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PERCHE’ PROVIAMO VERGOGNA?

“A volte è una sequenza, altre un’immagine, un fotogramma qualsiasi, un movimento spezzato, una smorfia (debolezza, forse vergogna), un gesto piccolissimo che non possiamo raccontare a nessuno (e non perché non vogliamo ma perché non sapremmo neanche come cominciare, e se pure ne fossimo capaci preferiremmo non farlo)”.

Rubo a Diego De Silva, l’incipit di Mancarsi, perché sebbene tutti la conoscano fin nelle viscere, fanno fatica a parlarne. A descriverla. Vogliono, vogliamo tutti solo che si dissolva presto ai ricordi. Sto parlando della vergogna: la nemica di tutti, l’amica di pochi, quei pochi che sanno scaltramente maneggiarla, sebbene sia un gioco a perdere. E’ solo questione di consapevolezza.

Mentre litigo con il tempo sul volo che da Madrid mi riporta a casa, non posso non interrogarmi sul perché è dell’uomo la prerogativa di provare vergogna… Un’onta? Una spina nel fianco? O semplicemente una perversa forma di protezione?

LA VERGOGNA: PROBLEMA OD OPPORTUNITA’?

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Montreal e del Santa Barbara’s Center for Evolutionary Psychology (CEP) ha provato a dare una risposta ponendo il problema in chiave antropologica: per quale motivo la natura ha dotato l’uomo di una sensazione così maldestra?

Per svelare l’arcano sono stati costretti ad andare alle origini, ai tempi in cui l’uomo iniziava ad organizzarsi in comunità. Quando non c’erano organi istituzionali o addetti a controllare l’operato dei membri di un gruppo. Ecco che si può così intuire il significato della vergogna: limitare le azioni che potrebbero avere ripercussioni negative sulla socialità. L’uomo antico non rubava il cibo agli altri membri della sua stessa comunità.

E il cervello è in grado di prevedere le possibili conseguenze di un’azione negli altri. Quando capisce che il vantaggio che potrebbe derivare dalla riuscita delle intenzioni non vale quanto le ripercussioni che avrebbe un loro eventuale fallimento ecco che la volontà di agire viene inibita dal senso di vergogna.

L’uomo è attento a ciò che gli altri pensano di lui. La vergogna, come il dolore e la paura, avrebbe perciò una funzione protettiva. La vergogna è in grado di farci evitare i comportamenti che potrebbero ledere la nostra reputazione, tant’è che tali condotte sono quasi sempre mal viste dalla società. Difficilmente si ha vergogna di qualcosa che si sa essere comunemente accettato.

“La teoria che stiamo valutando è che l’intensità del sentimento di vergogna che si prova quando si considera se compiere una determinata azione non è solo una sensazione o una motivazione; comporta anche informazioni fondamentali che ti portano a compiere scelte valutando non solo costi e benefici personali dell’azione stessa ma anche costi e benefici sociali”, hanno spiegato gli antropologi coinvolti nello studio (per saperne di più https://www.news.ucsb.edu/2018/019174/universality-shame).

La vergogna non è, secondo i ricercatori, un sentimento indipendente dalla cultura e dalle credenze di un popolo, ma intrinseco dell’essere umano. Per dimostrarlo sono state indagate 15 differenti comunità di quattro continenti, appartenenti a differenti religioni e culture. La ricerca ha dimostrato che qualsiasi sia il modo di vivere, in tutti gli uomini è radicata la capacità di provare vergogna.

Non c’è dunque una motivazione culturale ma il perché proviamo vergogna va ricercato nell’evoluzione del cervello umano come proprio di un animale sociale. Quando pensiamo che un’azione (giusta o sbagliata che sia) verrà vista dagli altri come negativa, allora ecco che si innesca il meccanismo di vergogna.

A questo punto, la prossima volta che proviamo vergogna, sappiamo il perchè!

UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DIO, UN PO’ MEFISTOFELE…

Un uomo, in un bar, ogni giorno. Seduto in un angolo, con gli occhi tristi e stanchi. Un uomo senza nome, senza casa e senza sonno.

Un’agenda e tante persone addolorate, piegate, sconsolate che lo cercano e lui è lì per aiutarle. Purchè portino a termine compiti spietati, malvagi, crudeli.

UN UOMO MISTERIOSO, UN PO’ DEUS EX MACHINA, UN PO’ MEFISTOFELE

L’uomo è seduto a quel tavolo, e attende. Attende che i suoi “clienti” gli chiedano aiuto, si riflettano nel suo volto che è anche uno specchio oltre che rappresentazione di uno spietato deus ex machina del gioco al massacro, in cui o si scende a patti con la propria coscienza, con se stessi, con gli altri o ci si ribella alla richiesta, percorrendo un’altra strada.

