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FARE le COSE da SOLI (NON) è da SFIGATI. Vi dico perché!

C’è chi preferisce fare le cose da solo. Andare al ristorante, al cinema, viaggiare, fare sport. E c’è chi, da solo, non pranzerebbe nemmeno alla mensa aziendale.

Io appartengo al primo gruppo. Forse, un tempo, sarei stata meno netta ma, ad esempio, rinunciare a una mostra perché il gruppo di amici non è interessato, è un’opzione che difficilmente prendo in considerazione.

Soddisfare la mia curiosità, insomma, ha la meglio sulla condivisione di esperienze.

Al riguardo, mi sono interrogata spesso e non meno recentemente quando, per una serie di circostanze, mi sono trovata a scegliere fra un viaggio in un luogo che già conoscevo con amici poco propensi all’avventura e un fly & drive verso mete poco battute. La decisione è stata semplice e automatica. Ciò che però mi ha stupito è la riluttanza (e la paura) che ho trovato, in molti, a fare le cose da soli. “Piuttosto, rinuncio. E’ deprimente e davvero poco divertente fare le cose da soli”. In una parola da sfigati.

Ma è realmente così?

COSA DICE LA SCIENZA

Uno studio, ha cercato di scoprirlo. A un gruppo di persone, invitate a visitare una galleria d’arte, da sole o in compagnia, è stato chiesto quanto pensassero si sarebbero divertite. Ciò che è emerso è che, prima dell’esperienza, le persone che avrebbero visitato la galleria da sole, si aspettavano di divertirsi poco. Molto se in compagnia.

Al termine della visita, è stato loro chiesto un feedback, scoprendo che si erano divertite tanto sia da sole sia quando erano accompagnate.

Non sempre c’è un amico che può affiancarci, e questo porta molte persone a perdere esperienze piacevoli per la paura di farle da soli.

Eppure, ulteriori ricerche hanno dimostrato che chi svolge una attività in solitaria è spesso percepito positivamente, più di chi svolge la stessa attività con un compagno. Poiché chi svolge un’attività da solo, è chiaro che fa ciò che fa per piacere e interesse, chi lo fa con altri potrebbe fare ciò che fa solo per trascorrere del tempo con gli amici.

Di conseguenza, scopriamo che le persone pensano che chi fa volontariato in una mensa per i poveri da solo, sia più altruista di chi fa volontariato alla stessa mensa con amici.

In un altro esperimento (un’attività pubblicizzata sui social di un pomeriggio rilassante a fare dolci al cioccolato, seguito dalle parole “da solo” o “con gli amici“, insieme a una foto accattivante dei cioccolatini), è emerso che le persone pensavano che a imparare a fare il dolce fosse più interessato chi aveva svolto l’attività in solitaria, rispetto a chi avrebbe partecipato con gli amici.

LA PAURA DI ESSERE PERCEPITI SOLI

In un secondo documento di lavoro, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti a uno studio quanto fossero propensi ad avviare una conversazione con qualcuno che era da solo o con un amico.

Hanno riferito di essere più propensi ad avviare una conversazione con chi è solo, perché credevano che la persona sarebbe stata più aperta. Parlare con persone nuove può dare nuove prospettive e la ricerca mostra che parlare con estranei può essere ancora più piacevole che parlare con qualcuno che già si conosce bene.

Ovviamente c’è una predisposizione individuale e non sarebbe funzionale snaturarsi. Ciò che però non ci fa bene è rinunciare a delle esperienze ed attività, se in quel contesto e in quel momento, non abbiamo nessuno con cui farle.

A 22 anni, 30 anni fa, ho visitato la Giordania in solitaria. Al tempo nessuno dei miei amici si sarebbe avventurato in quella terra ancora così poco turistica e di cui si parlava molto poco, così poco trendy, ma è una delle esperienze più belle della mia vita. Mi ha regalato un grande senso di libertà e la convinzione che si può stare bene anche da soli, in certi momenti della vita. E che fare le cose da soli può regalare emozioni diversamente possibili in gruppo.

E voi, qual è la vostra esperienza in solitaria? Cosa vi ha regalato? La rifareste?

Ulteriori letture e risorse

  • Ratner R.K., Hamilton R.W. (2015). Inhibited from bowling alone. Journal of Consumer Research, 42(2), 266-283. (Link)
  • Epley N., Schroeder J. (2014). Mistakenly seeking solitude. Journal of Experimental Psychology: General, 143(5), 1980-1999. (Link)
  • Dunn E.W., Biesanz J.C., Human L.J., Finn S. (2007). Misunderstanding the affective consequences of everyday social interactions: The hidden benefits of putting one’s best face forward. Journal of Personality and Social Psychology, 92(6), 990-1005. (Link)

U 731: l’UOMO ANNIENTA se STESSO

U 731. E’ il comparto dell’esercito giapponese nel quale, durante la II guerra sino-giapponese e la II Guerra Mondiale, si consumarono terrificanti atrocità nel nome di un folle progetto: trovare l’arma finale (chimica e batteriologica) che garantisse la supremazia definitiva del Giappone sul mondo.

