece l’ignoranza è considerata orgoglio da establishment e chiunque provi a rimettere le cose in ordine, attribuendo fatti e numeri a chi davvero ne ha proprietà, viene tacciato di complottismo.

REALTA’ VS CONSENSO

Insomma la verità non consiste più nella corrispondenza, nell’accordo, tra la realtà e la sua rappresentazione linguistica e concettuale (adaequatio rei et intellectus), ma fra la realtà e il consenso. E questo mi riporta immediatamente al totalitarismo, regime capace di mobilitare le masse nel nome di una ideologia o di una nazione.

TOTALITARISMO

Un modo gentile, totalitarismo, per definire il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, per citarne i più recenti, dove il tentativo di controllare capillarmente la società in tutti gli ambiti di vita, imponendo l’assimilazione di una ideologia era la norma. Il partito che controlla lo Stato non si limita cioè a imporre direttive, ma vuole mutare radicalmente il modo di pensare e di vivere della società stessa. Ed ecco che il collegamento ad alcuni movimenti politici e guru che si ergono a motivatori diventa automatico.

In fondo la base del totalitarismo recente, non è il prodotto di élite culturali, di conoscenza e sapere ma di grande masse, come ben scriveva Elias Canetti in “massa e potere”, quasi 60 anni fa.

Insomma l’irruzione di internet ha agevolato un fenomeno che ha sostituito la conoscenza e il ragionamento critico con l’informazione di massa, vorace e poco controllabile, capace di manipolare e di rallentare la riflessione. Meglio cercare il consenso piuttosto che la verità.

NUOVA IGNORANZA

Non per nulla si parla di Nuova ignoranza, un fenomeno che premia la performance e dove la trasmissione del sapere diventa occasionale e deformata.  Il presunto pubblico colto si fa padrone della conoscenza, grazie al dilagare di libri di massa dai contenuti incerti e di indubbio valore e alle prediche che si ergono da palchi dove le star di turno accendono gli animi attraverso tecniche manipolatorie. Scambiate per sapere.

Essere conosciuti da chi non si conosce è la nuova definizione di fama.

SO DI NON SAPERE

Il rimedio è semplice: partire dal presupposto di non sapere, e di farsi spiegare le cose che da chi le vive, le conosce per davvero e poi procedere con approfondimenti e interpretazioni. Credere di sapere più degli altri (e quali altri…), la nuova ignoranza appunto è “una forma di prevaricazione culturale, aggressiva quanto il colonialismo”, dice Maurizio Bettini, sapiente filologo, latinista e antropologo italiano che consiglio a tutti di seguire. Attenzione: non è un guru, è “solo” un professore, colto e saggio… non imbonisce, non motiva, ma appassiona. E genera Cultura. Quella vera, di una volta. Priva di effetti collaterali dannosi.

Addio Amos… scrittore della speranza

“Non c’è una felicità che assomiglia all’altra”, scriveva nel romanzo epistolare “La scatola nera”. Vivere nonostante la disperazione era forse la sua massima espressione di felicità.

Amos Oz, il grande scrittore israeliano, che nelle parole ha sempre cercato il senso del vivere e l’umanità delle cose, ha perso la sua ultima battaglia a 79 anni, dopo lunga malattia.

“Imparai a leggere praticamente da solo, ero ancora molto piccolo. Che altro avevamo da fare? Alle sette di sera eravamo già chiusi in casa per via del coprifuoco imposto dagli inglesi a tutta la città. Spesso saltava la corrente elettrica, negli anni Quaranta del secolo scorso a Gerusalemme, ma anche quando non saltava si viveva comunque dentro una luce vaga, perché era immorale usare una lampadina da quaranta watt quando si poteva leggere, cavandosi gli occhi, con una da venticinque (“che cosa avrebbero detto i vicini, vedendo un’illuminazione da gala?”.

L’ultimo libro tradotto in italiano “Finchè morte non sopraggiunga”, si fa oggi premonitore, nonostante sia stato pubblicato nel 1971.

Con ironia e passione, ha raccontato nei suoi libri l’amore e la morte, i sensi di colpa e la nostalgia. Di qualcosa che è stato ma poteva essere molto diverso. Il suicidio della madre, e lo spasmodico bisogno di trovarne un senso, la ribellione alle leggi famigliari entrando in un kibbutz e abbandonando il cognome originario, il racconto della storia di Israele. La lotta al fanatismo perché combattere «un pugno di fanatici su per le montagne dell’Afghanistan» è una cosa, ma «essere» contro il fanatismo significa essere aperti al pluralismo e alla tolleranza. Perché il fanatismo, prima di qualsiasi integralismo, è questione antichissima e radicata nella natura umana: «un gene del male».