Il viso dell’uomo senza nome porta con sé tutto il dolore, la stanchezza del mondo e, nonostante questo, assegna compiti infliggendo terribili condanne. Dando forma alle paure, alle ansie, alle angosce e ai desideri di tutti coloro che vogliono migliorare la propria vita, uscire dalla crisi, dal buio, ritrovare la propria strada, e forse finalmente essere felici.

Si entra in un castello kafkiano scuro e oscuro, stando accanto a quell’uomo che dà possibilità di vite alternative, come farebbe Dio, o forse Mefistofele (“Come faccio a sapere che lei non è il diavolo?“), in realtà però tutto e profondamente umano.

Così si accomodano a quel tavolo, per la “partita a scacchi” della vita, un poliziotto in lotta con se stesso e con il figlio; una suora che non sente più la voce di Dio e la ricerca con immensa sofferenza; un giovane cieco che ha un solo desiderio, vedere di nuovo; un padre che vuole salvare il proprio bimbo dal cancro; un meccanico che sogna di passare la notte con la donna da calendario. Il deus pagano ascolta e mostra a ciascuno la strada per raggiungere la propria felicità – che vuol dire danneggiare quella degli altri – e emerge chiaramente una domanda: cosa si è disposti a fare per avere ciò che si desidera?

The Place è tutto questo e molto di più. Un film che chiede allo spettatore di essere o dentro o fuori: se si sceglie la prima via si partecipa, scendendo in un inferno in terra, alle vite di questi uomini e donne afflitti e segnati, di essere partecipe della cognizione del dolore.

Non mostra mai tutto, fa immaginare, mette nella condizione di cercare le risposte (Cosa avremmo fatto noi al posto loro?), eviscerare il dentro per portarlo fuori, lega i personaggi del film in maniera sadica, spaventosa e machiavellicaQuesti uomini e queste donne incredibilmente si incrociano in maniera crudele senza sapere però gli uni delle altre e il corso della vita dei primi in qualche modo condiziona quello delle seconde.

Violentare una donna, far scoppiare una bomba, insabbiare una denuncia di violenza; un Dio buono e giusto non chiederebbe mai nulla di tutto ciò, ma qui colui che offre la felicità è il più disgraziato di tutti, il più dannato, il più errato tra gli errati. Un “dio” fuori dagli schemi che forse dio non è, la cameriera Angela, pura luce, rispetto al buio di The Place, gli chiede se fa lo psicologo…

Ma lui non può tutto (“non ho tutto sotto controllo, le cose non dipendono da me”), non può indicare l’alternativa giusta, non tira i fili né scioglie i nodi di giorni imperfetti, l’uomo ha ideato il meccanismo ma poi a ciascuno dei questuanti spetta l’ultima parola. Non ci sono obblighi, c’è la possibilità di “rescissione del contratto”.

The Place è un film sul libero arbitrio, arma potente nelle mani dell’uomo, ciò che lo rende “l’essere” che è, è un film sull’affermazione di sé.

THE PLACE: IL RACCONTO DEL MALE NASCOSTO DENTRO DI NOI

Camminano paralleli e convivono, il bene e il male. Declinabili in tutte le loro sfumature, spietatezza e amorevolezza, amore e morte. Come in un girone dantesco lo spettatore si trova in mezzo alla sofferenza che il protagonista tocca con mano, assorbendone la portata devastante.

The Place non giudica, non sentenzia, strappa i panni di dosso e costringe a guardarsi dentro, racconta di chi deve anche commettere uno sbaglio per vivere meglio. Si tratta quindi, fino ad un certo punto, di vedere e parlare con il proprio lato oscuro.

Alla fine l’uomo senza nome è stremato, parlano i segni d’espressione, le occhiaie profonde, i gesti limitati dalla mancanza di movimento – c’è un’unità di luogo talmente radicata da provocare un senso di claustrofobia.

Crolla per umanità e a farlo cadere è Angela, nomen omen; l’unica a domandare, insistere, vuole sapere chi è lui, vuole farlo sorridere, lo guarda da lontano, lo osserva come si fa con i misteri e solo alla fine arriva al suo intento. Lei riesce a entrare nel suo mondo, è la (sua) coscienza che gli permette di vivere un attimo di pace, lo rende “debole” e così lui esce dal suo “personaggio”, si apre a qualcuno e si alza dalla sedia.