Mente di tutto questo: Shiro Ishii (famoso per aver debellato, con uno speciale filtro per l’acqua, un’epidemia di meningite). Ishii si convinse di poter dare una mano al proprio paese con le ricerche su un nuovo tipo di guerra: quella batteriologica. Scienza, medicina, biologia e tecnologia combinate insieme potevano permettere al Giappone di vincere il conflitto, pur non potendo competere in armamenti, produttività e risorse con nazioni come Stati Uniti o Unione Sovietica.

Nacque così l’Unità 731. Nei campi di prigionia giapponesi, il repertorio di Ishii prevedeva: vivisezione senza anestesia, congelamento e amputazione degli arti. Alle vittime venivano ricucite gambe e braccia amputate, su altre parti del corpo per testare la resistenza dei soggetti a ustioni, elettroshock e gelo fino alla morte.

Alcuni prigionieri furono esposti a temperature di -20°C, fin quando le loro braccia congelate, colpite da un bastoncino, non emettevano un rumore simile a quello di una tavola in legno. Dopodiché venivano prima immerse nell’acqua bollente e dopo la loro pelle veniva strappata come carta.

Altri raccontano di un esperimento di inoculazione del virus della peste su 12 cavie; solo una persona sopravvisse per 19 giorni, per poi venire vivisezionata.

Per testare le armi spesso venivano posizionati a diverse distanze da una granata, che poi veniva fatta esplodere. Anche i bambini non venivano risparmiati. Per lo sviluppo di nuove armi biologiche venivano usati come cavie i cinesi. Gli aerei a bassa quota bombardavano città e villaggi nemici con pulci infettate con la peste.

Il problema, in quel caso, fu che le pulci infettarono anche le stesse truppe giapponesi, provocando la morte di 1.700 soldati perciò, dopo il primo tentativo, l’esperimento fu interrotto.

Le vittime degli esperimenti con armi batteriologiche fatti in Cina si stima siano state più di 200 mila. D’altronde Mao diceva: la bomba atomica non mi spaventa. Di cinesi ne ho talmente tanti.

Perché avrebbe dovuto avere paura della guerra batteriologica?

A Ishii, graziato per aver condiviso informazioni sulle sue ricerche con i vincitori della guerra, fu consentito di continuare le ricerche fino al 1959, quando morì per cause naturali a 67 anni. Le sue ricerche hanno reso il Giappone leader mondiale nella guerra batteriologica. Un triste primato.

COME SMASCHERARE UN BUGIARDO

Quali strategie usi per capire se ti stanno mentendo, soprattutto sul luogo di lavoro, ma non solo?

Partiamo dall’evidenza che la maggior parte delle persone mente nelle negoziazioni e nelle trattative commerciali, e tutti credono di essere stati vittima di bugiardi sul lavoro, come dimostra lo studio Evidence for the Pinocchio Effect: Differenze linguistiche tra bugie, Inganno da omissioni e verità, condotto dal docente di economia aziendale alla Harvard Business School, Deepak Malhotra.

Viene da sè che essere in grado di difenderci e quindi di rilevare e scoraggiare il comportamento non etico di collaboratori, fornitori e colleghi può darci un vantaggio competitivo non trascurabile e decidere se stare al gioco o ribaltare la partita a seconda dei nostri obiettivi.

EFFETTO PINOCCHIO

Questa umana predisposizione alla bugia prende il nome di Effetto Pinocchio, ed è facile capirne il perché. Ecco alcuni indizi utili per riconoscere e anticipare comportamenti di inganno e disonestà e renderci la vita meno complicata.

  • I bugiardi tendono a usare più parole rispetto la media, presumibilmente nel tentativo di conquistare con l’eloquio la controparte. Proprio come il naso di Pinocchio, il numero di parole cresce insieme alla bugia.
  • I bugiardi tendono a dire più parolacce soprattutto quando si trovano in situazioni di difficoltà. Mentire richiede un surplus di energia cognitiva e usare il cervello per dire bugie può rendere difficoltoso il monitoraggio del linguaggio.
  • Le persone che raccontano bugie per omissione, tralasciando informazioni pertinenti piuttosto che mentire apertamente, tendono invece a usare meno parole e frasi più brevi.
  • I bugiardi usano più pronomi in terza persona (lui, lei, esso, uno, loro, piuttosto che “io”). Questo è un modo per distanziarsi ed evitare la proprietà della menzogna.
  • I bugiardi parlano usando frasi più complesse di chi omette o racconta la verità.
  • Il silenzio suscita più sospetti delle false menzogne. In termini di successo all’inganno, è più efficace mentire apertamente. È una strategia machiavellica, ma, fidatevi, ha più successo.
  • I bugiardi vengono scoperti più spesso quando mentono per iscritto che vis à vis. In uno scambio di e-mail, il lettore ha la possibilità di ripassare le informazioni più di una volta e al proprio ritmo – e ci sono meno distrazioni rispetto all’ascolto di una persona dal vivo.