«Lo scenario non è solo un ritratto di Israele dal giorno in cui fu fondato nel 1948 fino a oggi. È altresì una rappresentazione della stessa condizione umana. Noi tutti, ovunque, viviamo davvero alle pendici di un vulcano attivo. Forse il vulcano mediorientale è più attivo di quello europeo, ma ogni essere umano, in ogni luogo ed epoca, vive a stretto contatto con la disperazione, la paura, la catastrofe».

Lo ricordo con una frase che mi ha fatto molto pensare:  “Ritengo che l’essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Quell’inclinazione comune a rendere migliore il tuo vicino, educare il tuo coniuge, programmare tuo figlio, raddrizzare il fratello, piuttosto che lasciarli vivere”

Addio Amos, che tu possa continuare a lottare anche là, dove forse la penna da arma, può farsi abbraccio.

 

 

COME fare il REGALO PERFETTO? Ce lo dice l’ECONOMIA COMPORTAMENTALE

Qualsiasi cosa farete trovare sotto l’albero, non sarà il regalo ottimale. A meno che non siano soldi.

A dirlo gli economisti comportamentali che, come ogni anno, consigliano di optare per i soldi anziché per doni insensati per la semplice ragione che ricevere banconote permette di acquistare esattamente ciò che si vuole al giusto prezzo.

Difficile dar loro totalmente torto soprattutto quando aperto il pacco ci si trova per le mani l’ennesimo foulard dai colori improbabili o un irritante maglione di lana riesumato da qualche fondo di magazzino.

Se agissimo come perfetti agenti razionali che non siamo, dovremmo regalare e voler ricevere denaro. A supporto gli studi dei ricercatori della Stockholm School of Economics, dove in ‘Conspicuous Generosity‘ (Generosità cospicua) stilano un elenco di ragioni per le quali è meglio scartare banconote, a Natale, piuttosto che regali.

L’acquisto dei regali comporta necessariamente dei rischi: il destinatario potrebbe non gradire il presente e, di conseguenza, il mancato piacere porterebbe all’annullamento del valore del dono; la valuta contante, al contrario, consente di acquistare esattamente ciò che si desidera.

Waldfogel, professore di economia applicata alla Carlson School of Management, ha dimostrato che la somma che vorrebbero ricevere le persone al posto dei regali è inferiore rispetto al valore di uno qualsiasi tra i regali ricevuti.

Il discorso, in soldoni, non fa una piega.

Eppure milioni di persone preferiscono spendere i loro soldi nell’irrazionale paradosso del regalo perfetto e, nella maggior parte dei casi “poco utile”.

Il denaro viene associato a valori negativi, spiegano i ricercatori dell’Università svedese: la presenza di denaro spinge di fatto le persone a comportarsi in maniera sconsiderata. Gli individui sono più generosi quando hanno la possibilità di offrire solo il proprio tempo, piuttosto che l’opportunità di donare denaro.

I regali sono la manifestazione d’affetto nei confronti del prossimo e questo spiega il perché, quasi universalmente, i regali di Natale che richiedono tempo e sforzo siano più graditi rispetto a quelli molto costosi.

Tutti i regali rivelano qualcosa di ciò che colui che dona pensa rispetto al destinatario e sono la manifestazione tangibile della comprensione. Il regalo perfetto è ciò che il destinatario realmente desidera, gradisce ed apprezza e che magari non si comprerebbe mai da solo. Alla fine il dono giusto rimane, a dispetto dell’utopica razionalità, quello fatto con il cuore.

CHRISTMAS BLUES: NON TUTTI A NATALE SONO FELICI…

E’ il tempo dei sorrisi. E’ il tempo della tristezza.

E’ il tempo degli abbracci. E’ il tempo dell’abbandono.

E’ il tempo della compagnia. E’ il tempo della solitudine.

E’ il Natale, sinonimo di festa e di allegria, di obblighi, di cinismo, di isolamento forzato, cercato, fors’anche subito.

Per qualcuno è facile abbandonarsi alla festa, al divertimento tutto eccessi, per qualcuno il monologo ricorrente del rifiuto, del conformismo mette di malumore, e l’abito della tristezza pare l’unica veste che possa indossare.

Lo chiamano, gli americani, Christmas Blues, il leit motiv natalizio, di chi proiettato nei propri guai, nei pensieri negativi, fa fatica a rincorrere il sorriso.

LA MALINCONIA DEL NATALE SI CHIAMA CHRISTMAS BLUES

Ogni giorno la scienza ci dice che sono all’incirca 3 mila i pensieri negativi che ci passano per la mente, e lo stare lontano dal lavoro e dalle diverse frenetiche attività rende più difficile cadere nelle malinconie che abitano la nostra anima. A cui si aggiungono il sole che si fa meno pretenzioso e il clima rigido.