Tanto il senza nome è misterioso tanto lo è Angela, delicata e calma, sicura e potente, affascinante e disarmante; il Titano infatti timidamente sorride e metaforicamente se ne va (l’indomani mattina il bar è vuoto) lasciando dietro di sé un portacenere in cui c’è l’ennesimo, forse l’ultimo, foglio di carta (testimonianza dei compiti portati a termine) bruciato.

The Place è un film sul malvagio che c’è in ciascuno di noi ma è anche un film sulla speranza, nascosta dietro a un incontro semplice e banale. Questo è un quadro doloroso, nero, claustrofobico, è un urlo silenzioso, lunghissimo e straziante, è il racconto di un uomo che non è un mostro ma che dà da mangiare a molti mostri.

Ed è assolutamente da vedere…

MANGIARE in COMPAGNIA? fa INGRASSARE

Che differenza c’è fra un essere umano e un pollo?

Nessuna, dice la scienza. Almeno in fatto di cibo.

Un pollo che ha già mangiato quanto basta per saziarsi, ricomincia a mangiare se nella gabbia a fianco viene messo un pollo affamato.

Una persona parca nell’alimentazione, mangia molto di più se si trova in un gruppo di buone forchette.

Chi pranza con un altro commensale assume il 35% di cibo in più rispetto a quando è da solo. Quattro persone allo stesso tavolo mangiano il 75% in più; se le persone sono più di sette la percentuale sale a 96%. Allo stesso modo una persona che ama il cibo, tenderà alla moderazione in un gruppo che mangia poco: il comportamento medio del gruppo esercita una notevole influenza.

Questa informazione la conoscono molto bene i pubblicitari che con il loro sottolineare continuamente di un dato prodotto “è il preferito dalla maggioranza” o “sempre più persone” lo consumano… ci spingono a comprare ciò che fa la maggioranza.

Subiamo quindi, come i polli, l’influenza non voluta di altre persone e abbiamo la tendenza a essere condizionati dalle abitudini alimentari di chi ci sta vicino durante i pasti, quali che siano le loro intenzioni.

Le donne nello specifico a un appuntamento galante tendono a mangiare meno, gli uomini di più, convinti che il sesso femminile sia favorevolmente impressionato.

Secondo un recente studio condotto, se si vuole portare avanti una dieta è meglio non accettare inviti a pranzo o a cena a casa di familiari o amici, men che meno al ristorante. E la motivazione è semplice: la possibilità di trasformare i buoni propositi in un fallimento e di abbandonare la dieta definitivamente sono del 60%. Lo studio è stato condotto per 12 mesi su 150 persone, tutte messe a regime dietetico per perdere peso. Il risultato è stato netto: il rischio di “sgarrare” era più elevato se non si mangiava da soli. Ma non è solamente la convivialità a rovinarci la linea: assumere cibo al lavoro è più “pericoloso” che mangiare a casa, perché è davvero difficile resistere al dolcetto portato dal collega per festeggiare un compleanno, una promozione o una maternità. E le possibilità di dire addio alla dieta salgono al 40%.

Dove mangiare, allora? L’automobile è il posto migliore: lì non ci sono tentazioni, e poi la scomodità fa ridurre il tempo dedicato al pasto. In questo caso la possibilità di rinunciare al regime ipocalorico è solo del 30%. Quindi se volete perdere peso, andate a pranzo con un’amica che vanta il peso forma (ma senza divorare di nascosto i suoi avanzi).

L’Italia è viva o morta?

Dopo le mirabolanti dichiarazioni politiche di queste ultime settimane, fra chi ha annunciato di aver estirpato la povertà per la prima volta nella storia, azzerato il numero delle vittime della strada e dopo le fibrillanti reazioni dei mercati e dello spread, ci sarebbe da chiedersi, come direbbe Schrodinger con il suo paradosso, l’Italia il gatto dalle mille vite è viva o morta?

Il povero felino chiuso nella scatola politica di metallo insieme con la sostanza radioattiva dei conflitti di interesse e il gas velenoso dell’ego, della speculazione politica, vivrà o morirà?

Per uscire dal drammatico dilemma è inevitabile ricorrere al famoso esperimento proposto nel 1935 dal fisico austriaco, nonchè premio Nobel, Erwin Schrödinger.

IL PARADOSSO DI SCHRODINGER

La condizione sperimentale (e immaginaria) è semplice da descrivere. Supponiamo di avere un gatto chiuso in una scatola dove un meccanismo (col quale il gatto non può interferire) può fare o non fare da grilletto all’emissione di un gas velenoso. Per entrambe le situazioni la probabilità è esattamente del 50%.