Ma non finisce qui.

QUANDO MENTI IL NASO SI ACCORCIA…

Ulteriori studi hanno dimostrato che quando si mente, il naso si scalda. Usando termocamere, gli psichiatri dell’Università di Granada in Spagna sono stati in grado di rilevare un aumento delle temperature nei nasi e nelle regioni intorno agli occhi delle persone che dicevano bugie.

L’ “effetto Pinocchio” rivelerebbe una metamorfosi del viso e del naso mentre un soggetto mente, ma invece di allungarsi come nella celebre favola popolare di Collodi, il naso si accorcerebbe.

Grazie all’utilizzo di una strumentazione per misurare la temperatura corporea, i ricercatori hanno chiesto a 60 studenti di svolgere varie attività mentre venivano sottoposti a scansione tramite imaging termico, e si è osservato che, ogni qualvolta che un individuo mentiva, la temperatura della fronte aumentava di 1,5 °C, e quella del naso diminuiva di 1,2 °C, causandone una riduzione impercettibile a occhio nudo.

Era richiesto che gli studenti facessero una chiamata di pochi minuti ai loro cari; genitori, partner o amici, e che inventassero una bugia credibile durante la chiamata.

Il metodo utilizzato sembrerebbe rivelare un’efficacia e un’accuratezza maggiore del 10% rispetto al poligrafo, comunemente noto come “macchina della verità”, e osservava la differenza di temperatura nell’80% dei soggetti osservati durante il test.

So che questo potrebbe non essere molto pratico. In genere non teniamo nella borsa una termografica e neanche possiamo chiedere di poter mettere la mano sul naso prima di porre una domanda al fine di rilevare la veridicità della risposta, ma se facciamo attenzione all’eloquio sono certa che molti bugiardi avranno i giorni contati. Almeno grazie ai miei assidui lettori che riescono a seguirmi fino all’ultima parola dei post!

Lo STRANO CASO dei NEURONI SOPRAVVISSUTI alla MORTE

Mentre il corpo veniva macellato e trasformato in bistecche, la testa viaggiava verso il laboratorio di neuroscienze di Yale a New Haven nel Connecticut per essere collegato a una macchina che pompava sangue artificiale. Allo scopo di mantenere in vita i neuroni.

Questo è l’esperimento, condotto su maiali, con l’obiettivo di “studiare la linea di confine fra la vita e la morte, la mente e il corpo”. A elettroencefalogramma piatto, i neuroni dei maiali anziché distruggersi in pochi minuti come solitamente avviene alla morte, sono rimasti attivi fino a 10 ore dopo il decesso.

L’esperimento, pubblicato sulla rivista scientifica Nature, ha visto conservare il cervello in una  vasca larga all’incirca un metro, collegato da una estremità alle due carotidi e dall’altra al computer che gestiva l’irrorazione di sangue artificiale, contenente emoglobina e sostanze nutritive per le cellule.

Lo studio è durato dieci ore ma in teoria se si fosse continuato a irrorare i cervelli dei maiali, i neuroni avrebbero potuto rimanere in vita per un tempo più lungo.

Affinchè ci sia coscienza c’è bisogno di un’attività dei neuroni sincronizzata che comunicano e creano delle onde, invece durante l’esperimento ad attivarsi sono stati solo singoli isolati neuroni, tra l’altro dopo stimolazione elettrica.

Le cellule durante le dieci ore di attività hanno consumato zucchero, ossigeno e rilasciavano neurotrasmettitori, indice che le loro sinapsi erano funzionali. Ma qui finisce ogni paragone con ciò che chiamiamo vita.

I ricercatori, guidati da Nenad Sestan, su questo non hanno lasciato spazio a fraintendimenti: “Il ripristino di alcuni processi cellulari – sono le loro parole pubblicate su Nature – non significa recupero delle normali funzioni cerebrali. Al contrario, mai abbiamo osservato quel tipo di attività elettrica globale che associamo al concetto di coscienza, percezione o alle altre funzioni cerebrali superiori“.

Uno degli obiettivi di questi studi è usare dei neuroni attivi per testare farmaci contro Alzheimer, Parkinson e molte altre malattie del cervello. La presenza di percezione o coscienza spalancherebbe questioni etiche enormi non facilmente risolvibili“.

Capire quali sono le capacità di sopravvivenza dei neuroni in assenza di nutrimento – come avviene durante infarti e ictus – aiuterebbe i medici ad affrontare meglio i postumi di queste malattie.

Per studiare il cervello, in molti casi, sono necessarie tecniche anatomiche, ecco perché mantenendo attive alcune funzioni e aree cerebrali dopo la morte, aiuterebbe a studiare le connessione fra i neuroni e disegnare mappe funzionali. E chissà, magari anche a guardare con i nostri occhi, la coscienza.