Spesso però l’anticonformismo di chi odia il Natale, è diventano così frequente da fare a botte con chi non perde occasione di raccontare di feste e balli a cui non ha mancato con la diligenza del perfetto soldatino. La giusta misura è sempre quella che sta nel mezzo.

Gli scienziati quando parlano di Christmas Blues, stentano a darne definizione univoca. Per alcuni dipende dalla chimica: alla serotonina che fa le bizze diminuendo, si assocerebbe l’aumento della melatonina, che va ad influenzare i ritmi biologici del sonno e della fame.

Forse, per vincerla sul Christmas Blues basterebbero un po’ più di empatia, sincerità e attenzione al prossimo. La risata si sa è contagiosa e costa poco. Non lesinatela mai, soprattutto nelle tempo delle feste natalizie!

NATALE senza COMPITI: EPPURE lo STUDIO RIDUCE il RISCHIO di INFARTO e le MALATTIE NEUROLOGICHE

Vorrei tranquillizzare il ministro dell’Istruzione Bussetti informandolo che di studio è mai morto nessuno e anzi fa bene al cervello, rallenta l’Alzheimer e riduce le probabilità di avere un infarto cardiaco.

E’ di questi giorni la circolare ufficiale firmata da Bussetti e mandata ai docenti al fine di sensibilizzarli ad avere la mano leggera nell’assegnare i compiti, essendo le imminenti vacanze “giorni di festa da passare in famiglia e non sui libri”. Forse il ministro non sa che gli adolescenti italiani, secondo i dati Ocse non  vantano un livello di alfabetizzazione di primo piano se confrontato  con gli altri paesi del mondo. Mi astengo da giudizi personali e rispondo appellandomi alla scienza…

Le ricerche

La ricerca svolta dall’IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma ha dimostrato l’effetto positivo dello studio sull’integrità del cervello, sia dal punto di vista strutturale sia funzionale, in particolare dell’ippocampo, l’area del cervello che svolge un ruolo di primissimo piano nei processi di memoria a lungo  termine. L’indagine sperimentale, tutta italiana, si è guadagnata la copertina della rivista internazionale “Human Brain Mapping” che ha pubblicato i risultati del lavoro.

Da tempo le teorie sostengono che un individuo maggiormente scolarizzato e con un più alto livello di istruzione, quindi più impegnato mentalmente, è in grado di creare una sorta di riserva cognitiva che protegge il cervello dai danni causati dai processi legati all’invecchiamento, come accade nella malattia di Alzheimer.

In altri termini, l’allenamento allo studio e il livello culturale permetterebbero di accumulare un “patrimonio” mentale più ingente che poi viene eroso più lentamente dai fenomeni legati all’invecchiamento cerebrale fisiologico e patologico.

Studiare non fa bene solo alla mente, m anche al cuore: riduce infatti il rischio di infarto. A darci questa notizia i ricercatori di varie università europee, dalla Oxford al Centro Ricerche in Epidemiologia e Medicina Preventiva (Epimed) dell’Universita’ dell’Insubria, che ha coordinato lo studio: “Education and coronary heart disease: mendelian randomisation study” e pubblicato sul British Medical Journal.

Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno analizzato 162 varianti genetiche già collegate in passato con gli anni di studio e raccolte da 543.733 uomini e donne di origine europea.

I risultati

Dai dati raccolti è emerso che 3,6 anni aggiuntivi di scolarità causano il 33% in meno di eventi coronarici, insomma, le persone che studiano di più rischiano di meno di avere un infarto. Incrementare il numero di anni a studiare riduce il conseguente rischio di sviluppare malattie coronariche. Insomma, se la cultura non dovesse essere un sufficiente motivo per studiare, a stimolarci potrebbero essere i rischi per il nostro cuore.

Conclusioni

I ricercatori spiegano: “Il legame tra bassa educazione e incremento di rischio coronarico è noto da tempo, ma è sempre stato attribuito ad altri fattori, quali fumo, dieta ed attività fisica. I risultati devono stimolare il dialogo tra la comunità medico-scientifica, la classe politica e gli operatori di salute pubblica per pianificare strategie volte a incoraggiare i giovani a migliorare sempre il proprio livello di educazione. Infatti, interventi come la riduzione delle tasse scolastiche, o il contrasto dell’abbandono scolastico precoce, potrebbero diventare misure con riflessi positivi in termini di salute pubblica, con forte impatto sulla prevenzione delle malattie coronariche”.

Di studio dunque non solo si muore ma anzi se ne esce più forti. Forse qualcuno dovrebbe avvisare il Ministro dell’Istruzione…