Secondo Schrödinger, visto che è impossibile sapere, prima di aprire la scatola, se il gas sia stato rilasciato o meno, fintanto che la scatola rimane chiusa il gatto si trova in uno stato indeterminato: sia vivo sia morto.

Solo aprendo la scatola questa ambivalenza si risolverà, in un modo o nell’altro. In parole semplici: è l’osservazione che determina il risultato della osservazione stessa. E’ l’osservatore che decide.

L’OSSERVATORE DECIDE ANCHE NEI SOCIAL

Un po’ come avviene nei social, dove si espone tutto e il contrario di tutto, dove molti commentano senza leggere e dove arriva sempre qualcuno che non ha letto bene le premesse iniziali, ma si sente autorizzato a commentare con furore sulla presunta crudeltà verso il felino, convinto che il povero gatto sia stato messo veramente in una scatola.

Un po’ come avviene nelle stanze politiche del potere. Si fa e si disfa, nella piena contraddizione. L’unica cosa certa è rimanere lì dove si è, più che si può. Basta non aprire la scatola. In fondo, ben pochi vogliono sapere la verità (scientifica).

QUANTO siamo DISPOSTI a RISCHIARE?

C’era una volta a Venezia un mercante che guadagnava con il commercio marittimo.

Per prudenza, non impiegava mai tutte le sue imbarcazioni sulla stessa rotta, dirigendole invece verso quattro diverse destinazioni. Così facendo riduceva i rischi: la possibilità che le navi venissero colpite tutte simultaneamente da un evento avverso (pirati, tempeste, malattie, etc), perdendo il carico o finendo distrutte, si abbassava drasticamente.

Per essere precisi, ogni imbarcazione aveva 1 probabilità su 4 di non tornare dal viaggio; la probabilità che il mercante perdesse tutto e finisse nei guai con il banchiere che lo aveva finanziato, scendeva a 1 su 256.

Scomodando Shakespeare abbiamo introdotto il concetto di avversione e propensione al rischio: atteggiamento che cambia a seconda dei contesti e della persona. Si può infatti essere propensi a rischiare alla guida di un’auto, ma prudenti in Borsa, praticare sport estremi ma non apprezzare l’incertezza sentimentale, recarsi al casinò con frequenza ma sottoporsi meticolosamente a check up medici. La non propensione al rischio del mercante è ora di più facile comprensione.
Quale atteggiamento assumiamo di fronte al rischio? Dipende da molti fattori e la disciplina che se ne occupa è chiamata finanza comportamentale (branca degli studi economici che indaga i comportamenti dei mercati finanziari), fondata dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman e dal collega Amos Tversky.

In altre parole la perdita di una somma, qualunque essa sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, molto più della vincita di quella stessa somma.

Precisamente, il rapporto di avversione alla perdita oscilla tra 2,25 e 2,5: a fronte di una perdita di 100 euro, occorrerà guadagnare fra 225 e 250 euro perché il nostro cervello ritrovi serenità.

Traduciamo il tutto in un esempio. Immagina di essere convocato nell’ufficio del capo e di venir informato che avrai un aumento di 500 euro. Quanto valuteresti l’impatto psicologico positivo della notizia, su una scala da 1 a 10? Ora immagina che ti si comunichi non un aumento, ma una riduzione dello stipendio di 500 euro. Per la maggior parte delle persone l’impatto psicologico negativo di una notizia del genere, è maggiore rispetto a quello positivo collegato all’aumento.

Non tutti infatti sono avversi e propensi alle perdite nello stesso modo. Per esempio, coloro che per professione si assumono rischi nei mercati finanziari tollerano meglio le perdite: quando ai partecipanti a un esperimento venne detto di “pensare come trader”, essi diventarono meno avversi e la loro reazione emozionale alle perdite si ridusse sensibilmente.

Probabilmente, a questo punto dell’articolo, ti starai domandando qual è il tuo atteggiamento predominante fra avversione e propensione al rischio. Ti sottopongo alcuni quesiti proposti dallo stesso Kahneman nel suo famoso libro Pensieri lenti e veloci.

Concentrati solo sull’influenza soggettiva della possibile perdita o sul guadagno che ne deriva e rispondi sinceramente:
1) Considera un’opzione di rischio al 50-50 in cui perdi 10 euro. A partire da quale guadagno l’opzione ti sembra allettante?
2) Cosa pensi dell’eventualità di perdere 500 euro con il lancio di una moneta? Quale guadagno la compenserebbe?
3) E una perdita di 2.000 Euro?
Facendo questo esercizio avrai notato che il tuo coefficiente di avversione alla perdita tende ad aumentare, anche se non in misura enorme, a mano a mano che aumenta la posta in gioco. Nessuna scommessa sarebbe allettante se la potenziale perdita fosse rovinosa. In tali casi il coefficiente di avversione alla perdita è molto elevato: vi sono rischi che non accetteresti mai, indipendentemente da quanti milioni potresti vincere se fossi fortunato. O non è cosi?

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista di geopolitica e risk management Riskio Zero: http://www.riskiozero.com

Sai ROMPERE LE RIGHE e USCIRE dai RANGHI?

“13 luglio 1942. Nelle prime ore del mattino i riservisti di polizia del Battaglione 101 (ndr: il battaglione dei riservisti della polizia tedesca che parteciparono allo sterminio degli ebrei in Polonia nel 1941) furono svegliati dalle loro cuccette nella città polacca di Bilgoraj. Erano padri di famiglia di mezza età del ceto medio e medio-basso, provenienti da Amburgo. Considerati troppo vecchi per essere utilizzati nell’esercito tedesco, erano stati arruolati nella polizia.

Cominciava a fare chiaro quando il convoglio si fermò alle porte di Józefów, un tipico villaggio polacco. Tra i suoi abitanti si contavano 1800 ebrei. Gli uomini del Battaglione 101 saltarono giù dai camion e si radunarono intorno al loro comandante, il maggiore Wilhelm Trapp, un poliziotto di carriera di 53 anni. Era giunto il momento di spiegare l’incarico affidato al battaglione. Trapp appariva pallido e nervoso, parlava con voce soffocata e le lacrime agli occhi, e lottava palesemente con se stesso per dominarsi.

Il battaglione aveva ricevuto l’ordine di rastrellare gli ebrei. I maschi abili al lavoro dovevano essere separati dagli altri e portati in un campo apposito. Gli ebrei restanti – donne, bambini e vecchi – dovevano essere fucilati sul posto. Dopo aver spiegato che cosa li aspettava, Trapp fece agli uomini un’insolita proposta: se qualcuno fra i poliziotti più anziani non si sentiva all’altezza del compito affidatogli, poteva fare un passo avanti”.

Su 500 persone che componevano il battaglione solo una dozzina fece un passo avanti, deponendo i fucili e mettendosi a disposizione per un altro incarico. Come mai solo 12 persone su 500 fecero un passo avanti?

La particolarità del caso del Battaglione 101 (vale a dire la possibilità di scegliere) ha stimolato molte riflessioni da parte di studiosi e ricercatori.

L’ipotesi più accreditata è quella dello storico americano Browning (autore di: Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia; suo lo stralcio in incipit): “Uscire dai ranghi e fare un passo avanti, cioè adottare apertamente un comportamento non conformista, era al di là della portata di molti uomini. Per loro era più facile uccidere. Perchè? Fare un passo avanti significava lasciare il «lavoro sporco» ai compagni”.

La maggior parte degli esseri umani non riesce a sottrarsi al conformismo del gruppo cui appartiene, anche se questo lo porta a commettere degli atti mostruosi. Quando il singolo individuo percepisce una certa opinione nella maggioranza del gruppo al quale in quel momento appartiene, si conforma ad essa rinunciando alla propria responsabilità. Questa conclusione naturalmente è valida anche per circostanze meno drammatiche: molti tendono ad accettare, senza effettuare verifiche, informazioni di nessun valore o addirittura palesemente contraddittorie, se percepiscono che la maggioranza le condivide.

Nella comunicazione di massa, l’oscuramento delle opinioni minoritarie è stato evidenziato dalla psicologa Noelle-Neumann con la teoria della spirale del silenzio: le persone hanno sempre un’opinione su quale sia la tendenza della maggioranza in merito a uno specifico tema e, dato che subiscono la paura dell’isolamento, nel caso in cui si trovino ad avere un’opinione difforme da quella della maggioranza preferiscono tacere la propria opinione. Poche persone sono abbastanza forti e libere da sostenere il peso psicologico di percepirsi isolati nel loro contesto sociale.

Il sociologo Gigerenzer riassume l’euristica del conformismo sociale, nella formula “non rompere le righe”.

A prescindere alla definizione che viene data, la prossima volta che vi trovate a decidere, esprimetevi liberamente e ricordate il detto: “meglio soli che male accompagnati”!

METTETE FIORI nei VOSTRI CANNONI… NUDGE in TEMPI non SOSPETTI.

Un mattino gli automobilisti di Bogotà (Colombia) trovarono ai semafori gruppi di clown che piangevano se non ci si fermava con il rosso e che danzavano, offrendo fiori, se si rispettavano le regole.

Ecco uno fra gli esperimenti più noti e riusciti dell’applicazione della politica del cambiamento sociale (un nudge nel vero senso della parola), il cui scopo era prendere apertamente in giro gli automobilisti indisciplinati, rappresentando sul palcoscenico reale della strada cosa volesse dire osservare le regole.

Un esempio che fa riflettere sull’intero sistema normativo, anche italiano: il codice stradale è fondato sull’idea dell’evitare la pena. Ma scappare da una punizione è un’azione di breve respiro, che non porta a modificare i propri comportamenti nel lungo termine. Cosa accadrebbe se, invece di essere puniti per aver infranto delle norme, venissimo premiati per la buona condotta?. Saremmo indotti a proseguire il comportamento virtuoso.

L’idea, spetta all’eclettico filosofo e pedagogo Antanas Mockus, già sindaco di Bogotà, che applicò con successo le teorie sociali nella gestione urbana, in una metropoli di 6 milioni e mezzo di abitanti, piagata da criminalità, traffico e inquinamento. L’azione di mandare dei clown a dirigere il traffico, per i suoi buoni risultati, venne replicata anni dopo, nel 2011, da Carlos Ocariz, capo della Municipalità di Sucre, una delle aree più povere di Caracas (Venezuela).

Applicare le teorie sociali, significa applicare le scienze del comportamento, che hanno portato dapprima allo sviluppo della Behavioral Economics (economia comportamentale) e poi alla nascita dei Nudge team, o Behavioral insight team ossia gruppi di esperti in supporto all’operato governativo e/o privato.

I Nudge team hanno il compito di esplorare, misurare, raccogliere dati, valutare e applicando il metodo scientifico, facilitare, ovvero spingere, indirizzare gentilmente le decisioni delle persone verso opzioni di scelta più in linea con i loro valori, tutelando al contempo la loro libertà di scelta.

La spinta gentile (nudge) può essere applicata in infiniti ambiti: dalla alimentazione alla gestione del traffico, dalla lotta alla evasione fiscale all’aumento della percentuale degli elettori che si recano alle urne, fino ad un più consapevole rapporto con l’ambiente.

Un esempio di politiche di nudging che hanno realmente portato a miglioramenti dei comportamenti sociali è quello spiegato nel sito del governo statunitense (https://www.choosemyplate.gov/) dedicato all’alimentazione, per il quale Cass Sunstein ha realizzato l’immagine di un piatto contenente le giuste percentuali di nutrienti da assimilare durante il giorno. Il passaggio dalla piramide alimentare al piatto ha semplificato l’accesso degli utenti al sito e la comprensione delle informazioni veicolate.

Altri efficaci esempi di Nudge nei prossimi articoli. Nudge: make it easy

IL PIACERE DELLA PAURA

“L’ultimo uomo rimasto sulla Terra siede da solo in una stanza. Qualcuno bussa alla porta”.

Spaventati ? 
o
Divertiti ?

La paura è una emozione interessante e non del tutto spiacevole. Ricordate il gelido brivido lungo la schiena durante la visione di un film dell’orrore o la lettura di un incipit come quello che proposto qui, in apertura (erroneamente attribuito a Stephen King, anzichè a Fredric Brown): un brillante esempio di come usare la suspense nello spazio di un respiro.

Quel brivido è paura e l’essere umano adora essere spaventato.

Per quanto appaia illogico, c’è la biologia alla base della attrazione verso la paura. La paura stimola la secrezione di adrenalina, scatenando il riflesso primordiale del “combatti o fuggi”. Riflesso che a sua volta produce epinefrina, un altro ormone, responsabile della sensazione di piacere estremo.

Il sangue affluisce ad arti e muscoli, privandone il cervello e rendendoci incapaci di pensare lucidamente: la paura è un persuasore molto efficace. Un esempio? L’abuso di psicofarmaci, medicine, detergenti antibatterici e via dicendo. Spesso l’acquisto del prodotto (antidoto) è per il nostro cervello l’unico e veloce modo di liberarsi di quell’emozione.

Pensiamo a ciò che ci spaventa: perdere il lavoro, non riuscire a pagare il mutuo, essere lasciati, la solitudine, non avere amici, non essere all’altezza, ammalarci di cancro, guidare, volare, l’effetto serra, il buio, il virus della mucca pazza, ingrassare, perdere i capelli, il mercurio nel pesce, gli ormoni nella carne, il terremoto, non essere al sicuro, che i nostri figli vengano rapiti, non essere alla moda, non essere sufficientemente intelligenti, essere noiosi, venir dimenticati e chi più ne ha più ne metta…

Molti brand sfruttano (generando e amplificando) queste ed altre innumerevoli paure, quelle che gli antropologi chiamano “paure panoramiche”, spingendoci a comprare ogni sorta di “antidoti”. Avete presente il gel igienizzante per le mani (i cui slogan assicurano di proteggerci dal contagio di qualsiasi germe)?

La spinta all’acquisto l’hanno data la paura di contrarre la SARS (la sindrome respiratoria acuta grave) e l’influenza suina (causata dal virus H1N1), eppure i gel antibatterici non prevengono nè la suina nè la SARS. Entrambi i virus infatti si propagano per via orale (tramite starnuti e tosse delle persone già infette), nonostante questo l’idea di un contagio invisibile e potenzialmente mortale ha scatenato una vera e propria mania per gli antibatterici…

Ben venga dunque la paura e anche se da un lato è utile perchè ci coalizza contro un nemico comune, non dimentichiamo che è allo stesso tempo capace di creare legami in modo perverso quanto piacevole (l’acquisto libera, ricordate, l’ormone della gratificazione…).

Buon spavento a tutti

SAPER DECIDERE può AIUTARE a SALVARE molte VITE

Vi racconterò una storia. Una storia che parla di uomini e di macchine. E di come un ingegnere salvò il mondo da una apocalisse nucleare, facendo una scelta che nessuna macchina è ancora stata programmata a compiere: lasciar decidere il cuore.

Correva l’anno 1983, si era in piena guerra fredda, e un uomo di cui la maggior parte del mondo non aveva mai sentito parlare, sarebbe diventato il più grande eroe di tutti i tempi.

Era notte il 25 settembre, quando un colonnello di 44 anni della sezione spionaggio militare dei servizi segreti dell’Unione Sovietica giunse al proprio posto di comando al Centro di allerta precoce, da dove coordinava la difesa aerospaziale russa.

Suo compito era analizzare e verificare tutti i dati provenienti da un satellite, in vista di un possibile attacco nucleare americano. Per far ciò, aveva a disposizione un protocollo semplice e chiaro. Tanto più chiaro e semplice in quanto redatto da lui stesso. Dopo appropriati controlli, se positivi, suo compito era allertare il superiore, che avrebbe immediatamente dato inizio ad un massiccio contrattacco nucleare su Stati Uniti e alleati.

Poco dopo mezzanotte, alle 12.14 del 26 settembre del ‘83, tutti i sistemi di allarme scattarono e sugli schermi comparve: “attacco imminente di missile nucleare“.

Un missile era stato lanciato da una delle basi degli Stati Uniti.

L’ufficiale verificò i dati, richiedendo conferma dalla veduta aerea, l’unica che il satellite non aveva potuto confermare a causa delle condizioni atmosferiche. Nonostante le conferme, concluse che doveva essersi verificato un errore: non era logico che gli USA lanciassero un solo missile se davvero stavano attaccando l’Unione Sovietica.
Così ignorò l’avviso, considerandolo un falso allarme.
Poco dopo, però, il sistema mostrò un secondo missile. E poi un terzo.
Dal secondo piano del bunker poteva vedere, nella sala operativa, la grande mappa elettronica degli Stati Uniti con la spia lampeggiante indicante la base militare sulla costa est, da cui erano stati lanciati i missili nucleari.
In quel momento, il sistema indicò un altro attacco. Un quarto missile nucleare e immediatamente un quinto.
In meno di 5 minuti, 5 missili nucleari erano stati lanciati da basi americane contro l’URSS. Il tempo di volo di un missile balistico intercontinentale dagli Stati Uniti era: 20 minuti.

Dopo aver rilevato l’obiettivo, il sistema di allarme doveva passare attraverso 29 livelli di sicurezza per conferma; l’ufficiale cominciava ad avere forti dubbi man mano che venivano superati i vari livelli di sicurezza.
Sapeva che il sistema poteva avere qualche malfunzionamento. Ma poteva l’intero sistema essere in errore, 5 volte?
Il principio di base della strategia della guerra fredda sarebbe stato un massiccio lancio di armi nucleari, una forza travolgente e contemporanea di centinaia di missili, non 5 missili uno a uno. Doveva esserci un errore.
E se invece non fosse così? Se fosse una astuta strategia americana? L’olocausto tanto temuto stava per succedere e lui non faceva niente?

Aveva cinque missili nucleari balistici intercontinentali in viaggio verso l’URSS e solo 10 minuti per prendere la decisione se informare i leader sovietici… Essendo pienamente consapevole che se avesse segnalato ciò che tutti i sistemi stavano confermando, avrebbe scatenato la terza guerra mondiale.

I 120 tra ufficiali e ingegneri militari, aspettavano la sua decisione.
Mai prima nella storia, né dopo, sarebbe stato il destino del mondo nelle mani di un solo uomo come lo fu in quei 10 minuti. Il futuro del mondo dipendeva dalla sua decisione, mentre lottava con sé stesso se premere o meno il “bottone rosso”.
Riflettè: gli americani non sono ancora in possesso di un sistema di difesa missilistico e sanno che un attacco nucleare all’URSS equivale all’annientamento immediato del proprio popolo. E benché diffidi di loro, sa che non sono suicidi.”
Sapendo che se si fosse sbagliato, un’esplosione 250 volte maggiore rispetto a quella di Hiroshima si sarebbe scatenata su di loro su di loro entro pochi minuti, riuscì a mantenere il sangue freddo, e ad avere il coraggio di ascoltare il proprio istinto e di conformarsi alla conclusione logica suggerita dal buonsenso.
E decise di segnalare un malfunzionamento del sistema.
Paralizzati, i 120 uomini al suo comando contarono i minuti che mancavano perché i missili raggiungessero Mosca.
Quando, a pochi secondi dalla fine, le sirene smisero di suonare e le spie di allarme si spensero.

Aveva preso la decisione giusta. E salvato il mondo.

Questo uomo, il tenente colonnello “Stanislaw Petrof” si è trovato di fronte a una scelta. Quella di escludere la razionalità di una macchina a fronte dell’stinto proprio di un essere umano. E ha avuto ragione.

Epilogo
Non fu un epilogo felice quello del tenente colonnello Petrof.
La Russia non potendo permettere che gli Stati Uniti e il popolo russo venissero a conoscenza di quanto successo, ammonirono l’ufficiale per non aver essersi conformato al protocollo e lo trasferirono ad una posizione di gerarchia minore. Poco dopo fu mandato in pensionamento anticipato.
Ha vissuto il resto della sua vita in un modestissimo bilocale alla periferia di Mosca, sopravvivendo con una misera pensione di 200 dollari al mese, in assoluta solitudine e anonimato.
Fino a quando, nel 1998, il suo comandante in capo, Yury Votintsev, presente quella sera, ha rivelato l’accaduto, il cosiddetto “incidente dell’equinozio d’autunno” causato da una rarissima congiunzione astronomica, in un libro di memorie che accidentalmente arrivò fino a Douglas Mattern, Presidente dell’organizzazione internazionale per la pace, “Associazione di cittadini del mondo”.
Dopo aver verificato la veridicità della storia, è andato di persona in cerca di questo eroe sconosciuto, per consegnargli il “Premio Cittadino del Mondo”.
L’unico indizio su dove trovarlo l’aveva avuto da un giornalista russo, che lo aveva avvertito che avrebbe dovuto andare senza un appuntamento perché né il telefono né il campanello funzionavano.
Trovarne traccia in una fila enorme di grigi complessi condominiali a 50 chilometri da Mosca non fu facile.
Uno degli abitanti a cui chiese informazioni rispose: “Lei deve essere pazzo. Se esistesse davvero un uomo che ha ignorato un avviso di attacco nucleare degli Stati Uniti, sarebbe stato giustiziato. A quel tempo non esisteva una cosa come un falso allarme in Unione Sovietica. Il sistema non sbagliava mai. Solo il popolo”.

Al secondo piano di uno degli edifici, riuscì a rintracciare l’ufficiale, che si affacciò, la barba lunga e trasandato. Dopo aver raccontato la storia, quest’uomo vi direbbe: “Non mi considero un eroe; solo un ufficiale che ha compiuto il proprio dovere secondo coscienza in un momento di grande pericolo per l’umanità “. “Ero solo la persona giusta, nel luogo e nel momento giusto.”
Dopo essere venuti a conoscenza di questo evento, esperti di Stati Uniti e Russia hanno calcolato quale sarebbe stata la portata della devastazione in base all’arsenale a loro disposizione al tempo.
E sono arrivati ad un’agghiacciante conclusione: dai tre ai quattro miliardi di persone, direttamente e indirettamente, sono stati salvati dalla decisione presa da quest’uomo quella notte.
“La faccia della terra sarebbe stata sfigurata e il mondo che conosciamo, finito”, ha detto uno degli esperti.

Per questo motivo, in questo periodo storico della decisione basata sul buon senso che ha salvato il mondo, essere consapevoli di come scegliamo, può fare la differenza.